Lo spazio visto da Herschel

Galassie antichissime, lontane 10 miliardi di anni che appaiono come gocce luminose nel buio del cosmo, il primo ritratto di una culla di stelle a soli 1.000 anni luce dalla Terra, molecole di acqua e altri composti tutti indizi dell’esistenza di pianeti nella nebulosa di Orione: sono i primi risultati scientifici del più grande telescopio spaziale mai costruito, il satellite Herschel dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa).
ORIONE E I NUOVI PIANETI IN FORMAZIONE – A queste scoperte la rivista Astronomy and Astrophysics dedica una sezione speciale di 152 articoli, molti dei quali firmati anche da ricercatori italiani, dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) e di molte università fra cui Padova, Bologna, Milano Bicocca.
Le galassie visibili nelle immagini di Herschel come dense gocce luminose sono distanti da tre a dieci miliardi di anni e sono nate quando la formazione delle stelle era molto più diffusa di oggi nell’Universo.
L’incubatrice di stelle invece è vicinissima, soli 1.000 anni luce nella costellazione dell’Aquila.
È così ricca di polveri che finora nessun’altro telescopio a infrarossi era riuscito a osservarla.
Si distinguono 700 grumi di polveri e gas: sono embrioni di stelle, 100 dei quali già alle fasi finali della loro formazione.
Il satellite ha fotografato anche la nebulosa di Orione e qui ha identificato molecole di acqua, monossido di carbonio, formaldeide, metanolo, cianuro di idrogeno, ossido di zolfo: indizi di stelle e pianeti in formazione.
Con il contributo dei ricercatori italiani è stato anche risolto il mistero della polvere mancante nelle galassie dell’ammasso della Vergine.
In alcune zone del gigantesco ammasso della Vergine, composto da almeno 2.500 galassie distante da noi 55 milioni di anni luce, la polvere che permea lo spazio tra le stelle, l’ingrediente fondamentale per la formazione di nuovi astri, è molto carente.
<a href=”http://bs.serving-sys.com/BurstingPipe/BannerRedirect.asp?FlightID=913533&Page=&PluID=0&Pos=8507http%3A//bs.serving-sys.com/BurstingPipe/BannerRedirect.asp%3FFlightID%3D1565602%26Page%3D%26PluID%3D0%26Pos%3D8138″ target=”_blank”><img src=”http://bs.serving-sys.com/BurstingPipe/BannerSource.asp?FlightID=1565602&Page=&PluID=0&Pos=8138″ border=0 width=180 height=150></a> PERCHE NASCONO POCHE STELLE – Un fenomeno drammaticamente evidente soprattutto nelle galassie ellittiche, già note per avere un bassissimo tasso di formazione di nuove stelle.
Gli scienziati hanno dimostrato che la polvere viene sì prodotta continuamente nelle galassie ellittiche, ma non riesce a sopravvivere per più di 50 milioni di anni a causa degli urti fra i granelli di polvere e il gas caldo che permea queste galassie che disintegrerebbero nel tempo le particelle fino a farle sparire completamente.
«Il telescopio Herschel sta eseguendo perfettamente i suoi compiti – ha osservato Barbara Negri, responsabile dell’Agenzia Spaziale Italiana per l’esplorazione e osservazione dell’Universo – e gli studi sulla polvere che permea lo spazio tra le stelle forniranno una prova fondamentale nella comprensione dei meccanismi di formazione di nuove stelle».
(Fonte Ansa) Corriere della sera 17 luglio 2010

Tecnologie educative

Il Regno Unito è all’avanguardia in Europa per quanto riguarda la diffusione delle tecnologie per l’istruzione, tanto che in quasi tutte le scuole è presente una lavagna interattiva.
Secondo quanto riportato da una ricerca condotta da Panasonic le lavagne vendute nel 2009 in Gran Bretagna sono state ben 55.000.
Passi in avanti si stanno facendo anche in altri Paesi, come la Francia, dove però la percentuale di scuole equipaggiate con strumenti di questo tipo è solo del 20%.
In Spagna sono stati previsti 200 milioni di euro per la digitalizzazione di tutte le aule spagnole entro il 2012, e anche la Germania si muove nella stessa direzione.
Per quanto riguarda l’Italia, secondo il rapporto Ocse “Uno sguardo sull’educazione 2009”, il nostro paese risulta sotto la media europea della spesa per l’istruzione, ma ha varato un importante piano d’intervento, “La scuola digitale”, per la diffusione dell’innovazione nella scuola, coordinato dal Miur e dall’Agenzia per lo Sviluppo dell’Autonomia Scolastica (ex Indire).
Il piano si articola in due fasi.
La prima prevede l’introduzione delle “Lavagne interattive multimediali (LIM)”, la seconda, denominata cl@ssi 2.0, ha come obiettivo l’utilizzo delle ICT nelle scuole primarie e secondarie di I grado.
A partire dall’anno scolastico 2009-2010) sono state installate 16.000 LIM in altrettante classi della scuola secondaria di I grado e 50.000 insegnanti sono stati coinvolti in percorsi di formazione che interessano oltre 350.000 studenti.
Anche il Ministro per l’Innovazione e la Pubblica Amministrazione Renato Brunetta, ha recentemente presentato My Innova, un social network che si appoggia alla piattaforma Innova Scuola, progettato per la condivisione di esperienze e risorse didattiche tra studenti e docenti.

