Siate affamati. Siate folli

 

Discorso di Steve Jobs alla Stanford University di Palo Alto il 12 giugno 2005


Sono onorato di essere qui con voi oggi, nel giorno della vostra laurea presso una delle migliori università del mondo. Io non mi sono mai laureato. A dir la verità, questa è l’occasione in cui mi sono di più avvicinato a un conferimento di titolo accademico. Oggi voglio raccontarvi tre episodi della mia vita. Tutto qui, nulla di speciale. Solo tre storie.

La prima storia parla di “unire i puntini”. Ho abbandonato gli studi al Reed College dopo sei mesi, ma vi sono rimasto come imbucato per altri diciotto mesi, prima di lasciarlo definitivamente. Allora perché ho smesso? Tutto è cominciato prima che io nascessi. La mia madre biologica era laureanda ma ragazza-madre, decise perciò di darmi in adozione. Desiderava ardentemente che io fossi adottato da laureati, così tutto fu approntato affinché ciò avvenisse alla mia nascita da parte di un avvocato e di sua moglie. All’ultimo minuto, appena nato, questi ultimi decisero che avrebbero preferito una femminuccia. Così quelli che poi sarebbero diventati i miei “veri” genitori, che allora si trovavano in una lista d’attesa per l’adozione, furono chiamati nel bel mezzo della notte e venne chiesto loro: “Abbiamo un bimbo, un maschietto, ‘non previsto’; volete adottarlo?”. Risposero: “Certamente”. La mia madre biologica venne a sapere successivamente che mia mamma non aveva mai ottenuto la laurea e che mio padre non si era mai diplomato: per questo si rifiutò di firmare i documenti definitivi per l’adozione. Tornò sulla sua decisione solo qualche mese dopo, quando i miei genitori adottivi le promisero che un giorno sarei andato all’università. Infine, diciassette anni dopo ci andai. Ingenuamente scelsi un’università che era costosa quanto Stanford, così tutti i risparmi dei miei genitori sarebbero stati spesi per la mia istruzione accademica. Dopo sei mesi, non riuscivo a comprenderne il valore: non avevo idea di cosa avrei fatto nella mia vita e non avevo idea di come l’università mi avrebbe aiutato a scoprirlo. Inoltre, come ho detto, stavo spendendo i soldi che i miei genitori avevano risparmiato per tutta la vita, così decisi di abbandonare, avendo fiducia che tutto sarebbe andato bene lo stesso. Ok, ero piuttosto terrorizzato all’epoca, ma guardandomi indietro credo sia stata una delle migliori decisioni che abbia mai preso. Nell’istante in cui abbandonai potei smettere di assistere alle lezioni obbligatorie e cominciai a seguire quelle che mi sembravano interessanti.

Non era tutto così romantico al tempo. Non avevo una stanza nel dormitorio, perciò dormivo sul pavimento delle camere dei miei amici; portavo indietro i vuoti delle bottiglie di coca-cola per raccogliere quei cinque cent di deposito che mi avrebbero permesso di comprarmi da mangiare; ogni domenica camminavo per sette miglia attraverso la città per avere l’unico pasto decente nella settimana presso il tempio Hare Krishna. Ma mi piaceva. Gran parte delle cose che trovai sulla mia strada per caso o grazie all’intuizione in quel periodo si sono rivelate inestimabili più avanti. Lasciate che vi faccia un esempio: il Reed College a quel tempo offriva probabilmente i migliori corsi di calligrafia del paese. Nel campus ogni poster, ogni etichetta su ogni cassetto, erano scritti in splendida calligrafia. Siccome avevo abbandonato i miei studi ‘ufficiali’ e pertanto non dovevo seguire le classi da piano studi, decisi di seguire un corso di calligrafia per imparare come riprodurre quanto di bello visto là attorno. Ho imparato dei caratteri serif e sans serif, a come variare la spaziatura tra differenti combinazioni di lettere, e che cosa rende la migliore tipografia così grande. Era bellissimo, antico e così artisticamente delicato che la scienza non avrebbe potuto ‘catturarlo’, e trovavo ciò affascinante.

Nulla di tutto questo sembrava avere speranza di applicazione pratica nella mia vita, ma dieci anni dopo, quando stavamo progettando il primo computer Machintosh, mi tornò utile. Progettammo così il Mac: era il primo computer dalla bella tipografia. Se non avessi abbandonato gli studi, il Mac non avrebbe avuto multipli caratteri e font spazialmente proporzionate. E se Windows non avesse copiato il Mac, nessun pc ora le avrebbe. Se non avessi abbandonato, se non fossi incappato in quel corso di calligrafia, i computer oggi non avrebbero quella splendida tipografia che ora possiedono. Certamente non era possibile all’epoca “unire i puntini” e avere un quadro di cosa sarebbe successo, ma tutto diventò molto chiaro guardandosi alle spalle dieci anni dopo. Vi ripeto, non potete sperare di unire i puntini guardando avanti, potete farlo solo guardandovi alle spalle: dovete quindi avere fiducia che, nel futuro, i puntini che ora vi paiono senza senso possano in qualche modo unirsi nel futuro. Dovete credere in qualcosa: il vostro ombelico, il vostro karma, la vostra vita, il vostro destino, chiamatelo come volete… Questo approccio non mi ha mai lasciato a terra, e ha fatto la differenza nella mia vita.

La mia seconda storia parla di amore e di perdita. Fui molto fortunato – ho trovato cosa mi piacesse fare nella vita piuttosto in fretta. Io e Woz fondammo la Apple nel garage dei miei genitori quando avevo appena vent’anni. Abbiamo lavorato duro, e in dieci anni Apple è cresciuta […] sino ad una compagnia da due miliardi di dollari con oltre quattromila dipendenti. Avevamo appena rilasciato la nostra migliore creazione – il Macintosh – un anno prima, e avevo appena compiuto trent’anni… quando venni licenziato. Come può una persona esser licenziata da una società che ha fondato? Beh, quando Apple si sviluppò assumemmo una persona – che pensavamo di grande talento – per dirigere la compagnia con me, e per il primo anno le cose andarono bene. In seguito però le nostre visioni sul futuro cominciarono a divergere finché non ci scontrammo. Quando successe, il nostro consiglio di amministrazione si schierò con lui. Così a trent’anni ero a spasso. E in maniera plateale. Ciò che aveva focalizzato la mia intera vita adulta non c’era più, e tutto questo fu devastante.

Non avevo la benché minima idea di cosa avrei fatto, per qualche mese. Sentivo di aver tradito la precedente generazione di imprenditori, che avevo lasciato cadere il testimone che mi era stato passato. Mi incontrai con David Packard e Bob Noyce e provai a scusarmi per aver mandato all’aria tutto così malamente: era stato un vero fallimento pubblico, e arrivai addirittura a pensare di andarmene dalla Silicon Valley. Ma qualcosa cominciò a farsi strada dentro me: amavo ancora quello che avevo fatto, e ciò che era successo alla Apple non aveva cambiato questo di un nulla. Ero stato rifiutato, ma ero ancora innamorato. Così decisi di ricominciare. Non potevo accorgermene allora, ma venne fuori che essere licenziato dalla Apple era la cosa migliore che mi sarebbe potuta capitare. La pesantezza del successo fu sostituita dalla soavità di essere di nuovo un iniziatore, mi rese libero di entrare in uno dei periodi più creativi della mia vita.

Nei cinque anni successivi fondai una Società chiamata NeXT, un’altra chiamata Pixar, e mi innamorai di una splendida ragazza che sarebbe diventata mia moglie. La Pixar produsse il primo film di animazione interamente creato al computer, “Toy Story”, ed è ora lo studio di animazione di maggior successo nel mondo. In una mirabile successione di accadimenti, Apple comprò NeXT, ritornai in Apple e la tecnologia che sviluppammo alla NeXT è nel cuore dell’attuale rinascimento di Apple. E io e Laurene abbiamo una splendida famiglia insieme.

Sono abbastanza sicuro che niente di tutto questo mi sarebbe accaduto se non fossi stato licenziato dalla Apple. Fu una medicina con un saporaccio, ma presumo che “il paziente” ne avesse bisogno. Ogni tanto la vita vi colpisce sulla testa con un mattone. Non perdete la fiducia, però. Sono convinto che l’unica cosa che mi ha aiutato ad andare avanti sia stato l’amore per ciò che facevo. […] Se non avete ancora trovato ciò che fa per voi, continuate a cercare, non fermatevi, come capita per le faccende di cuore, saprete di averlo trovato non appena ce l’avrete davanti. E, come le grandi storie d’amore, diventerà sempre meglio col passare degli anni. Quindi continuate a cercare finché non lo trovate. Non accontentatevi.

