CHIESA, DOVE VAI?

Recensione a cura di don Cesare Bissoli


Greshake Gisbert, Chiesa dove vai? Guardare al futuro in prospettiva real-utopistica, Queriniana, Brescia 2023, pp. 301, euro 34.

CHIESA, DOVE VAI? È questo titolodi un recente libro del noto teologo tedesco cattolico, Gilbert Greshake che merita un breve approfondimento per capire l’originalità dell’opera. L’Autore ha costantemente mostrato nella sua visione e riflessione teologica una sensibilità pastorale squisita. Le sue opere, tradotte anche in italiano, hanno ricevuto unanime consenso. Tra le più note ricordiamo: il Dio unitrino (2000); La vita più forte della morte. La speranza cristiana (2009); Maria è la Chiesa (2020).

Nel presente volume Greshake riflette sulla Chiesa nell’ attuale situazione allarmante bene espressa dall’interrogativo del titolo Chiesa, dove vai? Badando al resto del titolo, è possibile cogliere anche il taglio originale della risposta espressa nel sottotitolo: Guardare al futuro in prospettiva real-utopistica.

Il volume ne tratta in quattro parti, ciascuna articolata in diversi punti.

Nell prima parte intitolata Prolegomeni, l’A. presenta la sua visuale globale sintetizzabile così: la Chiesa cattolica sta attraversando una fase di radicale indebolimento e di ricostruzione. Ai suoi vertici non sono pochi coloro che si propongono di “salvare il salvabile”: si aggrappano a quel che ancora regge, puntando gli occhi sul passato, con un misto di nostalgia e rassegnazione. Invece, è necessario chiedersi di ricominciare da capo, guidati da una “real-utopia” ecclesiale in cui la riforma sia orientata “non a preservare il passato tramandatoci, ma immaginare il futuro promesso”. In quest’ottica, l’A. sviluppa un’analisi non superficiale, ma approfondita e aperta alla speranza.

            La seconda parte espone I fattori determinanti l’odierna situazione della Chiesa. Sono proposte tre ragioni a loro volta bene articolate. La prima ragione viene espressa come La fine della cosiddetta “chiesa di popolo”, soffocata tra l’altro da una invadente “clericalizzazione”. Come si può notare, si segnala, come dato negativo, una concezione agli antipodi della “chiesa di popolo” di Papa Francesco. La seconda ragione deprimente è vista nelle Sfide della società secolare e post-secolare che spinge alla dittatura del relativismo circa la verità e i valori della vita. Dall’insieme scaturisce la terza pericolosa ragione affermata come Una concezione ristretta della fede, carente di fondazione biblica ed esposta a “processi di riduzione”. Un breve riepilogo esprime con chiarezza i motivi che fanno pensare al problematico e negativo futuro della Chiesa.

Nella terza parte sono proposte Le linee fondamentali di una forma di chiesa futura. Non sono poche né automaticamente realizzabili. Possiamo parlare di una visione di speranza motivata da una serie di riforme anche radicali (in prospettiva real-utopistica). È interessante conoscere i cinque punti della riforma che l’A. propone come i lineamenti-base della Chiesa del futuro. Eccoli in breve, secondo le parole dell’A.:

– “Essere sacramento” sarà il centro permanente della chiesa futura.

– La Chiesa del futuro sarà una piccola minoranza in rappresentanza di tutte le altre.

– La Chiesa del futuro assumerà un aspetto più “spirituale”, non come “gruppo industriale”, connotando così meglio il futuro della vita consacrata.

– La Chiesa del futuro sarà una chiesa dei laici, riconoscendo il sacerdozio comune di tutti i battezzati e la specificità del ministero sacerdotale.

– La Chiesa del futuro assumerà un’altra forma sociale, con nuove forme comunitarie e parrocchiali e con una diversa incidenza nelle nomine vescovili.

Fa da conclusione una citazione biblica presa dall’ avvenimento dell’esodo: Levate l’accampamento e dirigetevi (Dt 1,19s.). Si vuole così esprimere il “futuro della Chiesa” in una visuale per nulla facile, automatica, ma certamente positiva. Merita, infatti, notare che la parte dedicata alla Chiesa del futuro è due volte tanto la parte precedente dedicata all’odierna situazione della chiesa. Non è un caso che l’A. non usi mai la parola “crisi”, semmai fa risuonare la parola “speranza”. Appare così adombrata la figura del cammino sinodale oggi proposto, che esprime bene il desiderio non tanto nascosto dell’Autore.


Collana: Giornale di teologia 456
ISBN: 978-88-399-3456-7 
Formato: 12,3 x 19,3 cm
Pagine: 312
Titolo originale: Kirche wohin? Ein real-utopischer Blick in die Zukunft
© 2023

In breve

«Qui non mi occupo di “leggere il futuro nei fondi di caffè”, di indovinare le condizioni e prevedere la forma ventura della chiesa, di fanstasticare su come essa dovrebbe apparire. L’oggetto a cui mirano le mie riflessioni è, in fondo, il presente della chiesa».

Descrizione

La Chiesa cattolica sta attraversando una fase di radicale indebolimento e di ricostruzione. Ai suoi vertici non sono pochi coloro che si propongono di “salvare il salvabile”: si aggrappano a quel che ancora regge, puntando gli occhi sul passato, con un misto di nostalgia e rassegnazione.
Greshake chiede, invece, di ricominciare da capo, attuando un rinnovamento assolutamente più profondo, radicale, sostanziale. Il teologo tedesco rivendica con fermezza una «real-utopia» ecclesiale, in cui l’agire sia orientato non a preservare il passato tramandatoci, ma a immaginare il futuro promessoci. Egli scopre e fa emergere quelle tendenze che già oggi sono proiettate sul domani, prefigurandolo, ed elabora alcune linee guida di una Chiesa a venire che sia capace di reinventarsi. È la visione di una Chiesa che, in quanto minoranza, prende di nuovo coscienza del suo mandato e della sua forma vitale, una Chiesa dei laici, una Chiesa spirituale con una mutata forma sociale.
Proposte pertinenti, coraggiose, efficaci per affrontare la crisi odierna, senza cedere al pessimismo, ma adottando sempre uno sguardo positivo.

PRESENTAZIONE DEL SIGNORE

Lectio – Anno A

Prima lettura: Malachia 3,1-4

          Così dice il Signore Dio: «Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate; e l’angelo dell’alleanza, che voi sospirate, eccolo venire, dice il Signore degli eserciti. Chi sopporterà il giorno della sua venuta? Chi resisterà al suo apparire? Egli è come il fuoco del fonditore e come la lisciva dei lavandai. Siederà per fondere e purificare l’argento; purificherà i figli di Levi, li affinerà come oro e argento, perché possano offrire al Signore un’offerta secondo giustizia. Allora l’offerta di Giuda e di Gerusalemme sarà gradita al Signore come nei giorni antichi, come negli anni lontani».         
  • Malachia, che in ebraico significa «messaggero del Signore», è il profeta che annuncia «il giorno del Signore» (cioè della sua venuta e del suo giudizio di salvezza o di condanna) e che ravviva la speranza messia­nica. Il Messia va atteso con le migliori disposizioni. Il suo avvento e l’incontro con lui vanno preparati. Malachia esprime tutto ciò attraverso le immagini del «preparare la via», del «fuoco» che purifica e «dell’oro e dell’argento affinati».

«Preparare la via» è un tema caro ai profeti. Il secondo Isaia (cc. 40-55) esorta il popolo biblico ad avere fiducia in JHWH, perché egli aprirà a Israele una strada nel deserto per facilitarne il ritorno nella terra promessa dopo l’esilio babilonese. E anche un tema caro ai Vangeli sinottici, che vedono nel Battista colui che «prepara» (con la sua predi­cazione e il suo severo stile di vita) la strada al Messia che viene. Il messaggio di questa immagine è chiaro: per incontrare il Messia occorre convertirsi, cambiare stile di vita, assumere comportamenti e atteggia­menti ispirati alla Parola del Signore, che orienta tutta la vita del cre­dente.

L’immagine del «fuoco» esprime un duplice significato: da una parte esso è il simbolo della presenza di Dio, che illumina e riscalda l’uomo e il suo mondo; dall’altra esprime, con la forza intensa del suo calore, l’incapacità dell’uomo di stare davanti a Dio, quasi venisse respinto dal suo fulgore a motivo della propria indegnità («Chi resisterà al suo ap­parire?»).

L’affinamento dell’oro e dell’argento indica, nel suo simbolismo, il processo di purificazione e di conversione che la Parola di Dio sa operare nel cuore dell’uomo. I peccati, i vizi, le incorrispondenze, le chiusure dell’uomo sono tanti, ma la Parola di Dio come ha la forza di denunciarli, così sa anche eliminarli e annientare come scorie, per far apparire la luminosità dell’uomo che sa vivere secondo Dio.

Il brano si conclude con il richiamo all’«oblazione secondo giusti­zia». Questo è un richiamo frequente nei Profeti. L’uomo che si converte, che prepara la via al Signore, che accoglie il programma di vita a lui offerto dalla Parola di Dio, che agisce per amore e respinge ogni egoismo è veramente in grado di offrire un culto e una preghiera graditi a Dio.

Seconda lettura: Ebrei 2,14-18

      Poiché i figli hanno in comune il sangue e la carne, anche Cristo allo stesso modo ne è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che, per timore della morte, erano soggetti a schiavitù per tutta la vita. Egli infatti non si prende cura degli angeli, ma della stirpe di Abramo si prende cura. Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti, proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova.      
  • La lettera agli Ebrei è una intensa omelia che intende rafforzare nei credenti la fiducia verso il Signore Gesù che, nella sua umanità, è stato in tutto solidale con noi, e, nella sua divinità, ha il potere di vincere tutto il male e tutte le angosce del credente. Secondo l’autore di questo scritto il culmine della solidarietà con la condizione dell’uomo si ha nell’accet­tazione, da parte di Gesù, della morte stessa. Ciò lo ha reso «in tutto simile ai fratelli». È con la sua morte, infatti, che Gesù libera anche noi dalla paura della morte, dalla schiavitù di dover morire, perché con la Pasqua essa non è più un non senso o un qualcosa di fatale e ineludibile, ma è superata e trasformata dalla risurrezione.

Secondo l’autore, inoltre, Gesù incarna l’ideale del «sommo sacer­dote». Questa figura, centrale in Israele, trova la sua pienezza in Gesù, perché la sua morte ha espiato il peccato del mondo definitivamente (mentre in Israele l’espiazione con il sangue degli animali e con i loro sacrifici non era in grado di espiare definitivamente) e perché nella sua sola persona di Sacerdote-Crocifisso-Risorto avviene il vero culto gradito a Dio.

I credenti, perciò, devono dare piena fiducia a Cristo Gesù: egli è in tutto solidale con loro e, solamente sapendosi inserire nella sua persona glorificata, è possibile rendere a Dio il culto più gradito e perfetto.

Vangelo: Luca 2,22-40    

         Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, Maria e Giuseppe portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore. Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore.
Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele».
Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori». C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme.
Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.
 

Esegesi

Nel suo contesto storico il brano evangelico è da collocare nella tradizione religiosa della famiglia ebraica. Come tutte le madri, anche Maria obbedisce alla prescrizione biblica che imponeva un rito di puri­ficazione, dopo 40 giorni dal parto. Infatti si legge in Lv 12,2-5: «Quando una donna sarà rimasta incinta e darà alla luce un maschio, sarà im­monda per sette giorni. L’ottavo giorno si circonciderà il bambino. Poi essa resterà ancora trentatrè giorni a purificarsi del suo sangue; non toccherà alcuna cosa santa e non entrerà nel santuario, finché non siano compiuti i giorni della sua purificazione. Ma se partorisce una femmina sarà immonda due settimane… resterà sessantasei giorni a purificarsi del suo sangue».

Questo rito è da collegare alla mentalità degli antichi, i quali vede­vano nel parto qualcosa che produceva un impedimento (non morale, ma rituale) al culto.

Al rito della purificazione seguiva il riscatto del primogenito. Se­condo la fede biblica il figlio primogenito era ritenuto proprietà di Dio; i genitori lo «riscattavano» con un sacrificio di un agnello o con l’offerta di una coppia di tortore o giovani colombi, se poveri (Lv 12,6.8: «Quando i giorni della sua purificazione per un figlio o una figlia saranno compiuti, porterà al sacerdote, all’ingresso della tenda del convegno un agnello di un anno come olocausto e un colombo o una tortora in sacri­ficio di espiazione. Se non ha mezzi da offrire un agnello, prenderà due tortore o due colombi: uno per l’olocausto e l’altro per il sacrificio espia­torio»). Così potevano considerare il figlio come loro proprietà (Es 13,12- 13: «Tu riserverai per il Signore ogni primogenito del seno materno; ogni primo parto del bestiame, se di sesso maschile, appartiene al Signore… Riscatterai ogni primogenito dell’uomo tra i suoi figli»).

Applicato a Gesù il termine «primogenito» (protòtokos in greco; mentre Giovanni usa l’inequivocabile monoghenés, «unigenito») non deve far pensare che Maria abbia avuto altri figli, ma rimanda alla grande considerazione che la tradizione ebraica ha per il figlio che avrebbe continuato il nome dei genitori e garantito l’inserimento della famiglia nella linea delle promesse e delle benedizioni messianiche.

Nel contesto del Vangelo di Luca, questo brano è da leggere alla luce di alcuni temi che caratterizzano il terzo evangelista.

Innanzitutto il tempio. Gesù viene offerto da piccolo nel tempio, anticipando così la sua continua offerta al Padre, compiendone sempre la volontà. Poi Gerusalemme, intesa non tanto come luogo geografico, ma come «luogo» della salvezza definitiva, punto di arrivo del nuovo esodo compiuto da Gesù. Vi è inoltre il tema dello Spirito Santo che, nel Vangelo di Luca e negli Atti, è la guida della storia della salvezza e il vero protagonista dei momenti che più la caratterizzano (come i gesti e le parole di Simeone e Anna). E infine il tema della croce. Il Bambino che entra nel tempio è già il Crocifisso e il Risorto, che addita ai discepoli e a Maria per prima la via della croce, del sacrificio e della rinuncia, per entrare nella vita che nasce dalla Pasqua.

Meditazione

La prima lettura dà uno spunto molto importante per leggere in profondità il mistero della Presentazione al tempio di Gerusalemme del Bambino Gesù, da parte di Maria e Giuseppe, in ossequio ai canoni della Legge di Mosè. Il testo, preso dal libro di Malachia, dice: «Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate». Dall’insieme dei Vangeli, noi sappiamo bene chi è il Precursore che Dio ha inviato davanti a Sé per preparare la via: è san Giovanni Battista, del quale sappiamo anche che nacque sei mesi prima di Gesù. Mettendo insieme questi dati evangelici, noi comprendiamo le parole di Malachia in questo modo: il Signore Dio preannuncia che verrà tra noi e che, prima di ciò, manderà un Precursore che gli prepari la via. Siccome tra la nascita di Giovanni e di Gesù trascorrono solo sei mesi, è chiaro che nell’oracolo profetico si dica che subito dopo il Precursore, verrà il Signore stesso. Così, subito dopo la venuta del Battista, Dio è entrato nel suo tempio. Ecco quanto è avvenuto nel giorno della Presentazione al tempio di Gesù. Il Dio fatto uomo entra nel tempio, si rende disponibile a coloro che proprio in quel tempio lo cercavano.

Il Vangelo del giorno ci mette davanti diversi personaggi ed avvenimenti e, con ciò stesso, fornisce numerosi insegnamenti e propone temi per l’ulteriore riflessione. Innanzitutto appaiono Maria e Giuseppe, che rispettano i doveri legali prescritti da Mosè. Il loro sacrificio è quello previsto per i poveri: due tortore o due colombi.

Appaiono anche Simeone ed Anna, due venerandi anziani, dediti alla preghiera ed al digiuno, i quali proprio per questo loro spirito fortemente religioso sono capaci di riconoscere il Messia. In questo senso, possiamo vedere nella Presentazione di Gesù al tempio quasi un prolungamento della Giornata pro orantibus, che si celebra nel giorno della Presentazione di Maria (21 novembre), Giornata in cui la Chiesa manifesta la propria gratitudine a tutti coloro che nella Comunità si dedicano in maniera privilegiata al ministero della preghiera, con particolare distinzione per le vocazioni religiose e di vita contemplativa. Anche la Presentazione di Gesù al tempio ci ricorda, nelle figure dei due pii vegliardi, che la preghiera e la contemplazione non sono affatto una perdita di tempo, un ostacolo alla carità. Al contrario, non c’è tempo speso meglio di quello trascorso in preghiera, come non c’è una vera carità cristiana che non sia conseguenza di una solida vita interiore. Solo chi prega e fa penitenza, come Simeone ed Anna, è aperto al soffio dello Spirito: sa riconoscere perciò il Signore in qualunque circostanza Egli si manifesti, perché possiede un più ampio sguardo interiore e impara ad amare con il cuore di Colui il cui nome è Carità!

Infine, il Vangelo valorizza la profezia di Simeone sulla sofferenza di Maria. San Giovanni Paolo II insegna a questo proposito che «quello di Simeone appare come un secondo annuncio a Maria, poiché le indica la concreta dimensione storica nella quale il Figlio compirà la sua missione, cioè nell’incomprensione e nel dolore» (Redemptoris Mater, n. 16). L’annuncio dell’arcangelo era stato fonte di indicibile gioia, perché riguardava la regalità messianica di Gesù e il carattere sovrannaturale del suo concepimento verginale. L’annuncio dell’anziano nel tempio, invece, parla dell’opera della redenzione, che il Signore compirà associando a Sé, nel suo dolore come già nella sua nascita umana, la Madre sua. La dimensione mariana di questa festa è dunque molto forte, motivo per cui nel calendario liturgico della «forma straordinaria» del Rito Romano essa viene indicata come Purificazione della Beata Vergine Maria, dicitura che mette in evidenza l’altro aspetto della Presentazione, consistente nella purificazione rituale delle donne ebree dopo il parto. Nel caso di Maria, tale purificazione, per Lei non necessaria, indica il rinnovamento della sua offerta totale al piano di Dio.

Simeone, nel suo oracolo profetico, annuncia anche che Cristo sarà segno di contraddizione. In una sua omelia (cf. PG 77, 1044-1049), san Cirillo di Alessandria interpreta le parole del santo anziano in questo modo: «Per “segno di contraddizione” intende la nobile croce, come scrive il sapientissimo Paolo: “Scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani” (1Cor 1,23) […] Ed è segno di contraddizione nel senso che in quelli che si perdono appare come follia, mentre in quelli che riconoscono la sua potenza si rivela salvezza e vita».

La festa della Presentazione nella liturgia attuale

Secondo le indicazioni del Vangelo, allo scadere del quarantesimo giorno dopo Natale, la Chiesa celebra oggi la Festa della Presentazione di Gesù al Tempio. Per molti secoli essa era dedicata alla Purificazione di Maria. Ma la riforma liturgica l’ha ricondotta al suo significato origina­rio, sottolineando l’aspetto cristologico.

Luca racconta: «Quando furono compiuti i giorni della loro purifica­zione, portarono il Bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore» (Lc 2,22). La legge prescriveva, insieme, la purificazione della donna, che aveva dato alla luce un bambino, e l’offerta del bambino, introducendolo nel Tempio del Signore. Quando si trattava del primogenito, era pre­scritto anche un riscatto, con il versamento di cinque sicli d’argento. In tale circostanza era d’obbligo anche un sacrificio a Dio con l’offerta di un agnello di un anno e di una colomba o una tortora, ovvero, per i più poveri, di due colombe, come fece Maria.

La legge non prescriveva la presenza del Bambino. Nel racconto di Luca, invece, Gesù e sua Madre appaiono strettamente congiunti. Egli unisce ambedue nel rito. Tuttavia, invece di descrivere il rito della puri­ficazione, Luca parla della Presentazione del Bambino Gesù e del gesto compiuto per il suo riscatto.

Questa Presentazione ha un significato liturgico e comporta una offerta sacrificale, che aveva il significato di una consacrazione attraverso uno spogliamento. Dunque con il rito del riscatto e dell’offerta per il sacrificio, Maria presenta Gesù al Tempio in quanto lo offre e lo consacra a Dio, spogliandosi dei suoi diritti di proprietà materna sul Figlio (Thu­rian).

Perciò la purificazione, di cui parla Luca e che interessava non solo Maria, ma anche il Figlio, voleva esprimere non tanto la purificazione da una impurità — di cui Maria non aveva bisogno — ma la donazione a Dio, che assumeva l’aspetto di una offerta sacrificale di Gesù tramite la Madre, e coinvolgeva anche Lei.

Il significato profetico svelato nell’incontro con Simeone

Gli incontri, che Luca descrive in questa circostanza all’interno del Tempio, vogliono proiettare una luce su tutto l’evento. I personaggi intro­dotti nella scena sono Simeone, giusto e timorato ad Dio, a Anna fedele nella sua lunga vedovanza alla memoria del marito e dedita alla pre­ghiera e al digiuno.

Questi due spiriti eletti sono in attesa della «consolazione di Israele e della «redenzione di Gerusalemme», cioè del Messia Salvatore. L’attesa o appuntamento era nel Tempio del Signore. Di lui, infatti, Malachia aveva presagito l’ingresso nel Tempio per purificare i sacrifici dei sacer­doti e rendere gradite le loro offerte «secondo giustizia» (cf. Mal 3,1-4; I Lett.). Simeone ed Anna, benché carichi d’anni, sono anime intatte nella fede e colme di speranza.

Simeone aveva avuto assicurazione «che non avrebbe varcato la morte senza prima avere visto li Messia del Signore». Essi erano dotati del carisma profetico, cioè possedevano lo Spirito in sovrabbondanza, quasi a coronamento di una esistenza intensa e sovrabbondante di pietà.

Proprio nel momento in cui Maria e Giuseppe presentano il Bam­bino Gesù nel Tempio, lo Spirito Santo muoveva loro incontro nella persona del santo Simeone. Egli prende in braccio il Bambino e, grato al Signore, esprime i suoi sentimenti in un breve Cantico per dare un sereno addio alla vita, nella esultanza della meta raggiunta.

Saluta il Sole che sorge all’orizzonte del mondo, pago di vederlo spuntare. Questo Sole era Gesù. Il Bambino, che stringe tra le braccia, è la luce di tutti i popoli e la gloria di Israele che gli ha dato i natali. Egli delinea l’identità di quel Bambino e fa intravvedere la sua missione. Le sue parole sono rivelative di un mistero nascosto. Perciò Maria e Giu­seppe restano impressionati e stupiti.