Immigrazione in Italia

Migranti, aumento degli irregolari riprende il flusso sud-nord In Italia, al 1 gennaio 2010, si stimano 5.101.000 immigrati; 544.000 sono irregolari, ossia il 10,7%.
Sono gli ultimi dati della Caritas italiana presentati a Valderice (Trapani) nella seconda giornata di lavori del Migramed Forum-2010, l’iniziativa organizzata da Caritas italiana, in cui si sottolinea in particolare che nell’ultimo anno la clandestinità ha registrato 126.000 irregolari in più.
L’aumento dei clandestini – ha spiegato Oliviero Forti, responsabile Immigrazione della Caritas – ha a che vedere in particolare con persone che erano in condizioni di regolarità e che, anche a causa della crisi economica, si è trovato in una nuova condizione nei confronti dello Stato italiano.
“Sappiamo – ha precisato Forti – che ci sono intere famiglie che a seguito di queste nuove condizioni anche per motivi economici stanno ridefinendo la propria vita e stanno magari pensando di ritornare nel loro paese”.
La Caritas ha tracciato anche l’identikit degli irregolari.
Nel 61,5% dei casi sono maschi e mediamente sono in Italia da 3 anni e mezzo.
Tra i principali paesi di provenienza c’è il Marocco (93 mila), l’Albania (70 mila), l’Ucraina (37 mila), la Cina (32 mila), la Tunisia (25 mila).  Il 43,3% di essi lavora in nero ma ha un’occupazione stabile continuativa, il 33,8% è disoccupato, il 4,8% è dipendente a tempo determinato, mentre il 2,7% svolge un’attività autonoma.
Mogavero.
Nello stesso occasione mons.
Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo si espresso in toni severi: «Non possiamo assolutamente dare copertura ad atteggiamenti di rifiuto o di larvato razzismo e xenofobia che emergono qua e là anche nella comunità ecclesiale», occorre invece «accoglienza, dialogo, proposte»: un invito ad «uscire dal silenzio e dalla neutralità».
Mogavero ha precisato di parlare  «a titolo personale, quindi né a nome della Cei, né a nome della Conferenza episcopale siciliana».
«I famosi e deprecati respingimenti nel Mediterraneo – ha messo in evidenza mons.
Mogavero – riguardano gli immigrati che si trovano in situazione di maggiore debolezza.
E’ facile respingere i barconi e “sparare”, in senso metaforico, agli immigrati.
Non è altrettanto facile porre un freno ed una disciplina all’80% dell’immigrazione irregolare che sfugge al controllo ufficiale».
Romeo.
Dello stesso avviso anche l’intervento mons.
Paolo Romeo, arcivescovo di Palermo e presidente della Conferenza episcopale siciliana: «La politica dei respingimenti nel Mar Mediterraneo manca di dimensione umana, prima ancora che di dimensione cristiana: si scaricano su questi poveri che arrivano sui barconi tutte le politiche per contenere l’immigrazione illegale».
Secondo mons.
Romeo «né con misure di legge, né con imposizioni della polizia si possono portare le persone a riconoscere Dio nell’altro».
«Si dice che il flusso migratorio si sia fermato, ma forse non è così – ha osservato l’arcivescovo di Palermo -.
Tutte le diocesi siciliane sono da sempre impegnate nell’accoglienza degli immigrati.
Crediamo che se una società è capace di rispettare e di inculcare il rispetto umano, anche gli immigrati possono essere interessati alla nostra fede.
Ecco la grande responsabilità che abbiamo».
Dal meridione «l’emigrazione verso il nord del paese è ripresa alla grande.
Solo in Sicilia si parla di 60 mila persone che sono andate in altre città per cercare lavoro.
Sono soprattutto giovani precari».
Denuncia di Romeo.
Il vescovo ha parlato di una situazione molto grave nelle regioni meridionali, «c’è un gap difficile da colmare e la nostra classe politica è inadeguata, anche per conseguenze del passato».   I nuovi emigrati.
Fra i nuovi migranti, monsignor Romeo dice che ci sono infermieri, medici, metalmeccanici che emigrano al nord perchè non trovano un posto di lavoro e hanno vissuto anni e anni di precariato.
«Noi li vediamo ogni giorno – ha precisato – vengono genitori che dicono mio figlio parte.
Nelle nostre zone non c’è avvenire.
Solo nell’area di Palermo, ad esempio ha chiuso la Fiat e l’Italtel.
Ed è ovvio che chi si è specializzato in metalmeccanica difficilmente troverà alternative.
La Fiat si arrende ma non perchè costa cara la produzione ma perchè non ci sono le infrastrutture e su questo siamo fermi da vent’anni».
 Sono cinque milioni gli immigrati in Italia   Sono cinque milioni, vivono in Italia in media da sette anni e hanno titoli di studio paragonabili a quelli della popolazione italiana.
È questo il ritratto degli immigrati in Italia, secondo uno studio commissionato al Censis dal ministero del Lavoro e delle politiche sociali.
L’Italia, dunque, è sempre più una società multietnica.
Gli immigrati sono aumentati negli ultimi quattro anni di quasi 1,6 milioni (+47,2%), con un forte incremento sia dei residenti (+56,5%), sia dei regolari che non risultano ancora iscritti in anagrafe (+48,7%).
Gli irregolari sono invece 560.000, pari all’11,3% degli stranieri presenti sul territorio.
Dalla ricerca, condotta su un campione di circa 16.000 stranieri, il 77% degli immigrati maggiorenni svolge in Italia un’attività lavorativa regolare.
Più di due terzi sono impiegati nel settore terziario, nell’ambito dei servizi (40,7%) e del commercio (22,5%).
I mestieri più ricorrenti sono comunque quelli di addetto alla ristorazione e alle attività alberghiere (16%), di assistente domiciliare (10%, ma 19% tra le donne), di operaio generico nei servizi (9%), nell’industria (8,3%, ma 11,5% tra gli uomini) e nell’edilizia (8%, ma 15,3% tra gli uomini).
Tra le figure meno diffuse vi sono quelle più qualificate:  le professioni intellettuali (2,4%), gli operai specializzati (2,2%), i medici e paramedici (1,7%), i titolari di impresa (0,5%) e i tecnici specializzati (0,2%).
Dal punto di vista della condizione lavorativa, prevalgono gli occupati a tempo indeterminato (sono il 49,2% del totale), il 24,8% ha un impiego a tempo determinato, il 9,7% svolge un lavoro autonomo o ha un’attività imprenditoriale.
La metà degli immigrati che lavorano in Italia dichiara di percepire una retribuzione netta mensile compresa tra 800 e 1.200 euro, il 28% ha un salario inferiore, compreso tra 500 e 800 euro, il 3% guadagna meno di 500 euro.
Solo il 13,3% ha una retribuzione netta mensile che va da 1.200 a 1.500 euro, e appena l’1,2% guadagna più di 2.000 euro.
L’indagine evidenzia una prevalenza dei canali informali di accesso al mercato del lavoro, tra i quali al primo posto si trova il passaparola, attraverso il quale il 73,3% dei lavoratori stranieri dichiara di aver trovato l’impiego attuale.
Seguono gli intermediari privati e le agenzie di lavoro interinale (9%), le parrocchie (6,1%) e i sindacati (2,9%).
(©L’Osservatore Romano – 18 giugno 2010)

