Editorialista del Washington Post e Premio Pulitzer, David Ignatius è uno dei più rispettati giornalisti americani.
Ma è più celebre per i suoi romanzi di spionaggio, sette dal 1985 a oggi, nei quali ha offerto uno squarcio a tinte fosche e toni avvincenti sullo spietato mondo dei servizi segreti.
Fra gli altri, Body of Lies, dal quale Ridley Scott ha tratto l’omonimo film con Leonardo DiCaprio e Russell Crowe.
Venerdì mattina nel Palazzo Ducale di Urbino, Ignatius verrà insignito del «Press Award», il premio annuale che l’Italia dedica alla grande stampa americana.
Questo è il testo integrale dell’intervista concessa al Corriere poco prima di partire per l’Italia.
Cosa significa per lei l’Urbino Press Award? «Questo premio mi dice che io scrivo per un pubblico internazionale.
E che c’è un mondo di idee, nel quale anche io ho una voce.
Ho trascorso tre anni a Parigi, come direttore dell’International Herald Tribune e ogni giorno mi rendevo conto che il mondo degli opinionisti ha punti di vista molto differenti.
A Washington questo è un po’ più difficile, uno dei problemi degli Stati Uniti è che il nostro dibattito politico, interno e internazionale, è molto auto-referenziale, spesso non vediamo o non capiamo cosa pensino le persone all’estero.
Ricevere un World Press Award rafforza la mia convinzione che ci sia una stampa mondiale, una professione che ha regole condivise da colleghi in Italia o in Israele o in Iraq, siamo parte dello stesso spazio informativo.
Lo dico perché ci sono molte ragioni per dubitarne, per temere che lo spazio informativo sia in realtà frammentato.
Ecco, andare a Urbino significa credere che, a dispetto delle prove, ci sia ancora un’informazione mondiale».
Che discorso farà? «Parlerò del modo in cui la tecnologia, che avrebbe dovuto unirci, paradossalmente ci frammenta in gruppi più piccoli.
Sono cresciuto in un tipo di giornale nel quale credevamo di scrivere per tutti a Washington, letteralmente, ricchi e poveri, bianchi e neri, repubblicani e democratici.
Ma sfortunatamente non è più così.
Sulla rete ognuno di noi può rivolgersi a siti, dove scrivono e interagiscono persone che la pensano esattamente come noi, hanno le stesse convinzioni.
A Urbino dirò che voglio ancora essere parte di un media informativo che sia contro questo approccio, parli alle persone in termini di valori condivisi, non in termini di narrative separate, di opinioni a fette.
E credo che ci sia una possibilità di farlo, perché il mondo frammentato non funziona.
Gli USA sono in testa nel dimostrarlo: Washington è paralizzata, il Congresso non è in grado di affrontare i problemi di cui la gente si preoccupa veramente».
Ma è la politica o sono i nuovi media l’origine di questa lacerazione? «Si rafforzano a vicenda.
Se risaliamo alle origini degli Stati Uniti o ancora più indietro al Rinascimento o al mondo di Urbino, c’era questo sentimento dominante del dubbio, dello scetticismo.
Ecco, questo è sotto attacco.
Siamo in un mondo dove le emozioni, la partigianeria, le dinamiche di gruppo prevalgono sugli individui.
L’origine? Non vorrei sembrare un marxista, ma forse la tecnologia gioca un ruolo decisivo».
Lei ha usato con successo il romanzo, la fiction, per dare a un pubblico più vasto e internazionale un’idea realistica dell’universo misterioso e oscuro dell’intelligence.
Ogni tanto la realtà supera la fantasia ed è la cronaca ad aprirci squarci sul mondo delle spie, rivelando errori tragici, fallimenti, analisi sbagliate.
Come sono cambiate le intelligence? Organizzazioni come la Cia o la NSA sono ancora efficaci? «Scrivo romanzi di spionaggio da 25 anni, ho scritto il primo nel 1985 e ho appena finito l’ottavo.
In questo periodo ho assistito a un progressivo deterioramento delle sottigliezze e della qualità del fattore umano.
C’è stato un tempo, parlo del mio primo viaggio a Beirut nel 1980, in cui ogni uomo politico arabo si sarebbe sentito offeso se la Cia non avesse provato a reclutarlo.
Gli USA avevano il vento in poppa.
Era un fatto che ognuno in quella parte del mondo volesse essere amico nostro.
E il mio primo racconto Agents of Innocence romanzava la storia vera di come la Cia reclutò Hassan Salameh, il capo della sicurezza di Jasser Arafat.
In altre parole, il capo dell’intelligence del nostro primo nemico terrorista lavorava in segreto per noi, la Cia lo portò perfino a Disneyland e questa è cronaca.
Fu un’operazione che durò quasi dieci anni.
Ecco, non solo la Cia oggi non saprebbe più farlo.
Ma se il Congresso lo venisse a sapere, probabilmente fermerebbe l’operazione.
E se non la fermasse, lo farebbero altri.
Parte del messaggio, che ho provato a dare con i miei romanzi, è che nel momento in cui il ruolo degli Stati Uniti in Medio Oriente è diventato più grande e profondo, la nostra comprensione di quella parte del mondo è diminuita anno dopo anno, non siamo più in grado di operare con efficacia al di fuori di fortezze presidiate, chiamate Green Zones.
Così ci affidiamo sempre più alla tecnologia, per uccidere i nostri avversari, gente ovviamente molto pericolosa che vuol farci del male.
Il risultato è che questa realtà appare lontana, quasi extra-terrestre e quando la sperimentiamo da vicino, a casa nostra, come accadde l’11 settembre, siamo sconvolti, non ne capiamo il senso.
Il mio ultimo racconto comincia proprio con un attacco dei droni Predator».
Lei quindi pensa che la diminuzione del fattore umano sia una delle principali ragioni dei fallimenti della CIA… «Si è ridotta la nostra capacità di convincere persone di altri Paesi a lavorare per noi.
Siamo diventati più bravi a convincere altri servizi segreti a cooperare.
Ma il problema è la nostra capacità di seduzione intellettuale a livello individuale.
Noi avevamo un personale di grande qualità, cosmopolita, poliglotta, capace di percepire le realtà dove operavano nel mondo arabo, in Asia, in Africa.
Questo non esiste più.
La Cia era un percorso ambito verso l’Occidente da molti giovani arabi di talento.
Oggi ci sono i grandi gruppi bancari, le multinazionali che possono farti avere una borsa di studio nelle università californiane.
Un volta la Cia era l’intermediario per la cultura americana».
Lei ha scritto che oggi viviamo nell’età delle operazioni scoperte e non coperte.
Cosa vuol dire? Rimpiange queste ultime, con le barbe finte sul campo? «Non del tutto.
Io voglio dire che oggi a cambiare il mondo non sono più le cose segrete ma le cose che sono pubbliche.
Forse gli strumenti del passato non servono più.
Eppure ci sono momenti in cui se la mano degli Stati Uniti fosse veramente nascosta, influenzando gli avvenimenti con discrezione e producendo esiti a noi favorevoli, dovremmo farlo.
Il problema è che quando c’abbiamo provato, spesso abbiamo fatto un casino.
Storicamente non siamo stati bravi nelle operazioni coperte.
Anche dove abbiamo avuto successo: per esempio, alla fine degli Anni Quaranta in Italia, quando investimmo un sacco di soldi per cercare di far emergere i partiti democratici e tenere i comunisti fuori dal governo.
Ci riuscimmo, ma l’eredità che ci siamo lasciati dietro in Italia è una cultura della cospirazione e del complotto, che ancora oggi avvelena il sistema.
Noi abbiamo aiutato a crearla: non solo in Italia, ma un po’ anche in Francia, per sempre nel mondo arabo.
Voglio dire che in pratica le conseguenze negative delle operazioni coperte superano gli effetti positivi immediati».
Ma hanno ancora un ruolo da svolgere le intelligence in questa fase del potere americano? «Stiamo cercando di venir fuori da un periodo di guerre di spedizione, dove abbiamo inviato truppe in Paesi lontani sull’onda dell’11 settembre e sappiamo che questo dovrà finire, che dobbiamo portare i ragazzi a casa, smettere di bombardare i civili.