La meraviglia cresce quando Simeone si rivolge in particolare alla Madre per predirgli la sorte del Figlio. Dice: «Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori» (Lc 2,34-35).

Gesù è pietra di contraddizione, al cui urto «i pensieri di molti cuori saranno rivelati». Dinanzi a Cristo, cioè, gli uomini dovranno prendere posizione, con Lui o contro di Lui: per chi lo respinge, diventa pietra di inciampo e di rovinosa caduta; per chi lo accoglie, diventa sostegno e principio di salvezza e di vita.

Le parole del profeta, a questo punto, diventano significative e am­monitrici anche per noi. La presenza di Cristo impegna l’uomo in ma­niera decisiva. Non si può rimanere indifferenti o neutrali. Il dono viene offerto, ma non imposto. Ognuno deve decidersi, andando incontro alle inevitabili conseguenze di tale accoglienza o rifiuto. Gesù è segno di contraddizione in quanto oggetto di contraddizione, cioè infinitamente amato, ovvero infinitamente odiato. Simeone annuncia profeticamente un futuro di opposizione e quindi di sofferenza e di morte. In ciò è coinvolta anche la Madre «Anche a te una spada trafiggerà l’anima» (Lc 2,35).

Così, fin dagli inizi della sua esistenza, è delineato il dramma salvi­fico del futuro doloroso e glorioso di Cristo. Maria è presente e ne partecipa.

Il nostro coinvolgimento al dramma salvifico di Cristo

La festa odierna si pone tra il Natale e la Pasqua, e vuole farci comprendere il senso della sua venuta tra noi. Egli viene ed è ricono­sciuto e accolto. A riconoscerlo sono Simeone e Anna, e i loro cuori esultano di gioia. In questi due personaggi ci siamo tutti noi e la gioia di tutta la Chiesa. Ma l’incontro con Cristo non è ancora definitivo. La vita del cristiano è un itinerario salvifico in cui si operano continuamente altri incontri. Essi avvengono nella nostra storia e vicenda umana, nella quale la presenza del peccato non è mai completamente superata. Perciò la venuta del Signore fa esplodere le contraddizioni della nostra esistenza cristiana.

Il Signore è luce e rivela in profondità le nostre situazioni, facendo emergere le nostre concessioni al male e svelando i nostri continui com­promessi e ambiguità. Perciò le contraddizioni si nascondono nella nostra vita e noi rimaniamo delusi e spesso irritati. Le cose non vanno come noi ci attendiamo e gli uomini ci deludono. Siamo, quindi, portati a formu­lare giudizi di condanna contro la vita; diciamo che essa non è giusta e ci rammarichiamo di tutto. Questo giudizio coinvolge Dio, la religione, la fede, Cristo. Vi proiettiamo le contraddizioni e le incoerenze nella vita cristiana di cui facciamo esperienza.

Difronte alla confusione, alle difficoltà e alle ambiguità del nostro esistere, si svelano allora i nostri segreti pensieri. In effetti, se noi ci lasciassimo portare da Cristo, la fede rimarrebbe una forza che ci con­sentirebbe di accettare e di sperare oltre le nostre vedute umane. Ci accorgeremmo, allora, che il torto risiede in noi; e questo perché siamo miopi, interessati, egoisti … Ci manca lo Spirito del Signore e la decisione necessaria per dire un sì totale a Cristo e consegnarci a Lui nell’atteggia­mento di fiducia incondizionata che salva e rinnova.

La giornata delle anime consacrate

La festa della Presentazione è la giornata delle anime consacrate, cioè di coloro che hanno avuta una vocazione particolare nella sequela del Signore. Affascinate dalla sua luce, sono andate incontro a Lui tenendo in mano la fiaccola vibrante della fede, e hanno varcato la soglia del Tempio, accompagnando Gesù a distanza ravvicinata per vivere identifi­cati a Lui, in un totale e irrevocabile consacrazione. Esse si sono impe­gnate, in maniera originale, a donarsi al suo amore e all’amore dei fra­telli.

Don Bosco commenta il Vangelo

Presentazione di Gesù al tempio

Don Bosco raccomanda di offrire i figli a Dio

Nel quarto mistero gaudioso del rosario, insegna il Giovane provveduto, “si contempla come la Vergine Santa presentò Cristo Nostro Signore nel tempio nelle braccia del vecchio Simeone” (OE2 289). Con più dettagli e spiegazioni l’evento della Presentazione viene narrato nella Vita di S. Giuseppe:

Avvicinavasi il quarantesimo giorno dalla nascita del Santo Bambino. La legge di Mosè prescriveva che ogni primogenito venisse portato al tempio per essere offerto a Dio e quindi consacrato, e per essere purificata la madre. Giuseppe in compagnia di Gesù e di Maria moveva verso Gerusalemme per compiere la prescritta cerimonia. Offrì due tortorelle in sacrificio e pagò cinque sicli d’argento (OE17 324s).

Accettando di consegnare il Bambino nelle braccia di Simeone, Maria manifesta la sua intenzione di offrirlo a Colui a cui il Bambino appartiene. È quella l’interpretazione che don Bosco suggerisce quando scrive nella Storia ecclesiastica: “Toccando Gesù i quaranta giorni, fu da Maria presentato nel tempio fra le braccia del vecchio Simeone” (OE1 181). Simeone lo accolse e benedisse Dio.

Nella Storia sacra, don Bosco mette in evidenza l’immensa gioia di Simeone nel ricevere Gesù tra le braccia: “Come lo ebbe tra le braccia provò tale piena di gioia che esclamò: Ora lascia, o Signore, che il tuo servo se ne muora in pace, poiché i miei occhi hanno veduto il Salvatore da te inviato” (OE3 161).

Giuseppe e Maria sono un modello per i genitori che vogliono offrire i loro figli a Dio. Nel Cattolico provveduto troviamo questa “preghiera di un padre e di una madre pei loro figlioli”:

Io vi ringrazio, Dio mio, di avermi concesso dei figliuoli, affinché siano l’appoggio e la consolazione della mia vecchiaia. Santificate, o Signore, l’amore che loro io porto, concedendomi la grazia di non amarli che in Voi e per Voi, cioè unicamente in riguardo all’eterna loro salute.

Io ve li presento adunque e ve li offro come la santa Vergine già offrì nel tempio il suo amatissimo Figlio Gesù, sottomettendosi interamente alla vostra volontà adorabile a riguardo di lui.

Come lei sottometto io pure il cuor mio a tutti gli ordini della divina Provvidenza sopra di loro, pregandovi di benedirli, di versare sopra del loro capo ogni più squisito favore.

Disponeteli, o Signore, secondo lo stato, a cui nella vostra sapienza e misericordia infinita li avete destinati per la loro salute. Voi siete il loro primo principio, voi l’ultimo loro fine; ordinate di loro come vi piace.

Io mi sottopongo ad ogni sacrificio, a qualsiasi pena, purché si procacci il loro bene. Io non vi domando per essi grandi beni di fortuna; solamente se osassi chiedervi qualche cosa per loro vita temporale, vi domanderei ad esempio di Salomone una modesta facoltà, che li preservasse dai pericoli della ricchezza, e da quelli della miseria.

Quello poi che per essi specialmente vi chiedo, o Dio mio, è il vostro regno, la vostra giustizia.

Conservate la loro anima in tutta la bellezza di cui l’avete adorna nel santo battesimo; vegliate sopra di essi a fine di preservarli dai pericoli, ai quali viene esposta la loro innocenza; proteggeteli contro i funesti esempi e massime del mondo; conservateli sempre nella vostra grazia, nella vostra amicizia.

Non permettete, o mio Signore, che le mie azioni smentiscano questa mia preghiera (OE19 623s).

Anche Margherita, la madre di Giovanni Bosco, ha compiuto un gesto simile. Prima della sua partenza per il seminario fece al figlio un “memorando discorso” nel quale disse al figlio: “Quando sei venuto al mondo ti ho consacrato alla Beata Vergine” (MO 103).

Dopo aver raccontato il sogno che aveva avuto verso le nove anni, Margherita sembrava aver già intuito il futuro del figlio che aveva consacrato alla nascita. Infatti, mentre gli altri membri della famiglia davano la loro interpretazione, ella disse quasi con tono profetico: “Chi sa che non abbi a diventar prete” (MO 63). Per don Bosco, essere sacerdote voleva dire essere al servizio di Dio e della Chiesa, nuovo tempio di Dio.

(Morand Wirth)

Tra parentesi il lettore troverà i riferimenti principali dei testi citati nelle opere di o su don Bosco: – nei 38 volumi delle Opere edite di G. Bosco (OE1-38, a cura del Centro Studi Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana); – nei 19 volumi delle Memorie biografiche di don G. Bosco (MB1-19, a cura di G.B. Lemoyne, A. Amadei e E. Ceria); – nelle sue Memorie dell’Oratorio (MO, a cura di A. Giraudo); – nei 10 volumi del suo Epistolario (E1-10, a cura di F. Motto). La seconda cifra indica la pagina del volume.

Immagine della domenica

COLONNATO DI SAN PIETRO (ROMA)    –    2020   

«Dobbiamo stare disinteressatamente tra gli uomini,

per poter accendere per essi una luce.

Dobbiamo diventare ancora molto più silenziosi

in mezzo al frastuono generale, per poter scoprire

coloro che sono disposti ad ascoltare».

(J. Wanke, Communio un Missio, 23)


Casella di testo: Malachia 3,1-4
Ebrei 2,14-18
Luca 2,22-40   

Nel Vangelo l’evangelista Luca descrive un duplice atteggiamento: atteggiamento di movimento e atteggiamento di stupore.
Il primo atteggiamento è il movimento. Maria e Giuseppe si incamminano verso Gerusalemme; da parte sua, Simeone, mosso dallo Spirito, si reca al tempio, mentre Anna serve Dio giorno e notte senza sosta. In questo modo i quattro protagonisti del brano evangelico ci mostrano che la vita cristiana richiede dinamismo e richiede disponibilità a camminare, lasciandosi guidare dallo Spirito Santo. L’immobilismo non si addice alla testimonianza cristiana e alla missione della Chiesa. Il mondo ha bisogno di cristiani che si lasciano smuovere, che non si stancano di camminare per le strade della vita, per recare a tutti la consolante parola di Gesù. 

Il secondo atteggiamento con cui San Luca presenta i quattro personaggi del racconto è lo stupore. Maria e Giuseppe «si stupivano delle cose che si dicevano di lui [di Gesù]» (v. 33). Lo stupore è una reazione esplicita anche del vecchio Simeone, che nel Bambino Gesù vede con i suoi occhi la salvezza operata da Dio in favore del suo popolo: quella salvezza che lui aspettava da anni. E la stessa cosa vale per Anna, che «si mise anche lei a lodare Dio» (v. 38) e ad andare ad indicare alla gente Gesù. Questa è una santa chiacchierona, chiacchierava bene, chiacchierava di cose buone, non cose brutte. Diceva, annunciava: una santa che andava da una all’altra donna facendo loro vedere Gesù. Queste figure di credenti sono avvolte dallo stupore, perché si sono lasciate catturare e coinvolgere dagli avvenimenti che accadevano sotto i loro occhi. La capacità di stupirsi delle cose che ci circondano favorisce l’esperienza religiosa e rende fecondo l’incontro con il Signore. Al contrario, l’incapacità di stupirci rende indifferenti e allarga le distanze tra il cammino di fede e la vita di ogni giorno. Fratelli e sorelle, in movimento sempre e lasciandoci aperti allo stupore!
(Papa Francesco)

Preghiere e racconti

La Presentazione del Signore e la Giornata mondiale della vita consacrata

Teniamo davanti agli occhi della mente l’icona della Madre Maria che cammina col Bambino Gesù in braccio. Lo introduce nel tempio, lo introduce nel popolo, lo porta ad incontrare il suo popolo. Le braccia della Madre sono come la “scala” sulla quale il Figlio di Dio scende verso di noi, la scala dell’accondiscendenza di Dio. Lo abbiamo ascoltato nella prima Lettura, dalla Lettera agli Ebrei: Cristo si è reso «in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede» (2,17). E’ la duplice via di Gesù: Egli è sceso, si è fatto come noi, per ascendere al Padre insieme con noi, facendoci come Lui.

Possiamo contemplare nel cuore questo movimento immaginando la scena evangelica di Maria che entra nel tempio con il Bambino in braccio. La Madonna cammina, ma è il Figlio che cammina prima di Lei. Lei lo porta, ma è Lui che porta Lei in questo cammino di Dio che viene a noi affinché noi possiamo andare a Lui.

Gesù ha fatto la nostra stessa strada per indicare a noi il cammino nuovo, cioè la “via nuova e vivente” (cfr Eb 10,20) che è Lui stesso. E per noi, consacrati, questa è l’unica strada che, in concreto e senza alternative, dobbiamo percorrere con gioia e perseveranza.

Il Vangelo insiste ben cinque volte sull’obbedienza di Maria e Giuseppe alla “Legge del Signore” (cfr Lc 2,22. 23. 24. 27. 39). Gesù non è venuto a fare la sua volontà, ma la volontà del Padre; e questo – ha detto – era il suo “cibo” (cfr Gv 4, 34). Così chi segue Gesù si mette nella via dell’obbedienza, imitando l’“accondiscendenza” del Signore; abbassandosi e facendo propria la volontà del Padre, anche fino all’annientamento e all’umiliazione di sé stesso (cfr Fil 2,7-8). Per un religioso, progredire significa abbassarsi nel servizio, cioè fare lo stesso cammino di Gesù, che «non ritenne un privilegio l’essere come Dio» (Fil 2,6). Abbassarsi facendosi servo per servire.

E questa via prende la forma della regola, improntata al carisma del fondatore, senza dimenticare che la regola insostituibile, per tutti, è sempre il Vangelo. Lo Spirito Santo, poi, nella sua creatività infinita, lo traduce anche nelle diverse regole di vita consacrata che nascono tutte dalla sequela Christi, e cioè da questo cammino di abbassarsi servendo.

Attraverso questa “legge” i consacrati possono raggiungere la sapienza, che non è un’attitudine astratta ma è opera e dono dello Spirito Santo. E segno evidente di tale sapienza è la gioia. Sì, la letizia evangelica del religioso è conseguenza del cammino di abbassamento con Gesù… E, quando siamo tristi, ci farà bene domandarci: “Come stiamo vivendo questa dimensione kenotica?”.

Nel racconto della Presentazione di Gesù al Tempio la sapienza è rappresentata dai due anziani, Simeone e Anna: persone docili allo Spirito Santo (lo si nomina 3 volte), guidati da Lui, animati da Lui. Il Signore ha dato loro la sapienza attraverso un lungo cammino nella via dell’obbedienza alla sua legge. Obbedienza che, da una parte, umilia e annienta, però, dall’altra accende e custodisce la speranza, facendoli creativi, perché erano pieni di Spirito Santo. Essi celebrano anche una sorta di liturgia attorno al Bambino che entra nel Tempio: Simeone loda il Signore e Anna “predica” la salvezza (cfr Lc 2,28-32.38).

Come nel caso di Maria, anche l’anziano Simeone prende il bambino tra le sue braccia, ma, in realtà, è il bambino che lo afferra e lo conduce. La liturgia dei primi Vespri della Festa odierna lo esprime in modo chiaro e bello: «senex puerum portabat, puer autem senem regebat». Tanto Maria, giovane madre, quanto Simeone, anziano “nonno”, portano il bambino in braccio, ma è il bambino stesso che li conduce entrambi.

È curioso notare che in questa vicenda i creativi non sono i giovani, ma gli anziani. I giovani, come Maria e Giuseppe, seguono la legge del Signore sulla via dell’obbedienza; gli anziani, come Simeone e Anna, vedono nel bambino il compimento della Legge e delle promesse di Dio. E sono capaci di fare festa: sono creativi nella gioia, nella saggezza. Tuttavia, il Signore trasforma l’obbedienza in sapienza, con l’azione del suo Santo Spirito.

A volte Dio può elargire il dono della sapienza anche a un giovane inesperto, basta che sia disponibile a percorrere la via dell’obbedienza e della docilità allo Spirito. Questa obbedienza e questa docilità non sono un fatto teorico, ma sottostanno alla logica dell’incarnazione del Verbo: docilità e obbedienza a un fondatore, docilità e obbedienza a una regola concreta, docilità e obbedienza a un superiore, docilità e obbedienza alla Chiesa. Si tratta di docilità e obbedienza concrete.

Attraverso il cammino perseverante nell’obbedienza, matura la sapienza personale e comunitaria, e così diventa possibile anche rapportare le regole ai tempi: il vero “aggiornamento”, infatti, è opera della sapienza, forgiata nella docilità e obbedienza. Il rinvigorimento e il rinnovamento della vita consacrata avvengono attraverso un amore grande alla regola, e anche attraverso la capacità di contemplare e ascoltare gli anziani della Congregazione. Così il “deposito”, il carisma di ogni famiglia religiosa viene custodito insieme dall’obbedienza e dalla saggezza.

E, attraverso questo cammino, siamo preservati dal vivere la nostra consacrazione in maniera light, in maniera disincarnata, come fosse una gnosi, che ridurrebbe la vita religiosa ad una “caricatura”, una caricatura nella quale si attua una sequela senza rinuncia, una preghiera senza incontro, una vita fraterna senza comunione, un’obbedienza senza fiducia e una carità senza trascendenza.

Anche noi, oggi, come Maria e come Simeone, vogliamo prendere in braccio Gesù perché Egli incontri il suo popolo, e certamente lo otterremo soltanto se ci lasciamo afferrare dal mistero di Cristo. Guidiamo il popolo a Gesù lasciandoci a nostra volta guidare da Lui. Questo è ciò che dobbiamo essere: guide guidate.

Il Signore, per intercessione di Maria nostra Madre, di San Giuseppe e dei Santi Simeone e Anna, ci conceda quanto gli abbiamo domandato nell’Orazione di Colletta: di «essere presentati [a Lui] pienamente rinnovati nello spirito». Così sia.

(Papa Francesco, Omelia, 2015).

Presentazione del Signore

Quaranta giorni dopo Natale celebriamo il Signore che, entrando nel tempio, va incontro al suo popolo. Nell’Oriente cristiano questa festa è detta proprio “Festa dell’incontro”: è l’incontro tra il Dio bambino, che porta novità, e l’umanità in attesa, rappresentata dagli anziani nel tempio. Nel tempio avviene anche un altro incontro, quello tra due coppie: da una parte i giovani Maria e Giuseppe, dall’altra gli anziani Simeone e Anna.

Gli anziani ricevono dai giovani, i giovani attingono dagli anziani. Maria e Giuseppe trovano infatti nel tempio le radici del popolo, ed è importante, perché la promessa di Dio non si realizza individualmente e in un colpo solo, ma insieme e lungo la storia. E trovano pure le radici della fede, perché la fede non è una nozione da imparare su un libro, ma l’arte di vivere con Dio, che si apprende dall’esperienza di chi ci ha preceduto nel cammino.

Così i due giovani, incontrando gli anziani, trovano sé stessi. E i due anziani, verso la fine dei loro giorni, ricevono Gesù, senso della loro vita. Questo episodio compie così la profezia di Gioele: «I vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni» (3,1). In quell’incontro i giovani vedono la loro missione e gli anziani realizzano i loro sogni. Tutto questo perché al centro dell’incontro c’è Gesù.

Guardiamo a noi, cari fratelli e sorelle consacrati. Tutto è cominciato dall’incontro col Signore. Da un incontro e da una chiamata è nato il cammino di consacrazione. Bisogna farne memoria. E se faremo bene memoria vedremo che in quell’incontro non eravamo soli con Gesù: c’era anche il popolo di Dio, la Chiesa, giovani e anziani, come nel Vangelo.

Lì c’è un particolare interessante: mentre i giovani Maria e Giuseppe osservano fedelmente le prescrizioni della Legge – il Vangelo lo dice quattro volte – e non parlano mai, gli anziani Simeone e Anna accorrono e profetizzano. Sembrerebbe dover essere il contrario: in genere sono i giovani a parlare con slancio del futuro, mentre gli anziani custodiscono il passato.

Nel Vangelo accade l’inverso, perché quando ci si incontra nel Signore arrivano puntuali le sorprese di Dio. Per lasciare che accadano nella vita consacrata è bene ricordare che non si può rinnovare l’incontro col Signore senza l’altro: mai lasciare indietro, mai fare scarti generazionali, ma accompagnarsi ogni giorno, col Signore al centro. Perché se i giovani sono chiamati ad aprire nuove porte, gli anziani hanno le chiavi.

E la giovinezza di un istituto sta nell’andare alle radici, ascoltando gli anziani. Non c’è avvenire senza questo incontro tra anziani e giovani; non c’è crescita senza radici e non c’è fioritura senza germogli nuovi. Mai profezia senza memoria, mai memoria senza profezia; e sempre incontrarsi. La vita frenetica di oggi induce a chiudere tante porte all’incontro, spesso per paura dell’altro – sempre aperte rimangono le porte dei centri commerciali e le connessioni di rete –; ma nella vita consacrata non sia così: il fratello e la sorella che Dio mi dà sono parte della mia storia, sono doni da custodire.

Non accada di guardare lo schermo del cellulare più degli occhi del fratello, o di fissarci sui nostri programmi più che nel Signore. Perché quando si mettono al centro i progetti, le tecniche e le strutture, la vita consacrata smette di attrarre e non comunica più; non fiorisce perché dimentica “quello che ha di sotterrato”, cioè le radici.

La vita consacrata nasce e rinasce dall’incontro con Gesù così com’è: povero, casto e obbediente. C’è un doppio binario su cui viaggia: da una parte l’iniziativa d’amore di Dio, da cui tutto parte e a cui dobbiamo sempre tornare; dall’altra la nostra risposta, che è di vero amore quando è senza se e senza ma, quando imita Gesù povero, casto e obbediente. Così, mentre la vita del mondo cerca di accaparrare, la vita consacrata lascia le ricchezze che passano per abbracciare Colui che resta.

La vita del mondo insegue i piaceri e le voglie dell’io, la vita consacrata libera l’affetto da ogni possesso per amare pienamente Dio e gli altri. La vita del mondo s’impunta per fare ciò che vuole, la vita consacrata sceglie l’obbedienza umile come libertà più grande. E mentre la vita del mondo lascia presto vuote le mani e il cuore, la vita secondo Gesù riempie di pace fino alla fine, come nel Vangelo, dove gli anziani arrivano felici al tramonto della vita, con il Signore tra le mani e la gioia nel cuore.