Nessuno si indigna più se i cristiani sono perseguitati

«Cristianofobia» in un Occidente sempre più secolarizzato? «Cristianicidio» in un Islam sempre più fanatizzato? Neologismi di attualità drammatica, approssimandosi i funerali a Milano del vescovo cappuccino assassinato in Turchia.
Sono in molti a non credere nella tesi dello squilibrato, visti anche i precedenti di omicidi di cristiani, attribuiti dalle autorità locali a pazzoidi fuori controllo.
A questa sorta di noncuranza islamica, si accosta quella dell’Occidente, pronto a indignarsi e a manifestare nelle piazze per ogni buona causa, vera o presenta che sia, ma che qui sembra aver messo la sordina alle proteste.
La nostra indignazione è, semmai, per la minaccia al benessere di pesci ed uccelli nell’inquinato Golfo del Messico, più che per i credenti nel Vangelo martirizzati in Asia e in Africa.
Eppure, statistiche irrefutabili mostrano che il cristianesimo è di gran lunga la religione più perseguitata nel mondo.
A dar la caccia al battezzato non ci sono solo i soliti musulmani — o, almeno, le loro frange estremiste — ma in prima fila stanno anche gli induisti che, nel mito liberal, erano il paradigma della tolleranza nonviolenta.
Non mancano casi di violenza sanguinaria anche da parte dei «pacifici» buddisti, per non parlare delle mattanze cui volentieri si dedicano gli adepti delle vecchie e nuove religioni dell’Africa Nera.
Perché tanto odio e perché tanta rimozione da parte nostra, davanti a quello che talvolta assume il volto terribile del massacro? Il credente scorge qui significati ultramondani, sulla scorta delle parole di Gesù: «Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi».
La possibilità del martirio fa parte di una prospettiva che ha le sue basi nel Vangelo stesso.
Per dirla con Chesterton, il convertito: «Il nostro simbolo è la croce sul Golgota, non la villetta nei sobborghi verdi di Londra».
Ma, al di là della lettura religiosa, quali fattori storici hanno creato e alimentano l’avversione per i cristiani? Per stare al caso che oggi più inquieta, quello musulmano, spesso non si considera che non in tempi remoti, bensì alla fine della seconda guerra mondiale, non vi era nessun Paese islamico che potesse dirsi indipendente.
Tutti, senza alcuna eccezione, facevano parte di un impero coloniale europeo o erano sottoposti al suo protettorato.
Il cristianesimo era, per un Islam frustrato e ridotto all’impotenza, la religione dei «padroni»: un paradosso, tra l’altro, per casi come la Francia o il Belgio, dove la classe politica dirigente era impegnata in patria nella lotta contro la Chiesa e nelle colonie ostacolava i missionari cattolici e spingeva per la creazione di logge massoniche.
Ma un paradosso anche nell’impero britannico, dove si favoriva la Chiesa anglicana — questa «Camera dei Lords in preghiera», com’era definita — che, più che il Vangelo, annunciava virtù civili, pregiudizi, eccentricità dell’establishment politico britannico.
Ma erano distinzioni che furono cancellate nella propaganda per la decolonizzazione, dove il «tiranno europeo» era identificato tout court con il cristiano.
Nel caso del Medio Oriente, la situazione è stata molto aggravata dall’inserzione di Israele, sentita come una violenza: il grande padrino nordamericano dello stato ebraico si vanta di essere il paladino del cristianesimo biblico, vi è sorto addirittura il potente movimento dei «cristiani per il sionismo» (Bush junior ne faceva parte), per il quale il ritorno degli ebrei in Palestina va favorito, come annuncio dell’apocalisse e del ritorno glorioso di Cristo.
Così, l’avversione per Israele è diventata per le folle musulmane avversione per la fede nell’ebreo Gesù.
Anche zone superstiti di tolleranza religiosa, come l’Iraq del laico Saddam, sono state avvelenate dalla violenta aggressione dei «cristiani» americani.
Quanto a noi e alla nostra mancata mobilitazione: è indubbio che parte influente del media-system occidentale sta dalla parte di coloro che — come già i giacobini del 1793 — vorrebbero «chiudere finalmente la parentesi cristiana » .
Enjamber deux millénaires, scavalcare due millenni e ricominciare da capo, scrostandoci da dosso l’eredità funesta di quel Crocifisso che non a caso l’Unione Europea vuole togliere dai muri.
Può una Unione così — che rifiuta persino l’evidenza storica, negando le sue radici cristiane — può forse indignarsi se, nel mondo, è scomoda la situazione di una credenza per la quale si auspica che non ci sia futuro? Un certo vittimismo cristiano lascia perplessi, come pure un complottismo un po’ paranoico: è indubbio, però, che al prevedibile aumento della violenza contro i credenti nel Vangelo non si accompagnerà un aumento della solidarietà nei Paesi stessi che di quella fede furono i privilegiati.
in “Corriere della Sera” dell’11 giugno 2010

«Noi frammentati dalla tecnologia»