La mia terza storia parla della morte. Quando avevo diciassette anni, ho letto una citazione che recitava: “Se vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo, uno di questi ci avrai azzeccato”. Mi fece una gran impressione, e da quel momento, per i successivi trentatré anni, mi sono guardato allo specchio ogni giorno e mi sono chiesto: “Se oggi fosse l’ultimo giorno della mia vita, vorrei fare quello che sto per fare oggi?”. E ogni volta che la risposta era “No” per troppi giorni consecutivi, sapevo di dover cambiare qualcosa. Ricordare che sarei morto presto è stato lo strumento più utile che abbia mai trovato per aiutarmi nel fare le scelte importanti nella vita. Perché quasi tutto – tutte le aspettative esteriori, l’orgoglio – sono cose che scivolano via di fronte alla morte, lasciando solamente ciò che è davvero importante. Ricordarvi che state per morire è il miglior modo per evitare la trappola rappresentata dalla convinzione che abbiate qualcosa da perdere. Siete già nudi. Non c’è ragione perché non seguiate il vostro cuore.

Un anno fa mi è stato diagnosticato un cancro. Effettuai una scansione alle sette e trenta del mattino, e mostrava chiaramente un tumore nel mio pancreas. Fino ad allora non sapevo nemmeno cosa fosse un pancreas. I dottori mi dissero che con ogni probabilità era un tipo di cancro incurabile, e avevo un’aspettativa di vita non superiore ai tre-sei mesi. Il mio dottore mi consigliò di tornare a casa “a sistemare i miei affari”, che è un modo per i medici di dirti di prepararti a morire. Significa che devi cercare di dire ai tuoi figli tutto quello che avresti potuto nei successivi dieci anni in pochi mesi. Significa che devi fare in modo che tutto sia a posto, così da rendere la cosa più semplice per la tua famiglia. Significa che devi pronunciare i tuoi “addio”. Ho vissuto con quella spada di Damocle per tutto il giorno. In seguito quella sera ho fatto una biopsia, dove mi infilarono una sonda nella gola, attraverso il mio stomaco fin dentro l’intestino, inserirono una sonda nel pancreas e prelevarono alcune cellule del tumore. Ero in anestesia totale, ma mia moglie, che era lì, mi disse che quando videro le cellule al microscopio, i dottori cominciarono a gridare perché venne fuori che si trattava di una forma molto rara di cancro curabile attraverso la chirurgia. Così mi sono operato e ora sto bene.

Questa è stata la volta in cui mi sono trovato più vicino alla morte, e spero lo sia per molti decenni ancora. Essendoci passato, posso dirvi ora qualcosa con maggiore certezza rispetto a quando la morte per me era solo un puro concetto intellettuale. Nessuno vuole morire. Anche le persone che desiderano andare in paradiso non voglion morire per andarci. E nonostante tutto la morte rappresenta l’unica destinazione che noi tutti condividiamo, nessuno è mai sfuggito ad essa. Questo perché è come dovrebbe essere: la morte è la migliore invenzione della vita. E’ l’agente di cambio della vita: fa piazza pulita del vecchio per aprire la strada al nuovo. Ora come ora “il nuovo” siete voi, ma un giorno non troppo lontano da oggi, gradualmente diventerete “il vecchio” e sarete messi da parte. Mi dispiace essere così drammatico, ma è pressappoco la verità. Il vostro tempo è limitato, perciò non sprecatelo vivendo la vita di qualcun’altro. Non rimanete intrappolati nei dogmi, che vi porteranno a vivere secondo il pensiero di altre persone. Non lasciate che il rumore delle opinioni altrui zittisca la vostra voce interiore. E, ancora più importante, abbiate il coraggio di seguire il vostro cuore e la vostra intuizione: loro vi guideranno in qualche modo nel conoscere cosa veramente vorrete diventare. Tutto il resto è secondario. Quando ero giovane, c’era una pubblicazione splendida che si chiamava “The whole Earth catalog”, che è stata una delle bibbie della mia generazione. Fu creata da Steward Brand, non molto distante da qui, a Menlo Park, e costui apportò ad essa il suo senso poetico della vita. Era la fine degli anni Sessanta, prima dei personal computer, ed era fatto tutto con le macchine da scrivere, le forbici e le fotocamere polaroid: era una specie di Google formato volume, trentacinque anni prima che Google venisse fuori. Era idealista, e pieno di concetti chiari e nozioni speciali. Steward e il suo team pubblicarono diversi numeri di “The whole Earth catalog”, e quando concluse il suo tempo, fecero uscire il numero finale. Era la metà degli anni Settanta e io avevo pressappoco la vostra età. Nella quarta di copertina del numero finale c’era una fotografia di una strada di campagna nel primo mattino, del tipo che potete trovare facendo autostop se siete dei tipi così avventurosi. Sotto, le seguenti parole: “Siate affamati. Siate folli”. Era il loro addio, e ho sperato sempre questo per me. Ora, nel giorno della vostra laurea, pronti nel cominciare una nuova avventura, auguro questo a voi.
Siate affamati. Siate folli.

di Steve Jobs

Io sto con il Papa

1. Cosa è diventato il discorso pubblico nel nostro tempo? A quali altezze ci conducono oggi le parole di chi viene ascoltato, perché considerato degno di esserlo?

 

Con Martin Luther King abbiamo scalato montagne che apparivano impervie, con Franklin Delano Roosevelt siamo stati capaci di sconfiggere la bestia della paura e della disperazione collettiva, con Giovanni XXIII abbiamo capito che non è la guerra, ma la pace, la dimensione in cui far esprimere conflitti e differenze. Ma ora? Ora tutto sembra al filo della terra, parole spaventate , senza forza, senza ispirazione, senza anima. Parole corte, per una società corta. Odio, populismo di quart’ordine, rimozione sistematica e deliberata di quel “senso delle cose” senza il quale ogni avventura umana, compresa la stessa esistenza individuale, sembra uno straccio abbandonato. Così il mondo della comunicazione ovunque, della rete che ci avvolge fino a stritolarci, del successo a portata di  mano, dell’Io ipertrofico e tronfio ci riempie di molto per portarci al nulla. La frammentazione sociale, la perdita della linearità del ciclo di vita conquistata nel Novecento dell’occidente – studio  , lavoro, pensione – ci rende fragili e insicuri. E così ci rinchiudiamo in identità spesso autorappresentative, come una coperta da stendere sul capo, per ripararsi dalla globalizzazione del mondo.  Insegne religiose usate come spade e carte d’identità brandite come scudi. Nuove ideologie, senza i recinti delle quali, l’uomo sembra sentirsi nudo e solo. Ma nel brodo di coltura delle ideologie  sono nati Auschwitz e i Gulag, Pol Pot e i Desaparecidos.
Il nuovo millennio, il discorso pubblico, troveranno una via d’uscita alla alternativa secca tra il tutto delle ideologie e il nulla della vita ridotta a merce, a campione senza valore? La politica ha,  per me, questo compito precipuo. Insieme con la soluzione concreta dei problemi concreti degli esseri umani. Ha il compito di fornire un senso “laico” alla domanda di ragione dell’esistenza che  mai, nella storia, è stata risolta dalla contemplazione di sé in uno specchio. Nel bel dialogo tra Aldo Bonomi e Eugenio Borgna, pubblicato da Einaudi in questi giorni, ci si interroga sulle ragioni sociali e psicologiche del dilagare della depressione come malattia contemporanea.
E se ne indicano le cause, in primo luogo lo sfarinamento del sistema delle relazioni sociali e umane. E se ne indicano però anche le soluzioni, in primo luogo la ricostruzione di quella coscienza della comunità di destino, senza la quale ogni inciampo è un precipizio. Alla comunità delle anime ferite bisogna indicare un poliforme orizzonte di senso. Bisogna passare dalla “egologia”,  Zeitgeist del tempo, alla ecologia di un corretto rapporto tra sé e gli altri, tra sé e la natura, tra sé e il tempo, in fondo tra sé e il senso della vita.
Nella presentazione del suo libro a Roma, Eugenio Scalfari ha ricordato la definizione di Kant dell’uomo come “legno storto” e ha giustamente ragionato sulla pericolosità e difficoltà del proposito  di raddrizzarlo e dei fallimenti storici di chi se lo è proposto. Accettare i miliardi di “legni storti” spinge a creare un ambiente dove essi possano riconoscersi e rispettarsi e, per questa via, creare  un contesto “laicamente” diritto. Avremo bisogno urgente di ritrovare il senso di comunità, perché alla depressione individuale sta per saldarsi anche quella dell’economia. E, se vorremo uscirne, dovremo sfidare la paura e ritrovare la speranza.
Per questo io che non credo o che, come ho detto sinceramente “credo di non credere”, ho ascoltato con enorme interesse l’affascinante discorso al Parlamento tedesco di Benedetto XVI nel quale ha lanciato un invito che non può non essere raccolto. E’ necessaria, ha detto Papa Ratzinger, una “discussione pubblica”, in particolare in Europa, sul rapporto tra politica, diritto e ragione:  “Invitare urgentemente ad essa – ha aggiunto – è un’intenzione essenziale di questo discorso”.
Non si può non raccogliere l’invito, innanzi tutto perché di una discussione pubblica sul senso della politica, sui suoi compiti e i suoi limiti, si avverte un bisogno drammatico, in un passaggio  storico come quello che stiamo vivendo, segnato da una crisi profondissima, che come è evidente a tutti non è solo economica e finanziaria, ma anche politica e culturale. Ma c’è una seconda ragione  che va evidenziata: l’invito del Papa è, per l’appunto, a una “discussione pubblica”, alla quale ciascuno partecipa, secondo un metodo critico e non dogmatico, con la sola forza dei suoi argomenti. E  gli argomenti di Ratzinger sono forti, proprio perché aperti. Gli stessi punti solidamente fermi, nella mente e nel cuore del Papa-teologo, colpiscono in modo tanto più penetrante, in quanto  emergono, quasi si fanno largo, tra interrogativi radicali, che non solo non vengono elusi, ma vengono problematizzati in modo non esplicito. Già questa è una indicazione, non solo metodologica: c’è una sola via, sembra dire Papa Benedetto, per affrontare la crisi con spirito costruttivo. Ed è la via del dialogo aperto, del confronto trasparente, a partire dalla comune passione per l’umanità e il  suo destino.