Quanto ci fa bene, come Simeone, tenere il Signore «tra le braccia» (Lc 2,28)! Non solo nella testa e nel cuore, ma tra le mani, in ogni cosa che facciamo: nella preghiera, al lavoro, a tavola, al telefono, a scuola, coi poveri, ovunque. Avere il Signore tra le mani è l’antidoto al misticismo isolato e all’attivismo sfrenato, perché l’incontro reale con Gesù raddrizza sia i sentimentalisti devoti che i faccendieri frenetici.

Vivere l’incontro con Gesù è anche il rimedio alla paralisi della normalità, è aprirsi al quotidiano scompiglio della grazia. Lasciarsi incontrare da Gesù, far incontrare Gesù: è il segreto per mantenere viva la fiamma della vita spirituale. È il modo per non farsi risucchiare in una vita asfittica, dove le lamentele, l’amarezza e le inevitabili delusioni hanno la meglio.

Incontrarsi in Gesù come fratelli e sorelle, giovani e anziani, per superare la sterile retorica dei “bei tempi passati” – quella nostalgia che uccide l’anima –, per mettere a tacere il “qui non va più bene niente”. Se si incontrano ogni giorno Gesù e i fratelli, il cuore non si polarizza verso il passato o verso il futuro, ma vive l’oggi di Dio in pace con tutti.

Alla fine dei Vangeli c’è un altro incontro con Gesù che può ispirare la vita consacrata: quello delle donne al sepolcro. Erano andate a incontrare un morto, il loro cammino sembrava inutile. Anche voi andate nel mondo controcorrente: la vita del mondo facilmente rigetta la povertà, la castità e l’obbedienza. Ma, come quelle donne, andate avanti, nonostante le preoccupazioni per le pesanti pietre da rimuovere (cfr Mc 16,3).

E come quelle donne, per primi incontrate il Signore risorto e vivo, lo stringete a voi (cfr Mt 28,9) e lo annunciate subito ai fratelli, con gli occhi che brillano di gioia grande (cfr v. 8). Siete così l’alba perenne della Chiesa: voi, consacrati e consacrate, siete l’alba perenne della Chiesa! Vi auguro di ravvivare oggi stesso l’incontro con Gesù, camminando insieme verso di Lui: e questo darà luce ai vostri occhi e vigore ai vostri passi.

(Omelia di Papa Francesco per la Festa della presentazione del signore nella XXII Giornata mondiale della vita consacrata, tenutasi presso la Basilica Vaticana, venerdì 2 febbraio 2018).

«Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace»

Spiegando il senso della presentazione del Signore al tempio, S. Am­brogio (t 397) intende mettere in risalto il coinvolgimento universale del­l’umanità agli eventi dell’infanzia, per affermare che nessuno è escluso dai disegni salvifici di Dio. La figura dell’anziano Simeone e le parole che egli dice esprimono, per Ambrogio, il carattere decisivo che assume, per ogni uomo, il suo incontro col Cristo.

«La nascita del Signore non è attestata soltanto dagli angeli e dai profeti, dai pastori e dai familiari, ma anche dagli anziani e dai giusti. Tutte le età, tutt’e due i sessi, e i prodigi avvenuti ne fanno fede: una vergine diventa feconda, una sterile partorisce, un muto si mette a par­lare, Elisabetta profetizza, i magi si prostrano in adorazione, un bimbo esulta benché chiuso nel grembo, una vedova loda Dio, un giusto attende. A ragione è chiamato giusto, perché desiderava non la propria, bensì la salvezza del popolo, e, pur anelando di esser liberato dai vincoli del suo fragile corpo, aspettava di vedere il Promesso; sapeva infatti che beati sarebbero stati gli occhi, che l’avrebbero visto.

Ed esclama: «Ora lascia pure andare il tuo servo» (Lc 2,29).

Guarda questo giusto, che vedendosi rinchiuso nel carcere della terrena gravezza, desidera di partire per cominciare a essere con Cristo; «è assai meglio», infatti, «partire e essere con Cristo» (Fil 1,23). Ma chi desidera di essere lasciato andare, venga al tempio, venga in Gerusa­lemme, attenda l’Unto del Signore, prenda tra le sue mani il Verbo di Dio, lo stringa con le braccia della sua fede. Allora sarà lasciato andare, affinché, avendo veduto la vita, non veda mai più la morte.

Osserva che alla nascita del Signore si diffonde una grazia copiosa su ogni persona, mentre il dono della profezia è negato non ai giusti, ma solo a chi non ha fede. E anche Simeone profetizza che il Signore Gesù Cristo è venuto a caduta e a risurrezione di molti (cf. Lc 2,34), per vagliare i meriti dei giusti e degli iniqui, e, in qualità di giudice giusto verace, decretate la punizione o il premio, a seconda delle nostre azioni».

(Expositio in Lucam, L. II, 58-60; trad. it. di G. COPPA, Opere di Sant’Ambrogio, «Classici delle Religioni», Torino, Utet, 1969, 469-70).

La presentazione al Tempio

Certo le porte al vostro incedere

si sono aperte vibrando da sole

e strana luce si accese sugli archi:

il tempio stesso pareva più grande!

Quando si mise a cantare il vegliardo,

a salutare felice la vita,

la lunga vita che ardeva in attesa;

e anche la donna più annosa cantava!

Erano l’anima stessa di Sion

del giusto Israele mai stanco di attendere.

E lui beato che ha visto la luce

se pure in lotta già contro le tenebre.

Oh, le parole che disse, o Madre,

solo a te il profeta le disse!

Così ti chiese il cielo impaziente

pure la gioia di essergli madre.

Nemmeno tu puoi svelare, Maria,

cosa portavi nel puro tuo grembo:

or la Scrittura comincia a svelarsi

e a prender forma la storia del mondo.

(David Maria Turoldo)

La presentazione di Gesù al tempio di Giovanni Bellini

 La presentazione di Gesù al tempio dove il volto della Vergine, ritratto nella pena del primo distacco dal figlio, è semplicemente sublime.

Il veneziano Giambellino, come lo chiamavano, nato intorno al 1438 e morto nel 1516, era notissimo già al tempo suo come il “pittore delle Madonne”. Tante ne dipinse, su ispirazione o su committenza, e in tutte colpisce l’intreccio delle mani di Maria con le manine del bambino, l’eterno gioco tra madre e figlio.

Ma nella Presentazione il gioco non c’è più, il bambino sta stretto dentro le fasce come una piccola mummia, spunta solo una parte della manina che non riesce più a muoversi in cerca della madre. Maria lo stringe a sé come se non volesse lasciarlo, mentre altre mani lo stanno prendendo e sono quelle del barbuto Simeone, tra gli sguardi muti delle figure sullo sfondo.

La scena sconvolge per la sacralità e il presagio della passione. La si osserva commossi, ci si allontana a guardare altri quadri, poi si torna indietro cercando di capirla meglio e ammirarla una volta di più. Di ritorno a casa, si va a rileggere il passo del Vangelo (Lc 2,22-35) che l’ha ispirata.

L’evangelista Luca racconta che Maria e Giuseppe si recarono al tempio di Gerusalemme per l’offerta del neonato e la purificazione della madre, secondo la legge di Mosè: «Ora, c’era in Gerusalemme un uomo chiamato Simeone: era un uomo giusto e pio… Anzi, dallo Spirito Santo gli era stato rivelato che non sarebbe morto prima d’aver visto il Cristo del Signore. Andò dunque al tempio, mosso dallo Spirito; e mentre i genitori portavano il bambino Gesù, egli lo prese tra le braccia e benedì Dio dicendo:

“Ora, o Signore, lascia che il tuo servo se ne vada in pace secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza”…».

Il vecchio Simeone riconosce in Gesù il Salvatore. Poi unisce nella stessa profezia il figlio e la madre, dicendo a Maria: «Ecco, egli è posto come segno di contraddizione, sicché una spada trapasserà la tua anima».

Molti grandi pittori hanno raffigurato l’episodio della presentazione al tempio. Nell’affresco di Giotto, Simeone ha già in braccio il bambino, mentre la madre tende le mani come per riprenderselo, timorosa di affidare ad altri la sua creatura. Andrea Mantegna, che era il cognato di Giovanni Bellini, aveva dipinto le stesse figure centrali, ma diversi i personaggi che osservano. Nell’arte di Bellini, una luce gentile accarezza i volti, la timidezza pensosa dei gesti esprime il dialogo tra la terra e il cielo. Ma la scena è illuminata soprattutto dalla bellezza di Maria, capolavoro assoluto del “pittore delle Madonne”. Ha scritto Paolo VI: «Con Maria, ci viene aperta una duplice via: la via della verità che riguarda la sua collocazione nei misteri di Cristo e della Chiesa. E una via più accessibile, anche agli umili. La definiamo la via della bellezza». 

Franca Zambonini, Il pittore delle madonne e la bellezza di Maria, in «Famiglia cristiana» (2008) 52, 130.

La Settimana con don Bosco

26 gennaio-1º febbraio

26. (Ss. Timoteo e Tito) – Timoteo fu il “ca-ro discepolo” di san Paolo (OE21 198). – Tito divenne “un modello di virtù, fedele seguace e coadiutore del nostro santo Apostolo” (OE9 201).

27. (S. Angela Merici) – Don Bosco “volle che il primo Oratorio festivo, aperto nel 1876 in Torino dalle Figlie di Maria Ausiliatrice, fosse intitolato a sant’Angela Merici” (MB10 589).

28. (S. Tommaso d’Aquino) – “Sapeva sì ben nascondere l’ingegno, che il suo silenzio passava per istolidezza, e dai suoi condiscepoli egli veniva nominato il bue muto” (OE24 238s).

29. “La fede senza opere vale a niente; fac-ciamo dunque opere di fede” (OE3 340s).

30. (B. Bronislao Markiewicz) – “Il lavoro e la temperanza faranno fiorire la nostra Società” (MB10 102).

31. (S. GIOVANNI BOSCO) – “Miei cari, io vi amo tutti di cuore, e basta che siate gio-vani perché io vi ami assai” (OE2 187).

Febbraio

 1. (Commemorazione di tutti i Confratelli salesiani defunti) – “Ogni anno il giorno dopo la festa di san Francesco di Sales tutti i sacerdoti celebreranno una Messa pei soci defunti” (OE27 89).

(Morand Wirth)

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 94 (2013) 10, 61 pp.

– Comunità monastica SS. Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 91 (2010) 10,  71 pp.

– E. Bianchi et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

– Fernando Armelli, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. Ratzinger/Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– D. Ghidotti, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

Sussidio per il Giubileo

Per la Domenica della Parola di Dio, che si celebra il 26 gennaio, l’Ufficio Catechistico, tramite il Servizio dell’Apostolato Biblico, l’Ufficio Liturgico, l’Ufficio per i problemi sociali e il lavoro e l’Ufficio per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto hanno preparato un Sussidio per aiutare le comunità diocesane e parrocchiali a celebrare, riflettere e pregare su un tema che solo apparentemente riguarda il passato: il Giubileo.
L’obiettivo, sottolinea nella presentazione Mons. Giuseppe Baturi, Arcivescovo di Cagliari e Segretario Generale della CEI, è “riscoprire nella meditazione della Parola di Dio il senso della libertà biblica e il fondamento solido della speranza che non delude”. “La parola d’ordine, che emerge anche dai testi di questo Sussidio, è libertà”, aggiunge Mons. Baturi evidenziando che “vari sono i soggetti che devono beneficiare di una rinnovata e forse insperata libertà nel tempo giubilare”. “Anzitutto – spiega – le persone: se qualcuno per varie ragioni è caduto in disgrazia ed è diventato schiavo, non deve restare tale per sempre. Viene il tempo in cui recuperare lo status di persona libera. Nessun errore o sciagura del passato sono da considerarsi definitivi. Ma anche la terra deve essere affrancata da ogni potenziale sfruttamento intensivo: astenersi periodicamente dalla semina significa allora ricordare ai proprietari terrieri che la terra è un dono di Dio e come tale va trattata”. Ecco allora che il Giubileo può essere “un tempo speciale, in cui porre gesti concreti di speranza per un futuro nuovo, rispettoso della dignità di tutte le creature di Dio, affrancato dalla schiavitù delle cose materiali e aperto al trascendente”.
Il Sussidio si compone di uno schema per l’animazione liturgica della Domenica della Parola, della proposta di testi biblici e di documenti magisteriali a cui si aggiungono testi teologici e opere d’arte che possono sostenere la riflessione e l’approfondimento.

21 Gennaio 2025

2025: A.I. confini della comunicazione

“2025: A.I. confini della comunicazione” è il titolo del Convegno organizzato dall’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali, che si terrà dal 23 al 26 gennaio a Roma.

L’evento si aprirà con due sessioni tematiche specifiche per poi intersecarsi con il programma ufficiale del Giubileo del mondo della comunicazione. Si inizia giovedì alle 15.30 con il saluto di mons. Domenico Pompili, presidente della Commissione Episcopale per la cultura e le comunicazioni sociali, e l’introduzione di Vincenzo Corrado, Direttore dell’Ufficio. Alle 16 è prevista la riflessione di Maria Chiara Carrozza, presidente del CNR, su “Intelligenza artificiale, informazione e comunicazione”, mentre alle 18 sarà Mariagrazia Fanchi, docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore a soffermarsi su “Le sfide della comunicazione oggi”.
Venerdì 24 gennaio, alle 9.30 Alessandro Gisotti, vicedirettore della Direzione Editoriale del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede, offrirà ai partecipanti una lettura del Magistero pontificio legato ai temi della comunicazione. Alle 10, Antonio Preziosi, direttore del Tg2, interverrà su “Il senso del limite”, mentre alle 10.30 Marco Ferrando, direttore delle testate del Master in giornalismo dell’Università di Torino, e Celeste Satta, del medesimo Ateneo, rifletteranno su “meno prodotti, più processi”. Alle 11.45 è in programma un dialogo con Marco Girardo, direttore di Avvenire, Vincenzo Morgante, direttore di Tv2000-inBlu2000, e Amerigo Vecchiarelli, direttore dell’Agenzia Sir.
Nel pomeriggio l’appuntamento è nella Basilica di San Giovanni in Laterano per la Messa internazionale in occasione della festa di San Francesco di Sales. La giornata di sabato 25 è dedicata al Pellegrinaggio alla Porta Santa di San Pietro e all’incontro culturale in Aula Paolo VI con Maria Ressa e Colum McCann (moderato da Mario Calabresi), seguito dall’esibizione del Maestro Uto Ughi. Alle 12.30, gli operatori della comunicazione arrivati da tutto il mondo saranno ricevuti in udienza da Papa Francesco, sempre in Aula Paolo VI.
Alle 15, nell’ambito dei “Dialoghi con la città” organizzati per il Giubileo, il Card. Matteo Zuppi, Presidente della CEI, dialogherà con Ferruccio De Bortoli, giornalista e saggista, sul tema: “Comunicare speranza e pace” (Basilica di Santa Maria in Trastevere). Il tutto si concluderà il 26 gennaio con la Messa della Domenica della Parola presieduta dal Papa nella Basilica di San Pietro.


“Nel sentire comune, i confini vengono solitamente intesi come linee di delimitazione di un territorio, di una proprietà oppure della sovranità di uno Stato. Eppure, la radice etimologica della parola indica ben altre sfumature: cum e finis. Cioè, cum, che rimanda alla condivisione. E, poi, finis, che significa limite ma anche culmine di un’azione”, sottolinea Vincenzo Corrado, direttore dell’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali ricordando che “il rapporto con i confini si gioca proprio sul livello della relazione”. “È un punto di incontro, tra il vecchio e il nuovo. Ai (il riferimento è ai sistemi di intelligenza artificiale) confini ci si incontra per dirigersi verso il cuore della comunicazione. Questo percorso, certamente faticoso, restituisce il fascino dell’incontro, dell’ascolto e della parola. A noi – conclude – l’impegno di coglierne il messaggio e tradurlo in realtà”.

Insegnamento della religione cattolica: Messaggio della Presidenza CEI

Cari studenti e cari genitori,

è vicino il momento in cui dovranno essere effettuate le iscrizioni al primo anno dei diversi ordini e gradi di scuola, un appuntamento che comprende anche la scelta di avvalersi o meno dell’insegnamento della religione cattolica (Irc). Cogliamo l’occasione per invitarvi ad accogliere questa possibilità, grazie alla quale nel percorso formativo entrano importanti elementi etici e culturali, insieme alle domande di senso che accompagnano la crescita individuale e la vita del mondo. Il tutto, in un clima di rispetto e di libertà, di approfondimento e di dialogo costruttivo.
Mentre vi scriviamo, muove i primi passi il Giubileo del 2025, che Papa Francesco ha voluto dedicare al tema “Pellegrini di speranza”. Si tratta di un evento dai forti significati non solo religiosi, ma anche culturali e sociali, a conferma di come il messaggio cristiano parli all’uomo di oggi non meno di quanto abbia inciso in passato nella storia e nella cultura nazionale e mondiale. Il Giubileo, infatti, è tra le altre cose sinonimo di riconciliazione, di pace, di dignità umana, di giustizia, di salvaguardia del creato, beni essenziali di cui sentiamo un urgente bisogno.
Il tema della speranza provoca in modo speciale il mondo dell’educazione e della scuola, luoghi in cui prendono forma le coscienze e gli orientamenti di vita e si pongono le basi delle future responsabilità. Quale speranza dà senso all’esistenza? Dove è possibile riconoscere e trovare ragioni di vita e di speranza? E ancora, prendendo a prestito le parole di Papa Francesco, come sostenere la necessità di «un’alleanza sociale per la speranza, che sia inclusiva e non ideologica, e lavori per un avvenire segnato dal sorriso di tanti bambini e bambine» (Spes non confundit, 9)? Sono domande a cui la scuola non può essere estranea e alle quali dà spazio l’insegnamento della religione cattolica.
Testimoni di speranza sono infatti i docenti di religione, che uniscono alla competenza professionale l’attenzione ai singoli alunni e alle loro domande più profonde. Siamo molto grati a tutti gli insegnanti che, mentre offrono le ragioni della speranza che li muove, accompagnano coloro che stanno crescendo a scoprire la bellezza e il senso della vita, senza cedere alle tentazioni dell’individualismo e della rassegnazione, che soffocano il cuore e spengono i sogni.
Il cammino dei prossimi mesi – anche grazie all’Irc – ci aiuti a ritrovare la fiducia e il coraggio di aprire le famiglie, le scuole e tutte le comunità a nuovi orizzonti di collaborazione e di speranza.

13 Gennaio 2025

II DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno C

Prima lettura: Isaia 62,1-5


      
 Per amore di Sion non tacerò, per amore di Gerusalemme non mi concederò riposo, finché non sorga come aurora la sua giustizia e la sua salvezza non risplenda come lampada. Allora le genti vedranno la tua giustizia, tutti i re la tua gloria; sarai chiamata con un nome nuovo, che la bocca del Signore indicherà. Sarai una magnifica corona nella mano del Signore, un diadema regale nella palma del tuo Dio. Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, né la tua terra sarà più detta Devastata, ma sarai chiamata Mia Gioia e la tua terra Sposata, perché il Signore troverà in te la sua delizia e la tua terra avrà uno sposo. Sì, come un giovane sposa una vergine, così ti sposeranno i tuoi figli; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te.  
  • La prima lettura è stata scelta per gli evidenti richiami al vangelo, anche qui siamo in un contesto di nozze: è celebrata Gerusalemme come sposa del Signore. Verso la fine del suo libro profetico, ad una comunità scompaginata e delusa, Isaia rivolge un messaggio di sicura consolazione. La città si presenta sfavillante nel suo splendore, dono dello sposo, vincitore sui nemici. Nel poema si sovrappongono e si fondono l’immagine solare e quella del re vittorioso nel giorno delle sue nozze. Egli prende la città-sposa come sua corona e diadema regale, secondo l’espressione di Pr 12,4: «La donna perfetta è la corona del marito».

    II re vincitore ‘trasforma’ la sua sposa, la cui nuova situazione è iscritta nel «nome nuovo». Per i semiti il nome è l’essenza stessa dell’essere, quindi Gerusalemme che riceve un nome nuovo è posta nella condizione di assumere una nuova identità. Da «devastata» e «abbandonata» si trova ad essere «mia gioia» e «sposata». Il compiacimento dello sposo denota che ora si rispecchia pienamente nella sua sposa, che egli ha creato e modellato secondo il suo gusto. La città che ritorna ad essere ‘vergine’ è stata totalmente rifatta dal suo Creatore: la situazione attuale è frutto di un amore che riabilita e rinnova nel profondo. È la novità del bello e del buono, proprio come il vino assaggiato dal maestro di tavola.

Seconda lettura: 1Corinzi 12,4-11

       Fratelli, vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune: a uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il linguaggio di sapienza; a un altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza; a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell’unico Spirito, il dono delle guarigioni; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro l’interpretazione delle lingue. Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole.        
  • Nel quadro dell’odierna liturgia, la lettura paolina aiuta a ritrovare il valore della diversità dei ruoli nell’unità di intenti. Essa prima di tutto stigmatizza un modo di pensare che in un recente passato poneva in tensione dialettica e quasi in opposizione carismi e ministeri, come se il carisma fosse una particolare grazia, frutto dell’imprevedibile libertà dello Spirito e da giocare in libertà e il ministero invece qualcosa di permanente ed in connessione con gli aspetti istituzionali della Chiesa. Tale distinzione convogliava tutte le simpatie sui carismi ed ingenerava nei confronti dei ministeri un atteggiamento più o meno sottile di diffidenza. Il Concilio Vaticano II ha rimesso le cose a posto: anche nei ministeri si libera la presenza e l’azione feconda dello Spirito. Del resto Paolo, sotto la categoria dei ‘doni spirituali’ colloca un po’ tutte le grazie, sia quelle che potremmo chiamare — con termine non appropriato — estemporanee e provvisorie, sia quelle che si incarnano in un ruolo permanente.

    La riflessione sulla natura e sul ruolo dei carismi riceve una lunga e sistematica trattazione nei capp. 12-14 della prima lettera ai Corinti. Evinciamo, senza troppa difficoltà, che numerose idee distorte o confuse ottenebravano il pensiero teologico della comunità. Paolo cerca di far chiarezza e di correggere: privilegiando la dimensione appariscente dell’azione dello Spirito, vengono incrementati l’orgoglio e l’ansia di accaparramento; considerando i doni dello Spirito in chiave prevalentemente individualistica, viene lacerata la comunità; ritenendo che la pienezza della vita cristiana dipenda dal possesso di doni spettacolari, viene scardinata la scala assiologica.