Editorialista del Washington Post e Premio Pulitzer, David Ignatius è uno dei più rispettati giornalisti americani.
Ma è più celebre per i suoi romanzi di spionaggio, sette dal 1985 a oggi, nei quali ha offerto uno squarcio a tinte fosche e toni avvincenti sullo spietato mondo dei servizi segreti.
Fra gli altri, Body of Lies, dal quale Ridley Scott ha tratto l’omonimo film con Leonardo DiCaprio e Russell Crowe.
Venerdì mattina nel Palazzo Ducale di Urbino, Ignatius verrà insignito del «Press Award», il premio annuale che l’Italia dedica alla grande stampa americana.
Questo è il testo integrale dell’intervista concessa al Corriere poco prima di partire per l’Italia.
Cosa significa per lei l’Urbino Press Award? «Questo premio mi dice che io scrivo per un pubblico internazionale.
E che c’è un mondo di idee, nel quale anche io ho una voce.
Ho trascorso tre anni a Parigi, come direttore dell’International Herald Tribune e ogni giorno mi rendevo conto che il mondo degli opinionisti ha punti di vista molto differenti.
A Washington questo è un po’ più difficile, uno dei problemi degli Stati Uniti è che il nostro dibattito politico, interno e internazionale, è molto auto-referenziale, spesso non vediamo o non capiamo cosa pensino le persone all’estero.
Ricevere un World Press Award rafforza la mia convinzione che ci sia una stampa mondiale, una professione che ha regole condivise da colleghi in Italia o in Israele o in Iraq, siamo parte dello stesso spazio informativo.
Lo dico perché ci sono molte ragioni per dubitarne, per temere che lo spazio informativo sia in realtà frammentato.
Ecco, andare a Urbino significa credere che, a dispetto delle prove, ci sia ancora un’informazione mondiale».
Che discorso farà? «Parlerò del modo in cui la tecnologia, che avrebbe dovuto unirci, paradossalmente ci frammenta in gruppi più piccoli.
Sono cresciuto in un tipo di giornale nel quale credevamo di scrivere per tutti a Washington, letteralmente, ricchi e poveri, bianchi e neri, repubblicani e democratici.
Ma sfortunatamente non è più così.
Sulla rete ognuno di noi può rivolgersi a siti, dove scrivono e interagiscono persone che la pensano esattamente come noi, hanno le stesse convinzioni.
A Urbino dirò che voglio ancora essere parte di un media informativo che sia contro questo approccio, parli alle persone in termini di valori condivisi, non in termini di narrative separate, di opinioni a fette.
E credo che ci sia una possibilità di farlo, perché il mondo frammentato non funziona.
Gli USA sono in testa nel dimostrarlo: Washington è paralizzata, il Congresso non è in grado di affrontare i problemi di cui la gente si preoccupa veramente».
Ma è la politica o sono i nuovi media l’origine di questa lacerazione? «Si rafforzano a vicenda.
Se risaliamo alle origini degli Stati Uniti o ancora più indietro al Rinascimento o al mondo di Urbino, c’era questo sentimento dominante del dubbio, dello scetticismo.
Ecco, questo è sotto attacco.
Siamo in un mondo dove le emozioni, la partigianeria, le dinamiche di gruppo prevalgono sugli individui.
L’origine? Non vorrei sembrare un marxista, ma forse la tecnologia gioca un ruolo decisivo».
Lei ha usato con successo il romanzo, la fiction, per dare a un pubblico più vasto e internazionale un’idea realistica dell’universo misterioso e oscuro dell’intelligence.
Ogni tanto la realtà supera la fantasia ed è la cronaca ad aprirci squarci sul mondo delle spie, rivelando errori tragici, fallimenti, analisi sbagliate.
Come sono cambiate le intelligence? Organizzazioni come la Cia o la NSA sono ancora efficaci? «Scrivo romanzi di spionaggio da 25 anni, ho scritto il primo nel 1985 e ho appena finito l’ottavo.
In questo periodo ho assistito a un progressivo deterioramento delle sottigliezze e della qualità del fattore umano.
C’è stato un tempo, parlo del mio primo viaggio a Beirut nel 1980, in cui ogni uomo politico arabo si sarebbe sentito offeso se la Cia non avesse provato a reclutarlo.
Gli USA avevano il vento in poppa.
Era un fatto che ognuno in quella parte del mondo volesse essere amico nostro.
E il mio primo racconto Agents of Innocence romanzava la storia vera di come la Cia reclutò Hassan Salameh, il capo della sicurezza di Jasser Arafat.
In altre parole, il capo dell’intelligence del nostro primo nemico terrorista lavorava in segreto per noi, la Cia lo portò perfino a Disneyland e questa è cronaca.
Fu un’operazione che durò quasi dieci anni.
Ecco, non solo la Cia oggi non saprebbe più farlo.
Ma se il Congresso lo venisse a sapere, probabilmente fermerebbe l’operazione.
E se non la fermasse, lo farebbero altri.
Parte del messaggio, che ho provato a dare con i miei romanzi, è che nel momento in cui il ruolo degli Stati Uniti in Medio Oriente è diventato più grande e profondo, la nostra comprensione di quella parte del mondo è diminuita anno dopo anno, non siamo più in grado di operare con efficacia al di fuori di fortezze presidiate, chiamate Green Zones.
Così ci affidiamo sempre più alla tecnologia, per uccidere i nostri avversari, gente ovviamente molto pericolosa che vuol farci del male.
Il risultato è che questa realtà appare lontana, quasi extra-terrestre e quando la sperimentiamo da vicino, a casa nostra, come accadde l’11 settembre, siamo sconvolti, non ne capiamo il senso.
Il mio ultimo racconto comincia proprio con un attacco dei droni Predator».
Lei quindi pensa che la diminuzione del fattore umano sia una delle principali ragioni dei fallimenti della CIA… «Si è ridotta la nostra capacità di convincere persone di altri Paesi a lavorare per noi.
Siamo diventati più bravi a convincere altri servizi segreti a cooperare.
Ma il problema è la nostra capacità di seduzione intellettuale a livello individuale.
Noi avevamo un personale di grande qualità, cosmopolita, poliglotta, capace di percepire le realtà dove operavano nel mondo arabo, in Asia, in Africa.
Questo non esiste più.
La Cia era un percorso ambito verso l’Occidente da molti giovani arabi di talento.
Oggi ci sono i grandi gruppi bancari, le multinazionali che possono farti avere una borsa di studio nelle università californiane.
Un volta la Cia era l’intermediario per la cultura americana».
Lei ha scritto che oggi viviamo nell’età delle operazioni scoperte e non coperte.
Cosa vuol dire? Rimpiange queste ultime, con le barbe finte sul campo? «Non del tutto.
Io voglio dire che oggi a cambiare il mondo non sono più le cose segrete ma le cose che sono pubbliche.
Forse gli strumenti del passato non servono più.
Eppure ci sono momenti in cui se la mano degli Stati Uniti fosse veramente nascosta, influenzando gli avvenimenti con discrezione e producendo esiti a noi favorevoli, dovremmo farlo.
Il problema è che quando c’abbiamo provato, spesso abbiamo fatto un casino.
Storicamente non siamo stati bravi nelle operazioni coperte.
Anche dove abbiamo avuto successo: per esempio, alla fine degli Anni Quaranta in Italia, quando investimmo un sacco di soldi per cercare di far emergere i partiti democratici e tenere i comunisti fuori dal governo.
Ci riuscimmo, ma l’eredità che ci siamo lasciati dietro in Italia è una cultura della cospirazione e del complotto, che ancora oggi avvelena il sistema.