2. La riflessione proposta da Ratzinger è ormai largamente nota, soprattutto ai lettori di questo giornale. Essa ha al centro l’affermazione che la buona politica, la politica che vuole essere impegno per la giustizia e costruzione delle condizioni di fondo per la pace, è una politica subordinata al diritto, una politica che conosce il suo limite e riconosce la supremazia del diritto, secondo una  visione liberale, pluralista, poliarchica. “Togli il diritto – dice il Papa citando sant’Agostino – e allora cosa distingue lo Stato da una grossa banda di briganti?”. Una politica ridotta a volontà di  potenza, a mera risultante dei rapporti di forza, o anche solo ad arte e tecnica della conquista e della conservazione del potere, è la minaccia più grande per l’umanità: nella migliore delle ipotesi,  avremo cattiva politica, malgoverno, corruzione. Ma il Novecento, per altri versi il secolo delle lotte per la libertà e degli spettacolari progressi della scienza e della tecnica, ci ha anche  insegnato, in modo definitivo, che una politica che perde il senso del limite è capace di spalancare davanti all’umanità l’abisso del male assoluto, di generare il mostro totalitario, la scientifica e  sistematica, intenzionale e organizzata distruzione della dignità e della stessa vita umana. Nessuno lo sa meglio di noi tedeschi, ricorda Ratzinger.
E tuttavia, dire che la politica deve fondarsi sul diritto e non viceversa, significa dire che il principio di maggioranza, che in gran parte della materia da regolare giuridicamente “può essere un  criterio sufficiente”, “nelle questioni fondamentali del diritto, nelle quali è in gioco la dignità dell’uomo e dell’umanità” non può bastare. E allora? Come riconoscere ciò che è giusto? Di fronte al  male assoluto dei regimi totalitari, c’è il diritto-dovere alla resistenza. “Ma nelle decisioni di un politico democratico, la domanda su che cosa ora corrisponda alla legge della verità, che cosa sia  veramente giusto e possa diventare legge non è altrettanto evidente”.
Ratzinger vuole essere ancora più chiaro: “Ciò che in riferimento alle fondamentali questioni antropologiche sia la cosa giusta e possa diventare diritto vigente, oggi non è affatto evidente di per sé”. Anni di discussioni, spesso laceranti, sulle questioni cosiddette “eticamente sensibili”, sono lì a dimostrarlo. Come sono lì a dimostrarlo le non meno dure contrapposizioni, in tutte le sedi multilaterali, a cominciare dalle Nazioni Unite, tra il principio di sovranità degli stati e i diritti inviolabili della persona.
La risposta all’interrogativo radicale “come si riconosce ciò che è giusto?” non può venire, secondo Ratzinger, né dal “diritto rivelato”, dalla pretesa di imporre una legge sulla base di un  riferimento alla religione, uno dei pericoli più grandi che minacciano l’umanità contemporanea, né dal “positivismo giuridico”, che relega nella sfera della irrazionalità qualunque dimensione  della razionalità umana non riconducibile a ciò che è verificabile o falsificabile: un riduzionismo scientista, che è stato contestato, dice Ratzinger in uno dei passaggi più sorprendenti del  discorso, dal movimento ambientalista. Quel movimento, ha detto con coraggio, ci ha aiutato a capire che “nei nostri rapporti con la natura c’è qualcosa che non va; che la materia non è soltanto un  materiale per il nostro fare, ma che la terra stessa porta in sé la propria dignità e noi dobbiamo seguire le sue indicazioni”.
La via proposta dal Papa è piuttosto quella di una riscoperta dell’idea di “diritto naturale”, per la quale sono la natura e la ragione le vere fonti del diritto: una linea di pensiero che da Atene e  Roma, attraverso l’incontro col pensiero giudaico e cristiano e poi il filtro dell’Illuminismo, giunge fino alla Dichiarazione universale dei diritti umani e alle grandi costituzioni democratiche  del Dopoguerra.
Non si tratta, come è chiaro, di una formula magica, che garantisce l’evidenza delle soluzioni e l’infallibilità delle decisioni politiche e legislative, ma piuttosto di un orizzonte nel quale collocare il dialogo tra visioni diverse, sul piano politico, filosofico, religioso, per consentire loro di collaborare per la giustizia nella pace.
Una collaborazione, beninteso, che non elimina il conflitto, la dialettica, la competizione, ma le colloca su un terreno di comunicazione, di condivisione di un patrimonio di principi e di valori che possono tenere insieme la società: un’esigenza tanto più forte in società aperte, libere, secolarizzate, non gerarchiche, come quelle moderne.

3. La riflessione e la proposta di Papa Ratzinger, entrambe aperte e problematiche, pur attorno a un nucleo di convinzioni forti e radicate, a me paiono di straordinario interesse e suggestione sul  piano intellettuale e di potenziale fecondità sul piano politico. Tanto più in un paese come il nostro, profondamente segnato dal dialogo, ma anche dalla contrapposizione, tra laici e cattolici, tra credenti e non credenti. Una discussione pubblica, orientata alla riscoperta e alla attualizzazione di un nucleo di principi e valori fondamentali come quelli che sostengono la nostra Carta costituzionale, non a caso anch’essa figlia di uno dei più alti momenti di dialogo che la nostra storia nazionale abbia conosciuto, aiuterebbe a rafforzare l’unità dialettica del paese, tanto più  necessaria in una fase delicata e per molti versi drammatica, come quella che stiamo vivendo.
La traccia proposta da Papa Benedetto a Berlino può risultare preziosa per dar vita, nel nostro paese, a una nuova stagione di dialogo tra credenti e non credenti e a scongiurare invece dannose e fuorvianti contrapposizioni. Preziosa è innanzi tutto la “pars destruens” del ragionamento ratzingeriano, quel doppio no, da una parte all’integralismo fondamentalista, alla pretesa di dedurre da  una fede religiosa criteri normativi validi per tutta la società; e dall’altro alla concezione speculare e in definitiva subalterna allo stesso integralismo religioso, secondo la quale la libertà vive solo nella negazione di qualunque principio e valore che non sia l’arbitrio individuale. Si tratta, come è evidente, di due posizioni estreme, tanto presenti nell’autorappresentazione pubblica,  quanto poco rappresentative sia dell’universo dei credenti, cattolici e non solo, irriducibili allo stereotipo del fanatismo integralista e invece da tempo allenati e appassionati al dialogo, al  confronto, alla contaminazione; sia di quello dei non credenti, che a ragione rivendicano la loro capacità di pensare e vivere sulla base di principi e valori che pur non avendo, dal loro punto di vista, un fondamento trascendente, pur non ponendosi in una prospettiva metastorica, non per questo sono meno metapolitici, capaci cioè di dare fondamento non effimero ad una vita etica e ad una  olitica fondata sul diritto.
Penso che sia vitale, per il futuro del nostro paese, incoraggiare e favorire una comune capacità, da parte di credenti e non credenti, di coltivazione dei valori comuni, sulla base di una comune  fiducia nella ragione. La prima condizione perché ciò accada è che i credenti imparino sempre meglio a pensare il diritto, fondamento della politica, confidando nella ragione, che del resto, nella  loro fede, è essa stessa dono di Dio, logos umano che partecipa del logos divino. La sistematica applicazione di questa regola eviterebbe il cortocircuito integralista, che rende il dialogo impossibile. La seconda, speculare condizione, è che i non credenti, a loro volta, imparino a rispettare fino in fondo i convincimenti religiosi e sempre meglio a pensare il diritto, fondamento della politica,  come una condizione di possibilità della libertà degli individui. Attraverso questa regola, la libertà come principio di autodeterminazione si apre alla responsabilità ed evita di ridursi ad egoismo individualistico.