    Precisato ciò, Paolo da preziose direttive:

    1. Lo fa usando tre termini — «carismi» (greco karismata), «ministeri» (greco diakoniai), «attività» (greco energeis) — per indicare non tre specie diverse dei doni dello Spirito, ma tre aspetti differenti della stessa azione: carisma indica la gratuità, ministero la destinazione comunitaria e attività la forza per costruire il regno di Dio. Si da una diversità che, nello Spirito e per lo Spirito, concorre all’unità (v. 4 e v. 11). 

    2. Tutti sono portatori di ‘carismi’ che, al v. 7, ricevono una specie di definizione. Perché vi sia carisma occorrono tre condizioni: che sia dono dello Spirito, dato all’individuo, per il bene comune. Già questo dovrebbe privare il carisma di ogni pretesa meritocratica e di ogni accaparramento egoistico.

    3. Viene proposta una lista di carismi, a puro titolo indicativo (vv. 8-10), per mostrare una varietà che alla fine va ricondotta alla libera e fantasiosa azione dello Spirito (cf. v. 11).

    Il discorso sui carismi deve essere completato anche se la lettura si interrompe a questo punto. Bisogna relativizzare il valore dei doni dello Spirito: al primo posto, in assoluto, sta l’amore. L’uomo è salvato dall’amore ed è chiamato all’amore. È questo il primo e più alto dono che Dio fa al credente che si vede trasformato in creatura nuova. È l’amore l’anima della vita cristiana e, in quanto tale, non avrà mai fine (cf. 13,1-13).

Vangelo: Giovanni 2,1-12

        In quel tempo, vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono. Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora». Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.      

Esegesi

    Giovanni si rivela consumato narratore e raffinato teologo, capace di calibrare la presentazione di Gesù. Di lui offre una inequivocabile carta d’identità che lo situa tra cielo e terra, divina Parola eterna e uomo in mezzo agli uomini (cf. 1,1-18). Poi fa echeggiare la vibrante testimonianza del Battista che lo indica Messia e, più ancora, «Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo» (1,29). Conclusa la fase di presentazione, inizia quella di autopresentazione. Gesù invita alla sua sequela chiamando alcuni uomini con un «venite e vedrete» che li stabilizza al suo seguito in una comunione di vita. Poi vengono esibite le credenziali, fatte di lunghi discorsi e di 7 miracoli che l’evangelista chiama sistematicamente ‘segni’ perché devono indirizzare alla comprensione della persona di Gesù. Il brano evangelico riporta il primo di questi segni, quantitativamente ridotti rispetto ai vangeli sinottici, ma scelti con cura e racchiusi nella cifra che indica una pienezza.

    Troviamo dapprima il quadro di una festa di nozze, la presenza di Maria e Gesù accompagnato dai discepoli e quindi la situazione incresciosa della mancanza di vino (vv. l-3a). Ad un certo momento Maria se ne accorge e ne rende partecipe Gesù (vv. 3b-5); questi reagisce verbalmente quasi a schermirsi, quindi compie il suo intervento prodigioso (vv. 6-8), fino a rendere il vino di ottima qualità: viene così confermato l’avvenuto miracolo (vv. 9-10). La conclusione sancisce l’avvio dell’attività taumaturgica di Gesù, richiamando i temi della gloria e della fede (v. 11). Il v. 12 apparentemente insignificante, perché sembra una semplice informazione, conferisce una valenza ‘ecclesiale’ al miracolo e mostra la presenza di molteplici persone attorno a Gesù, richiamo alle diverse funzioni nella Chiesa. 

    1. Ora e gloria di Gesù. Risulta scontato dire che il brano profuma di cristologia. Una semplice osservazione statistica rivela che il nome Gesù ritorna 6 volte e per altre 7 un aggettivo o pronome si riferisce a lui. Al di là della quantità, appare la qualità. Giovanni ha voluto rivestire di sostanziosa teologia il primo miracolo: troviamo per la prima volta il tema dell’«ora» (cf. v. 4) che rimanda al momento culminante della morte e glorificazione; non per nulla quel concetto è correlato con quello della «gloria» che chiude il brano (cf. v. 11) ed è connesso con la fede dei discepoli che credono in lui, anticipo profetico di quella promessa: «Io quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (12,32). La vera «ora» sarà quella della morte che disvela appieno la sua gloria, la sua vicinanza con il Padre, la capacità di offrire la vita in un atto di amore infinito. In attesa di quella manifestazione piena e definitiva, ecco alcuni disvelamenti parziali che sono i miracoli, preziose indicazioni che interrogano sulla identità più profonda di Gesù, quella che sfugge allo sguardo frettoloso e distratto. Perciò Giovanni ama chiamare i miracoli ‘segni’ perché sono come preziosi cartelli indicatori che orientano verso la comprensione piena di Gesù.

    2. Dimensione mariologica. I discepoli, per credere, hanno bisogno di vedere la sua gloria riflessa nel miracolo. Maria no. In lei la fede nel Figlio è granitica fin dall’inizio. Il suo comando ai servi «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» non fa una grinza. Maria è il secondo personaggio della pericope perché citata 4 volte e sempre come «madre» (vv. 1.3.5.12). Non si sostiene una solida mariologia se non in intimo legame con la cristologia. Ogni discorso su Maria comprende e rimanda a Cristo. È la prima volta che Giovanni cita la madre; lo farà ancora e solo una volta, al momento della crocifissione: anche in quel caso ella sarà la «madre», madre di Gesù e madre del discepolo prediletto, figura di tutta la Chiesa (cf. 19,25-27). La madre appare nel IV Vangelo all’inizio e alla fine, sempre nel contesto dell’ora, perché ella prima e più di tutti partecipa alla passione/glorificazione del Figlio. Esiste tra i due una comunione che non è priva di ‘fatica’. Anche per Maria credere è una conquista progressiva, un allinearsi non certo istintivo alla suprema volontà divina. La risposta di Gesù: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora» denota un distacco che non è separazione, ma autonomia e rispetto dei ruoli. La frase, certamente forte, esprime una divergenza tra interlocutori (cf. Gdc 11,12; 2Sam 16,10), non necessariamente opposizione. La madre intercede ma non interferisce; suggerisce ma non comanda, perché Gesù agisce per decisione propria e sovrana. La sua volontà deve essere conforme solo a quella del Padre, suo criterio ultimo e decisivo di azione (cf. 4,34: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera»). Nessun altro deve guidare la sua mano (anche nel caso della malattia di Lazzaro: Gesù non si reca dall’amico alla notizia della sua grave malattia, ma quando lo decide lui, cf. Gv 11,7). Maria non è risentita per quel taglio netto che ella, anzi, bene accoglie e di cui è pienamente convinta. Per questo suggella le sue parole rivolgendosi ai servi chiedendo loro di sottomettersi, come lei, in tutto e per tutto a quello che Gesù vuole.

    3. Valore del matrimonio. Il primo miracolo di Gesù avviene nel contesto di uno sposalizio: non solo Gesù vi è invitato e vi partecipa, ma pure raddrizza una festa che stava ‘deragliando’ per la mancanza di vino. È un modo insolito, certamente originale, di apprezzare e valorizzare il matrimonio. Gesù che interviene a vantaggio dei due ignari sposini intende alludere ad un’altra festa che celebra le nozze tra Dio e l’uomo, tra cielo e terra, in una rinnovata alleanza, dopo che il peccato aveva distrutto il patto tra i due, rendendo l’uomo un ‘estraneo’ di Dio, sua sbiadita e irriconoscibile immagine. Il significato del vino è ripetutamente richiamato, sia nella quantità (una stima approssimativa lo quantifica in circa 500 litri: due o tre barili — in greco: metrete, del valore di circa 40 litri l’una — in ognuna delle sei anfore, cioè almeno litri 40x2x6=480), sia nella qualità (lo riconosce il maestro di tavola che doveva essere un intenditore). Il vino era parte integrante del banchetto e questo a sua volta alludeva ad una situazione di intimità e di comunione che i profeti individuavano come caratteristica dei tempi finali, quelli della armonia di Dio con tutti gli uomini: «Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati» (Is 25,6).

Meditazione

    L’antica tradizione liturgica poneva l’accento sull’unità della manifestazione – ‘epifania’ – del Signore nei tre eventi dell’adorazione dei Magi, del Battesimo (o Teofania) presso il Giordano, del segno di Cana, dove l’acqua viene tramutata in vino. Canta ad esempio un’antifona della solennità dell’Epifania del Signore:

Tre prodigi celebriamo in questo giorno santo:

oggi la stella ha guidato i magi al presepio,

oggi l’acqua è cambiata in vino alle nozze,

oggi Cristo è battezzato da Giovanni nel Giordano

per la nostra salvezza, alleluia.

    C’è un unico oggi in cui il Signore manifesta la sua salvezza. Ce ne vengono così narrati alcuni tratti essenziali: la salvezza è per tutte le genti (l’adorazione dei Magi); consiste nel renderci partecipi della figliolanza divina nel suo Figlio Unigenito, della cui Pasqua siamo resi partecipi in virtù del battesimo (la Teofania presso il Giordano); compie definitivamente l’alleanza che già la letteratura profetica aveva più volte annunciato con il simbolo delle nozze, come ricorda la prima lettura della liturgia odierna: «Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, né la tua terra sarà più detta Devastata, ma sarai chiamata Mia Gioia e la tua terra Sposata, perché il Signore troverà in te la sua delizia e la tua terra avrà uno sposo» (Is 62,4).

    Questa antica e sapiente tradizione liturgica sopravvive nel ciclo C del lezionario domenicale, che propone il segno di Cana come vangelo della II Domenica del Tempo ordinario, in continuità con la solennità dell’Epifania e con la Domenica del Battesimo. Il Tempo ordinario si salda così in modo forte con il Tempo natalizio, per mostrare come la salvezza di Dio, che in Gesù di Nazaret si è incarnata nella nostra storia, si dilati e riempia di sé le pieghe ordinarie e quotidiane della nostra vita.

    Lo stesso evangelista Giovanni, nel raccontare l’episodio apparentemente molto familiare di Cana, insiste nell’affermare che si tratta dell’inizio dei segni compiuti da Gesù, attraverso il quale egli «manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui» (v. 11). È l’inizio non semplicemente perché è il primo segno di una lunga serie; piuttosto è il segno archetipo (in greco ‘inizio’ è detto con arké), tale da costituire una sorta di stampo originario che imprime la sua forma su tutti gli altri segni che seguiranno, fino alla Pasqua. Non a caso è un segno che avviene proprio a Cana, piccolo villaggio della Galilea; il significato simbolico del suo nome non sfugge però all’evangelista, che sa bene che cana in ebraico significa ‘fondare’, ‘creare’. Ciò che Gesù opera a Cana è come una nuova fondazione, che porta a compimento la creazione di Dio, riscattandola dal male che il peccato ha introdotto nella storia, e fonda davvero la nuova alleanza tra Dio e il suo popolo. Ora le nozze si compiono, Dio sposa l’umanità!

    Il ricco simbolismo di questa pagina giovannea evoca infatti il tema dell’alleanza. Tutto accade non in un giorno qualsiasi, ma «il terzo giorno» (v. 1 ), espressione che ci orienta in avanti, facendoci immediatamente pensare al terzo giorno della Risurrezione. Nello stesso tempo l’evangelista ci invita a guardare indietro, al terzo giorno del Sinai, quando Dio dona a Mosè le Dieci Parole dell’Alleanza che stipula con Israele: «Il terzo giorno, sul far del mattino, vi furono tuoni e lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di corno: tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da tremore» (Es 19,16: così viene introdotta la Teofania che culmina, al capitolo 20, con il Decalogo). E l’alleanza, lo abbiamo già ricordato, è spesso descritta con la metafora delle nozze tra Dio e il suo popolo. Il vino stesso, che certo non può mancare a un banchetto nuziale, raccoglie in sé e simboleggia tutti i beni elargiti da Dio alla sua Sposa, in particolare il dono della Torah e della Rivelazione.

    Qui a Cana, al terzo giorno, Gesù compie definitivamente l’alleanza. Ciò che era prefigurato nella Prima Alleanza diventa definitivo nella Nuova Alleanza. Le sei giare (sei è cifra simbolica di una imperfezione che però tende verso la pienezza del numero sette) colme di acqua fino all’orlo vengono trasformate in vino. Erano giare di pietra che contenevano l’acqua per la purificazione rituale dei Giudei (v. 6). Giare di pietra come spesso può essere di pietra il cuore dell’uomo, soprattutto quando lascia le parole di Dio scritte su tavole di pietra, anziché lasciarsele imprimere nel proprio cuore. Ma per quanto l’acqua riempia queste giare fino all’orlo, non basta a purificare il cuore di pietra e a trasformarlo in cuore di carne. È necessario un vino nuovo, un vino migliore, quello che solo Gesù può donare, trasfigurando la prima alleanza nella nuova e definitiva alleanza. Nel terzo giorno della Pasqua, nella sua Ora che già qui a Cana viene annunciata come imminente (cfr. v. 4), diventerà chiaro che questo vino nuovo e migliore Gesù lo dona nel suo stesso sangue versato per tutti.

    Solo lui lo può donare. «Colui che dirigeva il banchetto… non sapeva da dove venisse» (v. 9). Nessuno può saperlo, perché questo da dove allude al mistero di Gesù, e più ancora al mistero del Padre, il solo che può donare il proprio Figlio e nel Figlio il vino migliore dell’Alleanza nuova, il vino delle nozze definitive con il suo popolo. Da dove (pothen in greco) ricorre spesso nel vangelo di Giovanni e sempre con un forte significato cristologico. Gesù è colui che non sappiamo da dove viene e verso dove va (cfr. Gv 8,14). Comprendere che viene da Dio e a lui ritorna è la condizione che ci permette di conoscere davvero il suo mistero personale e di accogliere la sua rivelazione. Proprio perché allude a Gesù, il da dove ci parla anche dei doni che egli offre alla nostra esistenza per colmare il suo bisogno di vita, e di vita piena, di vita eterna. Qui a Cana il capo-tavola non sa da dove viene il vino. In Samaria la donna chiede ironicamente a Gesù: «Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva?» (4,11). Al capitolo sesto sarà Gesù stesso a domandare a Filippo: «da dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?» (6,5). Il vino di Cana, l’acqua di Samaria, il pane della Galilea, vengono tutti da quel da dove che è il mistero di Dio e alludono a quel dono per eccellenza che è Gesù, lui che sa da dove viene e dove va. È lui il vero vino, la vera acqua, il vero pane di cui la nostra vita ha assolutamente bisogno per compiersi in pienezza. È lui lo Sposo, o meglio è in lui che si compiono in modo definitivo le nozze tra Dio e il suo popolo.  

    A Cana è presente la madre di Gesù, definita qui, come ai piedi della croce, ‘donna’ (cfr. Gv 19,25-27). È simbolo della figlia di Sion, chiamata però anche ‘madre Sion’ nei testi profetici; in lei è rappresentato il resto di Israele che attende l’ora del Messia, il suo giorno, perché scopre in sé una mancanza che ha bisogno di essere colmata: «non hanno vino» (v. 3). Insieme alla donna/madre ci sono con Gesù i discepoli, come ai piedi della croce ci sarà il Discepolo amato. Là la donna sarà consegnata al discepolo e il discepolo alla donna. La nuova Alleanza si compie, direbbe san Paolo, abbattendo ogni separazione e facendo dei due uno solo (cfr. Ef 2,14-18). La figlia di Sion – Israele – e i discepoli di Gesù – la Chiesa – sono consegnati reciprocamente gli uni agli altri. A Cana, nasce, viene fondata e ricreata, un’umanità nuova, l’umanità dei figli di Dio, chiamati ad abbattere ogni separazione, a superare ogni divisione, a vincere ogni logica perversa di inimicizia.

    Ascoltando questo brano anche noi continuiamo a contemplare la gloria del Padre pienamente manifestatasi in Gesù: la gloria di un amore che continua a donarci in ogni Eucaristia il vino dell’Alleanza nuova, il vino migliore per la nostra gioia.

Don Bosco commenta il Vangelo

Don Bosco si sofferma sull’intervento di Maria a Cana

Il primo miracolo di Gesù fu ottenuto grazie all’intercessione di Maria, ricorda don Bosco nell’Associazione dei devoti di Maria Ausiliatrice, affermando esplicitamente che “a richiesta di lei Gesù operò il primo dei suoi miracoli in Cana di Galilea” (OE21 346). E il suo intervento fu un atto di “limosina”, cioè di misericordia, scrive don Bosco per il giorno ventinovesimo del suo Mese di maggio:

Imitiamo anche Maria nel fare limosina. […] Ella fu invitata a nozze nella città di Cana nella Galilea. Alla metà del pranzo mancò il vino. Non potendolo ella stessa provvedere invitò suo figlio Gesù, che a richiesta di lei cangiò l’acqua in vino. Immaginiamoci quante grazie e quante benedizioni Maria non otterrà nel cielo dal suo amato Gesù a favore di quelli, che coi loro consigli, colle loro opere, preghiere, limosine o in qualche altra maniera esercitano atti di misericordia verso il prossimo? (OE10 462s).

Soprattutto, secondo quanto scrive don Bosco nelle Meraviglie della Madre di Dio invocata sotto il titolo di Maria Ausiliatrice, l’intervento della madre di Gesù è “un fatto che dimostra chiaramente la potenza e lo zelo di Maria nell’accorrere in nostro aiuto” (OE20 223).

Sul modo di intervenire di Maria, don Bosco continua dicendo: “Ella non fa una prolissa preghiera a Gesù come Signore, né gli comanda come a figlio; non fa che annunziargli il bisogno, la mancanza del vino”. E quello che fece Maria per gli invitati alle nozze, lo farà anche per noi:

Voleva provvedere alla necessità di questi ospiti e perciò dice il Vangelo: Mancando il vino, lo disse la madre di Gesù a lui. Onde ci anima san Bernardo a ricorrere a Maria perché se ebbe tanta compassione della vergogna di quella povera gente e loro provvide, quantunque non pregata, quanto più avrà pietà di noi se la invochiamo con fiducia? (OE20 225s).

Dopo la risposta di Gesù, che pareva dura, Maria non si scoraggia. Siamo invitati anche noi a non disperare mai della risposta di Gesù alle nostre preghiere nonostante le apparenze contrarie:

La bontà di Maria verso di noi dimostrata in questo fatto splende maggiormente nella condotta che tenne dopo la risposta del suo divin figliuolo. Alle parole di Gesù un’anima meno confidente, meno coraggiosa di Maria, avrebbe desistito dallo sperare più in là. Maria invece per nulla conturbata si rivolge ai servi della mensa e dice loro: Fate quello che egli vi dirà. Quodcumque dixerit vobis, facite. Come se dicesse: Sebbene sembra che neghi di fare, tuttavia farà (OE20 227).

Nelle poche parole di Maria risplendono poi tante virtù che don Bosco raccomanda anche a noi: la fiducia in Gesù nonostante la dura risposta, la speranza nella sua misericordia, l’amore per Dio perché manifesti la sua gloria, l’obbedienza in tutto raccomandata ai servi, la modestia mentre non approfitta di questa occasione per gloriarsi d’essere madre d’un tanto figlio, la riverenza verso Dio col non pronunziare il santo nome di Gesù. la prontezza nel fare la volontà di Dio, la prudenza e la misericordia nel “prevenire che altri cada nel male” (OE20 227ss).

A Cana, spiega don Bosco anche nel primo dei Nove giorni consacrati allaugusta madre del Salvatore sotto al titolo di Maria Ausiliatrice, Maria “si assunse tosto, come riflette san Bernardino da Siena, l’uffizio di pia ausiliatrice” (OE22 261). A Cana il Signore ha concesso una grazia temporale. Anche oggi il Signore si rivela un Padre pronto a consolarci “nei bisogni temporali come alle nozze di Cana” (OE20 344). In realtà, lo scopo principale di Gesù moltiplicando il vino delle nozze era il bene spirituale delle persone invitate.

Come dovrebbe comportarsi il cristiano di cui don Bosco traccia il ritratto nella Chiave del paradiso? Ecco la risposta: “Il vero cristiano nel mangiare e nel bere deve essere come era Gesù Cristo alle nozze di Cana di Galilea […], cioè sobrio, temperante, attento ai bisogni altrui, e più occupato del nutrimento spirituale che delle pietanze di cui nutrisce il suo corpo” (OE8 22).

(Morand Wirth)

Tra parentesi il lettore troverà i riferimenti principali dei testi citati nelle opere di o su don Bosco: – nei 38 volumi delle Opere edite di G. Bosco (OE1-38, a cura del Centro Studi Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana); – nei 19 volumi delle Memorie biografiche di don G. Bosco (MB1-19, a cura di G.B. Lemoyne, A. Amadei e E. Ceria); – nelle sue Memorie dell’Oratorio (MO, a cura di A. Giraudo); – nei 10 volumi del suo Epistolario (E1-10, a cura di F. Motto). La seconda cifra indica la pagina del volume.

L’immagine della domenica

È ridicolo, dice l’orgoglio;

è avventato, dice la prudenza;

è impossibile, dice l’esperienza.

È quel che è, dice l’amore.