Noi abbiamo aiutato a crearla: non solo in Italia, ma un po’ anche in Francia, per sempre nel mondo arabo.
Voglio dire che in pratica le conseguenze negative delle operazioni coperte superano gli effetti positivi immediati».
Ma hanno ancora un ruolo da svolgere le intelligence in questa fase del potere americano? «Stiamo cercando di venir fuori da un periodo di guerre di spedizione, dove abbiamo inviato truppe in Paesi lontani sull’onda dell’11 settembre e sappiamo che questo dovrà finire, che dobbiamo portare i ragazzi a casa, smettere di bombardare i civili.
Ma le domande su cosa faremo dopo rimangono: come difendere i nostri alleati, come evitare che cose terribili accadano, impedire che il mondo diventi un luogo di violenza arbitraria.
È complicato.
E chiunque pensa che le intelligence non debbano giocare un ruolo è un ingenuo.
Quale sia è però una risposta aperta.
Credo sia importante cominciare con alcuni principi morali di fondo: per esempio, ha ragione il presidente Obama quando dice che una delle regole di base di una società democratica è dire che noi non usiamo la tortura.
Anche in situazioni in cui ci potrebbero essere dei benefici».
Come si concilia questo ritorno a casa con i doveri globali di una superpotenza, della sola superpotenza democratica? «Prima di tutto non possiamo tornarcene a casa troppo rapidamente, dobbiamo farlo in modo responsabile.
Il potere americano rimarrà sicuramente pervasivo nel mondo e questo è un problema: gli USA sono così forti che è difficile per altri Paesi cooperare con noi.
Per questo dobbiamo usarlo in modo più ragionevole, essere molto più attenti nel cominciare le guerre.
Questa Amministrazione lo sta facendo.
Ed è una convinzione che si è fatta strada anche nei ranghi, nelle gerarchie militari, nei civili del Pentagono, dopo le esperienze in Afghanistan e Iraq.
Ma non significa isolazionismo, rinuncia alle responsabilità globali, siamo troppo interconnessi col resto del mondo per potercelo permettere.
Solo che ce le dobbiamo assumere sotto regole diverse.
Dobbiamo individuare i pericoli, localizzarli, agire con strategie mirate».
Ieri l’Onu ha approvato un pacchetto di nuove sanzioni contro l’Iran.
Allo stesso tempo, Teheran continua a muoversi sul piano diplomatico, lanciando ponti verso la Turchia, la Russia, perfino il Brasile.
Saranno efficaci le nuove misure? «Non credo che le nuove sanzioni avranno l’effetto di fermare il programma nucleare iraniano, eppure le considero uno sviluppo molto positivo.
Penso che il successo degli Stati Uniti nel tenere insieme il gruppo “5 più 1” è un risultato che non va sottovalutato.
È stato sensato fare concessioni alla Russia sulla difesa anti-missile e a differenza di molti credo che la costruzione di una partnership con la Cina abbia più successo di quanto in generale non si creda.
Portare Pechino nel ruolo di co-gestore responsabile della sicurezza e della prosperità globali è il compito più importante della diplomazia americana in questa fase.
I cinesi lo apprezzano e sono pronti a dare una mano.
La prova è questa risoluzione dove hanno fatto meno giochetti del solito».
Ma lei dice che non fermeranno le ambizioni nucleari dell’Iran: dovremo convivere con un Iran nucleare? «Sto dicendo che sarebbe più facile convivere con un Iran nucleare, se la comunità internazionale rimanesse unita nel condannarlo.
Ma sono convinto che non succederà, che Teheran si fermerà un passo prima della concreta costruzione di una bomba.
La mia analogia storica è che dobbiamo pensare alla Rivoluzione Iraniana come alla Rivoluzione Francese, che ebbe effetti destabilizzanti – sociali, politici, militari – sull’intera regione europea.
Ci vollero quasi 30 anni, fino alla fine del Congresso di Vienna, per riordinare l’Europa in una nuova architettura di sicurezza.
Ecco la Rivoluzione iraniana è stata lo stesso per il Medio Oriente.
E io credo che avremo bisogno di un nuovo ordine, che porti questo l’Iran post-rivoluzionario in un concerto di nazioni in quell’area del mondo, riconoscendo il suo potere ma anche gli interessi degli altri Paesi».
E avrà un ruolo l’evoluzione politica interna? «La transizione della Repubblica Islamica da causa a nazione sarà decisiva.
Ne ho parlato con dei dirigenti iraniani, che capiscono questa analogia.
Posso anche aggiungere che l’ambizione profonda dell’Amministrazione Obama sull’Iran sia proprio la creazione di una nuova architettura, che riconosca i loro legittimi interessi di sicurezza a patto di non superare precise linee di demarcazione: una di queste è non andare fino in fondo con il programma nucleare, fermarsi a un punto nel quale, un po’ come il Giappone, il mondo capisca che Teheran ha la capacità di costruire un’arma nucleare, ma non lo fa.
Vede, quando penso al Medio Oriente mi sforzo di pensare a cosa fosse l’Europa nel XIX secolo, le bombe, gli assassini politici.
O agli Stati Uniti: nulla nel Medio Oriente si avvicina al bagno di sangue della Guerra Civile americana, pure essenziale nel nostro divenire un Paese moderno».
E come si colloca Israele in questa nuova architettura? «Come ha dimostrato l’incidente della flottiglia turca, la situazione di Gaza non è più sostenibile per nessuno.
Il blocco è fallito e quando una politica fallisce bisogna pensarne un’altra.
Questa è un’opportunità per fare una cosa, che fin qui è stata molto temuta da Israele ma oggi è necessaria: internazionalizzare la crisi.
Israele ha tentato di gestire la situazione di Gaza da sola, ma ora non è più possibile.
Purtroppo la Turchia con il suo comportamento ha perso l’opportunità di fare da mediatore.
Quindi se ne apre una per gli Stati Uniti».
Ma è cambiato qualcosa di molto importante nel rapporto tra USA e Israele nei mesi scorsi… «Si, rispetto al passato, l’Amministrazione Obama ha trasmesso un messaggio che suona più o meno così: noi abbiamo anche interessi che non sono sempre identici ai vostri e voi ne dovete tener conto se volete il nostro appoggio.
Ma, ripeto, ci sono opportunità per noi.
Non abbiamo bisogno di mediatori per parlare alla Siria, all’Iran.
Dobbiamo farlo direttamente.
Fin qui nel Medio Oriente siamo stati troppo reattivi, dobbiamo invece essere più creativi, immaginifici nel cercare di influenzare gli avvenimenti».
Mi faccia un esempio… «Beh, una volta ho detto che se volessimo spaccare Hamas, un alto funzionario della Casa Bianca dovrebbe salire su un aereo e andare a incontrare segretamente Meshal o qualcun altro.
Sono sicuro che entro una settimana Hamas sarebbe lacerata al suo interno.
Una diplomazia attiva crea sempre nuovi spazi, aperture impreviste.
Quanto ai contraccolpi, in questo momento sarebbe difficile per Obama essere più impopolare di così in Israele.
Il nostro regalo a Israele rimane sempre quello di un Paese potente che appoggia con convinzione i suoi interessi.
Ma dobbiamo poter agire in modo più libero e spregiudicato, un po’ come faceva Kissinger.
Nel Medio Oriente l’abilità diplomatica è stata sempre di cavalcare due cavalli allo stesso tempo.
Ecco, noi dobbiamo farlo più spesso».
09 giugno 2010