4. Una considerazione finale che ovviamente si allontana dalle riflessioni grandi del Papa per planare su questo passaggio, l’ennesima transizione, della storia italiana. Promuovere una nuova stagione di dialogo tra credenti e non credenti è indispensabile anche per scongiurare il rischio che, dopo la fine ormai conclamata del berlusconismo, il bipolarismo italiano si ristrutturi lungo  una linea di frattura etico-religiosa, anziché politico-programmatica.
Non ci si può dividere su ciò su cui ci si dovrebbe unire. Nel celebre dialogo con Habermas, quasi otto anni fa, l’allora cardinale Ratzinger definiva l’incontro dialogico tra credenti e non credenti come “ciò che tiene unito il mondo”, che corre invece il rischio mortale di dividersi lungo una faglia che finirebbe per opporre una religiosità ridotta a fanatismo fondamentalista, a un razionalismo non meno dogmatico e intollerante. Per questo penso che il nuovo protagonismo dei credenti cattolici, delle loro associazioni, movimenti, opere, al servizio di un rilancio e di una ricostruzione di un paese che da decenni non era così fiaccato e umiliato, sarà tanto più fecondo, quanto più saprà irrorare tutto lo schieramento politico. Entrambi i poli di un nuovo bipolarismo,  finalmente liberato dall’ipoteca populista e plebiscitaria del berlusconismo, finalmente articolato su schieramenti costruiti attorno a programmi per il governo e non sulla demonizzazione  dell’avversario, capaci entrambi di reciproca legittimazione e di positiva collaborazione, nella distinzione dei ruoli tra maggioranza e opposizione, dovranno vedere presenti e protagonisti laici e  attolici, credenti e non credenti.
Naturalmente, rendere questo possibile è compito innanzi tutto delle forze politiche. E sul versante del centrosinistra è compito innanzi tutto del Partito democratico, che mai come oggi può comprendere quanto la sua originaria vocazione a unire le diverse culture riformiste, guardando ben oltre i tradizionali confini della sinistra storica e dando vita ad una identità nuova, unitaria  e plurale, l’identità democratica, sia condizione vitale per il suo stesso ruolo nel paese.

 

in “il Foglio” del 1 ottobre 2011

Wangari, la signora della foresta.


Una donna forte, coraggiosa, amante della natura che ha sempre voluto difendere a qualunque costo fine al termine dei suoi giorni. Wangari Maathai, premio Nobel per la pace, è morta ieri a 71 anni .

Il suo nome  dovrebbe apparire sulle T-shirt di milioni di donne del pianeta, perché  è “la donna che piantava gli alberi” e che ha dato lavoro, dignità ed poter a una grande moltitudine di donne nel Kenya e in altre parti del mondo. E’ stata la dimostrazione vivente di quanto possa l’attivismo sociale e il potere dell’immaginazione. Per lei e per quanti ancora credono in un mondo possibile , a misura umana. Un ricordo affettuosissimo di tutti noi che crediamo nella solidarietà, nella giustizia, nella fraternità Ciao, Wangari Maathai, rimarrai nei nostri cuori e sarai la nostra guida nelle lotte per mantenere il nostro pianeta ancora verde.

 

Chi era Wangari Maathai, Nobel per la pace nel 2004

La ‘signora degli alberi’ era nata a Nyeri, in Kenya, nel 1940. Laureata in scienze biologiche ottenne la cattedra di veterinaria all’università di Nairobi. Anche in questo caso prima donna keniota a raggiungere un incarico così prestigioso. In quello stesso cominciò a lavorare al Consiglio nazionale delle donne del Kenya e dal 1981 al 1987 ne divenne la presidentessa.
L’idea di piantare gli alberi divenne reale in quegli anni e così  nacque il Green Belt Movement, un’organizzazione per la salvaguardia dell’ambiente e il miglioramento della qualità della vita delle donne.
La crescita del Green Belt Movement fu rapidissima: alla fine degli anni Ottanta vi furono coinvolte tremila donne. Dal 1986 le iniziative del movimento si allargarono a Tanzania, Uganda, Malawi, Lesotho, Etiopia e Zimbawe.
Negli ultimi 20 anni molti degli obiettivi del Green Belt e di Wangari sono stati raggiunti. In Africa è aumentata la consapevolezza della problematica ambientale e sono stati creati migliaia di posti di lavoro. Alla fine del 1993 le donne del movimento avevano piantato più di 20 milioni di alberi e molte erano diventate “guardaboschi senza diploma”.
Il 10 febbraio 2006 ha partecipato alla Cerimonia di apertura dei XX Giochi olimpici invernali di Torino 2006 portando, per la prima volta nella storia, insieme ad altre 7 celebri donne, la bandiera olimpica. Ha anche partecipato al congresso internazionale Foederatio Pueri Cantores come rappresentante del Kenya. Negli anni la Maathai ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali, inclusi il premio ‘Global 500’ del programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, il ‘Goldman Enviromental Award’, il premio ‘Africa per i leader’ e il premio per ‘Una società migliore’.( Cfr. Wikipedia, l’enciclopedia libera.)
La ‘signora degli alberi’ si è spenta a 71 anni. Aveva fondato in Kenya il Green Belt Movement (cintura verde), un movimento di attivisti per i diritti civili e delle donne, che lotta per combattere la deforestazione e per l’ambiente. Gli obiettivi principali sono la salvaguardia della biodiversità e la creazione posti di lavoro con un attenzione particolare alla leadership della figura femminile nelle aree rurali. Negli ultimi anni il lavoro di Wangari si è focalizzato sulla situazione dei diritti umani in Kenya. Per il suo impegno democratico, è stata diffamata, perseguita, arrestata e picchiata. Leader del movimento ecofemminista, da anni era deputata del parlamento kenyota.

Wangari Maathai è stata la prima donna africana a ricevere il Nobel per la pace per la sua lotta contro la deforestazione e per “il suo contributo alle cause dello sviluppo sostenibile, della democrazia e della pace

 


Che cos’è
The Green Belt Movement

La Green Belt Movement è un’associazione creata da Wangari Maathai nel 1977 formata da donne provenienti da aree rurali. Queste donne vennero incoraggiate dalla stessa biologa a piantare alberi di origine indigene, alberi da frutto e piccoli arbusti. In trent’anni crebbero ben 20 milioni di alberi.

“Il cambiamento demografico”

 

Presentato a Roma il secondo rapporto-proposta curato dal Comitato per il progetto culturale della CEI.

 

Alla presentazione sono intervenuti S.Em. il card. Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova e presidente della Conferenza Episcopale Italiana (in allegato il testo del suo intervento); S.Em. il card. Camillo Ruini, presidente del Comitato per il progetto culturale della CEI; il prof. Giancarlo Blangiardo, ordinario di demografia presso l’Università di Milano-Bicocca; il prof. Antonio Golini, ordinario di demografia presso l’Università “La Sapienza” di Roma; il dott. Giuseppe Laterza, presidente della Casa editrice Laterza; il prof. Francesco D’Agostino, ordinario di filosofia del diritto presso l’Università Tor Vergata di Roma.

 

 

Il volume, come ha spiegato il card. Ruini, si articola in tre parti.
La prima intende fornire una lettura oggettiva del cambiamento, attraverso l’analisi dei fenomeni demografici e delle trasformazioni strutturali della popolazione e delle famiglie.
La seconda parte si spinge alla riflessione sulle cause e sulle relative conseguenze di ordine economico e socio-culturale.
Nella terza parte, infine, vengono avanzate alcune proposte per affrontare la questione del governo del cambiamento demografico.






file attached L’intervento del card. Bagnasco

 

 

Altri Articoli


“Con il «Rapporto-proposta» ‘Il cambiamento demografico’ la Cei avanza analisi e proposte avvalendosi del contributo di esperti. Chiede di cambiare passo. Non è accettabile «aumentare la ricchezza di alcuni, comunque di pochi, quando si prosciugherà il destino di un popolo». Questa volta la Chiesa non si ferma alla difesa dei valori «non negoziabili». Con l’emergenza denatalità pone all’agenda del paese il tema del suo futuro”
“Fu Camillo Ruini a prendere contatto con Giuseppe Laterza. Con l’intento di dare veste laica alle ricerche sociali promosse dai vescovi. Il volume sul declino demografico dell’Italia è il secondo… Veste laica ma senza il contraddittorio che è, invece, costume della Casa editrice. E qualcuno, nella bacheca, ha appeso un brano di don Milani: «Io al mio popolo gli ho tolto la pace… ma non si può negare che tutto questo ha elevato il livello degli argomenti e di passione del mio popolo»”