Ma le domande su cosa faremo dopo rimangono: come difendere i nostri alleati, come evitare che cose terribili accadano, impedire che il mondo diventi un luogo di violenza arbitraria.
È complicato.
E chiunque pensa che le intelligence non debbano giocare un ruolo è un ingenuo.
Quale sia è però una risposta aperta.
Credo sia importante cominciare con alcuni principi morali di fondo: per esempio, ha ragione il presidente Obama quando dice che una delle regole di base di una società democratica è dire che noi non usiamo la tortura.
Anche in situazioni in cui ci potrebbero essere dei benefici».
Come si concilia questo ritorno a casa con i doveri globali di una superpotenza, della sola superpotenza democratica? «Prima di tutto non possiamo tornarcene a casa troppo rapidamente, dobbiamo farlo in modo responsabile.
Il potere americano rimarrà sicuramente pervasivo nel mondo e questo è un problema: gli USA sono così forti che è difficile per altri Paesi cooperare con noi.
Per questo dobbiamo usarlo in modo più ragionevole, essere molto più attenti nel cominciare le guerre.
Questa Amministrazione lo sta facendo.
Ed è una convinzione che si è fatta strada anche nei ranghi, nelle gerarchie militari, nei civili del Pentagono, dopo le esperienze in Afghanistan e Iraq.
Ma non significa isolazionismo, rinuncia alle responsabilità globali, siamo troppo interconnessi col resto del mondo per potercelo permettere.
Solo che ce le dobbiamo assumere sotto regole diverse.
Dobbiamo individuare i pericoli, localizzarli, agire con strategie mirate».
Ieri l’Onu ha approvato un pacchetto di nuove sanzioni contro l’Iran.
Allo stesso tempo, Teheran continua a muoversi sul piano diplomatico, lanciando ponti verso la Turchia, la Russia, perfino il Brasile.
Saranno efficaci le nuove misure? «Non credo che le nuove sanzioni avranno l’effetto di fermare il programma nucleare iraniano, eppure le considero uno sviluppo molto positivo.
Penso che il successo degli Stati Uniti nel tenere insieme il gruppo “5 più 1” è un risultato che non va sottovalutato.
È stato sensato fare concessioni alla Russia sulla difesa anti-missile e a differenza di molti credo che la costruzione di una partnership con la Cina abbia più successo di quanto in generale non si creda.
Portare Pechino nel ruolo di co-gestore responsabile della sicurezza e della prosperità globali è il compito più importante della diplomazia americana in questa fase.
I cinesi lo apprezzano e sono pronti a dare una mano.
La prova è questa risoluzione dove hanno fatto meno giochetti del solito».
Ma lei dice che non fermeranno le ambizioni nucleari dell’Iran: dovremo convivere con un Iran nucleare? «Sto dicendo che sarebbe più facile convivere con un Iran nucleare, se la comunità internazionale rimanesse unita nel condannarlo.
Ma sono convinto che non succederà, che Teheran si fermerà un passo prima della concreta costruzione di una bomba.
La mia analogia storica è che dobbiamo pensare alla Rivoluzione Iraniana come alla Rivoluzione Francese, che ebbe effetti destabilizzanti – sociali, politici, militari – sull’intera regione europea.
Ci vollero quasi 30 anni, fino alla fine del Congresso di Vienna, per riordinare l’Europa in una nuova architettura di sicurezza.
Ecco la Rivoluzione iraniana è stata lo stesso per il Medio Oriente.
E io credo che avremo bisogno di un nuovo ordine, che porti questo l’Iran post-rivoluzionario in un concerto di nazioni in quell’area del mondo, riconoscendo il suo potere ma anche gli interessi degli altri Paesi».
E avrà un ruolo l’evoluzione politica interna? «La transizione della Repubblica Islamica da causa a nazione sarà decisiva.
Ne ho parlato con dei dirigenti iraniani, che capiscono questa analogia.
Posso anche aggiungere che l’ambizione profonda dell’Amministrazione Obama sull’Iran sia proprio la creazione di una nuova architettura, che riconosca i loro legittimi interessi di sicurezza a patto di non superare precise linee di demarcazione: una di queste è non andare fino in fondo con il programma nucleare, fermarsi a un punto nel quale, un po’ come il Giappone, il mondo capisca che Teheran ha la capacità di costruire un’arma nucleare, ma non lo fa.
Vede, quando penso al Medio Oriente mi sforzo di pensare a cosa fosse l’Europa nel XIX secolo, le bombe, gli assassini politici.
O agli Stati Uniti: nulla nel Medio Oriente si avvicina al bagno di sangue della Guerra Civile americana, pure essenziale nel nostro divenire un Paese moderno».
E come si colloca Israele in questa nuova architettura? «Come ha dimostrato l’incidente della flottiglia turca, la situazione di Gaza non è più sostenibile per nessuno.
Il blocco è fallito e quando una politica fallisce bisogna pensarne un’altra.
Questa è un’opportunità per fare una cosa, che fin qui è stata molto temuta da Israele ma oggi è necessaria: internazionalizzare la crisi.
Israele ha tentato di gestire la situazione di Gaza da sola, ma ora non è più possibile.
Purtroppo la Turchia con il suo comportamento ha perso l’opportunità di fare da mediatore.
Quindi se ne apre una per gli Stati Uniti».
Ma è cambiato qualcosa di molto importante nel rapporto tra USA e Israele nei mesi scorsi… «Si, rispetto al passato, l’Amministrazione Obama ha trasmesso un messaggio che suona più o meno così: noi abbiamo anche interessi che non sono sempre identici ai vostri e voi ne dovete tener conto se volete il nostro appoggio.
Ma, ripeto, ci sono opportunità per noi.
Non abbiamo bisogno di mediatori per parlare alla Siria, all’Iran.
Dobbiamo farlo direttamente.
Fin qui nel Medio Oriente siamo stati troppo reattivi, dobbiamo invece essere più creativi, immaginifici nel cercare di influenzare gli avvenimenti».
Mi faccia un esempio… «Beh, una volta ho detto che se volessimo spaccare Hamas, un alto funzionario della Casa Bianca dovrebbe salire su un aereo e andare a incontrare segretamente Meshal o qualcun altro.
Sono sicuro che entro una settimana Hamas sarebbe lacerata al suo interno.
Una diplomazia attiva crea sempre nuovi spazi, aperture impreviste.
Quanto ai contraccolpi, in questo momento sarebbe difficile per Obama essere più impopolare di così in Israele.
Il nostro regalo a Israele rimane sempre quello di un Paese potente che appoggia con convinzione i suoi interessi.
Ma dobbiamo poter agire in modo più libero e spregiudicato, un po’ come faceva Kissinger.
Nel Medio Oriente l’abilità diplomatica è stata sempre di cavalcare due cavalli allo stesso tempo.
Ecco, noi dobbiamo farlo più spesso».
09 giugno 2010
Categoria: Documenti
Allo Stato converrebbe incrementare il numero delle paritarie
Nell’ambito delle iniziative legate all’apertura di un canale tematico dedicato alle scuole paritarie, Tuttoscuola ospita un forum, nel quale si apre al mondo dell’associazionismo, ponendo domande sull’istruzione non statale.
Il primo a rispondere è stato Vincenzo Silvano, presidente della Compagnia delle Opere (CdO) – Opere Educative.
D: Sul finanziamento delle scuole paritarie ci sono tuttora opinioni molto contrastanti, che vanno dal rifiuto di qualunque tipo di sostegno economico all’idea che la preclusione costituzionale (“senza oneri per lo Stato”) vada interpretata nel senso che lo Stato non può avere in nessun caso l’obbligo di finanziare le scuole non statali, anche se paritarie, ma ne può avere la facoltà, ovviamente sulla base di una legge.
Qual è la vostra posizione in proposito? R: Siamo totalmente d’accordo -anche perché questa è l’interpretazione autentica fornitaci dagli stessi “padri” della Costituzione- che lo Stato non abbia l’obbligo ma ne abbia tuttavia la facoltà.