(Erich Fried)

Casella di testo: Isaia 62,1-5
1Corinzi 12,4-11
Giovanni 2,1-12

Gesù vuole trasmettere a Cana il principio decisivo della relazione che unisce Dio e l'umanità. Tra uomo e Dio corre un rapporto nuziale, con tutta la sua tavolozza di emozioni forti e buone: amore, festa, dono, eccesso, gioia. Un legame sponsale, non un rapporto giudiziario o penitenziale, lega Dio e noi, un vino di festa. A Cana Gesù partecipando a una festa di nozze proclama il suo atto di fede nell'amore umano. Lui crede nell'amore, lo benedice, lo rilancia con il suo primo prodigio, lo collega a Dio. Perché l'amore è il primo segnale indicatore da seguire sulle strade del mondo, un evento sempre decretato dal cielo.  
Gesù prende l'amore umano e lo fa simbolo e messaggio del nostro rapporto con Dio. Anche credere in Dio è una festa, anche l'incontro con Dio genera vita, porta fioriture di coraggio, una primavera ripetuta. A lungo abbiamo pensato che Dio fosse amico del sacrificio e della gravità, e così abbiamo ricoperto il vangelo con un velo di tristezza. Invece no, a Cana ci sorprende un Dio che gode della gioia degli uomini e se ne prende cura. «Dobbiamo amare e trovare Dio precisamente nella nostra vita e nel bene che ci dà. Trovarlo e ringraziarlo nella nostra felicità terrena» (Bonhoeffer).
(Ermes Ronchi)

Preghiere e racconti

Il vino della festa

Sì, il vino: è lui, non l’uva, il vero “frutto” della vigna. E come la vigna è ricco di doni concreti e, al contempo, denso di rimandi simbolici. Da sempre, “dai tempi di Noè” appunto, accanto al pane del bisogno, al pane quotidiano necessario per vivere, l’uomo ha avuto il vino della gratuità e della festa: una bevanda non necessaria alla sopravvivenza, ma preziosa per la consolazione, la gioia condivisa, l’amicizia ritrovata… Il vino: bevanda che, bevuta in solitudine, ne stordisce l’amarezza solo per accentuarne la tristezza, ma anche bevanda che, gustata nell’intimità di un’amicizia, ne esalta il sapore e ne affina il piacere. Bevanda esigente, anche, perché richiede a chi la beve lo sforzo di liberarsi dalla schiavitù dell’efficienza esasperata per abbandonarsi alla gratuità senza la quale la vita è priva di sapore: bevanda che invita a cantare la vita, a immettere nella consapevolezza della morte la volontà di dire sì alla vita.

Forse è per tutti questi aspetti – oltre che per il discernimento che richiede nel conoscere se stessi, i propri limiti e quelli degli altri -, è per questa lettura dell’esistenza nel segno della gratuità e della gioia condivisa che il vino è divenuto nella Bibbia e in altre tradizioni spirituali il simbolo della sapienza. Sapienza perché dà “sapore” alla vita, ma anche perché il vino sa sciogliere il cuore e farne emergere ciò che davvero lo abita, sa trasformare la semplice assunzione di cibo in un banchetto, così come la fermentazione ha trasfigurato l’umile succo d’uva in bevanda inebriante. […] non a caso Gesù stesso porrà il suo primo “segno” alle nozze di Cana sotto il sigillo di una gioia condivisa grazie al vino migliore e lascerà ai suoi discepoli il comandamento nuovo dell’amore attorno al “segno” di un pane spezzato e di una coppa di vino versato perché tutti abbiano la vita in pienezza.

(Enzo BIANCHI, Il Pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 50-51).

E giunse la sua ora

Quale doveva essere, dunque, la sua ora? Forse aveva scelto di cominciare davanti a una piaga o al capezzale di un infermo; o magari in un attimo qualunque, all’aria aperta, a un segno delle rondini, a un impercettibile turbamento del sangue. Non questa, in ogni caso: un banchetto di nozze. La sua ora è un’altra. Quando? Egli la tiene nascosta come uno stratega che si riserva l’ora precisa in cui scenderà in campo; è segreto anche per sua madre. E il dialogo che con lei si accende qui alla tavola di Cana è una corta battaglia di volontà.

«Non hanno più vino. Io e te soli lo sappiamo, io e te soli possiamo provvedere. Senza vino una festa di nozze può diventare incredibilmente triste. Non lasciar cominciare con un’umiliazione i giorni di questa sposa. Per noi donne non ci sono cose piccole e trascurabili, ed è così facile sciupare le nostre gioie più attese. L’armonia di questa mensa nuziale vale un miracolo».

«Che importa a te e a me? Le loro ore di gioia e di pena sono già tutte contate. Troppe altre volte, nel domani che li aspetta, rimarranno senza vino e io non sarò fra loro. Lasciami, mamma, in quest’ultima pigrizia della vigilia: che io indugi ancora al di qua del confine, in questo mondo in cui il vino finisce e l’acqua resta acqua. Lasciami un altro po’ nella casa, non c’è niente di più dolce che questo: avere una madre, un angolo di silenzio e un letto dove posare la testa. Tu devi pur sapere che cosa comincia per me se mi riconoscono e dove mi porterà questa pietà della povera gente».

«Lo so. Ma essi non hanno più vino».

«Allora addio, se lo vuoi tu. Sai cosa devi ordinare ai servi, perché io ti accontenterò senza che nessuno se ne accorga. Ci separeremo qui, accanto a quest’anfora piena d’acqua. Fra poco sarà vino. Un giorno cambierò anche quel vino, e sarà il mio ultimo miracolo».

Maria ha vinto – mai aveva vinto e non vincerà più. È felice. Non sa che così tutto è anticipato. La macchina dei miracoli gira, è stata lei a scegliere l’ora.

(Luigi Santucci)

La fonte divina dell’amore

Di questa fonte inesauribile parla Giovanni nel racconto delle nozze di Cana (Gv 2,1-12). Il nostro vino, il nostro tentativo di amare, vede molto presto la fine. Non possiamo dare nessuna garanzia delle nostre emozioni. Prima o poi i nostri sentimenti di amore si volatilizzano e allora crediamo di non riuscire più ad amare l’altro. Questo capita a molti coniugi che assistano stupiti all’esaurirsi del loro amore. Questo capita anche alla coppia che celebra le nozze a Cana. Viene a mancare il vino, il loro amore viene a mancare, già il terzo giorno essi non hanno più né vino, né amore. Allora Gesù trasforma in vino sei otri d’acqua, in modo che il vino non abbia più a finire.

Sei è il numero dell’imperfezione e gli otri di pietra rimandano a quanto di duro e di impietrito vi è in noi. Nella loro incapacità di amare veramente, nelle loro durezze e nei loro blocchi, Gesù mostra agli sposi un’altra fonte d’amore, la fonte divina, che mai smette di sgorgare. Gesù pronuncia la sua parola d’amore in quanto in noi è divenuto sciapo e senza sentimento, in quanto in noi è imperfetto e indurito. Se noi ci fidiamo di questa parola, anche in noi tutto può mutarsi in amore.

D’improvviso noi possiamo amare con le nostre forze e le nostre debolezze, con le nostre imperfezioni e i nostri errori, con le nostre contrazioni e i nostri indurimenti. Tutto in noi può irradiare l’amore divino, così che intorno a noi possa svolgersi la festa della vita.

(A. GRÜN, Abitare nella casa dell’amore, Brescia, Queriniana, 2000, 67-68).

Riempi d’acqua il tuo otre vuoto

Adesso sono un otre vuoto!

Bisogna consumare tutto il proprio vino

per accorgersi che non era vino buono.

Bisogna consumare tutto il proprio vino

per desiderare, finalmente, il vino di Gesù.

Madre della compassione,

Madre che ti accorgi da sempre,

anche per me, dici a Gesù:

“non ha più gioia!”.

Non ho più gioia.

Otre vuoto io sono,

anche di speranza.

E tu, sicura come chi ha già ottenuto,

con gli occhi che tradiscono una gioia più grande di quella che sarà la mia, supplichi:

“fa tutto quello che Lui ti dirà!”.

E Lui: “riempi d’acqua il tuo otre!”.

Da dove attingere, Signore, per colmare fino all’orlo?

Dalla mia mente deserta?

Dal mio cuore inaridito?

Dalla mia innocenza consumata?

Fammi, Signore, il dono delle lacrime:

siano esse l’acqua che con abbondanza tu trasformi,

e mentre bevo a piene mani, sento che Le dici:

“Donna, ecco tuo figlio!”.

«Non hanno più vino»

Il vino è la gioia di vivere che non può essere comprata ne fabbricata ed è difficile starne senza. È Gesù, questo vino, di cui gli sposi hanno bisogno, ma che non potrebbero mai darsi, questo vino Gesù lo ‘crea’ dall’acqua, perché si tratta di un vino nuovo.

Giovanni vuole dirci che il vino nuovo e buono, mai gustato prima, è Gesù stesso. Il vino è significativo come dono di Gesù:  esso è alla fine; è buono; è abbondante. È segno del tempo della salvezza. Il vino è così il «sangue versato» da Cristo per noi, è il segno della carità, del dono di sé, così importante per poter vivere da cristiani. Il vino delle nozze di Cana, questo buon vino atteso, è il dono della carità di Cristo, il segno della gioia che la venuta del Messia realizza. Le feste degli uomini hanno la conclusione ben descritta dal maestro di tavola: la tristezza del lunedì. Gesù, invece, è «il sabato senza sera», come diceva sant’Agostino: quando si pensa che la festa finisca – «Non hanno più vino» -, salta fuori il vino buono, conservato fino allora, il vino nuovo mai gustato prima

(Cf. A.S. BESSONE, Prediche della domenica, Anno C, Biella, 1992, 185-190).

Maria, donna del vino nuovo

Nel vangelo c’è un episodio, quello delle nozze di Cana che gli ultimi approfondimenti biblici ci obbligano decisamente a rivedere, soprattutto per ciò che riguarda il ruolo di Maria.

Chi sa quante volte ci siamo commossi pure noi dinanzi alla sensibilità della Madre di Gesù che con finezza tutta femminile, ha intuito il disappunto degli sposi, a corto di vino, e ha forzato la mano del figlio, troncando sul nascere l’evidente imbarazzo che ormai serpeggiava dietro le quinte.

Pare certo, però, che l’intenzione dell’evangelista non fosse tanto quella di mettere in evidenza la sollecitudine di Maria a favore degli uomini, o la potenza della sua intercessione presso il figlio. Quanto, quella di presentarla come colei che percepisce a volo il dissolversi del piccolo mondo antico e, anticipando l’«ora» di Gesù, introduce sul banchetto della storia non solo i boccali della festa, ma anche i primi fermenti della novità.

Festa e novità, quindi, irrompono nella sala su espresso richiamo di lei.

A darcene conferma c’è nella pagina di Giovanni un particolare tutt’altro che accidentale, che anzi, a ben considerarlo, esplode con la prepotenza di un invadente protagonismo. È costituito dalle sei giare di pietra, per la purificazione dei giudei.

Oscene nella loro immobilità. Ingombranti nella loro ampiezza prevaricatrice. Gelide come cadaveri, perché di pietra. Inutili, perché vuote, agli effetti di una purificazione che sono ormai incapaci di dare.

Sei, e non sette che è il numero perfetto. Simbolo malinconico, quindi, di ciò che non giungerà mai a completezza, che non toccherà più i confini della maturazione, che resterà sempre al di sotto di ogni legittima attesa e di ogni bisogno del cuore.

Ebbene, di fronte a questo scenario di paresi irreversibile rappresentato dalle giare (di pietra, come le tavole di Mosè), Maria non solo avverte che la vecchia alleanza è ormai logora e che l’antica economia di salvezza fondata sulle prescrizioni della Legge ha chiuso da tempo la sua contabilità, ma sollecita coraggiosamente la transizione.

Vede raggiunti i livelli di guardia da un mondo che boccheggia nella tristezza, e invoca da suo figlio non tanto uno strappo alla legge della natura, quanto uno strappo alla natura della legge. Questa non contiene ormai nulla, non è in grado di purificare nessuno, e non rallegra più il cuore dell’uomo.

Interviene, perciò, d’anticipo, e chiede a Gesù un acconto sul vino della nuova alleanza che, lei presente, sgorgherà inesauribile nell’ora della croce.

«Non hanno più vino». Non è il tratto di una provvidenziale gentilezza che sopraggiunge a evitare la mortificazione di due sposi. E un grido d’allarme che sopraggiunge per evitare la morte del mondo.

Santa Maria, donna del vino nuovo, quante volte sperimentiamo pure noi che il banchetto della vita languisce e la felicità si spegne sul volto dei commensali!

È il vino della festa che vien meno.

Sulla tavola non ci manca nulla: ma, senza il succo della vite, abbiamo perso il gusto del pane che sa di grano. Mastichiamo annoiati i prodotti dell’opulenza: ma con l’ingordigia degli epuloni e con la rabbia di chi non ha fame. Le pietanze della cucina nostrana hanno smarrito gli antichi sapori: ma anche i frutti esotici hanno ormai poco da dirci.

Tu lo sai bene da che cosa deriva questa inflazione di tedio. Le scorte di senso si sono esaurite.

Non abbiamo più vino. Gli odori asprigni del mosto non ci deliziano l’anima da tempo. Le vecchie cantine non fermentano più. E le botti vuote danno solo spurghi d’aceto.

Muoviti, allora, a compassione di noi, e ridonaci il gusto delle cose. Solo così, le giare della nostra esistenza si riempiranno fino all’orlo di significati ultimi. E l’ebbrezza di vivere e di far vivere ci farà finalmente provare le vertigini.

Santa Maria, donna del vino nuovo, fautrice così impaziente del cambio, che a Cana di Galilea provocasti anzitempo il più grandioso esodo della storia, obbligando Gesù alle prove generali della Pasqua definitiva, tu resti per noi il simbolo imperituro della giovinezza.

Perché è proprio dei giovani percepire l’usura dei moduli che non reggono più, e invocare rinascite che si ottengono solo con radicali rovesciamenti di fronte, e non con impercettibili restauri di laboratorio.

Liberaci, ti preghiamo, dagli appagamenti facili. Dalle piccole conversioni sottocosto. Dai rattoppi di comodo. Preservaci dalle false sicurezze del recinto, dalla noia della ripetitività rituale, dalla fiducia incondizionata negli schemi, dall’uso idolatrico della tradizione.

Quando ci coglie il sospetto che il vino nuovo rompa gli otri vecchi, donaci l’avvedutezza di sostituire i contenitori. Quando prevale in noi il fascino dello «status quo», rendici tanto risoluti da abbandonare gli accampamenti.

Se accusiamo cadute di tensione, accendi nel nostro cuore il coraggio dei passi. E facci comprendere che la chiusura alla novità dello Spirito e l’adattamento agli orizzonti dai bassi profili ci offrono solo la malinconia della senescenza precoce.

Santa Maria, donna del vino nuovo, noi ti ringraziamo, infine, perché con le parole: «Fate tutto quello che egli vi dirà» tu ci sveli il misterioso segreto della giovinezza.

E ci affidi il potere di svegliare l’aurora anche nel cuore della notte.

(Tonino BELLO, Maria donna dei nostri giorni, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2000,66-68).

La grande festa

Il signore di un castello diede una gran festa, a cui invitò tutti gli abitanti del villaggio aggrappato alle mura del maniero. Ma le cantine del nobiluomo, pur essendo generose, non avrebbero potuto soddisfare la prevedibile e robusta sete di una schiera così folta di invitati. Il signore chiese un favore agli abitanti del villaggio: “Metteremo al centro del cortile, dove si terrà il banchetto, un capiente barile. Ciascuno porti il vino che può e lo versi nel barile. Tutti poi vi potranno attingere e ci sarà da bere per tutti”. Un uomo del villaggio prima di partire per il castello si procurò un orcio e lo riempì d’acqua, pensando: “Un po’ d’acqua nel barile passerà inosservata… nessuno se ne accorgerà!”. Arrivato alla festa, versò il contenuto del suo orcio nel barile comune e poi si sedette a tavola. Quando i primi andarono ad attingere, dallo spinotto del barile uscì solo acqua. Tutti avevano pensato allo stesso modo, e avevano portato solo acqua.

Preghiera

Padre, che hai voluto fare del tuo Figlio l’Uomo nuovo, ricolmo del tuo Spirito, e per mezzo suo lo effondi nei cuori degli uomini rinnovandoli radicalmente, ti chiediamo con fiducia e insistenza, come egli stesso ci ha insegnato a farlo, di voler riempire i nostri cuori della sua presenza e della sua forza. Se tu ce lo doni, noi potremo uscire dalla condizione di uomini vecchi, mossi dall’egoismo che ci rinchiude in noi stessi, e potremo diventare davvero uomini nuovi. Saremo capaci di amare te come figli e gli altri uomini e donne come fratelli e sorelle.

E la gioia profonda della nostra nuova condizione riempirà ogni momento della nostra giornata.

Non lasciare che altri spiriti entrino nei nostri cuori: lo spirito dell’orgoglio, della vanità, dell’invidia, dell’avidità… Essi sono spiriti del mondo vecchio che portano alla morte e noi vogliamo vivere. Tu, che sei «amante della vita», strappa da noi tali spiriti perché possa occupare tutto il nostro spazio interiore lo Spirito vivificante che viene da te attraverso il tuo Figlio diletto.

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia,Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Avvento, Tempo di Natale e Tempo ordinario (prima parte), Milano, Vita e Pensiero, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

Dejad que los niños escuchen mi voz. Subsidios para la familia

Miguel Angel moreno Nuño

La casa editrice PPC ha pubblicato di recente il quarto e ultimo volume della serie Dejad que los niños escuchen mi voz (Lasciate che i bambini ascoltino la mia voce), del salesiano Miguel Ángel Moreno Nuño, docente della Facoltà di Lettere Cristiane e Classiche presso l’UPS. Risorse per la famiglia si presenta come il complemento che ancora mancava nel progetto iniziale della serie per portare la Messa domenicale nella vita quotidiana. Con queste dispense, i genitori, senz’altro i nonni e molto probabilmente anche un fratello riluttante, possono sedersi con il più piccolo della famiglia e, a casa, dopo aver celebrato l’Eucaristia domenicale, prepararsi a giocare e a rinfrescare ciò che hanno ascoltato nella liturgia della Parola, secondo la rinnovata proposta di «lezionario» per le Messe con i fanciulli offerta dall’autore. Si chiude così il cerchio iniziato con la Proposta di letture (volumi 1 e 2) e proseguito con le Risorse per la celebrazione (volume 3).

Infatti, il progetto Dejad que los niños escuchen mi voz è offerto a sacerdoti, catechisti ed educatori alla fede come una proposta sistematica di letture bibliche e sussidi per le Messe con i fanciulli. Organizzato secondo un doppio approccio liturgico e kerigmatico, raccoglie e aggiorna il meglio del Lezionario IX (pubblicato dalla Conferenza Episcopale Spagnola nel 1984) e anche di quello pubblicato ad experimentum dai vescovi italiani nel 1976. In questo modo, vuole essere una risposta rispettosa ai processi intrapresi a partire dagli anni del rinnovamento liturgico conciliare, nutrita dai suggerimenti emersi da una solida ricerca catechetica e liturgica e adattata alle circostanze attuali dei bambini e delle loro famiglie.

I quattro volumi sono stati pubblicati da PPC e sono in vendita onlinehttps://www.ppc-editorial.com/autores/miguel-angel-moreno-nuno

Resumen

Como «fuente y culmen de la vida cristiana» definió el Concilio Vaticano II la eucaristía. Lo que pasa es que «la vida cristiana» se desarrolla de domingo a domingo, desde que nos levantamos hasta que nos acostamos: sin compartimentos estancos, sin paréntesis. Sin hacer que la misa sea una más entre las miles de actividades (colegio, comedor, extraescolares, merienda, deberes, cena) que se
suceden en la apretada, ¡y estresada!, agenda de cualquiera de nuestros niños.
El cuarto y último volumen de DEJAD QUE LOS NIÑOS ESCUCHEN MI VOZ está pensado, pues, como complemento necesario para llevar la misa dominical a la vida diaria. El volumen recoge una colección de actividades, juegos, crucigramas y jeroglíficos para realizar en casa. No faltan los vídeos de dibujos animados y las canciones religiosas. ¡Y más de una agradable sorpresa! La propuesta está pensada para que los padres, muy posiblemente también los abuelos #y, a buen seguro, incluso algún hermano reticente#, se sienten con el más pequeño de la familia y, en casa, tras haber celebrado la eucaristía dominical, se dispongan a jugar y a refrescar lo escuchado en la liturgia de la Palabra del domingo. Así se cierra el círculo empezado en la propuesta de lecturas (volúmenes 1 y 2 de esta serie) y continuado por los recursos para la celebración (volumen 3).

Características

Autor

Miguel Ángel Moreno Nuño

Ppc editorial Fecha de lanzamiento

13/11/2024 EAN

9788428841214 ISBN

Strenna 2025. “Ancorati nella speranza, pellegrini con i giovani”

Rinnovando un’antica e prestigiosa tradizione che risale ai tempi di Don Bosco, il Vicario del Rettor Maggiore, don Stefano Martoglio, alla guida della Congregazione salesiana dal 17 agosto 2024 (art. 143 della Costituzione), si appresta a offrire a tutti i Salesiani e ai membri della Famiglia Salesiana del mondo le sue riflessioni sulla Strenna per il nuovo anno. Il tema per il 2025, scelto lo scorso luglio in collaborazione con il card. Ángel Fernández Artime, X Successore di Don Bosco, è: “Ancorati nella speranza, pellegrini con i giovani”.

Il documento predisposto da don Martoglio affronta essenzialmente i temi della speranza e della missione, intrecciando così i grandi eventi – ecclesiali e salesiani – del 2025: il Giubileo e il 150° anniversario della prima spedizione missionaria salesiana.

Nella prima parte, il Giubileo del 2025 è presentato come un pellegrinaggio verso Cristo, fonte di speranza per la Chiesa e per il mondo. Viene esplorato il significato teologico della speranza, descrivendola come cammino verso Cristo e la vita eterna, e che si caratterizza come virtù segnata da continua tensione, visione profetica, slancio verso il futuro e dimensione pubblica.

Lo slancio missionario della Congregazione deriva dalla speranza in Cristo, dove la missione diventa espressione della carità educativa e pastorale di Don Bosco, ispirata al motto  Da mihi animas, cetera tolle ; e dove la celebrazione del 150° anniversario della prima spedizione missionaria salesiana porta a riflettere sugli atteggiamenti dell’inviato/missionario e sul triplice invito di questa celebrazione: ringraziare, ripensare e rilanciare.

La speranza giubilare e missionaria si fonda poi sulle sue implicazioni pratiche: la speranza come forza per affrontare la quotidianità, la speranza che esige testimonianza e pazienza, la speranza che permette di promuovere il futuro attraverso un impegno attivo e costante nelle proprie comunità.

Infine, vengono esaminate le origini della speranza, con le sue radici in Dio e nell’eredità spirituale di Don Bosco; e vengono indicati i “frutti” della speranza propri della spiritualità salesiana, come la gioia, la pazienza e l’impegno educativo.

Tutto questo lascia poi spazio a una conclusione che risale a Don Bosco, affidandosi a Maria Ausiliatrice e al suo essere modello di speranza e di fiducia, punto di riferimento fondamentale per il cammino cristiano e nella missione salesiana.