La politica riscopra i valori cristiani

Non è mai stato facile essere un cattolico impegnato in politica se si prendono sul serio i tre termini: «cattolico», «impegnato» e «politica». Ma nella ormai lunga stagione della cosiddetta Seconda Repubblica tutto è sembrato complicarsi ancor di più: non perché è venuto meno il partito dei cattolici, ma perché da quasi due decenni sono stati dimenticati o contraddetti alcuni dati fondamentali che avevano guidato i laici cattolici nel loro servizio alla polis, almeno a partire dalla feconda stagione costituzionale repubblicana. Penso all’autonomia delle scelte politiche, da assumersi rispondendo alla propria coscienza, formatasi alla scuola della dottrina sociale cattolica e alle indicazioni provenienti dai documenti conciliari; o alla perdita di eloquenza dei cristiani adulti, ignorati quando non zittiti o irrisi da chi non perdeva occasione per esprimersi in loro vece; o ancora alla messa in discussione del concetto stesso di attività politica: la mediazione, la negoziazione, la convergenza verso il bene comune che sovente deve accontentarsi di denunciare il male e porvi un limite, scegliendo il bene possibile sempre in obbedienza ai principi della democrazia e della pluralità della società che può esprimersi solo con il criterio della maggioranza.
Ora che le chiare parole della presidenza della Conferenza episcopale italiana – ancora una volta accolte da alcuni come tardive, considerate da altri come interferenze indebite, strumentalizzate  a proprio beneficio da altri ancora – hanno aperto scenari più movimentati, il pensiero di molti commentatori è parso appiattirsi su una sola domanda: si va o no verso un nuovo partito cattolico? Credo che a insistere solo su questo interrogativo si faccia un torto sia ai vescovi, che hanno volutamente mantenuto il discorso in termini prepolitici, sia ad alcuni, pochi invero, laici cattolici che in tutti questi anni non hanno smesso di ricercare una sintesi concreta e affidabile tra la loro fede cristiana e le scelte politiche ed economiche da proporre al Paese intero per una migliore convivenza civile. Questo non nega un’afonia di molti cattolici, incapaci di esprimersi e di mostrarsi come ispirati dal vangelo, non nega la grave incoerenza tra vita politica ed etica cristiana  mostrata da altri cattolici, e soprattutto non nega che molti di essi avrebbero potuto già da tempo uscire dal silenzio con eloquente parresia. Che tristezza sentir confessare solo in questi giorni: «Tre parole in più forse noi cattolici avremmo potuto dirle!».
Il problema è ben più ampio di una scelta di schieramento o di alleanze strategiche: si tratta di una rinnovata assunzione di responsabilità verso la collettività, che tenga conto delle mutate condizioni sociali, economiche, demografiche e storiche in Italia e in occidente, ben lontane dall’essersi stabilizzate. Di fronte alle nuove sfide che la politica in senso alto – cioè la gestione della  polis nel presente con lo sguardo proteso alle future generazioni e la mente memore delle lezioni del passato – pone non solo al nostro Paese ma al villaggio globale di cui ormai siamo parte  consapevole, pare necessario più che mai uno spazio organico di confronto tra cristiani – magari anche non solo cattolici… – in cui cercare di discernere come coniugare le istanze evangeliche con il vissuto quotidiano di una società che ormai è ben lungi dall’essere cristiana nella sua totalità. Un luogo in cui quanti hanno a cuore il bene comune e ritengono di avere delle capacità per servirlo, possano formarsi in vista dell’indispensabile dialogo con chi non condivide le stesse convinzione di fede e dell’altrettanto ineludibile azione comune nella società e per il suo benessere morale e materiale.
Quando il cardinal Bagnasco auspica «un soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica che – coniugando strettamente l’etica sociale con l’etica della vita – sia promettente grembo di futuro, senza nostalgie né ingenue illusioni», dovrebbe essere abbastanza chiaro dalle sue stesse parole che non sta propugnando un partito tanto meno progettando un governo ma, appunto, un interlocutore con la politica: una voce cristiana che, come tale, possa anche manifestarsi articolata e modulata, farsi voce dei senza voce, porre parole e gesti profetici, anche a costo di risultare  sgradita a molti. Da anni segnalo l’esigenza sempre più diffusa tra molti laici cattolici di un «forum», di uno strumento organico dei credenti in cui fare insieme opera di discernimento di  problemi, situazioni critiche e urgenze presenti nella polis, per verificarle alla luce del vangelo e per smascherare al contempo gli «idoli» che sovente seducono anche i cristiani.
Una riflessione che resti tuttavia nell’ambito pre-politico, pre-economico, pre-giuridico: tradurre poi gli aneliti evangelici – realtà ben più esigente dei «valori», a volte così mutevoli nelle loro priorità – in concrete opzioni attraverso leggi e norme spetterà a quanti si impegnano all’interno delle diverse forze politiche, in modo conforme alla propria coscienza, alla storia personale e alla lettura delle vicende che hanno contribuito a rendere il nostro Paese quello che oggi è.
Forse in questo dovremmo essere anche più attenti alle esperienze di altri paesi, europei in particolare, dove la presenza e l’influenza dei cristiani in politica è meno preoccupata di etichette o di certificati di garanzia e più sollecita nell’esprimere i propri convincimenti con un linguaggio e un’azione capaci di essere compresi e condivisi anche al di fuori delle mura confessionali. Non si tratta di ricreare le scuole-quadri, ma di fornire opportunità di riflessione e di formazione di un’opinione il più possibile aderente al messaggio evangelico e al suo farsi carico di ogni essere umano, a partire dal più debole, povero e indifeso.
Sì, per tornare ai tre termini da cui abbiamo preso spunto, il rapporto tra un cattolico e la politica – basato sull’imprescindibile riconoscimento della laicità dello stato – comporta l’impegno, l’assunzione di responsabilità, la scelta consapevole di non ricercare successi o vantaggi personali, di non perseguire privilegi di sorta, nemmeno per conto terzi, ma piuttosto di percorrere giorno dopo giorno, magari mutando il passo e scegliendo nuovi sentieri, il faticoso eppur appassionante «camminare insieme» con tutti gli uomini e le donne di buona volontà, per il bene anche di chi volontà buona ne ha poca o nulla.

 

in “La Stampa” del 2 ottobre 2011

Cristiani del mondo arabo, una minoranza preoccupata

Iraq, Siria. Dall’invasione americana dell’Iraq nel 2003, il paese si è letteralmente svuotato dei suoi cristiani, diventati bersagli di gruppi islamisti e totalmente marginalizzati dai nuovi organismi al potere. Con la morte nel cuore, sapendo di non tornare più, hanno lasciato il loro paese con la speranza di trovare rifugio in Occidente, negli Stati Uniti, in Canada o in Europa, almeno i più fortunati. Ma molti aspettano ancora in Siria, ad Aleppo o nelle periferie di Damasco, dove spesso sono aiutati dalle Chiese locali.
I cristiani siriani sono stati i primi testimoni di questo esilio. Temono di essere a loro volta vittime di una islamizzazione del paese. “I cristiani hanno paura, riconosce l’intellettuale di Damasco Faruk Mardam-Bey in esilio a Parigi, perché assimilano il discorso del regime secondo il quale la contestazione è unicamente islamista.” Il che è falso, molti cristiani hanno partecipato alle manifestazioni fino a che il regime non ha minacciato rappresaglie contro le loro famiglie.
È vero che sono stati a lungo “protetti” dal regime di Hafez Al Assad e di suo figlio Bachar, ma così i cristiani ne sono anche ostaggi. “La sensazione di fragilità dei cristiani, prosegue Faruk Mardam- Bey, viene dal fatto che all’indipendenza della Siria, nell’aprile 1946, erano il 15%, mentre oggi sono solo il 6%.” Nei sistemi politici autoritari, i loro diritti e la loro esistenza si basano sul buon volere del dittatore.
In Iraq come in Siria il regime in difficoltà non esita a far pagare questa “fedeltà” alle minoranze che “protegge”. Lo statuto dei cristiani nel mondo arabo oggi non differisce da quello di dhimmi, che veniva loro riservato nell’impero ottomano dove un trattato di resa (dhimma) determinava i diritti e i doveri dei non-musulmani. La situazione è diversa in Libano, dove la Costituzione garantisce ai cristiani una rappresentanza nelle istituzioni politiche, indipendentemente dalla loro importanza numerica.
“Il regime siriano oggi tenta di provocare una guerra civile tra comunità. È un vero miracolo che questo tentativo non sia ancora riuscito”, spiega Samar Yazbek, scrittrice siriana in esilio a  Parigi da luglio. Lei appartiene alla minoranza alawita. “La ribellione fa molta attenzione a non lasciarsi trascinare, a non cadere nella trappola tesa dal potere. I comitati di coordinamento,  prosegue, cercano di fare in modo che gli slogan vadano in questo senso: Tutti uniti, né cristiani, né alawiti, tutti siriani.” Afferma che le direzioni dei diversi comitati di coordinamento della  ribellione pubblicano dei comunicati per rassicurare le comunità.
Le dichiarazioni del nuovo patriarca maronita e libanese, Mons. Béchara Raï, a Parigi, hanno scioccato molti siriani. “Vorrei che si desse maggiore possibilità a Bachar Al-Assad”, aveva confidato in un’intervista a La Croix il 9 settembre 2011. Il patriarca aveva incitato a guardarsi “dal leggere la realtà orientale con una visione occidentale. Assad ha dato avvio ad una serie di riforme, aggiungeva, e bisogna dare maggiore possibilità al dialogo interno per evitare la violenza e la guerra. Non si tratta per noi di sostenere il regime. Quello che temiamo, è la transizione…”
Sicuramente, l’avvenire è incerto, in Siria come ovunque, per tutti i cristiani del mondo arabo. Come lo è in Siria per coloro – sunniti, alawiti o cristiani – che lottano contro la brutalità di un  regime disposto a tutto per restare al potere, anche a commettere le peggiori atrocità. E che rifiuta tutti gli inviti al dialogo.
Michel Kilo è un cristiano oppositore di lunga data del regime siriano. Imprigionato più volte sia dal padre che dal figlio Assad, ha pubblicato un articolo il 12 agosto sul quotidiano libanese As- Safir, in cui ha invitato le Chiese della Siria a prendere coscienza di quella che lui considera una “deriva”: i cristiani che hanno l’impressione di non avere altra scelta per sottrarsi  all’islamizzazione del mondo arabo che ottenere la protezione dei dittatori, non hanno anch’essi la loro parola da dire nella democratizzazione del mondo arabo?