Vorremmo, però, andare oltre il concetto di “facoltà”, introducendo quello di “convenienza”.
Allo Stato converrebbe incrementare il numero delle scuole paritarie, poiché -come è ormai stranoto- oltre a fornire in moltissimi casi una istruzione/educazione di alta qualità, garantiscono allo Stato – in virtù di una gestione economica accorta ed efficiente- un risparmio pari a circa 6 miliardi di euro l’anno! E’ dunque evidente, impostato così il problema, che ogni opposizione alla libertà di scelta educativa ha un sapore ottusamente ideologico e conseguenze negative per tutti sotto molteplici profili.
D: Gli interventi per il diritto allo studio, che sono di competenza regionale, non fanno distinzione di trattamento tra alunni di scuole statali e paritarie.
Potrebbe essere questa la strada per venire incontro alle maggiori spese dei genitori che scelgono la scuola paritaria? R: Certamente gli interventi regionali per il diritto allo studio possono e devono contribuire a favorire la libertà di scelta educativa, ma non possono essere gli unici.
Occorrono anche provvedimenti legislativi nazionali che garantiscano una base di uniformità per quanto riguarda i finanziamenti alle scuole (e/o alle famiglie) in tutto il paese, sennò si rischiano quelle difformità macroscopiche che già esistono.
Per es.
in Lombardia c’è la Dote scuola che è un importante passo in avanti in questo senso, ma in tantissime altre regioni non c’è quasi nulla, se non esigui rimborsi per chi ha un reddito ISEE al limite della sussistenza (€ 10.633 !!), indipendentemente dal fatto che i figli frequentino scuole statali o paritarie.
Le stesse leggi sul diritto allo studio, così, attribuendo le medesime provvidenze economiche a tutti, producono una grave discriminazione, dimenticando che chi sceglie la scuola paritaria paga due volte ( nelle tasse e con la retta), mentre chi sceglie la scuola statale no.
Anche in questo caso, servirebbe un approccio al problema meno dettato da valutazioni ideologiche e una informazione più chiara, mentre in realtà, ove si tenta (come in Lombardia) di sanare almeno in parte questa discriminazione, si scatenano proteste strumentali a non finire.
D: Che cosa pensa della detraibilità fiscale delle spese sostenute dai genitori che iscrivono i loro figli alle scuole paritarie? R: E’ uno strumento intelligente e facilmente realizzabile, che rientrerebbe a pieno titolo nelle politiche a sostegno della famiglia di cui tanto si parla ma su cui ancora poco si opera…
Tra l’altro, aggirerebbe anche le obiezioni di chi si oppone risolutamente al finanziamento diretto alle scuole in virtù del mal interpretato art.
33 della Costituzione.
Occorre però aggiungere due nota bene: 1) sarebbe necessario un livello di detraibilità fiscale più sostanzioso di quelli mediamente riconosciuti per altri settori, che è pari al 19%; 2) non può essere l’unico strumento per favorire la libertà di scelta educativa ma dovrebbe far parte di un mix di strumenti che tutti insieme realizzino una piena parità economica tra scuola statale e paritaria.
D: L’ipotesi più radicale è che a tutti i genitori venga dato un buono studio, corrispondente a un costo standard calcolato a livello nazionale, spendibile indifferentemente nelle scuole statali e in quelle paritarie.
Che cosa ne pensa? R: Sarebbe bello, ma pensiamo che non sia facilmente realizzabile in questo momento.
Occorre, inoltre, tenere conto delle differenze regionali e locali di distribuzione della ricchezza e del reddito, che incidono in misura diversa sulle potenzialità di spesa delle famiglie e sui costi delle scuole .
Bisognerebbe quindi prevedere anche dei correttivi in tal senso.
Per questo insistiamo sul mix di strumenti.
D: Nelle ultime settimane si è parlato spesso della costituzione di albi regionali degli insegnanti abilitati, dai quali le istituzioni scolastiche autonome, statali e paritarie, possano attingere direttamente, scegliendo, senza rigidi vincoli, i docenti migliori.
Rispetto all’obiettivo di qualificare l’offerta formativa delle scuole, quali elementi positivi o negativi ritiene che abbia la proposta? R: La nostra esperienza e la riflessione sull’esperienza stessa ci portano ad affermare che la possibilità di scelta autonoma del personale docente è una condizione imprescindibile per realizzare una vera autonomia delle istituzioni scolastiche (statali e non) ed innalzarne la qualità, poiché i docenti sono davvero un punto chiave del sistema di istruzione.
Senza questa possibilità, i dirigenti delle scuole statali si troveranno sempre con uno strumento spuntato fra le mani, un’autonomia monca…Non ci interessano tanto gli albi regionali in se stessi, quanto la possibilità di stabilizzare il corpo docente e soprattutto quella di sceglierlo (o rimuoverlo quando non è all’altezza).
Questo sarebbe, tra l’altro, un passo importantissimo anche in ordine ad una valorizzazione della categoria professionale degli insegnanti, che finalmente potrebbero proporsi per le loro effettive competenze, e non in base ad anonime e fuorvianti graduatorie.
D: Nelle settimane scorse è stata avanzata la proposta di definire graduatorie regionali che, rispetto a quelle attuali, dovrebbero introdurre nuovi requisiti finalizzati ad assicurare maggiore stabilità dei docenti.
La maggiore rigidità che conseguirebbe dalla proposta può assicurare maggiore qualità al servizio? Se sì, sarebbe opportuno che venisse estesa anche alle scuole paritarie? R: Come accennato prima, la necessità di dare una stabilità al corpo docente statale, soggetto ogni anno ad un controproducente balletto delle cattedre, è fuori di dubbio.
Però questa dovrebbe essere unita anche ad una effettiva possibilità per i dirigenti di sollevare dall’incarico chi non è adeguato: proviamo a immaginare cosa significa doversi tenere per almeno 4-5 anni un docente che non combina nulla o, peggio ancora, crea dei danni psicologici e formativi (e casi così, purtroppo, non sono rari…).
Questa è la situazione attuale di quei dirigenti statali che hanno insegnanti di ruolo inamovibili ma deleteri per l’istituzione scolastica…
Allora: stabilità per chi vale, ma senza la rigidità attuale, perché la qualità del servizio è assicurata innanzitutto dalla qualità del docente, e quando questo è davvero capace la scuola ha tutto l’interesse a tenerselo…
Quanto alle scuole paritarie, la situazione è diversa; l’autonomia di arruolamento è già effettiva e non mi pare proprio sia necessario apportare modifiche.
Come si dice: “squadra che vince non si cambia”…
tuttoscuola.com
Priore: “I cristiani considerati un pericolo per il mondo islamico”
Il giudice Rosario Priore, avendo seguito da vicino Alì Agca e i Lupi Grigi, conosce bene la Turchia e le sue pulsioni più profonde.
Giudice, ci racconti i fondamentalisti turchi.
«I Lupi Grigi difendevano innanzitutto l’essenza islamica della Turchia».
Negli Anni Ottanta conoscevamo davvero poco dei movimenti fondamentalisti.
«Ricordo il proclama che Alì Agca scrisse per la visita a Istanbul del Papa.
Era la fine di novembre ‘79 e Agca annunciava il suo proposito di uccidere il Papa perché, disse, era “il primo tra i nuovi crociati, venuto con funzioni di rappresentanza dell’Occidente e degli Stati Uniti in particolare”.
Scriveva ancora che il Papa era venuto con il proposito, che egli riteneva sommamente offensivo, di “calpestare la terra dell’islam.
Sarebbe venuto a baciare la terra di Turchia pensando che facesse ancora parte dell’impero di Costantinopoli”».
Ieri un Papa, oggi un vescovo.
Perché le gerarchie cattoliche sono considerate un pericolo? «Li vedono come nemici dell’Islam e insieme dell’impero che fu.
Da quelle parti vive ancora il ricordo della Sublime Porta».
Che pensa delle coincidenze? L’omicidio di monsignor Padovese arriva a pochi giorni dall’incidente in mare di fronte a Israele e alla vigilia della visita del Papa a Cipro.