Fonte: https://www.sdb.org/en/Rector_Major/Strenna/Strenna_2025/Strenna_2025__text

https://www.sdb.org/it/Rettor_Maggiore/Strenna/Strenna_2025/Strenna_2025__linee_guida

Il testo integrale del commento alla Strenna 2025:

BATTESIMO DEL SIGNORE

Lectio – Anno C

Prima lettura: Isaia 40,1-5.9-11

          «Consolate, consolate il mio popolo – dice il vostro Dio. – Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che la sua tribolazione è compiuta la sua colpa è scontata, perché ha ricevuto dalla mano del Signore il doppio per tutti i suoi peccati». Una voce grida: «Nel deserto preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia innalzata, ogni monte e ogni colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in vallata. Allora si rivelerà la gloria del Signore e tutti gli uomini insieme la vedranno, perché la bocca del Signore ha parlato».  Sali su un alto monte, tu che annunci liete notizie a Sion! Alza la tua voce con forza, tu che annunci liete notizie a Gerusalemme. Alza la voce, non temere; annuncia alle città di Giuda: «Ecco il vostro Dio! Ecco, il Signore Dio viene con potenza, il suo braccio esercita il dominio. Ecco, egli ha con sé il premio e la sua ricompensa lo precede. Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri».  
  • I versetti 1-11 del capitolo 40 di Isaia fungono da prologo all’intera sezione della seconda parte di Isaia formata dai capitoli 40-55. Il brano è pervaso da una grande letizia, fondata sulla fede esaltante nel Dio guida del popolo, suo liberatore e salvatore. «Consolate, consolate il mio popolo»: Dio comanda di consolare Israele e l’imperativo ripetuto due volte suggerisce l’idea dell’urgenza e della sovrabbondanza della consolazione. Dio può infliggere il «doppio per tutti i suoi peccati», ma non si dimentica del suo popolo e della sua città e torna a rivolgergli parole di salvezza, che parlano al cuore.

     «Una voce grida»: la voce misteriosa del versetto 3 e le altre, che seguono, si possono considerare l’equivalente poetico della formula profetica il «Signore ha parlato». Con maggiore efficacia il secondo Isaia al comando diretto del Signore fa seguire in forma diretta le voci, che ne ripetono il messaggio.

     I sinottici per spiegare il compito profetico di Giovanni Battista adoperano le parole di Isaia 40,3 (cf. Mt 3,3; Mc 1,3; Lc 3,4). Egli è una voce, che ripete il comando del Signore. Il Signore, che aveva abbandonato insieme al popolo la sua dimora e lo aveva seguito in esilio, vi fa ora ritorno: per lui, e quindi anche per il popolo, si deve preparare una strada agevole, percorribile con facilità. Si tratta di una strada «nel deserto», come nel deserto era stata la strada dalla schiavitù dell’Egitto alla libertà della terra promessa. «La gloria del Signore» (Is 40,5) si rivelerà di nuovo in tutta la sua potenza, come nell’esodo dall’Egitto, momento fondante tutta la storia di Israele.

     I versetti 6-7, che sono stati tolti dalla liturgia di oggi, incentrata sulla rivelazione di Dio, propongono un intermezzo meditativo sulla distanza fra la fragilità dell’essere umano, paragonato all’erba, e la potenza divina. Questa meditazione aiuta a capire che l’intervento di Dio nelle vicende umane e in particolare in quelle di Israele, dipende interamente dalla sua scelta misteriosa, dettata dall’amore.

     Il Signore avanza con potenza e domina col suo braccio, ma verso il suo popolo si rivela un pastore amoroso: «egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri» (Is 40,11).

     «Il suo braccio» è l’immagine che esprime il suo intervento di castigo e dominio (cf. in Esodo l’intervento contro il faraone, ma anche il castigo dell’esilio per il popolo), ma anche di perdono e dono gratuito e sovrabbondante di salvezza. Dobbiamo sempre tenere insieme nel leggere i profeti per non fraintenderli, i messaggi di salvezza, che dipendono sempre dalla bontà misericordiosa di Dio, da quelli di castigo, che sono volti a riportare Israele sulla via del Signore e non vogliono affatto annientarlo: «I doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili» (Rm 11,29).

Seconda lettura: Tito 2,11-14;3,4-7

              Figlio mio, è apparsa la grazia di Dio, che porta sal­vezza a tutti gli uomini e ci insegna a rinnegare l’em­pietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo. Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli ap­partenga, pieno di zelo per le opere buone. Ma quando apparvero la bontà di Dio, salvatore no­stro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua mise­ricordia, con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spi­rito Santo, che Dio ha effuso su di noi in abbondanza per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, affinché, giustificati per la sua grazia, diventassimo, nella spe­ranza, eredi della vita eterna.  
  • In un breve scritto di occasione, volto ad esortare un pastore e la sua comunità a superare i contrasti interni e a tenere una condotta moralmente irreprensibile, l’autore della lettera a Tito richiama l’insegnamento fondamentale dell’apostolo Paolo: la nostra salvezza dipende interamente da Dio, dalla sua bontà (chrestòtes, amore per gli uomini (philan-tropìa) e misericordia (eléos) (Tt 3,4.5).

     Noi non possiamo vantare nessuna pretesa nei confronti di Dio. Noi, infatti, eravamo «insensati, disobbedienti, traviati, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, vivendo nella malvagità e nell’invidia, degno di odio e odiandoci a vicenda» (Tt 3,3). Noi dobbiamo solo accogliere con gratitudine il dono di Dio e rispondere con una condotta che sia conforme alla chiamata di Dio e alla nuova vita che Dio ci ha donato gratuitamente.

     «È apparsa (epiphàne Tt 2,11; 3,4) la grazia di Dio» apportatrice di salvezza per tutti gli esseri umani. Il greco anthropos comprende uomini e donne senza differenze sessuali (a differenza da aner usato solo per uomo e arsen maschio). Si tratta di una vera e propria rivelazione, di un intervento fattivo di Dio, che, anche se apparentemente lascia tutto come prima, in realtà ha trasformato la situazione.

     L’incontro di Dio con gli uomini è un incontro potente e rinnovante. L’autore della lettera attribuisce la stessa potenza salvifica dell’«apparizione» di Dio a Gesù Cristo «nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo». Si rinnova in lui il miracolo più volte avvenuto nella storia dell’umanità primitiva e in particolare in quella del popolo di Israele dell’intervento salvifico di Dio.

     In questo caso, la salvezza, data in dono gratuito, è legata al battesimo «lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo». I battezzati sono esseri nuovi, che vivono nello Spirito di Dio «effuso su di noi in abbondanza per mezzo di Gesù Cristo».

     La manifestazione della grazia di Dio, effusa per suo volere e senza meriti umani, è, però, strettamente legata all’educazione a fare opere buone. Questo è un insegnamento tradizionale dell’ebraismo. La Torà è la «rivelazione-dono» per eccellenza di Dio. Non possiamo staccare la fede alle opere ammonisce la lettera di Giacomo, che accomuna Abramo che ha creduto, con Raab, la meretrice, salvata per la sua ospitalità (cf. Ge 2,21-25). A proposito di Abramo, il modello della fede per eccellenza, fra le diverse parole a lui rivolte da Dio leggiamo: «Io l’ho scelto, perché egli obblighi i suoi figli e la sua famiglia dopo di lui ad osservare la via del Signore e ad agire con giustizia e diritto, perché il Signore realizzi per Abramo quanto gli ha promesso» (Gen 18,19). È Dio che ha scelto Abramo, ma tale scelta comporta una risposta pronta e lo «zelo» per i comandi del Signore.

     Il giudizio finale, secondo il Vangelo di Matteo sarà sulle opere compiute, anche senza il riconoscimento del Signore (cf. Mt 25,31-37), mentre la conoscenza, senza le opere è motivo di condanna: «Non chiunque mi dice Signore Signore entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21). Dobbiamo tenere insieme i due poli del messaggio biblico: l’insistenza sull’iniziativa gratuita di Dio e il richiamo pressante a mettere in pratica i suoi precetti.

     Fra le tante osservazioni che si possono fare sul brano della lettera a Tito scelto per la liturgia di oggi, merita particolare attenzione l’espressione «nella speranza». Siamo stati giustificati dalla grazia di Gesù Cristo e siamo diventati eredi della vita eterna, ma secondo la speranza.

     La salvezza rivelata da Gesù non è ancora quella definitiva, che non si può più perdere e che si manifesta in gloria e potenza per tutte le creature. «I cieli nuovi e la terra nuova» sono ancora sperati. Il regno del nostro Dio ci è dato nel segno della speranza: la sua manifestazione definitiva è nascosta nel mistero della benevolenza di Dio; a noi spetta il grande compito di testimoniare che il dono del regno ci è stato dato, dobbiamo rendere visibile la nostra speranza. Dobbiamo comportarci da cittadini del regno secondo la condotta dettata dai comandamenti divini.

Vangelo: Luca 3,15-16.21-22

          In quel tempo, poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco». Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».  

Esegesi

     Il vangelo di Luca nei versetti 14-16 ci presenta il popolo che è in attesa del messia (l’«unto», christòs in greco). Coloro che erano accorsi ad ascoltare la predicazione di Giovanni e a ricevere il suo battesimo di purificazione come segno dell’inizio della conversione (metanoia in greco, teshuvà in ebraico), si chiedevano se non fosse proprio lui il Messia.

     Si tratta di una piccola parte degli ebrei di allora, ma Luca parla del popolo in generale e dice «tutti» si ponevano la domanda sul messia e Giovanni risponde a «tutti». A lui interessa il popolo nella sua dimensione collegiale: al versetto 21 sottolinea: «mentre tutto il popolo veniva battezzato». È «tutto il popolo» che in analogia all’avvenimento del Sinai forma per così dire il luogo della rivelazione divina. Gesù, che in Luca è il destinatario della rivelazione: «Tu sei il Figlio mio, l’amato», appare pienamente inserito nel suo popolo Israele. Senza Israele non c’è la rivelazione del Padre di Gesù Cristo; se stacchiamo Gesù dal suo popolo, suggerisce l’evangelista, non comprendiamo nulla di Lui, perché il Dio, che al battesimo lo consacra «l’amato» con l’investitura dello Spirito Santo, è lo stesso Dio della rivelazione del Sinai a «tutto il popolo», col quale ha stipulato l’alleanza (cf. Es 24,3; 34,10).

     Giovanni si premura di togliere ogni dubbio sulla sua identità e per chiarire la distanza fra sé e il Messia usa il detto popolare, assai efficace, che egli non è degno neppure di «slegare i lacci dei sandali». Un’altra caratteristica rilevante del Vangelo di Luca, rispetto al rac-conto analogo degli altri due sinottici, è il legame fatto fra la rivelazione divina e la preghiera di Gesù.

     «Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì…» (Lc 3,21-22). Il Vangelo di Luca mette spesso in rilievo la preghiera di Gesù: «Ma Gesù si ritirava in luoghi deserti e pregava» (Lc 5,16; cf. Mc 1,35; Lc 6,12; 9,18; 11,2); «in preda all’angoscia Gesù pregava più intensamente» (Lc 22,44); egli si affida al padre appena prima di esalare l’ultimo respiro (Lc 23,46).

     Prima della trasfigurazione, narrazione che si accosta a quella del battesimo, «Gesù salì sul monte a pregare. E mentre pregava il suo volto cambiò di aspetto…» (Lc 9,29).

     La preghiera crea la situazione adatta alla rivelazione e nello stesso tempo ci presenta Gesù nella sua piena umanità, bisognoso di affidarsi al padre per comprendere quale sia la sua missione e per portarla a compimento con coraggio.

     Il battesimo è il momento della consacrazione di Gesù, attraverso la quale egli diviene Cristo, cioè unto, messia: «Dio unse (chriò) in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazareth, il quale passò benedicendo e risanando tutti coloro che erano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui» (At 10,38). Questa consacrazione si presenta come una nuova nascita, resa possibile dalla discesa dello Spirito e dalla manifestazione della paternità divina. Gesù stesso sperimenta una nuova nascita dall’alto per opera dell’acqua e dello Spirito, secondo le parole del vangelo di Giovanni (cf. Gv 3,3-6). Egli inizia al Giordano la strada che indicherà a tutti i discepoli, chiamati ad essere figli di Dio attraverso il dono dello Spirito Santo.

Meditazione

     Il racconto di Luca si apre oggi con l’immagine di un popolo ‘in attesa’ (cfr. Lc 3,15). Sembra essere stata questa la missione fondamentale del Battista: suscitare un’attesa e nello stesso tempo distoglierla dalla propria persona per orientarla verso il ‘più forte’ che deve venire (cfr. v. 16). È l’attesa che si compiano le promesse dei profeti, quelle che ci vengono ad esempio ricordate da Isaia nella prima lettura: che Dio consoli il suo popolo e che ogni uomo possa vedere il rivelarsi della sua gloria. Solo chi attende può giungere ad ascoltare la voce che annuncia: «Ecco il vostro Dio!» (cfr. Is 40,9).

     Nello stesso tempo questa attesa deve rimanere disponibile a lasciarsi purificare e convenire dalla parola del Signore. Dio infatti compie le sue promesse e colma le nostre attese in modo sempre sorprendente, a volte persino sconcertante. Giovanni aveva annunziato il venire di uno più forte di lui, che avrebbe battezzato non semplicemente con acqua, ma in Spirito Santo e fuoco. Eppure, la prima immagine che l’evangelista ci offre di Gesù, dopo il vangelo dell’infanzia, ce lo mostra nel momento in cui ha ricevuto, come tutti gli altri, il battesimo d’acqua da Giovanni. Il più forte è in mezzo al suo popolo, confuso tra i peccatori, insieme ai quali si è sottoposto al medesimo rito di penitenza e di purificazione. Chi può battezzare in Spirito Santo e fuoco non si sottrae al battesimo d’acqua di Giovanni. Ma è proprio mentre è in mezzo al suo popolo, disposto a scendere radicalmente nella fraternità dei peccatori, che Gesù vede il cielo aprirsi, accoglie lo Spirito che scende su di lui, ascolta la voce del Padre che lo conferma nella sua singolare identità: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento» (v. 22).

     Tutto in questa scena è in discesa. Gesù discende dal nord della Galilea verso il sud, dove Giovanni battezza. Discende nella depressione del Giordano, che scorre circa 400 metri sotto il livello del mare, probabilmente il punto più basso della terra che un uomo possa raggiungere camminando sulle sue gambe. Una volta giunto al Giordano discende nelle sue acque e soprattutto si immerge nella fraternità dei peccatori. Ed è in questo cammino di umiltà e di discesa che può vedere il cielo aprirsi e ascoltare la voce del Padre. Nella scena seguente, che racconta la prova nel deserto, il diavolo farà compiere a Gesù il cammino opposto: dapprima lo condurrà «in alto» (cfr. Lc 4,5), poi a Gerusalemme lo porrà «sul punto più alto del tempio» (cfr. Lc 4,9), ma in questa altezza, anziché ascoltare la voce di Dio, si rischia di ascoltare soltanto le suggestioni di Satana. Per ascoltare la voce di Dio occorre invece percorrere un cammino di discesa, nell’umiltà e nell’obbedienza. Più volte Gesù ripeterà nei vangeli che chi si umilia sarà esaltato, e chi si innalza sarà umiliato. Sarebbe riduttivo intendere queste espressioni solamente a un livello morale, o peggio moralistico. Evocano piuttosto l’autenticità dell’esperienza di Dio, che è sempre un’esperienza pasquale. Quando raggiungi il punto più basso del tuo cammino esistenziale, quando sei gettato a terra o dal tuo stesso peccato, o dalla violenza che puoi subire da altri, allora incontri lì il Dio della Pasqua che ti rialza e ti dona una vita nuova. Sarà questa l’esperienza pasquale di Gesù: gettato nella polvere della terra e della morte, disceso nell’oscurità del sepolcro, accoglierà la potenza dell’amore del Padre che lo farà risorgere, innalzandolo nel più alto dei cieli. Nel suo battesimo Gesù anticipa quella che sarà la sua Pasqua. Immergendosi nella fraternità dei peccatori, scendendo con loro, lui l’unico giusto, nell’esperienza del peccato e dell’umiliazione in cui il peccato ci getta, ascolterà il Padre che gli dice: «Tu sei il mio Figlio, l’amato». In questo modo Gesù capovolge la logica perversa di Caino, il figlio primogenito che vuole rimanere solo, e per questo elimina Abele. Al contrario Gesù è il figlio Unigenito che non vuole rimanere solo, ma ci vuole in lui tutti fratelli e figli dello stesso Padre, e per questo dona la sua stessa vita fino alla Croce, nell’attesa di riceverla rigenerata dall’amore di Dio.

     Il cammino pasquale di Gesù è già tutto incluso nelle parole che ascolta presso il Giordano, molto essenziali ma incredibilmente ricche di contenuto. Almeno tre testi del Primo Testamento vi risuonano. «Tu sei mio figlio» evoca il Salmo 2: «Egli mi ha detto: “Tu sei mio figlio”» (v. 7). «L’amato» riprende, nel testo greco, lo stesso termine che nel Primo Testamento risuona solo in Genesi 22 a proposito di Isacco, che viene definito il figlio ‘amato’ di Abramo (cfr. Gen 22,2). «In te ho posto il mio compiacimento» cita le espressioni iniziali del primo canto del servo sofferente del Signore che leggiamo in Isaia 42: «Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui» (v. 1). Tutta l’identità di Gesù è qui delineata, l’intero suo cammino storico e pasquale già trat-teggiato. Gesù è il Figlio unigenito che dovrà vivere la sua identità filiale facendosi servo nella forma di Isacco. Lui è il vero Isacco di Dio, il figlio che non viene chiesto ad Abramo, ma che Dio stesso offre per la salvezza di tutti. È lui il vero capretto donato da Dio, l’Agnello di Dio offerto in sacrificio perché ogni uomo possa vedere la salvezza del Signore.

     «Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco», promette Giovanni. Ci farà condividere, cioè, la sua stessa esperienza pasquale, rendendoci partecipi della sua morte per condividere con noi la potenza della sua risurrezione e la novità della sua vita. «L’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo», come Paolo definisce il battesimo nella lettera a Tito (3,5), ci consente di ascoltare insieme a Gesù le parole del Padre come rivolte personalmente a ciascuno di noi. Anche a noi Dio dona il suo Spirito, che è lo Spirito del Figlio, e ci conferma il suo amore di predilezione e il suo compiacimento. La condizione per ascoltare questa parola di Dio rimane anche per noi la disponibilità a vivere, come Gesù, un cammino di discesa, di umiltà, di obbedienza. Solo così la nostra attesa sarà colmata, e potremo riconoscere, come sempre Paolo scrive a Tito, che «egli ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia» (3,5).

Don Bosco commenta il Vangelo

Don Bosco spiega l’attesa del popolo

Il Vangelo del battesimo del Signore inizia in Luca con una annotazione molto significativa: “Il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo”. L’attesa del popolo rimanda a tutto l’Antico Testamento come preparazione e annuncio della venuta del Messia atteso da secoli.

Per questo motivo, agli occhi di don Bosco l’AT conserva une forza e un’attualità straordinaria. Lo dimostra l’abbondanza dei riferimenti all’AT nei suoi scritti e, più ancora, la scelta di citazioni della Scrittura che gli stavano più a cuore.

Su 11 citazioni bibliche copiate sui segnacoli del suo Breviario 10 sono tratte dell’AT (MB2 523ss); su un totale di 27 “massime morali” inserite nella Maniera facile di imparare la Storia sacra, 18 provengono dall’AT (OE6 140s); e su 39 iscrizioni bibliche sui muri dell’Oratorio se ne contano 28 (MB5 543ss; MB6 948s; MB7 426). Senza alcun dubbio egli trovava nei libri dell’AT i fondamenti della fede, del culto e della morale cristiana. I testi poi relativi all’educazione lo interessavano in modo particolare.

Ma per don Bosco l’AT rimane valido soprattutto come testimone della speranza messianica, destinata a realizzarsi pienamente in Gesù Cristo. Egli vi trova una folla di simboli e di immagini che annunciano il NT, Gesù Cristo e la sua Chiesa, senza dimenticare la figura di Maria, madre del Messia.

Preso nel suo insieme, infatti, l’AT è un annuncio del Messia, Salvatore promesso a partire dal protovangelo della Genesi fino all’ultimo profeta. Ai lettori del suo manuale Il cattolico istruito nella sua religionedon Bosco ricorda che “la religione giudaica, data da Dio a Mosè, era una preparazione alla religione cristiana” (OE4 253).

Nella Prefazione della decima edizione della sua Storia sacra, appare chiaro il disegno di don Bosco di mettere in luce la presenza del messianismo nell’AT:

Il fine provvidenziale dei Sacri Libri essendo stato di mantenere negli uomini viva la fede nel Messia promesso da Dio dopo la colpa di Adamo, anzi tutta la Storia Sacra dell’Antico Testamento potendosi dire una costante preparazione a quell’importantissimo avvenimento, volli in modo speciale notare le promesse e le profezie che spettano al futuro Redentore (OE27 210).

Tra i testi principali dell’AT ritenuti da don Bosco come annunci messianici troviamo: il protovangelo (Gen 3,15), le promesse fatte ad Abramo (Gen 12,2-3), la profezia della stella (Nm 24,17), la profezia di Mosè sul profeta futuro (Dt 18,15) e quella di Giobbe (Gb 19,25-26). Sono messi parimenti in risalto i testi considerati come annunci dei misteri di Cristo quali l’adorazione dei magi (Sal 72,10), la fuga in Egitto (Is 19,1), la vita a Nazareth (Gl 13,5), oppure la proclamazione della buona novella ai poveri (Is 61,1).

In tre pagine della decima edizione della Storia sacra l’autore elenca una lista di “profezie avverate in Gesù Cristo”. A proposito dell’origine, dell’epoca e del luogo di nascita del Messia scrive:

In più luoghi dell’Antico Testamento si legge che il Messia doveva nascere dalla tribù di Giuda, dalla stirpe di Davide. Giacobbe morendo notò il tempo della nascita del Messia con queste parole: “Lo scettro, ovvero la sovrana potestà ed il potere legislativo, non sarà tolto da Giuda, né il principato dalla sua posterità, finché venga Colui che deve essere mandato, e Questi sarà l’aspettazione delle genti”. Daniele annunziò che non sarebbero scorsi 490 anni prima della sua venuta e della sua morte. Michea predisse ch’Egli nascerebbe in Betlemme (OE27 349s).

L’attesa del popolo di fronte a Giovanni Battista è evidentemente un’attesa messianica nutrita durante tanti secoli passati. Ci vorrà tutta l’umiltà di Giovanni per allontanare da sé la speranza della gente e orientarla verso il vero Messia atteso: Gesù di Nazareth.