in “La Croix” del 3 ottobre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)

 

 

ALTRI CONTRIBUTI

 

“”Quasi 100 000 copti hanno lasciato l’Egitto dal mese di marzo 2011” Naguib Gébraïl, presidente dell’Unione egiziana dei diritti umani… attribuisce queste partenze obbligate al timore per le azioni e le minacce dei salafiti…La disoccupazione, principale causa di emigrazione, colpisce anche i musulmani… In molte chiese, i predicatori esortano i loro fedeli a non lasciare il paese: “Dobbiamo ricostruire l’Egitto con i musulmani moderati. È un dovere nazionale.”
“Del Zanna ci conduce così nel cuore dei problemi attuali: se speriamo in un Medio Oriente pacifico, pluralista e democratico, dobbiamo evitare soluzioni traumatiche e conflitti senza fine, favorendo la convivenza tra le diverse componenti della società civile mediorientale. “
“L’ Egitto non è un Paese per cristiani. O almeno rischia di non esserlo più visto il potere sempre più forte delle correnti salafite salite alla ribalta dopo l’uscita di scena di Mubarak, in febbraio. Secondo l’Unione egiziana delle organizzazioni per i diritti umani, l’aumento delle tensioni religiose ha portato oltre 100 mila cristiani a lasciare il Paese. Una fuga-esodo che potrebbe portare a modificare gli equilibri demografici interni e la stabilità economica.”

 

 

 

L’Ansas mette in linea risorse didattiche per i docenti

E’ in linea un nuovo sito web, denominato “Risorse per docenti dai progetti nazionali”, costituito da una raccolta di percorsi e materiali disciplinari progettati per supportare concretamente i docenti nella pratica di una didattica innovativa. Lo rende noto l’Ansas, Agenzia nazionale per lo sviluppo dell’autonomia scolastica, presentando questo innovativo strumento per l’aggiornamento in servizio degli insegnanti.

Lo spazio on line ripropone, al di fuori dagli ambienti ad accesso riservato per i quali era stata creata, l’offerta formativa complessiva dei Piani nazionali di formazione per le aree scientifico-matematica e linguistica (Poseidon, Italiano, Lingue, Educazione Scientifica, m@t.abel).

Il nuovo sito, poi, recupera e mette a disposizione anche le proposte didattiche sviluppate per il “Piano nazionale Qualità e Merito – Pqm”, il quadro di interventi a sostegno della qualità dell’insegnamento che, prendendo le mosse dalle carenze dei risultati di recenti indagini internazionali, punta a diffondere un sistema di misurazione e valutazione degli apprendimenti di base (Italiano e Matematica).

Il sito offre anche un’ulteriore risorsa per lo sviluppo professionale dei docenti, con il collegamento diretto alle presentazioni e ai materiali sviluppati dall’Invalsi nell’ambito del “Piano di informazione e formazione sull’indagine OCSE-PISA e altre ricerche nazionali e internazionali”.

La piattaforma appena messa online si rivolge “principalmente ai professori di italiano, lingue straniere (anche classiche), matematica, fisica, chimica e scienze, che vengono sfidati a intraprendere un itinerario di evoluzione formativa e di riflessione sulle discipline e sul loro insegnamento“.

Ogni percorso presente sul sito è corredato da un’ampia varietà di strumenti, materiali di studio, suggerimenti, unità teoriche di approfondimento, video-lezioni, simulazioni, test e prove per la verifica degli apprendimenti.




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tuttoscuola.com

Il mondo cattolico e la politica

 


 

De Rita: “È ora, un cattolico torni a guidare il Paese”
intervista a Giuseppe De Rita, a cura di Fabio Martini
in “La Stampa” del 30 settembre 2011

Ma davvero la Chiesa italiana sta preparando un’Opa sul futuro centrodestra? Giuseppe De Rita sorride: «I tempi della Chiesa e del mondo cattolico sono molto lenti. In queste settimane sembra che  siano in atto delle accelerazioni, ma è in corso una ruminazione», eppure alla fine di questo pensamento il fondatore del Censis, che sarà uno dei relatori del convegno di Todi promosso dalla Cei, pone un traguardo ambizioso: è ora che un cattolico, un giovane cattolico, torni alla guida del Paese. Classe 1932, fondatore del Censis, De Rita da 40 anni è lettore profetico della realtà sociale, ma anche un cattolico liberale che ha sempre seguito con attenzione le vicende della Chiesa.


Nell’ultima prolusione il cardinale Bagnasco lascia capire che la Cei intende star dentro la stagione che si aprirà con l’uscita di scena di Berlusconi: è così?

«La Chiesa sta ruminando la fine di tre cicli. La conclusione del ciclo berlusconiano. Quella di un centrodestra che non è riuscito ad essere un vero centrodestra, dal mercato ai valori. E rumina anche la fine del ciclo della soggettività, che certo ha creato grandi cose – la piccola industria, il lavoro indipendente e professionale, tutto il “fai da te” italiano – ma ha generato anche il soggettivismo etico: ciò che deprime, asciuga comportamenti e valori».

Ruminare per arrivare dove?
«Non se ne uscirà, dicendo: fate il partito cattolico che tutto risolve. Il mondo cattolico non è un mondo unitario, perché comprende la dimensione ecclesiale e parrocchiale, una realtà di grandi associazioni categoriali e poi c’è quella decina o centinaio di persone che fanno politica in senso professionale che però rappresentano sempre meno gli altri mondi, come facevano i politici democristiani. Tutto questo meccanismo non è ancora in grado di esprimere una linea politica. Ma in due anni sono stati fatti molti passi avanti. Tre anni fa non sarebbe stato possibile neppure  fare Todi: per farlo bisognava chiedere il permesso a Bertone. Invece lo si farà e con una grande partecipazione».


E’ finita la stagione nella quale la Chiesa faceva lobby per questa o quella legge?

«Io non ho mai amato la Chiesa che fa lobby però quando nel 1994 saltano tutti gli equilibri, alla fine hanno detto: vediamo quali sono gli interessi. Ruini l’ha illustrata come una svolta di cultura  ed era una svolta di lobbismo, ma non è stato un errore grave, perché sarebbe rimasta soltanto una Chiesa di testimoni, di gente che non voleva sporcarsi le mani».


Si dice: esce Berlusconi e la Cei favorirà la nascita di un nuovo partito più vicino alla Chiesa…

«Non è detto che i cattolici italiani, ruminando, si trovino alla fine nel Ppe. Ma penso che l’unica possibile collocazione dei cattolici sia nel centrodestra. Non è soltanto un posizionamento tattico,
perché lì c’è da prendere l’eredità di Berlusconi, ma per effetto di un rapporto costante con la società, i cattolici sono sempre stati una parte moderata».


Nel Pd l’amalgama non è riuscita? Le pare che i cattolici, se non facevano come certi leader dei partiti contadini dell’Est, rischino di finire un po’ emarginati?

«Quelli della sinistra cattolica, da Mattei a De Mita, erano moderati che guardavano a sinistra. Ma se tu li metti in un partito che non può dichiararsi moderato, o fanno casino, o fanno prevalere le posizioni personali: da Bindi a Franceschini, da Letta a Fioroni, non riescono ad avere una posizione comune non solo per protagonismo ma perché non è possibile avere una posizione di sinistra cattolica».

Cosa spera che prenda corpo da tutto questo nuovo fermento?
«In Italia abbiamo avuto, oltre a quella cattolica, due grandi eredità fondanti: quella laicorisorgimentale, espressa da Ciampi; quella comunista che è stata portata dentro la cultura e l’identità italiana da Napolitano. Gli ultimi due Presidenti esprimono identità del passato. Ciò di cui l’Italia ha bisogno non è un Presidente cattolico od ex Dc in quanto tali, ma che faccia identità in avanti. Un cattolico di 40-45 anni. Se la Chiesa si mettesse in testa una cosa di questo genere potrebbe dire: guardate, noi non c’entriamo, quel che conta è l’identità nuova, la cultura fondante del futuro dell’Italia e chi la impersonerà. Questa è una buona carta per ricominciare a far politica».