«Se esaminiamo la questione in chiave geopolitica, la Turchia è uno dei punti di maggiore scontro tra cristianesimo e Islam.
Cipro poi, isola a lungo spezzata a metà, è la rappresentazione icastica della divisione tra i due mondi.
E non intendo Est e Ovest.
Ma trent’anni fa, non era così chiaro.
Colpa del nostro eurocentrismo; altre categorie ci apparivano del tutto superate se non medievali.
Questo evento di ieri non potrebbe far altro che confermare le antiche tensioni».
Pensa all’attentato a Wojtyla? «Diciamo che potrebbe confortare un’ipotesi che già era emersa e che inseriva quel delitto in una strategia offensiva del mondo islamico nei confronti del mondo cristiano».
Ricorda qualche interrogatorio in particolare? «Ricordo le sue lettere.
“Nessun cristiano deve toccare la mia salma”.
“Meglio essere una scimmia nella giungla africana, che un principe della chiesa in Vaticano”.
Pochi sanno che si depilò il pube e lo scroto prima dell’attentato, quindi indossò una camicia bianca, perché quel giorno si preparava a morire».
Poi però si fece passare per pazzo.
«E immagino già che l’assassino si faccia passare per folle.
Invece penso che fosse stato messo al fianco del vescovo con finalità precise: seguire le sue mosse, spiare, e magari ucciderlo al momento giusto».
in “La Stampa” del 4 giugno 2010
Walter Kasper: “È un omicidio pieno di ombre ma non potrà fermare il dialogo”
«Una tragedia indescrivibile.
Una perdita umana incalcolabile.
Monsignor Padovese col suo sacrificio va ad aggiungersi alla lunga lista di nuovi martiri che negli ultimi tempi hanno insanguinato il cammino della Chiesa nel mondo.
Come don Andrea Santoro, assassinato anche lui in Turchia, e i tanti uomini e donne di Chiesa che hanno sacrificato la loro vita per stare vicini a chi soffre, ai bisognosi, agli ultimi, nel nome di Cristo e del Vangelo».
Dolore, tristezza, rammarico e tanta voglia di capire «perché sia potuto accadere un fatto simile».
È quanto esprime a «caldo» il cardinale Walter Kasper – presidente del Pontificio consiglio per la Promozione dell’unità dei cristiani e membro di altri importanti dicasteri come il Dialogo interreligioso e la Dottrina della Fede – appena appresa la notizia della morte del vescovo Padovese.
«È una tragedia che colpisce tutti, cristiani, non cristiani, credenti e non credenti, perché è stato colpito un pastore tanto amato dentro e fuori la Turchia, ma anche perché – nota il porporato – avvenuta alla vigilia del viaggio di Benedetto XVI a Cipro.
Ma prima di dare giudizi definitivi è bene essere cauti ed attendere le indagini della polizia».
Cardinale Walter Kasper, con l’assassinio di monsignor Padovese la Chiesa cattolica ha un nuovo martire.
Come lo spiega? «Non me lo spiego.
È una perdita ed un dolore indescrivibili.
Lo conoscevo.
Sono stato più volte ospite a casa sua, in Turchia, dove stava facendo un grande lavoro pastorale.
Era apprezzato, seguito, ammirato.
Veramente un grande pastore della famiglia francescana cappuccina, fine teologo dotato di uno spiccato senso del dialogo e della dottrina, ma anche grande docente all’Antonianum».
Cosa ha armato la mano dell’assassino? «Difficile dirlo ora, a poche ore dalla tragedia.
Ci vuole prudenza e cautela per esprimere giudizi in questi casi.
Occorre necessariamente far lavorare gli inquirenti ed attendere l’esito delle indagini.
Occorre avere fiducia.
Sperando che tutto venga chiarito dagli inquirenti locali e che in tempi brevi siano sgombrate tutte le zone d’ombra intorno a questa nuova tragedia che ha colpito un pastore cattolico tanto amato dalla terra dove svolgeva il suo ministero».
Dopo il parroco di Trebisonda don Andrea Santoro, il presidente dei vescovi turchi, Padovese.
Cresce in Turchia la repressione anticristiana? «Difficile dirlo, per ora, perché non sappiamo cosa veramente sta alla base di questa nuova tragedia.
Pare che il vescovo sia stato accoltellato dal suo autista, che lavorava con lui da circa 4 anni.
Quindi si conoscevano bene.
Sembra pure che questo autista avesse problemi di salute e soffrisse di forme di depressione.
È chiaro che è tutto da verificare per avere un quadro esatto, anche se non è un mistero che in Turchia non mancano gruppi o movimenti di natura xenofoba.
Ma si tratta di aree isolate, benché pericolose, che forse non hanno niente a che vedere con la morte di monsignor Padovese.
Frange estremiste – va detto per correttezza – per niente assimilabili alla stragrande maggioranza della popolazione turca e con le istituzioni politiche e religiose, con le quali le Chiesa cattolica notoriamente ha ottimi rapporti.
Come del resto è emerso anche nel corso del recente viaggio pastorale di Benedetto XVI».
Monsignor Padovese stava per partire alla volta di Cipro per accogliere l’arrivo odierno di papa Ratzinger.
«Sì, oggi sarebbe stato a Cipro come presidente della Conferenza episcopale turca.
Sono certo che il Papa lo ricorderà nel corso di questo importante pellegrinaggio sulle orme di San Paolo.
La notizia della tragica morte di monsignor Padovese ci ha scossi tutti in Vaticano, mentre stavamo facendo gli ultimi preparativi per il viaggio papale.
Il Santo Padre è rimasto molto colpito, come del resto lo siamo stati tutti noi.
Abbiamo subito pregato per il nostro confratello, ma nessuno in Vaticano ha pensato a cambiare una sola virgola al programma del viaggio a Cipro».
Non teme che l’assassinio di Padovese possa avere conseguenze per il dialogo interreligioso? «Il dialogo ecumenico ed interreligioso deve andare avanti.
Nemmeno davanti a tragedie simili.
È lo stesso sacrificio di monsignor Padovese che ce lo deve ricordare.
E penso che anche Benedetto XVI ce lo ricorderà proprio a Cipro».
Eurispes: crescono le scuole non statali
Il Rapporto Italia 2010 dell’Eurispes segnala un aumento delle iscrizioni nelle scuole non statali dovuto, secondo l’istituto di ricerca, all’aumento dei sussidi economici per le famiglie, alla presenza di studenti extracomunitari e anche alla “fuga dai licei” provocata dal temuto ritorno della ”meritocrazia” nelle scuole statali. Le regioni più interessate al fenomeno sono quelle del Nord, e in particolare la Lombardia, che ha registrato nel corso dell’ultimo anno scolastico il maggior incremento di iscrizioni alle scuole private, in particolare a quelle per l’infanzia, specialmente nelle zone a forte immigrazione. Nell’istruzione superiore, secondo l’Eurispes, ”il ritorno alla tanto paventata meritocrazia” come elemento caratterizzante della riforma avrebbe giocato a favore della scuola non statale, facendo aumentare la richiesta di scuole meno “complicate” ai fini del recupero dei debiti, dopo che gli scrutini dell’anno scolastico 2008/2009 avevano visto un aumento del 15-20 % di alunni rimandati nelle scuole superiori statali.
Altri articoli Scuola, Mosella (Api): Ennesimo attacco contro quella privata Mons.
Betori: la parità deve essere piena Premio e Convegno ”La Salle” (Roma, 27/5) Paritarie e fini di lucro (o meno).
Ecco i dati Il riconoscimento del servizio prestato nelle paritarie Maturità, a Verona il record di candidati delle paritarie Il nuovo canale per le scuole paritarie Nuove funzionalità nell’anagrafe delle scuole non statali
Il codice Ratzinger
Ieri l’altro il vescovo di Bruges; giovedì quello di Kildare e Leighlin, ultimo di tre prelati irlandesi; subito prima il vescovo di Augsburg, il vescovo norvegese Muller e monsignor John Magee, ex segretario di vari Papi.