Allo Stato converrebbe incrementare il numero delle paritarie

Nell’ambito delle iniziative legate all’apertura di un canale tematico dedicato alle scuole paritarie, Tuttoscuola ospita un forum, nel quale si apre al mondo dell’associazionismo, ponendo domande sull’istruzione non statale.
Il primo a rispondere è stato Vincenzo Silvano, presidente della Compagnia delle Opere (CdO) – Opere Educative.
D: Sul finanziamento delle scuole paritarie ci sono tuttora opinioni molto contrastanti, che vanno dal rifiuto di qualunque tipo di sostegno economico all’idea che la preclusione costituzionale (“senza oneri per lo Stato”) vada interpretata nel senso che lo Stato non può avere in nessun caso l’obbligo di finanziare le scuole non statali, anche se paritarie, ma ne può avere la facoltà, ovviamente sulla base di una legge.
Qual è la vostra posizione in proposito? R: Siamo totalmente d’accordo -anche perché questa è l’interpretazione autentica fornitaci dagli stessi “padri” della Costituzione- che lo Stato non abbia l’obbligo ma ne abbia tuttavia la facoltà.
Vorremmo, però, andare oltre il concetto di “facoltà”, introducendo quello di “convenienza”.
Allo Stato converrebbe incrementare il numero delle scuole paritarie, poiché -come è ormai stranoto- oltre a fornire in moltissimi casi una istruzione/educazione di alta qualità, garantiscono allo Stato – in virtù di una gestione economica accorta ed efficiente- un risparmio pari a circa 6 miliardi di euro l’anno! E’ dunque evidente, impostato così il problema, che ogni opposizione alla libertà di scelta educativa ha un sapore ottusamente ideologico e conseguenze negative per tutti sotto molteplici profili.
D: Gli interventi per il diritto allo studio, che sono di competenza regionale, non fanno distinzione di trattamento tra alunni di scuole statali e paritarie.
Potrebbe essere questa la strada per venire incontro alle maggiori spese dei genitori che scelgono la scuola paritaria? R: Certamente gli interventi regionali per il diritto allo studio possono e devono contribuire a favorire la libertà di scelta educativa, ma non possono essere gli unici.
Occorrono anche provvedimenti legislativi nazionali che garantiscano una base di uniformità per quanto riguarda i finanziamenti alle scuole (e/o alle famiglie) in tutto il paese, sennò si rischiano quelle difformità macroscopiche che già esistono.
Per es.
in Lombardia c’è la Dote scuola che è un importante passo in avanti in questo senso, ma in tantissime altre regioni non c’è quasi nulla, se non esigui rimborsi per chi ha un reddito ISEE al limite della sussistenza (€ 10.633 !!), indipendentemente dal fatto che i figli frequentino scuole statali o paritarie.
Le stesse leggi sul diritto allo studio, così, attribuendo le medesime provvidenze economiche a tutti, producono una grave discriminazione, dimenticando che chi sceglie la scuola paritaria paga due volte ( nelle tasse e con la retta), mentre chi sceglie la scuola statale no.
Anche in questo caso, servirebbe un approccio al problema meno dettato da valutazioni ideologiche e una informazione più chiara, mentre in realtà, ove si tenta (come in Lombardia) di sanare almeno in parte questa discriminazione, si scatenano proteste strumentali a non finire.
D: Che cosa pensa della detraibilità fiscale delle spese sostenute dai genitori che iscrivono i loro figli alle scuole paritarie? R: E’ uno strumento intelligente e facilmente realizzabile, che rientrerebbe a pieno titolo nelle politiche a sostegno della famiglia di cui tanto si parla ma su cui ancora poco si opera…
Tra l’altro, aggirerebbe anche le obiezioni di chi si oppone risolutamente al finanziamento diretto alle scuole in virtù del mal interpretato art.
33 della Costituzione.
Occorre però aggiungere due nota bene: 1) sarebbe necessario un livello di detraibilità fiscale più sostanzioso di quelli mediamente riconosciuti per altri settori, che è pari al 19%; 2) non può essere l’unico strumento per favorire la libertà di scelta educativa ma dovrebbe far parte di un mix di strumenti che tutti insieme realizzino una piena parità economica tra scuola statale e paritaria.
D: L’ipotesi più radicale è che a tutti i genitori venga dato un buono studio, corrispondente a un costo standard calcolato a livello nazionale, spendibile indifferentemente nelle scuole statali e in quelle paritarie.
Che cosa ne pensa? R: Sarebbe bello, ma pensiamo che non sia facilmente realizzabile in questo momento.
Occorre, inoltre, tenere conto delle differenze regionali e locali di distribuzione della ricchezza e del reddito, che incidono in misura diversa sulle potenzialità di spesa delle famiglie e sui costi delle scuole .
Bisognerebbe quindi prevedere anche dei correttivi in tal senso.
Per questo insistiamo sul mix di strumenti.
D: Nelle ultime settimane si è parlato spesso della costituzione di albi regionali degli insegnanti abilitati, dai quali le istituzioni scolastiche autonome, statali e paritarie, possano attingere direttamente, scegliendo, senza rigidi vincoli, i docenti migliori.
Rispetto all’obiettivo di qualificare l’offerta formativa delle scuole, quali elementi positivi o negativi ritiene che abbia la proposta? R: La nostra esperienza e la riflessione sull’esperienza stessa ci portano ad affermare che la possibilità di scelta autonoma del personale docente è una condizione imprescindibile per realizzare una vera autonomia delle istituzioni scolastiche (statali e non) ed innalzarne la qualità, poiché i docenti sono davvero un punto chiave del sistema di istruzione.
Senza questa possibilità, i dirigenti delle scuole statali si troveranno sempre con uno strumento spuntato fra le mani, un’autonomia monca…Non ci interessano tanto gli albi regionali in se stessi, quanto la possibilità di stabilizzare il corpo docente e soprattutto quella di sceglierlo (o rimuoverlo quando non è all’altezza).
Questo sarebbe, tra l’altro, un passo importantissimo anche in ordine ad una valorizzazione della categoria professionale degli insegnanti, che finalmente potrebbero proporsi per le loro effettive competenze, e non in base ad anonime e fuorvianti graduatorie.
D: Nelle settimane scorse è stata avanzata la proposta di definire graduatorie regionali che, rispetto a quelle attuali, dovrebbero introdurre nuovi requisiti finalizzati ad assicurare maggiore stabilità dei docenti.
La maggiore rigidità che conseguirebbe dalla proposta può assicurare maggiore qualità al servizio? Se sì, sarebbe opportuno che venisse estesa anche alle scuole paritarie? R: Come accennato prima, la necessità di dare una stabilità al corpo docente statale, soggetto ogni anno ad un controproducente balletto delle cattedre, è fuori di dubbio.
Però questa dovrebbe essere unita anche ad una effettiva possibilità per i dirigenti di sollevare dall’incarico chi non è adeguato: proviamo a immaginare cosa significa doversi tenere per almeno 4-5 anni un docente che non combina nulla o, peggio ancora, crea dei danni psicologici e formativi (e casi così, purtroppo, non sono rari…).
Questa è la situazione attuale di quei dirigenti statali che hanno insegnanti di ruolo inamovibili ma deleteri per l’istituzione scolastica…
Allora: stabilità per chi vale, ma senza la rigidità attuale, perché la qualità del servizio è assicurata innanzitutto dalla qualità del docente, e quando questo è davvero capace la scuola ha tutto l’interesse a tenerselo…
Quanto alle scuole paritarie, la situazione è diversa; l’autonomia di arruolamento è già effettiva e non mi pare proprio sia necessario apportare modifiche.
Come si dice: “squadra che vince non si cambia”…
tuttoscuola.com

Priore: “I cristiani considerati un pericolo per il mondo islamico”