 

 

 

 

Il mondo cattolico alle prese con il nuovo
di Marco Follini
in “Corriere della Sera” del 1° ottobre 2011

Caro direttore, come attesta anche il confronto avviato sulle colonne del Corriere della Sera i cattolici hanno avuto meriti straordinari nella storia repubblicana. Sono stati i democristiani a dare l’impronta più profonda alla nostra democrazia e ad incamminare il nostro Paese lungo un percorso di modernità. Meriti che le cronache non proprio esaltanti degli ultimi anni fanno rifulgere  perfino di più.
Tutti questi meriti bastano a far pensare che a una nuova generazione di politici cattolici sia riconosciuto, non dico un privilegio, ma qualche diritto in più in vista dell’opera di ricostruzione del
nostro Paese? Non credo proprio. Non è scritto da nessuna parte che il nostro futuro debba somigliare al nostro passato, né che i discendenti di quella storia tanto gloriosa abbiano la strada spianata davanti a sé.
Occorre semmai ricordare che l’affermazione del movimento politico dei cattolici avvenne nel dopoguerra sotto il segno di due condizioni assai particolari. La prima condizione fu che quel movimento si presentò con un’idea ben precisa di come il Paese dovesse modellarsi. Tutto il lavoro di elaborazione che quella generazione aveva svolto (il codice di Camaldoli) aveva dentro di sé un’anima, una visione. Era un progetto lungamente e profondamente pensato. La seconda condizione fu che la vittoria era tutt’altro che scontata, e direi neppure prevista. Era un’idea del Paese, appunto, e non un’agenda di governo. Una ricerca libera e sofferta, e non una passeggiata sul  tappeto rosso. E quell’idea finì per mettere radici proprio perché il suo valore era nella sua  convinzione e non nella sua utilità. O meglio, l’utilità fu resa possibile dalla profondità della convinzione.
Qui sta oggi il punto debole. La nostra generazione non ha ancora prodotto la sua idea. Ci  aggrappiamo con gratitudine (e una certa furbizia) ai ricordi che il passato ci lascia in eredità.

Coltiviamo a grandi linee una sensibilità, un’attitudine verso una società inclusiva, verso un potere mite e limitato, verso un’economia sociale di mercato, verso politiche di coesione. Ma non c’è  un progetto, non ancora.
Direi che in una parola  ci manca largamente la consapevolezza di quanto il mondo sia cambiato in questi ultimi anni, e di quanto il suo cambiamento abbia messo fuori gioco le formule di una volta. Comprese le nostre. È novità la globalizzazione, e con essa l’idea che il nostro Paese debba trovare nella divisione internazionale del lavoro una sua più specifica vocazione. È novità (di  queste settimane, se così posso dire) il fatto che nell’economia globale possano fallire gli Stati, cosa mai neppure immaginata prima. È novità il declino di una politica munifica e generosa, di quella sorta di «democrazia della spesa» che ancora oggi fa parte dell’agenda della gran parte di noi. Tutte cose che il nostro stesso dibattito evoca di rado, semmai sfiora appena. E che invece  decideranno del destino italiano, e anche del nostro.
Dopo la guerra i cattolici si sono affacciati alla politica promettendo la libertà che il fascismo aveva violato e che il comunismo minacciava, offrendo solidarietà ai ceti più deboli, prospettando  la crescita dell’economia e contando che il potere pubblico mettesse a disposizione le risorse per fare tutto questo. Oggi il potere ci garantisce molto meno. È qui la cruna dell’ago in cui dovremo  cercare di passare.

 

 

ALTRI CONTRIBUTI

 

“I fermenti di responsabilità e partecipazione che emergono dal mondo cattolico sono un’importante novità positiva per l’Italia. Noi non cadremo mai nel ridicolo… di voler arruolare la Chiesa italiana… il Pd è un partito di laici e di cattolici, che riconosce i propri valori in quelli di un umanesimo forte, che ascolta con rispetto e attenzione le preoccupazioni della Chiesa riguardo alla vita del Paese, nella peculiarità del suo magistero”

 

“Una lettera aperta di nove esponenti del Pdl al cardinale Bagnasco pubblicata sulla seconda pagina di Avvenire (come «ulteriore importante contributo al dibattito») con un titolo significativo: «Il valore a tutto tondo di un’alta riflessione morale». Gli stessi nove politici, cattolici e laici… che nel pomeriggio hanno commentato positivamente quanto affermato dal segretario generale della Cei Mariano Crociata («La Cei non fa i governi né li manda a casa»)”
“La tensione verso l’unità è una forza ineliminabile della comunità cristiana…. Ma il pluralismo delle opzioni è anch’esso un portato del Concilio, espressione dell’ottimismo della fede e terreno di testimonianza. Come sciogliere allora il nodo? Il punto è che la risposta a questa domanda devono darla innanzitutto i laici. I laici credenti per ciò che compete alle loro coscienze e responsabilità. I laici non credenti nel concorrere a definire le offerte politiche. Sarebbe clericalismo attendere dai vertici ecclesiali la scelta dello schema A o B e rivolgersi solo a loro nel tentativo di condizionarli.”

 

“Come già in altre occasioni, è stato il segretario di Stato, Bertone a offrire una sponda all’esecutivo in difficoltà… In Segreteria di Stato (più indulgente della Cei verso le bufere giudiziarie del premier) l’esecutivo di centrodestra «incassa» un’opportunità per rimanere l’interlocutore privilegiato”

 

“Le conseguenze di questo appello [di Bagnasco] sono più preoccupanti per il maggior partito del centrosinistra, all’interno del quale i cattolici manifestano da tempo il loro disagio, che non per il centrodestra, che pur essendo penalizzato dalla condanna dei «comportamenti licenziosi» di Berlusconi, ha nel post-democristiano Alfano un interlocutore qualificato per cercare di riallacciare il dialogo con le Gerarchie”
“la giustificazione storico-politica della nascita stessa del Partito democratico è stata la confluenza e l’incontro tra il riformismo cattolico e il riformismo socialista… Che cosa resta di quel mito fondativo? … [anche se] il mondo cattolico è troppo vasto, articolato, frammentato e anche laicizzato perché si possa ragionevolmente pensare di ricondurlo a unità sul terreno della politica… il «soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica» preannunciato da Andrea Riccardi… sarebbe con ogni probabilità un interlocutore esigente”

“«A proposito di rapporti tra Chiesa e politica. A 75 anni i vescovi danno le dimissioni. E i presidenti del Consiglio?». Il «tweet» di Popoli, mensile

 

 

 

«Forum delle Persone e delle Associazioni di ispirazione cattolica nel mondo del lavoro»

 

 

Seminario a Todi il 17 ottobre

 

L’unità ritrovata dei cattolici In campo 16 milioni di iscritti
di Paolo Conti
in “Corriere della Sera” del 1° ottobre 2011

«Perché siamo così tanti? Perché il mondo cattolico, se non è impegnato nel settore ecclesiale e mistico dedito alla preghiera e alla meditazione, si mette a lavorare in silenzio. L’assistenza ai meno abbienti, i patronati, la difesa dei lavoratori, le missioni anche in Italia. E le cooperative, come nel nostro caso: abbiamo creato la più grande realtà d’Italia e forse d’Europa nel settore». Luigi Marino, presidente di Confcooperative, non è un personaggio da talk-show. Però guida una nave ammiraglia da 3 milioni e 100 mila iscritti che (articolo i dello Statuto) si richiama «ai principi e  alla tradizione della dottrina sociale della Chiesa». Solo uno dei tasselli del vasto associazionismo cattolico «che nasce ed è innervato dal basso», come ha detto il segretario della Cisl Raffaele  Bonanni in una recente intervista al Corriere della Sera.
Quanto di più lontano dai riflettori della politica spettacolo. Quanto di più vicino a ciò che i partiti organizzati hanno smarrito: il legame col territorio, l’ascolto della base, la conoscenza e  l’analisi dei problemi quotidiani del lavoro, delle famiglie, dei giovani. Qualche cifra? Proprio la Cisl, con 4 milioni e mezzo di iscritti, è radicata in 1800 sedi sparse sul territorio. O la Coldiretti  presieduta da Sergio Marini, per parlare di un’altra realtà molto corposa. In quanto alle Acli, un milione di iscritti, le strutture territoriali ammontano a ben 8.100.
È lì che guarda il presidente della Conferenza episcopale italiana, cardinale Angelo Bagnasco, quando descrive «una sorta di incubazione» e quindi «la possibilità di un soggetto culturale e sociale  di interlocuzione con la politica che sia promettente grembo di futuro». Il mondo cattolico italiano si prepara al seminario convocato a Todi il 17 ottobre che si coagulerà intorno al «Forum delle  Persone e delle Associazioni di ispirazione cattolica nel mondo del lavoro» (11 milioni circa di associati complessivi) coordinato da Natale Forlani e attorno a «Retinopera», circa 5 milioni di italiani, l’associazionismo di base e del volontariato, a sua volta coordinato da Franco Pasquali.

Altre realtà importanti, ricche di storia. Basterà citare la Comunità di Sant’Egidio, fondata da Andrea Riccardi, con il suo prestigio internazionalmente riconosciuto anche nei teatri di guerra. E l’Azione Cattolica, gli scout dell’Agesci, Rinnovamento nello Spirito Santo, Movimento dei Focolari. E sono solo alcune sigle.
L’attesa per Todi è palpabile. Spiega Carlo Costalli, presidente del Movimento cristiano dei lavoratori: «Per la prima volta dal Concilio Vaticano II l’associazionismo cattolico si presenta unito  rispetto alle scadenze e alla crisi del Paese. In passato siamo stati fin troppo lacerati, e ciò è stato motivo di scandalo. Ora siamo chiamati ad essere propositivi per poter contare. C’è bisogno di discontinuità per scomporre ciò che sta finendo e poi ricomporre un’alleanza tra chi ha lavorato bene per il Paese e chi è rimasto fuori perché non si è sentito rappresentato».
La crisi del sistema politico italiano ha costituito una spinta all’intesa insieme agli inviti di Benedetto XVI e del cardinal Bagnasco a un rinnovato impegno dei cattolici nella vita sociale italiana.  Natale Forlani, coordinatore del Forum: «In un clima simile, senza i valori cattolici non si va da nessuna parte. Ha ragione Ernesto Galli della Loggia quando sostiene che la politica  intesa solo come gestione della spesa pubblica e scambio di interessi è definitivamente morta. Occorrono, dice, nuove idealità e nuovi modelli. Tutto ciò coincide proprio con i nostri valori e il  nostro lavoro: responsabilità sociale, spirito di sacrificio, senso di appartenenza alla comunità, sussidiarietà.