 (Morand Wirth)

Tra parentesi il lettore troverà i riferimenti principali dei testi citati nelle opere di o su don Bosco: – nei 38 volumi delle Opere edite di G. Bosco (OE1-38, a cura del Centro Studi Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana); – nei 19 volumi delle Memorie biografiche di don G. Bosco (MB1-19, a cura di G.B. Lemoyne, A. Amadei e E. Ceria); – nelle sue Memorie dell’Oratorio (MO, a cura di A. Giraudo); – nei 10 volumi del suo Epistolario (E1-10, a cura di F. Motto). La seconda cifra indica la pagina del volume.

Immagine della domenica

Lago Arvo-Sila-Località Lorica (Cosenza)   –   2021  

«Credo nel sole,

anche quando piove».

(Anna Frank)

Preghiere e racconti

Battesimo di Cristo come metafora

«Un tentativo di rendermi conto dell’amore di Dio è stato per me la meditazione sul battesimo di Gesù (Lc 3,21s.). Gesù si cala nel Giordano, nell’acqua che è carica della colpa dei molti che si sono fatti battezzare nel fiume da Giovanni. Mentre entra in acqua, il cielo si apre sopra di lui. E Dio gli dice: «Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto».

Nella meditazione ho sperimentato la realtà di questo amore quando ho sovrapposto consapevolmente la frase «Tu se il mio figlio prediletto» alla paura, all’oscurità, al fallimento, alla mediocrità, alla menzogna esistenziale in me. Ho tentato di calarmi nell’acqua del mio inconscio, nel regno delle tenebre in cui ho rimosso tutto quanto fugge alla luce del sole, ciò che non mi va di guardare alla luce del giorno. Per me è una bella immagine del battesimo di Gesù il fatto che il cielo sopra di lui si sia aperto proprio quando egli si è calato nelle profondità del Giordano. Il cielo vuole aprirsi anche sugli abissi della mia anima. Ma devo avere il coraggio di calarmi in tali abissi, per percepire là in fondo, con un suono nuovo, le parole: «Tu sei il mio figlio prediletto»; «Tu sei la mia figlia prediletta». Solo quando ho sovrapposto alla mia esistenza concreta la frase secondo cui sono il figlio prediletto, essa mi ha toccato nell’intimo, donandomi la pace interiore. Ogni parlare che si fa dell’amore di Dio ci lascia indifferenti se non giunge alle esperienze della nostra vita quotidiana.

Gesù si cala nei flutti della colpa, nell’inconscio, nella pulsionalità, negli elementi della terra, come lo rappresentano sempre le icone. Calandosi in essi, prega tanto intensamente che il cielo si apre sopra di lui, che quanto è essenziale prorompe e la luce di Dio risplende sopra di lui. È un profondo desiderio anche mio quello di saper pregare in modo tale che il cielo si apra sopra di me, che l’amore di Dio rifulga nel profondo del mio inconscio, negli abissi della mia colpa. E anelo a saper pregare anche per gli altri, in modo tale che il cielo si apra sopra di loro. Pregare significa aprire il cielo sopra le persone, in modo che sia loro consentito di sentire il rapporto con Dio come la loro unica salvezza.

Gesù sente dal cielo aperto la voce di Dio che è rivolta a lui: «Tu sei il figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto» (Mc 1,11). Questo è anche il mio anelito più profondo, l’essere il figlio prediletto di Dio, non essere rispettato, ammirato e amato solo dagli esseri umani, bensì da Dio, la causa prima di ogni esistenza, il creatore del mondo».

(A. GRÜN, Apri il tuo cuore all’amore, Queriniana, Brescia, 2005, 20-23).

La parola è “Amato”

[…] Come cristiano, ho scoperto per la prima volta questa parola nella storia del battesimo di Gesù di Nazareth.

«Non appena Gesù uscì dall’acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba. E sentì una voce dal cielo: “Tu sei mio Figlio, l’Amato, in te mi sono compiaciuto”». […] Sì, è quella voce, la voce che parla dall’alto e da dentro i nostri cuori, che sussurra dolcemente o dichiara con forza: “Tu sei il mio Amato, in te mi sono compiaciuto”. Non è certamente facile ascoltare quella voce in un mondo pieno di altre voci che gridano: “Tu non sei buono, sei brutto; sei indegno; sei da disprezzare, non sei nessuno – e non puoi dimostrare il contrario.”.

Queste voci negative sono così forti e così insistenti che è facile credere loro. Questa è la grande trappola. È la trappola del rifiuto di noi stessi.

(Henri J.M. NOUWEN, Sentirsi amati, Brescia, Queriniana, 2005, 23-24).

La lotta spirituale come esigenza battesimale

La lotta spirituale è organica alla vita cristiana tout-court: essa riguarda tutti i cristiani, non certo solo i monaci o altre “categorie” di iniziati… La necessità di tale lotta discende dal battesimo, è inerente la vita cristiana in quanto tale, e questo secondo tutto il NT e la tradizione cristiana. Il NT definisce «bella» questa lotta (1 Timoteo 1,18; 6,12; 2 Timoteo 4,7), cioè positiva, di altro ordine rispetto alle guerre e contese mondane, ma altrettanto dura ed esigente. È la «lotta della fede» (1 Timoteo 6,12), insita cioè nell’adesione a Cristo e nella sua sequela, e riguarda ogni cristiano: essa infatti è connessa al battesimo, che sigilla la conversione, la rottura con il paganesimo e immette in una nuova vita.

Per Paolo, il rivestirsi di Cristo nel battesimo comporta l’impegno di rivestirsi di un abito di vita rigenerata per entrare nella gloria di Dio, e poiché ciò non è realizzabile senza una continua tensione morale che si può paragonare ad una lotta o ad un combattimento, con il battesimo il cristiano si impegna a rimanere sempre in tenuta militare, ad indossare cioè quelle che Paolo chiama «armi della giustizia» (Romani 6,13-14) e «armi della luce» (Romani 13,12).

Si tratta delle armi della fede, della preghiera, dell’ascolto della Parola di Dio, della docilità all’azione dello Spirito, che consentono al credente di veder agire in sé la forza di Dio stesso. Come Gesù, appena battezzato, ha affrontato l’assalto di Satana e ha combattuto le tentazioni (cfr. Matteo 4,1-11; Luca 4,1-13; Marco 1,12-13), così il cristiano dovrà attendersi, dopo il suo battesimo, una dura lotta contro l’Avversario.

Chiamato a entrare per la porta stretta (Luca 13,24), posto di fronte all’impossibilità di servire due padroni (Luca 16,13), il battezzato, cosciente dell’urgenza dell’ora escatologica instaurata dal Signore Gesù, deve attuare una scelta di campo mettendosi a servizio di Dio e non del peccato (Romani 6,12-14). Il NT definisce il cristiano «soldato di Gesù Cristo» (2 Timoteo 2,3) e afferma che deve sforzarsi di «piacere a chi l’ha arruolato» (2 Timoteo 2,4). Questa lotta assicura l’incessante dinamismo della vita cristiana ed è diretta contro «il peccato che ci assedia» (Ebrei 12,1), contro «il Maligno» (Efesini 6,16), contro quelle potenze indicate con nomi differenti (Efesini 6,12), ma che designano cumulativamente quelle forze negative, presenti nell’uomo e fuori di lui, che tendono a far ricadere il cristiano nella situazione pre-battesimale. È dunque una lotta che si combatte con armi spirituali: vigilanza e perseveranza (Efesini 6,18; Ebrei 12,1), sobrietà (1 Tessalonicesi 5,6.8), temperanza (I Corinzi 9,25), rinuncia e dominio di sé (1 Corinzi 9,27), capacità di soffrire per il Signore (Filippesi 1,29-30; Ebrei 10,32-33), pazienza ed esercizio alla pietà (1 Timoteo 4,8), e soprattutto preghiera (Efesini 6,18-20; cfr. Sapienza 18,21). Il messaggio neotestamentario è dunque esplicito sul carattere battesimale di questa lotta: vi è un rigoroso aut-aut che accompagna il cristiano nella sua vita e che gli contesta qualsiasi compromesso con la mondanità e con il peccato. È la vita cristiana stessa che è una battaglia, una lotta: essa esige lotta contro le tentazioni, ascesi della mente e del corpo per acquisire il necessario dominio di sé, la vigilanza costante sulle relazioni con sé e con gli altri, la disciplina del tempo e degli impegni, la purificazione delle relazioni. Contro che cosa si combatte? Possiamo riprendere le parole di Ilario di Poitiers che, scritte nel corso di quel IV secolo che ha visto il progressivo passaggio del cristianesimo dalla condizione di religione dei martiri a religione ufficiale, di Stato, si adattano molto bene alla nostra attualità:

«Combattiamo contro un persecutore insidioso, un nemico che lusinga… Non ferisce la schiena con la frusta, ma carezza il ventre; non confisca i beni, dandoci così la vita, ma arricchisce, e così ci da la morte; non ci spinge verso la vera libertà imprigionandoci, ma verso la schiavitù onorandoci con il potere nel suo palazzo; non colpisce i fianchi, ma prende possesso del cuore; non taglia la testa con la spada, ma uccide l’anima con l’oro e il denaro» (Ilario di Poitiers , Liber contra Constantium, 5).

(Luciano MANICARDI, La lotta spirituale, in CENTRO REGIONALE VOCAZIONI /PIEMONTE-VALLE D’AOSTA, Corso di avvio all’accompagnamento spirituale. Atti, a cura di Gian Paolo Cassano, Casale Monferrato, Portalupi, 2007, 139-140.

Il battesimo di Gesù

I nuovi tempi sono già iniziati,

i tempi nuovi che il mondo attendeva

fin dall’origine, gli ultimi tempi:

e fu la voce dal cielo a bandirli.

«Questi è il mio Figlio, l’amato da sempre,

nel quale ho posto la mia compiacenza»:

così è spuntata l’aurora del mondo

e fu l’inizio di nuova creazione.

Ma tu sei venuto a battezzarci

in Spirito santo e fuoco:

non vale l’acqua soltanto

ma l’acqua e il sangue

che sgorga dal tuo costato, Signore:

così sia il nostro battesimo

affinché i cieli si aprano anche su di noi.

Amen.

E cielo e fiume insieme si aprirono:

è il nuovo esodo e il patto per sempre!

Come colomba lo Spirito scese

e fu la quiete seguita al silenzio.

David Maria Turoldo  

     

Preghiera

Ancora e sempre sul monte di luce                                   

Cristo ci guidi perché comprendiamo                                 

il suo mistero di Dio e di uomo,

umanità che si apre al divino.

Ora sappiamo che è il figlio diletto

in cui Dio Padre si è compiaciuto;

ancor risuona la voce: «Ascoltatelo»,

perché egli solo ha parole di vita.

In lui soltanto l’umana natura

trasfigurata è in presenza divina,

in lui già ora son giunti a pienezza

giorni e millenni, e legge e profeti.

Andiamo dunque al monte di luce,

liberi andiamo da ogni possesso;

solo dal monte possiamo diffondere

luce e speranza per ogni fratello.

Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo

gloria cantiamo esultanti per sempre:

cantiamo lode perché questo è il tempo

in cui fiorisce la luce del mondo.

(D. M. Turoldo)

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia,Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– R. FERRIGATO (ed.), Avvento e Natale 2012. Sussidio liturgico-pastorale, Milano, San Paolo, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– Don TONINO BELLO, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

SANTA FAMIGLIA

Lectio – Anno C

Prima lettura: 1Samuele 1,20-22.24-28

          Al finir dell’anno Anna concepì e partorì un figlio e lo chiamò Samuèle, «perché – diceva – al Signore l’ho richiesto». Quando poi Elkanà andò con tutta la famiglia a offrire il sacrificio di ogni anno al Signore e a soddisfare il suo voto, Anna non andò, perché disse al marito: «Non verrò, finché il bambino non sia svezzato e io possa condurlo a vedere il volto del Signore; poi resterà là per sempre». Dopo averlo svezzato, lo portò con sé, con un giovenco di tre anni, un’efa di farina e un otre di vino, e lo introdusse nel tempio del Signore a Silo: era ancora un fanciullo. Immolato il giovenco, presentarono il fanciullo a Eli e lei disse: «Perdona, mio signore. Per la tua vita, mio signore, io sono quella donna che era stata qui presso di te a pregare il Signore. Per questo fanciullo ho pregato e il Signore mi ha concesso la grazia che gli ho richiesto. Anch’io lascio che il Signore lo richieda: per tutti i giorni della sua vita egli è richiesto per il Signore». E si prostrarono là davanti al Signore.  
  • L’esperienza di Anna è quella di una maternità sofferta. La donna è sterile e viene nel santuario di Silo a chiedere a Dio la grazia di un figlio (1Sam 1,9-19). Il sacerdote che osserva il fervore della sua preghiera si sente autorizzato a darle una risposta rassicuratrice: «Va in pace e il Dio d’Israele ascolti la domanda che gli hai fatto» (1,17).

     Secondo l’attesa nasce il bambino desiderato. Ma c’è ora da adempiere l’impegno preso al momento della desolazione. «Io lo offrirò al Signore per tutti i giorni della sua vita», aveva detto nel dolore (1,11). Il piccolo Samuele è il figlio della promessa, come il suo stesso nome ricorda «Il Signore ha ascoltato».

    Ora che il bambino è in qualche modo autosufficiente, Anna compie il suo pellegrinaggio verso il santuario di Silo per presentarsi alla faccia del Signore. E per ricevere sicura udienza offre prima un sacrificio di propiziazione e quindi presenta il bambino per offrirlo al servizio del luogo sacro…

     «Il Signore mi ha concesso la grazia che gli ho richiesto. Anch’io lascio che il Signore lo richieda» (1,27-28). Non è un baratto, ma una coerenza del proprio credo. Se JHWH dona deve anche ricevere.

    È la logica che ha guidato a suo tempo i passi di Abramo, il padre dei credenti. Pure lui aveva ricevuto miracolosamente un figlio e cede senza discutere alle richieste di chi glielo aveva accordato, ma la prontezza, quindi la sua fede, è il presupposto per riaverlo nuovamente (Gn 22).

    Samuele è consegnato al Signore e rimarrà nel santuario di Silo alla scuola del gran sacerdote Eli; non ritornerà a Ramataim, nelle montagne di Efraim, con i genitori, ma diventerà presto la guida spirituale di tutto Israele. «Da Dan a Bersheba», da un estremo all’altro del paese, tutto il popolo seppe «che era stato costituito profeta del Signore» (1Sam 3,20). Iddio non si era lasciato vincere in generosità.

    E la madre che aveva pianto per la sua sterilità, per la carenza, di un figlio, ora che l’ha perso donandolo al Signore non è afflitta ma, piena di esultanza, intona un canto di gioia e di ringraziamento che sarà l’anticipo del Magnificat di Maria (2,1-10; cf. Lc 1,46-55).

Seconda lettura: 1Giovanni 3,1-2.21-24

               Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui. Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio, e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito. Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato. Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato.  
  • Le «Lettere» di Giovanni fanno parte di quelle chiamate «cattoliche» dirette cioè non a una singola chiesa, ma a una cerchia più ampia di credenti, in pratica alle comunità cristiane di Asia che registrano nel loro interno i primi attriti e le prime divisioni.

    La condizione del cristiano, secondo l’autore della lettera, è unica, poiché in virtù della sua fede e della rigenerazione battesimale è passato realmente in uno stato di vita nuova che è quello dei figli di Dio.

    Il discorso non è propriamente teologico, ma pratico e soprattutto pastorale. Il «figlio» è colui che è generato dal seno del padre (cf. Gv 1,13.18) non tanto un prodotto della sua potenza. Tra le cose, gli esseri e l’uomo c’è per l’autore biblico, davanti a Dio, una grande differenza, poiché solo l’uomo è a sua immagine e somiglianza (cf. Gn 1,26).

    Il nuovo Testamento fa un passo avanti e stabilisce tra Dio e l’uomo una relazionalità, quasi una parentela che induce il primo a chiamarsi «padre» e il secondo a dirsi «figlio». È  sempre un linguaggio analogico, mutuato cioè dal mondo degli uomini dove la relazione più intima e più cara che esiste tra persone è quella tra i genitori e i figli.

    Il cristiano è colui che ha accettato la testimonianza di Gesù Cristo, vive secondo le sue proposte, soprattutto si prova ad amare i suoi simili, persino i nemici. Egli vive secondo una perfezione che solo Dio possiede. «Se così farete, perdonate cioè anche a quelli che non lo meritano, sarete perfetti come il Padre vostro che è nei cieli» ricordano Matteo e Luca (5,43-48; 6,36:23,34).

     La lettera di Giovanni richiama questa dignità del cristiano che può far propri gli atteggiamenti e i sentimenti di Dio. Non si tratta di un titolo accademico, di una onorificenza gratuita, ma di una promozione che nasce sì dalla fede in Cristo, soprattutto però dall’assunzione dei suoi insegnamenti a programma di vita. È l’essere veramente cristiani, cioè il tentativo di imitare il grado di carità di Gesù Cristo che rende un uomo figlio di Dio.

    Il passo centrale di tutta la lettera è sempre 1,3-7, soprattutto la frase «Dio è luce in cui non ci sono tenebre; se camminiamo nella luce come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri».

    La filiazione divina si rivela nel grado di capacità di accoglienza degli uomini, cioè nel grado di amore verso i fratelli. La comunione con Dio, la dimora in lui, la paternità e la filiazione, temi della lettera, si identificano alla fine con l’imitazione di Cristo, con l’amore degli uni verso gli altri.

    Non sono tanto i sentimenti quanto i comportamenti che rivelano la dignità del cristiano.

Vangelo: Luca 2,41-52

           I genitori di Gesù si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa. Ma, trascorsi i giorni, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme. Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte.
Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». Ed egli rispose loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro. Scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore. E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini.
 

Esegesi

     Luca conclude, con il brano 2,41-52, il racconto dell’infanzia di Gesù. Dopo il dittico degli annunzi (1,5-55) e delle nascite (1,57-2,20) in cui la persona e la missione di Gesù ha il suo risalto soprattutto nel confronto con la figura di Giovanni (simbolo dell’antica alleanza), quella di Maria (la comunità dei credenti) e con Elisabetta (la sinagoga) seguono due quadri che si possono chiamare delle «ascensioni di Gesù al tempio di Gerusalemme», che costituiscono o meglio anticipano l’apoteosi del Cristo nel luogo dell’antico culto e davanti ai dottori d’Israele che rimangono confusi e ammirati davanti alla sapienza del nuovo rabbi che ormai ha eclissato la loro autorità.

     La storia non era andata così, ma l’evangelista non racconta ciò che era realmente accaduto, ma che avrebbe dovuto o dovrebbe accadere: Israele si convertirà e riconoscerà il messia che Dio ha inviato al suo popolo e nello stesso tempo alle genti (Lc 2,32).

     Il testo di Lc 2,41-52 (come quello di Lc 2,21-40) sotto le parvenze di una cronaca e una pagina di alta teologia o se si vuole di profonda cristologia. Il figlio del falegname di cui i nazaretani conoscono i familiari, la madre, le sorelle, i fratelli e che per questo rifiutano di ascoltare è il maestro di sapienza, il salvatore di tutti gli uomini

     Il racconto di Lc 2,41-52 ha l’aria di un episodio, ma il messaggio supera la sua portata aneddotica; bisogna seguire la sua trama, ma senza perdere di vista le alte intenzioni dell’autore.

    Il pellegrinaggio della S. Famiglia a Gerusalemme è l’occasione o il pretesto della visita di Gesù al tempio.

    L’evangelista descrive la fase iniziale della manifestazione di Gesù ma sembra che pensi soprattutto all’ultima, quella che compirà pure in occasione della pasqua.

     La separazione di Gesù dai genitori, lo smarrimento può apparire inverosimile, ma è soprattutto misterioso. Segnala la strada di Cristo che è solitaria. Gesù è accompagnato dai genitori nella sua infanzia, ma quando deve dar compimento alla sua missione è solo. Neanche gli apostoli gli sono di grande aiuto, piuttosto di intralcio. Essi l’abbandonano anche nell’ora del Getsemani che si conclude con la condanna capitale.

     Giuseppe e Maria sono persone reali e simboliche; sono i genitori di Gesù, ma anche i prototipi della comunità credente. Essi si preoccupano del figlio; lo ricercano, lo ritrovano e si preoccupano di capire le ragioni del suo comportamento.

     La domanda «Figlio, perché ci hai fatto questo?» riassume secoli di teologia. In altri tempi si dirà: «Cur Deus homo?» (Perché Dio si è fatto uomo?) oppure: «Perché la croce?». La morte di Cristo è il problema che ha fatto perdere l’orientazione agli apostoli, ha atterrito Paolo e rende perplessi quanti si provano a riflettervi sopra. «Tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo», dice Maria coinvolgendo nella sua angoscia lo sposo e l’intera comunità.

     I «tre» giorni della sparizione possono contenere un’allusione ai tre giorni della sepoltura, della scomparsa di Gesù dallo sguardo dei suoi fratelli e quindi possono contenere un richiamo alla sua passione e morte.

     La risposta alla domanda di Maria e di quanti ella rappresenta non è una spiegazione ma un invito ad accettare le disposizioni che vengono dall’alto anche se non si comprendono. Al «Figlio, perché ci hai fatto questo?» segue un «Perché mi cercavate?». Ogni ricerca sulle scelte di Gesù sfocia in un bivio oltre il quale non è possibile indagare. C’è un imperativo, un dovere a cui occorre solo sottostare.

     La strada della salvezza è segnata da colui che l’ha decisa; ne ha stabiliti i percorsi e le modalità di attuazione; l’uomo deve solo seguirli. È quanto Gesù confessa alla madre e a quanti condividono le sue perplessità.

     «Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Egli è, come tutti, «nato da donna», ma è anche «figlio» cioè un prediletto di Dio, un suo particolare inviato, incaricato di una speciale missione in mezzo agli uomini che è quella di richiamarli alla loro vera origine, al rapporto familiare o filiale che hanno con Dio.

     L’appellativo «padre» rivolto a Dio è quello che tutti debbono far proprio al posto di altri più solenni (Signore, altissimo, onnipotente) ma meno opportuni. Gesù tenterà innanzitutto di rinnovare i rapporti dell’uomo con Dio, sottraendolo alla subordinazione e introducendolo nel cuore della sua famiglia. Una «profanazione» che gli costerà la vita, ma egli non può deflettere da quel «dovere» che segna tutta la sua esistenza: sempre incompreso, sempre frainteso, persino dai propri intimi che vengono a prenderlo perché lo credono fuori di sé (Mc 3,21).