In modo impressionante si susseguono a raffica le dimissioni di alti dignitari della Chiesa cattolica, colpevoli più o meno confessi, nella maggioranza dei casi, di abusi sessuali nei confronti di minori.
Insomma, l’opera di pulizia auspicata con parole di fuoco da Benedetto XVI quando era ancora il cardinale Ratzinger ( e quando su questi temi — mi sembra importante notarlo— l’opinione pubblica non si faceva sentire) va avanti con decisione senza guardare in faccia a nessuno.
Si tratta di un’importante opera di disciplinamento e in certo senso di autoriforma della Chiesa, dietro la quale si intravedono però fenomeni più ampi e significativi che non rendono troppo azzardato parlare di una vera svolta storica.
Per la prima volta, infatti, la Chiesa cattolica si spoglia di sua spontanea volontà di ogni funzione di intermediazione — e per ciò stesso, inevitabilmente, di «protezione» — nei confronti dei propri membri.
Si priva di ogni attribuzione e volontà di giudizio nel merito, di decisione sua propria ed autonoma nei loro riguardi.
Lo fa, per giunta, non in seguito a provvedimenti giudiziari emanati da una qualche autorità civile di cui le è giocoforza prendere atto, ma per l’appunto in via preliminare.
Qualunque membro del clero, non importa il suo grado, abbia avuto comportamenti sessuali illeciti ha l’obbligo, per così dire, dell’autodenuncia e di affrontare quindi le conseguenze dei propri atti davanti alla giustizia laica.
Allo stesso modo, sembra di capire, qualunque istanza gerarchica cattolica venga a conoscenza di atti sessuali illeciti commessi da un membro del clero ha l’obbligo d’ora in avanti della denuncia immediata all’autorità civile.
In nessun modo, insomma, il peccato fa più da schermo al reato.
Non so quanti precedenti ci siano di un indirizzo del genere: certo pochissimi, forse nessuno.
Come si sa, infatti, la Chiesa cattolica si è sempre considerata una societas perfecta, un’organizzazione che non riconosceva per principio alcuna istanza umana a lei sovraordinata, a cominciare dallo Stato.
Nella sua ottica essa poteva sì rinunciare, quando fosse il caso, alle più svariate prerogative, competenze, diritti o che altro, ma sempre o per via pattizia (cioè concordataria), o perché costrettavi a forza dallo Stato.
Con l’esplodere del problema della pedofilia si ha, invece, nei fatti, un cambiamento di rotta quanto mai significativo: che è la prova indubbia dell’estrema risolutezza con cui il Papa ha deciso di affrontare la questione non indietreggiando di fronte alle conseguenze.
Tale mutamento di rotta a sua volta ne implica, mi sembra, un altro ancora.
E cioè che in questa circostanza la Chiesa ha finito per fare rapidamente proprio, senza riserve o scostamenti di sorta, il punto di vista affermatosi (peraltro recentemente e a fatica, ricordiamocelo) nella società laica occidentale.
Non voglio certo dire che la Chiesa ha avuto bisogno del giudizio della società laica per considerare l’abuso sessuale sui minori un peccato gravissimo (forse il più grave stando alla lettera del Vangelo).
Ma esso era tale anche dieci, venti o trenta anni fa quando tuttavia veniva quasi sempre coperto.
Se oggi non è più così, non può più essere così, se oggi da quella gravità la Chiesa ha tratto le nuove e drastiche conseguenze che sono sotto i nostri occhi, con tutta evidenza ciò è accaduto solo perché il giudizio della società sugli abusi pedofili è anch’esso nel frattempo mutato.
Cosicché, mentre su ogni altro uso della sessualità o pratiche connesse, essa ha adottato, e tuttora adotta, un suo proprio metro di giudizio, più o meno diverso rispetto a quello comunemente accettato, in questo caso vediamo invece che si conforma al punto di vista della società.
Si tratta beninteso del punto di vista della società occidentale, non molto condiviso, come si sa, da altre società come quelle islamiche o afro-asiatiche.
Il che mi sembra indicativo di un ultimo dato di rilievo contenuto in questa vicenda.
Vale a dire che il Cristianesimo romano e la sua Chiesa, pur a dispetto di ogni loro eventuale opinione o affermazione contraria (pur volendosi «cattolici» e cioè universali), mantengono comunque, però, un legame ineludibile con l’area di civiltà nel cui ambito geografico hanno messo le loro prime radici, che poi hanno modellato in modo decisivo, ma dalla quale, alla fine, non possono non essere anch’essi modellati.
Forse è vero, insomma, che il futuro dell’Occidente si avvia a non essere più un futuro cristiano; ma ciò nonostante, in un modo o nell’altro e chissà ancora per quanto tempo, il Cristianesimo continuerà ad essere essenzialmente occidentale.
in “Corriere della Sera” del 26 aprile 2010
Il no al crocifisso nelle scuole
L’intervista «Facendo lo stesso ragionamento la Corte di Strasburgo potrebbe chiedere agli inglesi di togliere la croce di San Giorgio dalla bandiera».
E perché? «Dice quella sentenza che la croce è un simbolo di parte.
E allora non dovrebbe stare non solo nelle aule ma nemmeno sul simbolo dell’unità nazionale.
Mi sembra francamente irragionevole».
Il professor Carlo Cardia insegna Diritto ecclesiastico all’Università di Roma Tre.
Negli anni si è occupato di tutte le questioni importanti nei rapporti fra Stato e Chiesa, dall’otto per mille alla revisione del Concordato, ed è stato autore della Carta dei valori, della cittadinanza e dell’immigrazione insieme al ministro Giuliano Amato.
L’ultimo nodo che ha affrontato è la sentenza con la quale la Corte europea dei diritti umani ha detto no al crocifisso nella aule scolastiche, perché lede la «libertà di religione degli alunni».
A questo tema il professor Cardia ha dedicato un libro «La questione del crocifisso e l’identità culturale e religiosa dell’Europa», che sarà presentato lunedì 26 aprile a Roma.
Professor Cardia, come considera quella sentenza? «Da rivedere anche per la sua forza espansiva nei confronti di altri Stati.
Non approfondisce la questione e la esamina da un punto di vista ideologico.
Così la Corte ha finito per rinnegare la sua stessa giurisprudenza, che aveva un orientamento consolidato».
Cosa diceva questo orientamento? «La Corte di Strasburgo è chiamata a pronunciarsi sulla base della Convenzione dei diritti umani del 1950.
Questo documento stabilisce che gli Stati europei sono “animati da uno stesso spirito e forti di un patrimonio comune di tradizioni e di ideali politici”.
In questo patrimonio un posto preminente lo occupano la tradizione cristiana ed i suoi simboli, come il crocifisso.
Negli anni la Corte, giustamente, ha più volte ricordato questo principio».
E invece stavolta? «Ha inspiegabilmente cambiato direzione.
Ha scelto un approccio vetero illuminista secondo il quale la formazione si deve svolgere in un vuoto culturale dove non esiste un passato né un futuro da costruire.
Da questo punto di vista la Corte ha parlato di una scuola italiana che non esiste».
Cosa intende? «Se una ragazza, in Italia, vuole andare a scuola con il velo islamico lo può fare.
C’è un atteggiamento tollerante nei confronti di tutti i simboli religiosi.
Ma questo la Corte non l’ha preso in considerazione.
E così è stato svilito il ruolo del crocifisso come simbolo dell’identità europea, trasformandolo in un simbolo di parte».
Saranno queste le motivazioni che l’Italia farà valere nel ricorso contro la sentenza? «Non mi occupo direttamente del ricorso anche se questo libro è il frutto di uno studio che riflette le posizioni del governo italiano e che sarà utilizzato per sensibilizzare sulla questione anche altri governi europei.
Nel mio lavoro ho cercato di evidenziare alcuni carenze nella sentenza della Corte».
Quali carenze? «La sentenza fa discendere l’obbligo del crocifisso nelle aule dallo Statuto albertino che nel 1848 stabiliva come quella cattolica fosse la sola religione di Stato.