Il giudice Rosario Priore, avendo seguito da vicino Alì Agca e i Lupi Grigi, conosce bene la Turchia e le sue pulsioni più profonde.
Giudice, ci racconti i fondamentalisti turchi.
«I Lupi Grigi difendevano innanzitutto l’essenza islamica della Turchia».
Negli Anni Ottanta conoscevamo davvero poco dei movimenti fondamentalisti.
«Ricordo il proclama che Alì Agca scrisse per la visita a Istanbul del Papa.
Era la fine di novembre ‘79 e Agca annunciava il suo proposito di uccidere il Papa perché, disse, era “il primo tra i nuovi crociati, venuto con funzioni di rappresentanza dell’Occidente e degli Stati Uniti in particolare”.
Scriveva ancora che il Papa era venuto con il proposito, che egli riteneva sommamente offensivo, di “calpestare la terra dell’islam.
Sarebbe venuto a baciare la terra di Turchia pensando che facesse ancora parte dell’impero di Costantinopoli”».
Ieri un Papa, oggi un vescovo.
Perché le gerarchie cattoliche sono considerate un pericolo? «Li vedono come nemici dell’Islam e insieme dell’impero che fu.
Da quelle parti vive ancora il ricordo della Sublime Porta».
Che pensa delle coincidenze? L’omicidio di monsignor Padovese arriva a pochi giorni dall’incidente in mare di fronte a Israele e alla vigilia della visita del Papa a Cipro.
«Se esaminiamo la questione in chiave geopolitica, la Turchia è uno dei punti di maggiore scontro tra cristianesimo e Islam.
Cipro poi, isola a lungo spezzata a metà, è la rappresentazione icastica della divisione tra i due mondi.
E non intendo Est e Ovest.
Ma trent’anni fa, non era così chiaro.
Colpa del nostro eurocentrismo; altre categorie ci apparivano del tutto superate se non medievali.
Questo evento di ieri non potrebbe far altro che confermare le antiche tensioni».
Pensa all’attentato a Wojtyla? «Diciamo che potrebbe confortare un’ipotesi che già era emersa e che inseriva quel delitto in una strategia offensiva del mondo islamico nei confronti del mondo cristiano».
Ricorda qualche interrogatorio in particolare? «Ricordo le sue lettere.
“Nessun cristiano deve toccare la mia salma”.
“Meglio essere una scimmia nella giungla africana, che un principe della chiesa in Vaticano”.
Pochi sanno che si depilò il pube e lo scroto prima dell’attentato, quindi indossò una camicia bianca, perché quel giorno si preparava a morire».
Poi però si fece passare per pazzo.
«E immagino già che l’assassino si faccia passare per folle.
Invece penso che fosse stato messo al fianco del vescovo con finalità precise: seguire le sue mosse, spiare, e magari ucciderlo al momento giusto».
in “La Stampa” del 4 giugno 2010

Walter Kasper: “È un omicidio pieno di ombre ma non potrà fermare il dialogo”

«Una tragedia indescrivibile.
Una perdita umana incalcolabile.
Monsignor Padovese col suo sacrificio va ad aggiungersi alla lunga lista di nuovi martiri che negli ultimi tempi hanno insanguinato il cammino della Chiesa nel mondo.
Come don Andrea Santoro, assassinato anche lui in Turchia, e i tanti uomini e donne di Chiesa che hanno sacrificato la loro vita per stare vicini a chi soffre, ai bisognosi, agli ultimi, nel nome di Cristo e del Vangelo».
Dolore, tristezza, rammarico e tanta voglia di capire «perché sia potuto accadere un fatto simile».
È quanto esprime a «caldo» il cardinale Walter Kasper – presidente del Pontificio consiglio per la Promozione dell’unità dei cristiani e membro di altri importanti dicasteri come il Dialogo interreligioso e la Dottrina della Fede – appena appresa la notizia della morte del vescovo Padovese.
«È una tragedia che colpisce tutti, cristiani, non cristiani, credenti e non credenti, perché è stato colpito un pastore tanto amato dentro e fuori la Turchia, ma anche perché – nota il porporato – avvenuta alla vigilia del viaggio di Benedetto XVI a Cipro.
Ma prima di dare giudizi definitivi è bene essere cauti ed attendere le indagini della polizia».
Cardinale Walter Kasper, con l’assassinio di monsignor Padovese la Chiesa cattolica ha un nuovo martire.
Come lo spiega? «Non me lo spiego.
È una perdita ed un dolore indescrivibili.
Lo conoscevo.
Sono stato più volte ospite a casa sua, in Turchia, dove stava facendo un grande lavoro pastorale.
Era apprezzato, seguito, ammirato.
Veramente un grande pastore della famiglia francescana cappuccina, fine teologo dotato di uno spiccato senso del dialogo e della dottrina, ma anche grande docente all’Antonianum».
Cosa ha armato la mano dell’assassino? «Difficile dirlo ora, a poche ore dalla tragedia.
Ci vuole prudenza e cautela per esprimere giudizi in questi casi.
Occorre necessariamente far lavorare gli inquirenti ed attendere l’esito delle indagini.
Occorre avere fiducia.
Sperando che tutto venga chiarito dagli inquirenti locali e che in tempi brevi siano sgombrate tutte le zone d’ombra intorno a questa nuova tragedia che ha colpito un pastore cattolico tanto amato dalla terra dove svolgeva il suo ministero».
Dopo il parroco di Trebisonda don Andrea Santoro, il presidente dei vescovi turchi, Padovese.
Cresce in Turchia la repressione anticristiana? «Difficile dirlo, per ora, perché non sappiamo cosa veramente sta alla base di questa nuova tragedia.
Pare che il vescovo sia stato accoltellato dal suo autista, che lavorava con lui da circa 4 anni.
Quindi si conoscevano bene.
Sembra pure che questo autista avesse problemi di salute e soffrisse di forme di depressione.
È chiaro che è tutto da verificare per avere un quadro esatto, anche se non è un mistero che in Turchia non mancano gruppi o movimenti di natura xenofoba.
Ma si tratta di aree isolate, benché pericolose, che forse non hanno niente a che vedere con la morte di monsignor Padovese.
Frange estremiste – va detto per correttezza – per niente assimilabili alla stragrande maggioranza della popolazione turca e con le istituzioni politiche e religiose, con le quali le Chiesa cattolica notoriamente ha ottimi rapporti.
Come del resto è emerso anche nel corso del recente viaggio pastorale di Benedetto XVI».
Monsignor Padovese stava per partire alla volta di Cipro per accogliere l’arrivo odierno di papa Ratzinger.
«Sì, oggi sarebbe stato a Cipro come presidente della Conferenza episcopale turca.
Sono certo che il Papa lo ricorderà nel corso di questo importante pellegrinaggio sulle orme di San Paolo.
La notizia della tragica morte di monsignor Padovese ci ha scossi tutti in Vaticano, mentre stavamo facendo gli ultimi preparativi per il viaggio papale.
Il Santo Padre è rimasto molto colpito, come del resto lo siamo stati tutti noi.
Abbiamo subito pregato per il nostro confratello, ma nessuno in Vaticano ha pensato a cambiare una sola virgola al programma del viaggio a Cipro».
Non teme che l’assassinio di Padovese possa avere conseguenze per il dialogo interreligioso? «Il dialogo ecumenico ed interreligioso deve andare avanti.
Nemmeno davanti a tragedie simili.
È lo stesso sacrificio di monsignor Padovese che ce lo deve ricordare.
E penso che anche Benedetto XVI ce lo ricorderà proprio a Cipro».