Soprattutto quest’ultima si rivelerà essenziale in uno Stato chiamato a ridurre sempre di più l’apparato pubblico. Occorrerà rivitalizzare la famiglia, il mondo del lavoro, l’impresa e, appunto, la sussidiarietà. Temi tipici della Dottrina sociale della Chiesa». Forlani propone un esempio: «Cosa accadrebbe se chiudessero improvvisamente tutti gli asili nido gestiti dalle organizzazioni  religiose o dalle parrocchie?». In uno slogan, Forlani? «Può l’Italia rinunciare, anche nella contemporaneità, all’umanesimo cristiano? No. Naturalmente non c’è alcuna pretesa né desiderio di  ricomporre un partito cattolico. Siamo ben consapevoli che dovremo trovare un punto d’incontro con altre esperienze e altre curiosità».
Franco Pasquali, coordinatore di «Retinopera»: «Siamo chiamati a leggere ciò che abbiamo di fronte con lenti nuove e la Dottrina sociale della Chiesa può offrire un forte contributo a riportare il Paese al ruolo che gli compete, anche in campo globale. Si è messa da parte una certa autoreferenzialità, tra noi delle associazioni, e si è elaborato un lessico comune. E con l’esplosione della crisi questo percorso trova una sua ragione, e una sua responsabilità, ben più forti. Dobbiamo testimoniare un atteggiamento completamente diverso…»

Ma tutto questo universo perché è poco «visibile»? Come mai certi numeri rimangono mediaticamente sommersi? Risponde Andrea Olivero, presidente delle Acli: «In effetti c’è una grande  vivacità delle associazioni, accompagnata da un impegno molto forte, che non sono ben rappresentati. E tutto questo rappresenta un problema, mostra uno scollamento tra la realtà che rappresentiamo e la percezione da parte della collettività». Forse Todi servirà anche a questo? «Io penso che di fronte alla gravissima crisi del mondo politico sia giusto ricorrere al nostro  serbatoio di responsabilità e di partecipazione civica. Dovremo avere una interlocuzione con tutte le forze politiche ma uno dei primi passaggi per far sì che il mondo dei cattolici sia di nuovo  presente ed efficace sarà il cambiamento delle regole di accesso. Non saremo disponibili a fare da specchietto per le allodole come è accaduto, fin troppo, in passato». Conclude Bernhard Scholz,  presidente della  Compagnia delle Opere che si rivolge già direttamente alla politica: «Le associazioni cattoliche sono una ricca fonte di esperienze capaci di contribuire a rinnovare la società  civile, valorizzare la famiglia, riconoscere il significato vero del lavoro e dell’economia e di promuovere la formazione dei giovani. Approfondire insieme questi e altri temi con la massima  apertura e competenza a Todi è decisivo per incidere maggiormente sul futuro del Paese. In base a questo impegno è necessario che la politica, al di là degli schieramenti, sappia realizzare le  urgenti riforme del sistema fiscale e del welfare per permettere una crescita sostenibile e solidale. A questo proposito spiace che il dibattito seguito al discorso del cardinal Bagnasco non abbia  recepito molte sue osservazioni, in particolare quella sulla libertà di educazione». Come si vede, i fronti sono tanti. E non tutti risolti.

 


In un decalogo i vantaggi della scuola multiculturale

Un decalogo che spiega i vantaggi della scuola multiculturale. A presentarlo è Vinicio Ongini, autore di saggi e libri per bambini, maestro per vent’anni e attualmente all’ufficio integrazione alunni stranieri del ministero dell’Istruzione. Si tratta di una specie di documento suddiviso in dieci parole, ognuna delle quali spiega perché la scuola multiculturale è più virtuosa.

1. La prima parola è ‘Qualità’: “La presenza di alunni stranieri nelle scuole – si spiega – migliora il livello di istruzione”. Per rafforzare questa tesi viene portato l’esempio di Torino: “Secondo l’indagine di Tuttoscuola sul sistema di istruzione nazionale, maggio 2011, un’indagine composta da 96 indicatori, Torino (dove la presenza di stranieri è molto alta) è la prima tra le grandi città per la qualità della scuola. E la sua posizione è migliorata, così come quella del Piemonte in generale, rispetto agli esiti dell’indagine sulla qualità della scuola di quattro anni fa“.

2. Al secondo punto ci sono ‘Le chiavi di casa’, slogan secondo il quale “le famiglie degli immigrati e i loro figli portano nelle nostre classi idee diverse di infanzia“. A tal proposito si citano le parole di alcune maestre delle scuole della Val Maira e della Valle Po, nel cuneese, riferite agli studenti stranieri: “Alcuni di questi ragazzini hanno più rispetto per la scuola. Sono i primi a lavare i banchi quando facciamo laboratorio e, se lo chiediamo, fanno pulizia senza tante storie… A volte li vediamo occuparsi dei fratelli più piccoli, o buttar via la spazzatura, in generale sono più autonomi. Alcuni hanno le chiavi di casa, come noi ai nostri tempi…”.

3. Terzo parola è ‘Matematica’, secondo cui “gli studenti asiatici delle nostre scuole eccellono in matematica e nelle materie scientifiche“.

4. Quarta parola ‘Impegno’, in cui sono riportate le parole di una professoressa di lettere delle medie, in provincia di Cremona: “Gli alunni stranieri ci tengono di più alla scuola, si impegnano di più, per loro è ancora importante la scuola… C’è il problema della lingua, soprattutto per chi è appena arrivato, ma alcuni ce la mettono propria tutta e recuperano“.

5. Quinto punto ‘Le lingue’, secondo cui gli studenti stranieri sono più predisposte a imparare le lingue. Dicono due maestre della scuola di Dronero, in Val Maira, nel cuneese: “I bambini della Costa D’Avorio, nelle nostre classi, parlano anche il francese, la loro lingua nazionale, e notano subito le somiglianze con l’occitano, la nostra lingua di minoranza. Sono più predisposti, sono abituati a muovesi tra più lingue. Quando entra la dirigente scolastica dicono: ‘Bonjour madame!’“.

6. Al sesto punto troviamo ‘Lo scambio’. “Scambiando si impara“, è lo slogan delle scuole toscane che fanno periodicamente, da dieci anni, visite e scambi di studenti, presidi, professori, con lo Zhejiang, la regione della Cina da cui viene la gran parte dei cinesi in Italia. Uno dei protagonisti di questa relazione diplomatico-didattica è un insegnante di italiano e storia dell’Istituto professionale di Prato, una scuola con molti allievi cinesi. Lui ha imparato la lingua cinese da autodidatta e ha degli amici cinesi, in fondo è anche lui un immigrato in Toscana, i genitori sono di Avellino. Racconta : “La nostra prospettiva è quella di dare e ricevere… per imparare a conoscersi ci vogliono sofferenze e scontri ma la scuola nel suo piccolo è un luogo privilegiato“.

7. ‘Internazionale’ è la parola del settimo punto e spiega che “nelle classifiche internazionali delle Università, per esempio quella del Times Higher Education, la percentuale degli studenti stranieri sul totale degli iscritti è uno degli indicatori della qualità e del prestigio dell’Istituto“.

8. ‘Il merito’ è l’ottavo punto e spiega che gli alunni stranieri, rispetto agli italiani, “ricorrono meno alle raccomandazioni, un vizio nazionale figlio di un familismo ancora persistente, ostacolo, questo sì, per la conquista di una piena cittadinanza“.

9. Il nono punto è ‘L’evidenziatore’: “gli studenti stranieri nelle nostre scuole sono un evidenziatore dei nostri modelli, delle nostre pratiche e dei nostri stili educativi. Essere visti e quindi valutati da stranieri è anche fonte di malintesi e di incomprensioni ma può essere un vantaggio. Possiamo capire di più che cosa noi stiamo facendo e ridare significato al nostro fare scuola. Possiamo guadagnare dallo sguardo degli altri“.

10. Decimo e ultimo punto è ‘L’occasione’, perché “i sindaci di due piccoli comuni hanno riaperto la scuola che stava per chiudere perché sono arrivati nuovi alunni indiani nelle campagne lombarde, lungo le sponde del fiume Oglio, e piccoli rifugiati del Kurdistan e dell’Afghanistan sull’Appennino calabrese“. Ecco perché “conviene guardare con più curiosità ed empatia quello che succede dentro questa nostra scuola. Nel suo piccolo è il laboratorio dell’Italia di domani“.


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