È stato considerato come frutto del confessionismo di Stato».
E invece? «È un errore tecnico, quello Statuto era flessibile e dopo poco tempo il principio della religione di Stato cadde in disuso.
In realtà, la norma sul crocifisso è successiva.
C’erano già state le cosiddette leggi eversive, che sopprimevano alcuni enti religiosi.
Altro che Stato confessionale.
Per questo mi auguro una revisione della sentenza che tenga conto del valore storico e religioso che la croce ha per tutti i cristiani, cattolici, ortodossi e protestanti».
in “Corriere della Sera” del 22 aprile 2010
«La Natura imprevedibile è più forte di noi»
CARLO RUBBIA – «L’uomo — dice per esempio Carlo Rubbia, premio Nobel per la Fisica nel 1984 — si sorprende davanti ai grandi eventi della natura, terremoti, eruzioni vulcaniche, cicloni, perché dimentichiamo che il nostro pianeta è in continuo movimento: l’Atlantico si allarga di 2,5 centimetri l’anno, allontanando l’Europa dall’America.
Ma tutto rientra nella storia e nell’evoluzione della terra: basti pensare che duecento milioni di anni fa tutti i continenti erano riuniti in un’unica terra emersa.
Bisogna rendersi conto che i fenomeni della natura coesistono con la vita dell’uomo, il quale deve esserne consapevole.
L’uomo e la natura sono due realtà parallele che convivono».
La nostra fragilità, dice ancora Rubbia, è resa ancora più palese dalle «conseguenze che questa eruzione vulcanica potrebbe avere per il cambiamento climatico: le polveri ridurranno la trasparenza dell’atmosfera e quindi la radiazione del sole riscalderà meno la terra su vaste aree, andando nella direzione contraria all’attuale cambiamento climatico».
PAOLO ROSSI – Una preoccupazione, quella di Rubbia, che si sposa perfettamente con la riflessione di Paolo Rossi, decano italiano dei filosofi della scienza e allievo di Eugenio Garin: «Questa vicenda smentisce due idee molto di moda nel mondo contemporaneo: dimostra innanzitutto che la natura non è affatto buona, e poi che non sappiamo come andrà a finire.
Nel primo caso mi riferisco alla fastidiosa propaganda sulla natura come dolce madre che arriva fino alla pubblicità (è un prodotto naturale: compralo), nel secondo al mito della prevedibilità dei fenomeni fisici ma anche del corso storico.
Le previsioni di lungo periodo si sono dimostrate sempre sbagliate: sia quelle catastrofiche di padre Lombardi quando vedeva i cavalli dei cosacchi abbeverarsi alle fontane di San Pietro, o di Alberto Asor Rosa che oggi predica l’apocalisse, sia quelle ottimistiche degli economisti che fino a un anno fa si illudevano di controllare l’andamento dei mercati».
GIULIO GIORELLO – Un titolo catastrofista, ma solo in funzione editoriale, è quello del libro del vulcanologo Bill McGuire, Guida alla fine del mondo, edito da Raffaello Cortina nella collana diretta da Giulio Giorello, filosofo della scienza alla Statale di Milano.
«Il libro di McGuire, studioso che in questi giorni lavora nel gruppo che gestisce l’emergenza in Gran Bretagna, ci parla delle catastrofi che possono mettere in crisi la nostra civiltà — spiega Giorello —.
Di alcune, come l’eruzione del vulcano islandese, non abbiamo colpa, ma siamo sempre responsabili delle risposte che diamo.
Per non finire come i dinosauri, secondo una teoria scomparsi all’impatto della terra con un gigantesco meteorite, non dobbiamo mai smettere di studiare il nostro pianeta, magari ricordandoci di applicare i risultati delle ricerche, perché per esempio in Italia abbiamo degli ottimi geologi ma non un atlante geologico completo.
E poi affinare le nostre capacità di risposta, attraverso l’elaborazione di modelli matematici sempre più sofisticati che se non prevedono quando un fenomeno si verifica almeno ci dicono come avviene, quindi ci mettono in grado di reagire».
MARGHERITA HACK – Convinta che la scienza possa comunque dare una mano è l’astrofisica Margherita Hack, tuttavia scettica di fronte alla prevedibilità di tutti i fenomeni.
«Non dico che la scienza sia impotente — argomenta la scienziata cui è stato intitolato l’asteroide 8558 — ma nei miei anni di studio e lavoro ho potuto constatare che sulla terra così come su molte stelle non tutto è prevedibile».
Quel che segue sembra un gioco di parole, ma Margherita Hack è convinta che «la scienza può servire anche quando prevede l’assoluta imprevedibilità di certi fatti.
Non sappiamo per esempio quando il Vesuvio andrà in eruzione ma di certo prima o poi accadrà».
NICOLA CABIBBO – Questa concreta preoccupazione per il Vesuvio accomuna la più laica tra gli scienziati al fisico Nicola Cabibbo, noto nel mondo per gli studi sulle interazioni delle particelle elementari e presidente della Pontificia accademia delle scienze.
«Il Vesuvio, vulcano molto pericoloso — sostiene Cabibbo — potrebbe fare disastri ben maggiori di quello islandese anche per la densità della popolazione che vive nell’area.
Viviamo in un mondo che può dare sorprese a tutti i livelli, dai fenomeni singolari come quello partito dall’Islanda, davanti al quale la scienza mi sembra possa ben poco, agli eventi come frane e terremoti, ben frequenti nel nostro Paese ma che ci colgono spesso impreparati.
L’eruzione di quel lontano vulcano che sta emettendo una quantità incredibile di polvere davanti alla quale nulla possono gli scienziati, mi sembra debba servire da monito per la nostra imprudenza».
Dino Messina Corriere della sera 18 aprile 2010 Davanti allo spettacolo terribile del terremoto di Lisbona, che il 1° novembre 1755 uccise dalle sessantamila alle novantamila persone, almeno un quarto degli abitanti di quella città, l’illuminista Voltaire arrivò a mettere in dubbio la provvidenza divina e il filosofo Immanuel Kant, il padre del razionalismo moderno, mise in guardia contro i peccati di orgoglio.
In maniera diversa, un richiamo all’umiltà dell’uomo di fronte agli sconvolgenti fenomeni naturali, come l’eruzione del vulcano islandese Eyjafjallajökul che da tre giorni sta bloccando il traffico aereo in Europa, viene anche oggi da filosofi e scienziati.
Tomás Spidlík, maestro della spiritualità orientale
Il novantenne cardinale gesuita moravo Tomás Spidlík, punto di riferimento della spiritualità orientale, è morto alle 21 di venerdì 16 aprile al centro Ezio Aletti di Roma da lui fondato e dove viveva dal 1991.
Nato il 17 dicembre 1919 a Boskovice, nella diocesi di Brno, nell’odierna Repubblica Ceca, era stato ordinato sacerdote il 22 agosto 1949.
Nel concistoro del 21 ottobre 2003, Giovanni Paolo II lo aveva creato e pubblicato cardinale diacono di Sant’Agata dei Goti.
Il 18 aprile 2005 aveva predicato ai cardinali riuniti nella cappella Sistina per il conclave che ha eletto Benedetto XVI.
Le esequie saranno celebrate nella basilica Vaticana martedì 20 aprile, alle ore 11.30, dal cardinale Angelo Sodano, decano del Collegio cardinalizio.
Al termine della celebrazione eucaristica, Sua Santità Benedetto XVI scenderà in basilica per rivolgere la sua parola ai presenti e presiedere il rito dell’ Ultima Commendatio e della Valedictio.
La salma sarà esposta nella cappella del centro Aletti, in via Paolina 25, fino alla sera di lunedì 19 aprile.
Il cardinale Spidlík sarà poi sepolto a Velehrad in Moravia, luogo a lui particolarmente caro perché legato all’evangelizzazione dei santi Cirillo e Metodio e crocevia di popoli e culture. “Per tutta la vita ho cercato il volto di Gesù e ora sono felice e sereno perché sto per andare a vederlo”.