Eurispes: crescono le scuole non statali

Il Rapporto Italia 2010 dell’Eurispes segnala un aumento delle iscrizioni nelle scuole non statali dovuto, secondo l’istituto di ricerca, all’aumento dei sussidi economici per le famiglie, alla presenza di studenti extracomunitari e anche alla “fuga dai licei” provocata dal temuto ritorno  della ”meritocrazia” nelle scuole statali.  Le regioni più interessate al fenomeno sono quelle del Nord, e in particolare la Lombardia, che ha registrato nel corso dell’ultimo anno scolastico il maggior incremento di iscrizioni alle scuole private, in particolare a quelle per l’infanzia, specialmente nelle zone a forte immigrazione.   Nell’istruzione superiore, secondo l’Eurispes,  ”il ritorno alla tanto paventata meritocrazia” come elemento caratterizzante della riforma avrebbe giocato a favore della scuola non statale, facendo aumentare la richiesta di scuole meno “complicate” ai fini del recupero dei debiti, dopo che gli scrutini dell’anno scolastico 2008/2009 avevano visto un aumento del 15-20 % di alunni rimandati nelle scuole superiori statali.
Altri articoli Scuola, Mosella (Api): Ennesimo attacco contro quella privata Mons.
Betori: la parità deve essere piena
Premio e Convegno ”La Salle” (Roma, 27/5) Paritarie e fini di lucro (o meno).
Ecco i dati
Il riconoscimento del servizio prestato nelle paritarie Maturità, a Verona il record di candidati delle paritarie Il nuovo canale per le scuole paritarie Nuove funzionalità nell’anagrafe delle scuole non statali

Il codice Ratzinger

  Ieri l’altro il vescovo di Bruges; giovedì quello di Kildare e Leighlin, ultimo di tre prelati irlandesi; subito prima il vescovo di Augsburg, il vescovo norvegese Muller e monsignor John Magee, ex segretario di vari Papi.
In modo impressionante si susseguono a raffica le dimissioni di alti dignitari della Chiesa cattolica, colpevoli più o meno confessi, nella maggioranza dei casi, di abusi sessuali nei confronti di minori.
Insomma, l’opera di pulizia auspicata con parole di fuoco da Benedetto XVI quando era ancora il cardinale Ratzinger ( e quando su questi temi — mi sembra importante notarlo— l’opinione pubblica non si faceva sentire) va avanti con decisione senza guardare in faccia a nessuno.
Si tratta di un’importante opera di disciplinamento e in certo senso di autoriforma della Chiesa, dietro la quale si intravedono però fenomeni più ampi e significativi che non rendono troppo azzardato parlare di una vera svolta storica.
Per la prima volta, infatti, la Chiesa cattolica si spoglia di sua spontanea volontà di ogni  funzione di intermediazione — e per ciò stesso, inevitabilmente, di «protezione» — nei confronti dei propri membri.
Si priva di ogni attribuzione e volontà di giudizio nel merito, di decisione sua propria ed autonoma nei loro riguardi.
Lo fa, per giunta, non in seguito a provvedimenti giudiziari emanati da una qualche autorità civile di cui le è giocoforza prendere atto, ma per l’appunto in via preliminare.
Qualunque membro del clero, non importa il suo grado, abbia avuto comportamenti sessuali illeciti ha l’obbligo, per così dire, dell’autodenuncia e di affrontare quindi le conseguenze dei propri atti davanti alla giustizia laica.
Allo stesso modo, sembra di capire, qualunque istanza gerarchica cattolica venga a conoscenza di atti sessuali illeciti commessi da un membro del clero ha l’obbligo d’ora in avanti della denuncia immediata all’autorità civile.
In nessun modo, insomma, il peccato fa più da schermo al reato.
Non so quanti precedenti ci siano di un indirizzo del genere: certo pochissimi, forse nessuno.
Come si sa, infatti, la Chiesa cattolica si è sempre considerata una societas perfecta, un’organizzazione che non riconosceva per principio alcuna istanza umana a lei sovraordinata, a cominciare dallo Stato.
Nella sua ottica essa poteva sì rinunciare, quando fosse il caso, alle più svariate prerogative, competenze, diritti o che altro, ma sempre o per via pattizia (cioè concordataria), o perché costrettavi a forza dallo Stato.
Con l’esplodere del problema della pedofilia si ha, invece, nei fatti, un cambiamento di rotta quanto mai significativo: che è la prova indubbia dell’estrema risolutezza con cui il Papa ha deciso di affrontare la questione non indietreggiando di fronte alle conseguenze.
Tale mutamento di rotta a sua volta ne implica, mi sembra, un altro ancora.
E cioè che in questa circostanza la Chiesa ha finito per fare rapidamente proprio, senza riserve o scostamenti di sorta, il punto di vista affermatosi (peraltro recentemente e a fatica, ricordiamocelo) nella società laica occidentale.
Non voglio certo dire che la Chiesa ha avuto bisogno del giudizio della società laica per considerare l’abuso sessuale sui minori un peccato gravissimo (forse il più grave stando alla lettera del Vangelo).
Ma esso era tale anche dieci, venti o trenta anni fa quando tuttavia veniva quasi sempre coperto.
Se oggi non è più così, non può più essere così, se oggi da quella gravità la Chiesa ha tratto le nuove e drastiche conseguenze che sono sotto i nostri occhi, con tutta evidenza ciò è accaduto solo perché il giudizio della società sugli abusi pedofili è anch’esso nel frattempo mutato.
Cosicché, mentre su ogni altro uso della sessualità o pratiche connesse, essa ha adottato, e tuttora adotta, un suo proprio metro di giudizio, più o meno diverso rispetto a quello comunemente accettato, in questo caso vediamo invece che si conforma al punto di vista della società.
Si tratta beninteso del punto di vista della società occidentale, non molto condiviso, come si sa, da altre società come quelle islamiche o afro-asiatiche.
Il che mi sembra indicativo di un ultimo dato di rilievo contenuto in questa vicenda.
Vale a dire che il Cristianesimo romano e la sua Chiesa, pur a dispetto di ogni loro eventuale opinione o affermazione contraria (pur volendosi «cattolici» e cioè universali), mantengono comunque, però, un legame ineludibile con l’area di civiltà nel cui ambito geografico hanno messo le loro prime radici, che poi hanno modellato in modo decisivo, ma dalla quale, alla fine, non possono non essere anch’essi modellati.
Forse è vero, insomma, che il futuro dell’Occidente si avvia a non essere più un futuro cristiano; ma ciò nonostante, in un modo o nell’altro e chissà ancora per quanto tempo, il Cristianesimo continuerà ad essere essenzialmente occidentale.
in “Corriere della Sera” del 26 aprile 2010