C’è il senso di un’intera esistenza nelle ultime parole del cardinale Spidlík, morto a novant’anni e quattro mesi per un tumore che non gli aveva però impedito di continuare fino alla fine, con incontri e confronti, ad approfondire la tradizione dell’Oriente cristiano nella sua relazione con il mondo contemporaneo.
Le sue ultime uscite pubbliche sono state per un atto accademico in suo onore al Pontificio Istituto Orientale – dove ha insegnato per mezzo secolo – e per predicare gli esercizi spirituali quaresimali alla Gendarmeria vaticana.
Nel giorno del suo novantesimo compleanno, il 17 dicembre scorso, Benedetto XVI gli aveva fatto il grande regalo di celebrare con lui la Messa nella cappella Redemptoris Mater, opera d’arte nata proprio dal pensiero di Spidlík e dalle mani del suo primo discepolo padre Rupnik.
E il cardinale che amava gli scherzi disse, in una lunga intervista a “L’Osservatore Romano”, che, in quella occasione, la Provvidenza era stata “più brava” di lui “a fare gli scherzi”, facendogliene “uno sorprendente” per regalargli “il compleanno più bello” accanto al Papa.
Tomás Spidlík è stato un maestro di spiritualità orientale, capace di fondare una vera e propria scuola radicata anche nell’arte, nella cultura e nella storia in Oriente come in Occidente.
La sua opera oggi non è vista semplicemente come un lavoro di storia della spiritualità, ma rappresenta una visione teologica organica.
“Cerco di propagare – ha detto di se stesso pochi giorni prima di morire – la bellezza che salva, una visione teologica dove prevale un approccio simbolico, liturgico, e dove l’immagine visuale è uguale alle testimonianze di fede dette o scritte”.
Il “metodo Spidlík”, spiega padre Milan Zust, che gli è stato vicino fino all’ultimo, si è fondato sulla capacità di “vedere l’insieme delle cose”, di trattare “i diversi temi dal punto di vista storico, culturale e religioso, ma soprattutto in rapporto alla vita concreta, mettendo le Persone della Santissima Trinità e la persona creata, sua immagine, al centro di tutto.
Nel profondo del cuore padre Tomás ha avuto lo stesso atteggiamento come guida spirituale e come ricercatore e insegnante”.
Un padre, dunque, uno starec che ha insegnato con la sua stessa vita.
In ambito accademico, infatti, è rimasto sempre per tutti “padre Tomás”: nessuno si rivolgeva a lui chiamandolo seriosamente “professore” o solennemente “eminenza”.
Per padre Richard Cemus, suo successore sulla cattedra di spiritualità orientale al Pontificio Istituto Orientale, la ragione è presto detta: “Dove l’intelletto è unito al cuore la parola non solo comunica la scienza ma genera la vita”, dunque “professore si diventa per mezzo di una paternità”.
Infatti da Spidlík ci si attendeva “sempre una parola che genera la vita nello Spirito e non solo un’informazione che soddisfi una curiosità”.
In lui si cercava “un padre spirituale e non solo un professore, insomma quello che i tedeschi chiamano doktorvater.
E Spidlík lo è stato, innanzitutto per aver dato vita a una sua vera e propria scuola di pensiero”.
Una scuola sorretta da tre pilastri: il primato della vita, il primato della persona, la vita spirituale come arte.
“Non le idee e i ragionamenti – dice padre Cemus per spiegare il pensiero di Spidlík – precedono la vita, ma è la vita stessa a rivelare le sue ragioni intrinseche a chi sa contemplarla”.
Spidlík ha impresso l’accelerazione decisiva per l’affermazione della spiritualità orientale, sulla scia del suo maestro padre Iréneé Hausherr.
Così l’opera di Spidlík rappresenta un unicum nella riflessione teologica della seconda metà del ventesimo secolo, aprendo definitivamente e sviluppando il nuovo campo di ricerca della spiritualità dei popoli slavi.
Secondo padre Edward Farrugia, decano della facoltà di scienze ecclesiastiche orientali del Pontificio Istituto Orientale, “il lavoro di Spidlík apre una finestra che come il laser raggiunge le cose in profondità” e mostra come “la dialettica orientale non vada avanti dritta come un carro armato, ma come una trottola che nel suo movimento circolare comprendere associazioni, paradossi e umorismo.
Il divertire attraverso enigmi e apoftegmi fa parte essenziale del corredo orientale.
Sarebbe inconcepibile parlare di Spidlík senza ricordare i suoi anedotti umoristici, specie di follia sana e contagiosa”.
E proprio nell’ultima intervista al nostro giornale, pubblicata il 16 dicembre 2009, Spidlík aveva suggerito che un filo di umorismo non guasta mai.
Considerava lo “scherzare utile in un’esperienza cristiana autentica, non serve solo per restare svegli.
E poi non si tratta solo di battute di spirito: lo scherzo è davvero una cosa seria.
Il razionalismo e il tecnicismo assolutizzano ogni affermazione parziale.
Lo scherzo la relativizza.
Non nel senso che la verità come tale possa essere relativa, ma dobbiamo sempre tener conto della nostra conoscenza parziale dei misteri.
La parola eresia vuol dire prendere una parte per l’intero.
Lo scherzo è quindi un’arma efficace contro le eresie”.
E scherzava anche sui suoi novant’anni: “Per sapere cosa vuol fare ancora la Provvidenza con me bisognerebbe fare l’intervista a Lei! Nella mia vita ho fatto cose che neppure immaginavo e solo dopo ho scoperto che le speravo inconsciamente nel cuore.
Per dirne una, mai avrei pensato di festeggiare i miei novant’anni con il Papa e vestito in porpora.
Di certo non lo immaginavo quando, all’inizio della seconda guerra mondiale, l’irruzione del nazismo in Moravia, oggi in Repubblica Ceca, ha brutalmente interrotto i miei studi di letteratura all’università di Brno sconvolgendo le prospettive della mia vita.
Già allora la Provvidenza ha avuto tanto lavoro con me”.
Aveva imparato fin da piccolo a fare sacrifici, non nascondeva di essersi “guadagnato da solo i soldi per studiare al liceo” a Boskovice dove era nato in una famiglia poverissima.
“Non ho però mai avvertito la sensazione dell’ingiustizia sociale paragonandomi con i ragazzi benestanti.
Anzi, ero orgoglioso della mia indipendenza.
Con la spensieratezza di un proletario mi sono iscritto all’università per studiare letteratura.
Ne ero affascinato.
Al secondo anno, all’improvviso, mi piombò addosso la vera prova: la guerra”.
Nel 1939 aveva vent’anni e le sue “speranze erano sottozero, gli studi universitari spezzati e una sola possibilità per il futuro: la deportazione”.
In chiesa ci andava “più per disperazione che per devozione” ma poi “ho fatto la grande scoperta che la Provvidenza ti salva e ti conduce, magari anche attraverso situazioni strane, mai pensate prima, eppure coerenti”.
Finito in un campo di concentramento nazista, “è avvenuto l’impensabile: un agente della Gestapo si è trasformato in angelo visibile liberandomi dal campo, mentre l’angelo custode invisibile mi ha condotto nella compagnia di Gesù.
Poi, dal cielo, sant’Ignazio ha stabilito per me altre sorprese: il noviziato a Benesov e poi a Velehrad, lo studio della filosofia durante lavori forzati, prima con i soldati tedeschi e poi con quelli russi e romeni”.
Sembra un paradosso: uno dei più noti pensatori che ha iniziato a studiare filosofia ai lavori forzati.
La fine della guerra ha significato lo studio della teologia a Maastricht, nei Paesi Bassi, dove è stato ordinato sacerdote nel 1949.
Da prete, era pronto a tornare “con nuove idee in patria.
Il regime totalitario comunista non me lo ha permesso”.
Oltretutto la provincia dei gesuiti era stata dispersa.
Un’altra volta sembrava tutto perduto.
“Ma ecco, di nuovo, la Provvidenza all’opera: stavolta si è servita di uno sbaglio amministrativo, un mio superiore si è dimenticato di scrivere una lettera così mi sono ritrovato esule a Roma.
Insomma la Provvidenza mi ha dato la possibilità di dedicarmi a ciò che di nascosto già desiderava il mio cuore: lo studio della spiritualità orientale”.
Nel 1951, da esule, ha iniziato a lavorare alla Radio Vaticana e, fino alla morte, il venerdì pomeriggio è sempre andato in onda per commentare le letture della Messa domenicale.
“Ho sempre fatto trasmissioni attingendo alla mia preparazione spirituale centrata sullo studio degli antichi Padri della Chiesa.
La conclusione è che i Padri hanno ancora da dire “qualcosa” per l’oggi e non sono poi così “antichi””.
Con il suo programma ha cercato di aiutare i preti nella predicazione soprattutto nell’est europeo “e sotto il comunismo mi dicono fosse un servizio particolarmente utile: non c’erano né libri né ritiri spirituali”.
Sosteneva che l’essenza del suo pensiero la si poteva “indovinare simbolicamente proprio nella cappella Redemptoris Mater, dove i mosaici cercano di respirare con due polmoni.
Non soltanto gli uomini, ma anche le nazioni hanno la loro propria vocazione, per offrire il loro contributo alla Chiesa universale.
Ho cercato di indovinare il messaggio cristiano dell’Oriente europeo e di prestargli voce in Occidente”.
Teneva molto anche ai suoi trentotto anni come padre spirituale del Pontificio Collegio Nepomuceno, grazie ai quali aveva “sperimentato la distinzione fra un moralista, che conosce le regole della vita spirituale, e un padre spirituale, che deve avere la conoscenza delle persone.
Il secondo senza il primo si espone al pericolo di un vago carismatismo.
Il primo senza il secondo rimane paralizzato”.
Come padre spirituale del Collegio aveva avuto anche l’opportunità di incontrare grandi figure.
Di Papa Pacelli, per esempio, ricordava “come fosse informato fin nei dettagli della triste realtà della Cecoslovacchia.
Saputo che ero il padre spirituale del Collegio, mi ha dato ottimi consigli pratici su come risolvere certi dubbi sulla vocazione dei candidati al sacerdozio”.
Nel Collegio Nepomuceno, Spidlík ha vissuto accanto al cardinale Beran, espulso da Praga nel 1965.
“Un’esperienza spirituale forte durata quattro anni”.
Era accanto anche a lui nel momento della morte, il 17 maggio 1969, quando Paolo VI accorse per l’ultimo saluto.
Nel 1991 aveva scelto di vivere al centro Aletti, vicino a Santa Maria Maggiore, con padre Rupnik e un gruppo di artisti del mosaico.
Negli anni, il centro è divenuto molto più di un luogo di studio della tradizione dell’Oriente cristiano in relazione ai problemi del mondo contemporaneo.
Un rapporto particolare lo ha avuto con Giovanni Paolo II, il primo Papa slavo.
“Mi ha persino creato cardinale – diceva – e credo che l’abbia fatto per dare più visibilità alla spiritualità orientale.
Da parte mia, già allora mi sentivo troppo vecchio per dare una mano al Papa nel guidare la Chiesa e ho chiesto anche la dispensa dall’ordinazione episcopale.
Ho conosciuto Giovanni Paolo II più da vicino nel 1995, durante gli esercizi spirituali quaresimali che mi ha chiesto di predicare in Vaticano”.
Tutta la vita e l’opera di Spidlík si è espressa naturalmente in una grande apertura di dialogo ecumenico.
Sono note le sue relazioni di amicizia nel mondo ortodosso, tanto che tra i suoi allievi c’è anche il Patriarca Ecumenico, Bartolomeo i Lunghissimo, infine, l’elenco dei riconoscimenti accademici internazionali.
Nel 1989 è stato scelto come “uomo dell’anno 1990″ dall'”American Bibliographical Institute of Raleigh” (North Carolina) e un anno dopo lo stesso istituto lo ha indicato come “la personalità più ammirata del decennio”.
Tante le cittadinanze onorarie e i dottorati honoris causa in Russia, in Romania, nella sua Repubblica Ceca e negli Stati Uniti d’America: alla “Sacred Heart University” è stato istituito il “Cardinal Spidlík center for ecumenical understanding”, un centro teologico, spirituale e culturale di dialogo, ricerca, educazione, pubblicazione e collaborazione artistica tra i cristiani “per promuovere una più grande comprensione e cooperazione ecumenica”.
(©L’Osservatore Romano – 18 aprile 2010)
Una difesa laica del Papa
All’origine dell’aggressione cui sono sottoposti la Chiesa, e lo stesso papa Benedetto XVI, sul tema della pedofilia in ambito ecclesiale, ci sono un pregiudizio razionalista e una violenza giacobina: si pensi alla «peste pedofila » di cui parla Paolo Flores d’Arcais, che prefigura la dannazione per volontà popolare dell’«untore » di manzoniana memoria.
Sono toni cui dovrebbe essere estranea la stessa cultura laica.
Che non è negazione della religione, ma cavourriana separazione tra le leggi e i comandamenti, tra lo Stato e le istituzioni ecclesiastiche.
Il pregiudizio razionalista tende invece a cancellare la distinzione kantiana, e liberale, fra peccato e reato; pretende di assimilare, «omologare», i comportamenti della Chiesa a quelli della società civile, negandone la specificità spirituale, codificata nel diritto canonico, ben diverso da quello positivo dello Stato secolarizzato.
La Chiesa, che condanna il peccato e perdona il peccatore pentito, ha commesso in passato (anche con Papa Wojtyla) molti errori in materia di pedofilia ecclesiale.
I reati andavano denunciati con coraggio, mentre varie forme di reticenza hanno contribuito a peggiorare la situazione.
Tuttora gli atteggiamenti, spesso confusi e contraddittori, di alcuni rappresentanti del clero non aiutano a far chiarezza.
Quando risuonano paralleli impropri con le persecuzioni antisemite, o si stabiliscono arbitrarie correlazioni tra omosessualità e pedofilia, si ha l’impressione che papa Ratzinger vada tutelato anche dalle sortite incaute di alcuni alti prelati.
Resta il fatto che non si può chiedere alla Chiesa di rinunciare a uno spazio autonomo di analisi e di giudizio, che è tutt’altra cosa dalla pretesa di sottrarre i propri membri all’imperio della legge.
Lo Stato e la Chiesa hanno missioni diverse e la pretesa di cancellare questa feconda differenza danneggerebbe entrambi.
Si sta manifestando, inoltre, un vistoso paradosso.
A essere oggetto degli attacchi più aspri è proprio l’attuale Pontefice, che ha il merito indubbio di aver fatto opera di trasparenza all’interno della Chiesa, su un fenomeno troppo a lungo sottaciuto, e di aver cercato di definire, e distinguere, gli ambiti dei tribunali civili, riconoscendone le prerogative in tema di persecuzione del reato di pedofilia, secondo la legge civile, e quelli propri della Chiesa, rivendicandone l’autonomia nella condanna dei peccati e nella redenzione dei peccatori, secondo il diritto canonico e la propria predicazione (si chiama carità cristiana).
Nonostante questo, oggi Benedetto XVI rischia di passare come il Papa che ha coperto la pedofilia dei sacerdoti.
La distinzione fra peccato e reato è parte integrante della nostra cultura e della nostra civiltà, alla quale non possiamo rinunciare.
Essa sanziona la differenza, e la distanza, fra lo Stato democratico-liberale, fondato sui diritti e le garanzie individuali, e lo Stato teocratico: un ordinamento oppressivo che, come hanno tragicamente provato i totalitarismi anche di un recente passato, non s’identifica solo nel connubio fra trono e altare, ma, anche e soprattutto, nell’illusione razionalista e nel tentativo volontaristico di cambiare, con mezzi coercitivi, la natura dell’uomo.
Di fronte allo spettacolo inquietante cui stiamo assistendo, stupisce, infine, la grande quantità di spettatori che rimangono silenti in un’apparente indifferenza.
Come se la stessa nostra democrazia liberale non fosse debitrice del messaggio cristiano che ha posto al centro la sacralità e l’inviolabilità della persona.