     La strada di Dio non è la strada degli uomini, per accettarla bisogna rinunciare a capire; occorre solo credere. È quanto Maria sembra suggerire. L’evangelista nota che «essi non compresero» (2,50) ma non aggiunge che per questo non credettero, come invece asserisce Giovanni a proposito dei «fratelli» (Gv 7,5) o fa capire parlando dei suoi avversari.

     Maria e Giuseppe non compresero, ma anche questa volta riflettono sulle cose udite, le confrontano con altre nel tentativo di riuscire se non a capirle a poterle far proprie, cioè ad accettarle, a credere (cf. Lc 2 19).

     La prima parte del quadro è offuscato dall’ombra della separazione ma la seconda e mondata dalla luce del ritrovamento e del trionfo (2 46-47). Sono messe a confronto tra di loro le due fasi della vita di Gesù: quella terrestre che si chiude sulla croce e nella tomba e quella gloriosa che si apre con la vittoria sui nemici e sulla morte (risurrezione).

     La scena di Gesù in mezzo ai dottori è nuova, più che storica è soprattutto simbolica, profetica. Di fatto Gesù aveva finito la sua esistenza ignominiosamente, con una disfatta, ma è stata una sconfitta che si e trasformata in vittoria. «Presto vedrete il figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza», aveva detto Gesù ai sinedriti che stavano con-dannandolo (Mc 14,62).

     Il profeta che pochi avevano ascoltato e che pochissimi avevano accettato può parlare ora dal luogo più sacro della terra, accanto alla sede dell’unico e vero Dio e dove le più venerande autorità d’Israele avevano le loro cattedre. Esse sembrano scomparse e quelli che erano i maestri indiscussi della parola di Dio sono se non ai piedi al fianco del nuovo rabbi. È lui che fa loro le domande e in qualche modo orienta le loro risposte. Anche se sembra un ascoltatore, nella mente dell’evangelista è il dottore che ha preso il posto di Mosè ed Elia e dà prova della sua indiscussa autorità (cf. Lc 9,36).

     Quelli che erano stati i più agguerriti avversari di Gesù, appunto gli scribi, i farisei e i dottori della legge, pendono ora dalle sue labbra e quello che è più sorprendente, invece che dall’ira sono pervasi dallo stupore e dalla gioia.

     La situazione si è rovesciata. L’umile profeta galileo è diventato il maestro che Parla dai cortili del tempio, il luogo ufficiale degli interpreti della Legge, e ad ascoltarlo sono le classi dirigenti, i maestri d’Israele proprio quelli che l’avevano rifiutato e fatto condannare a morte.

     È una proiezione profetica e un auspicio che Luca ha davanti ai suoi occhi e propone ai suoi lettori. Mentre racconta la prima esistenza di Gesù guarda con ottimismo al futuro della salvezza cristiana e soprattutto al suo rapporto con l’antico Israele.

Meditazione

Celebriamo oggi la festa della Santa Famiglia di Nazaret. Anche se normalmente questa piccola comunità viene ritenuta ‘straordinaria’ e non confrontabile con le nostre ordinarie esperienze famigliari, il racconto evangelico odierno può forse farci rivedere tale giudizio, mostrandoci come la vicenda di Giuseppe, Maria e Gesù sia molto più vicina, ‘simpatica’ e addirittura imitabile da una qualsiasi famiglia che voglia davvero far crescere tutti i suoi membri.

     Il brano, riportato dal solo Luca, apre uno squarcio nel silenzio dei trent’anni trascorsi da Gesù in famiglia. Ci narra una vicenda svoltasi, significativamente, nell’anno in cui Gesù giunge alla maturità religiosa: a dodici anni, infatti, si diviene bar mitzwa, figlio del comandamento, e si è tenuti all’ascolto operoso della parola di Dio.

     In modo esplicitamente ricercato o accogliendo le sollecitazioni della vita, tutti noi abbiamo vissuto degli avvenimenti simbolici che hanno segnato alcune tappe, alcune svolte fondamentali della nostra esistenza: dal non dormire più nella camera dei genitori al ricevere le chiavi di casa, dalla scelta della scuola e del lavoro al primo viaggio in solitudine, dalla ricerca di una autentica amicizia alla prima preghiera fatta liberamente, senza la necessità di compiacere alcuno… Sono ‘riti’ che si imprimono nella carne, nella memoria profonda di ognuno e ai quali vale la pena talvolta ritornare per ripercorrere il nostro cammino, ritrovando vigore nuovo.

     Queste esperienze presentano e richiedono sempre dei tratti comuni: curiosità esistenziale, ricerca di novità, coraggio di staccarsi dalle relazioni ordinarie, perseveranza… Ci si potrà dirigere verso qualcosa di proibito o di sconsigliato, di rischioso o di illecito ma anche verso qualcosa di ambito e raccomandato, di consigliato e suggerito. Potrà essere l’ambito affettivo o quello lavorativo, quello religioso o quello avventuroso… Comunque sia, lo si farà da soli! A modo proprio. E difficilmente lo si potrà esprimere e raccontare, giustificare, in modo convenzionale: ma questo può essere garanzia di autenticità. Quale genitore, seppur nel dolore del distacco, del taglio del ‘cordone ombelicale’, non ha la sua più grande soddisfazione nel vedere i propri figli camminare autonomamente, alla ricerca della verità e dell’autenticità? Non è forse gioia grande osservare nei figli il desiderio di superare le convenzioni per intraprendere un cammino di ricerca personale, la ‘propria via’? Ogni genitore conosce questo passaggio, sa che deve vigilare su di esso con prudenza. Eppure capita spessissimo che si verifica un’incapacità di leggere e capire le vicende dei propri figli. Come anche i loro linguaggi e messaggi: «Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (2,49).

     La famiglia di Nazaret non si sottrae a questa esperienza. L’angoscia (cfr. 2,48) che arriva a investire Maria e Giuseppe cozza violentemente contro la decisa autonomia – non è una scappatella adolescenziale! – rivendicata con intensità da Gesù. E scoppia l’incomprensione…

     Come quindi si diceva sopra: niente di nuovo sotto il sole! Oggi come allora. Un’esperienza di fatica, di frustrazione reciproca ma anche qualcosa di necessario, di liberante. La festa vera di una famiglia sta proprio nel veder sorgere al proprio interno una personalità adulta, nell’accompagnare la sua crescita con rispetto e discrezione – «sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore» (2,51) -, nel ritrovare la dimensione fondamentale di coppia senza ridursi a quella di genitore, nell’accogliere gli stimoli nuovi immessi dai nuovi linguaggi. A questo proposito, il nostro testo ci consegna le prime parole di Gesù riportate dal terzo evangelista e sono una formidabile sfida e verifica del nostro cammino di fede: «Perché mi cercavate?» (2,51).

     C’è dunque un mistero di morte e risurrezione dentro ogni famiglia e il nostro brano vi allude ripetutamente: Gesù viene ritrovato nel tempio dopo tre giorni (cfr. 2,46; 24,46); non si comprende la ragione di questa separazione (cfr. 2,48; 24,14); lo si ritrova dove non ci si aspettava (cfr. 2,46; 24,31). Pasqua in famiglia!

Don Bosco commenta il Vangelo

Don Bosco commenta il racconto di Luca

Il vangelo della solennità della Sacra Famiglia inizia con il racconto di un immenso dolore per la famiglia di Nazareth. Nella “Corona di Maria addolorata”, inserita da don Bosco nel suo Giovane provveduto, lo smarrimento di Gesù dodicenne costituisce il terzo dolore di Maria, dopo la profezia del vecchio Simeone e la fuga in Egitto (OE2 295s). Il primo grande dolore del piccolo Giovanni Bosco, invece, fu la morte del padre. Pare significativo anche il fatto che nel raccontare questo dolore nelle sue Memorie dell’Oratorio, don Bosco usi per la prima volta il termine “famiglia” scrivendo: “Questo fatto mise tutta la famiglia nella costernazione” (MO 60). 

Il vangelo di oggi è un invito speciale a cercare Gesù, e a trovarlo soprattutto nel tempio. Così, per incoraggiare la frequenza al tempio di Maria Ausiliatrice appena consacrato, don Bosco ricordava nelle Meraviglie della Madre di Dio invocata sotto il titolo di Maria Ausiliatrice l’episodio evangelico:

Nel tempio si riceve la divina misericordia. Nel tempio Maria e Giuseppe trovarono Gesù quando lo ebbero smarrito; nel tempio lo troveremo noi se lo cercheremo con quello spirito di santa fiducia e di santo timore con cui lo cercarono Maria e Giuseppe (OE20 344).

Quando l’avremo trovato, potremo dire con la sposa del Cantico dei Cantici citata nella Corona dei sette dolori di Maria: “Ho ritrovato quello che veramente ama il mio cuore; lo riterrò sempre con me, né lo lascerò mai più partire” (OE23 35).

Nel raccontare la scena di Gesù nel tempio di Gerusalemme, don Bosco sembra voler sottolineare anche la precoce saggezza del ragazzo che “disputava coi dottori della legge, essendo in età di anni dodici”, come leggiamo nella Maniera facile per imparare la Storia sacra (OE6 93). Lui stesso ha potuto costatare dei segni di grande maturità umana e spirituale in certi ragazzi molto giovani, come Domenico Savio, Michele Magone o Francesco Besucco.

Quanto all’apparente rimprovero di Gesù ai genitori, don Bosco lo cita come modello per coloro che vogliono seguire ad ogni costo la chiamata di Dio. Ai giovani religiosi forse tentati dai richiami della famiglia, don Bosco ricordava le parole di Gesù in una conferenza riportata nelle Memorie biografiche: “Così noi dobbiamo rispondere a chi volesse distaccarci dallo stato, dal luogo, nel quale il Signore ci vuole: non sapete che io debbo fare la volontà del mio Padre celeste?” (MB12 561s).

Ma la sorprendente risposta di Gesù, che attesta il primato assoluto della volontà del Padre celeste, non annulla per niente la sottomissione ai genitori. Nella Storia ecclesiastica don Bosco presenta Gesù dopo l’episodio del tempio come un giovane assolutamente obbediente ai genitori: “Ritornato in Nazareth, tutto sommesso ed ubbidiente a Maria e a san Giuseppe s’occupò nei bassi lavori di semplice artigiano” (OE1 182).

Obbedienza e crescita poi sono le due caratteristiche di Gesù durante la sua giovinezza, come se ci fosse un legame inscindibile tra le due cose. Leggiamo infatti nell’edizione del 1876 della Storia sacra di don Bosco: “La storia della giovinezza di Gesù è compendiata in queste parole: Gesù era obbediente a Maria ed a Giuseppe, e cresceva in età ed in sapienza dinanzi a Dio ed agli uomini”. Di qui la raccomandazione di don Bosco ai ragazzi che vogliono crescere: “Studiatevi, o giovani, per imitare Gesù nell’ubbidienza; sia egli l’unico vostro modello; fate di esser docili e pii” (OE27 359).

Insieme all’obbedienza, l’altra caratteristica di Gesù durante la sua giovinezza viene descritta dall’evangelista con queste poche parole: “Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini”. Nella Vita del giovane Besucco Francesco don Bosco ci tiene a mostrare come quel ragazzo è riuscito a crescere attraverso lo spirito di preghiera, l’obbedienza alla mamma e il coraggio di alzarsi di buon mattino per servire la messa: “Con queste disposizioni – conclude don Bosco – cresceva il fanciullino in età ed in grazia presso Dio e gli uomini” (OE15 257).

(Morand Wirth)

Tra parentesi il lettore troverà i riferimenti principali dei testi citati nelle opere di o su don Bosco: – nei 38 volumi delle Opere edite di G. Bosco (OE1-38, a cura del Centro Studi Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana); – nei 19 volumi delle Memorie biografiche di don G. Bosco (MB1-19, a cura di G.B. Lemoyne, A. Amadei e E. Ceria); – nelle sue Memorie dell’Oratorio (MO, a cura di A. Giraudo); – nei 10 volumi del suo Epistolario (E1-10, a cura di F. Motto). La seconda cifra indica la pagina del volume.

L’immagine della domenica

PRESEPE CONGREGAZIONE CAUSA DEI SANTI (ROMA)   –   NATALE 2021   

 

«Per tutti il Natale sia l’occasione di riscoprire la famiglia come culla di vita e di fede; luogo di amore accogliente, di dialogo, di perdono, di solidarietà fraterna e di gioia condivisa, sorgente di pace per tutta l’umanità. Buon Natale a tutti!».

(Papa Francesco, Natale 2020)

Preghiere e racconti

La casa di Nazaret

“La casa di Nazaret è la scuola dove si è iniziati a comprendere la vita di Gesù, cioè la scuola del vangelo. Qui si impara a osservare, ad ascoltare, a meditare, a penetrare il significato profondo e così misterioso di questa manifestazione del Figlio di Dio, tanto semplice, umile e bella. Qui impariamo il metodo che ci permetterà di conoscere chi è il Cristo. Qui tutto ha una voce, tutto ha un significato. Qui, a questa scuola certo comprendiamo perché dobbiamo tenere una disciplina spirituale, se vogliamo seguire la dottrina del vangelo e diventare discepoli del Cristo. Non lasceremo questo luogo senza aver raccolto, quasi furtivamente alcuni brevi ammonimenti dalla casa di Nazaret.

In primo luogo essa ci insegna il silenzio. Oh! Silenzio di Nazaret, insegnaci ad essere fermi nei buoni pensieri, intenti alla vita interiore, pronti a ben sentire le segrete ispirazioni di Dio e le esortazioni dei veri maestri. Insegnaci quanto importanti e necessari siano il lavoro di preparazione, lo studio, la meditazione, l’interiorità della vita, la preghiera che Dio solo vede nel segreto.

Qui comprendiamo il modo di vivere in famiglia. Nazaret ci ricordi cos’è la famiglia, cos’è la comunione di amore, la sua bellezza austera e semplice, il suo carattere sacro e inviolabile. Ci faccia vedere com’è dolce e insostituibile l’educazione in famiglia, ci insegni la sua funzione naturale nell’ordine sociale. Infine impariamo la lezione del lavoro.

Qui soprattutto desideriamo comprendere e celebrare la legge, severa certo, ma redentrice della fatica umana”

(Paolo VI, Discorso a Nazaret, 5 gennaio 1965).

La mamma è qui

«Il bambino amato sente che ha qualcosa di bello, di valido, e che esiste per qualcuno perché si sente scelto. Il bambino si sente scelto solamente quando c’ è una figura femminile affettivamente disponibile, gratuita, permanente, che vive per lui. Non si può essere madre e padri a ore. Ogni bambino svegliandosi ha bisogno di vedere il volto della madre che gli sorride e andando a letto vuole il bacio della buona notte, la benedizione di papà e mamma e quando ritorna a casa da scuola ha il desiderio di sentirsi rispondere “la mamma è qui”.

(Oreste BENZI, Per la Famiglia. La coppia oggi tra libertà dell’uomo e mistero di Dio, Rimini, Guaraldi, 1992, 73).

La Sacra Famiglia

Tre Persone e un amato

esse sono tutte e tre:

in esse un solo amore,

un amante le rendeva;

l’amato tale amante

ove ognuna d’esse vive;

perché l’essere che hanno

delle tre ognuna tiene

e ciascuna d’esse ama

chi tal essere possiede.

Questo esser è ciascuna,

questo solo le congiunge

in un nodo sì ineffabile

che ridire non si può;

infinito è per tal modo

quell’amore che le unisce,

che in tre è un solo amore,

lor sostanza essa si dice;

e l’amor quanto più uno

tanto più amor produce.

(Giovanni della Croce).

La famiglia, icona della Trinità

Il Signore benedica tutti i vostri progetti, miei cari fratelli. Il Signore vi dia la gioia di vivere anche l’esperienza parrocchiale in termini di famiglia. Prendiamo come modello la Santissima Trinità: Padre, Figlio e Spirito che si amano, in cui la luce gira dall’uno all’altro, l’amore, la vita, il sangue è sempre lo stesso rigeneratore dal Padre al Figlio allo Spirito, e si vogliono bene.

Il Padre il Figlio e lo Spirito hanno spezzato questo circuito un giorno e hanno voluto inserire pure noi, fratelli di Gesù. Tutti quanti noi.

Quindi invece che tre lampade, ci siamo tutti quanti noi in questo circuito per cui e la parrocchia e le vostre famiglie prendano a modello la Santissima Trinità.

Difatti la vostra famiglia dovrebbe essere l’icona della Trinità. La parrocchia, la chiesa dovrebbe essere l’icona della Trinità.

Signore, fammi finire di parlare, ma soprattutto configgi nella mente di tutti questi miei fratelli il bisogno di vivere questa esperienza grande, unica che adesso stiamo sperimentando in modo frammentario, diviso, doloroso, quello della comunione, perché la comunione reca dolore anche, tant’è che quando si spezza, tu ne soffri.

Quando si rompe un’amicizia, si piange. Quando si rompe una famiglia, ci sono i segni della distruzione.

La comunione adesso è dolorosa, è costosa, è faticosa anche quella più bella, anche quella fra madre e figlio; è contaminata dalla sofferenza. Un giorno, Signore, questa comunione la vivremo in pienezza. Saremo tutt’uno con te.

Ti preghiamo, Signore, su questa terra così arida, fa’ che tutti noi possiamo già spargere la semente di quella comunione irreversibile, che un giorno vivremo con te.

(Don Tonino Bello)

Preghiera dinanzi al presepe      

Signore Gesù, noi ti vediamo bambino

 e crediamo che tu sei il Figlio di Dio

e il nostro Salvatore.

Con Maria, con gli angeli e con i pastori

noi ti adoriamo.

Ti sei fatto povero

per farci ricchi con la tua povertà:

concedi a noi di non dimenticarci mai

dei poveri e di tutti coloro che soffrono.

Proteggi la nostra famiglia,

benedici i nostri piccoli doni,

che abbiamo offerto e ricevuto,

imitando il tuo amore.

Fa che regni sempre tra noi

questo senso di amore

che rende più felice la vita.

Dona un Buon Natale a tutti, o Gesù,

perché tutti si accorgano che tu oggi sei venuto

a portare al mondo la gioia.

DECALOGO DELLA FAMIGLIA

1. Scopri la famiglia …

la tua e quella degli altri.

L’amore sa scoprire sempre

nuove attese, nuove speranze!

2. Conosci la famiglia,

la tua e quella degli altri,

di quella conoscenza di amore

che sa comprendere e donare.

3. Aiuta la famiglia,

la tua e quella degli altri.

L’amore verso saprà dirti

Che cosa fare per aiutare.

4. Difendi la famiglia,

la tua e quella degli altri:

… il dono dell’unione profonda e vera in Gesù,

sia la sua difesa e la sua gioia.

5. Senti la famiglia,

la tua e quella degli altri,

allora scoprirai un mondo stupendo:

io, tu, noi … uniti nel volerci bene!

6. Accogli la famiglia,

la tua e quella degli altri,

con una generosità, dimentica di sé,

che non conosca limiti nel donare.

7. Sostieni la famiglia,

la tua e quella degli altri.

La vita conosce difficoltà e ansie:

diffondi pace, accresci speranza.

8. Godi della famiglia,

della tua e quella degli altri:

aiuta a godere dei doni di Dio,

perché intorno si irradi la luce.

9. Ammira la famiglia,

la tua e quella degli altri:

perla preziosa nel campo del mondo,

meraviglia della vita che corre nel tempo.

10. Ringrazia per la famiglia,

per la tua e per quella degli altri …

con te, altri si sentiranno “figli” del Padre

che è nei cieli e, in Gesù,

loderanno il dono che rimane in eterno.

Preghiera per la famiglia

O Padre del cielo,

fa’ che nella nostra famiglia

imitiamo le stesse virtù

e lo stesso amore

della Santa famiglia di Nazareth,

perché, riuniti insieme nella tua casa,

possiamo un giorno godere

la gioia eterna.

Per Cristo nostro Signore.

Amen.

(Paolo VI)

 

La festa della Sacra Famiglia ci ricorda che la nascita del Salvatore avviene in un contesto familiare in cui viene accolto il mistero del Dio fatto uomo. Attraverso il grembo di Maria e le cure di Giuseppe, Gesù diviene membro dell’umana famiglia (Preghiera Colletta) e rivela il senso profondo della vita quale “dono” e “mistero” che ha in Dio la sua sorgente e il suo culmine. La Presentazione di Gesù al Tempio dipinta da Giovanni Bellini e conservata a Venezia, presenta il momento culminante del racconto evangelico in cui si narra che i genitori di Gesù, trascorsi i quaranta giorni dal parto, portarono il bambino al Tempio di Gerusalemme per presentarlo al Signore (cf. Lc 2,22-35). I personaggi sono dipinti su uno sfondo scuro e a mezzobusto, separati dall’osservatore soltanto da una finta cornice di marmo alla quale la Madonna appoggia il gomito destro. Il modello seguito dall’artista sembra essere quello di alcune epigrafi funerarie romane. Questa sensazione è confermata e accentuata dalla figura del bambino Gesù che è avvolto in fasce, simile a un defunto, e che ha il capo coperto da un cappuccio rosso, probabile simbolo della passione. Al centro Bellini dipinge Maria, Giuseppe e il vecchio Simeone. Per conferire profondità alla scena e meglio organizzare lo spazio, l’artista dipinge il Bambino come appoggiato su un davanzale, un possibile riferimento all’altare e al sepolcro. Il silenzio avvolge la scena, fatta di contemplazione e di consapevolezza. Dagli sguardi che si scambiano la Madonna e il vegliardo Simeone si coglie il contenuto del loro dialogo: “Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace…e anche a te una spada trafiggerà l’anima” (cf. Lc 2,29.35). Maria e Giuseppe partecipano alla passione del Figlio e accogliendolo si fanno essi stessi strumenti docili per la realizzazione della salvezza; con la loro obbedienza, poi, pongono sull’altare del sacrificio le loro esistenze come oblazione santa e gradita a Dio.


I genitori portavano il bambino Gesù al Tempio per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo. Essi adempiono ogni cosa secondo la Legge del Signore perché pienamente coscienti di essere essi stessi parte di una grande storia di salvezza, depositari di un dono e custodi di un mistero più grande di loro. «Maria e Giuseppe – ha detto papa Francesco nell’ottobre del 2013 rivolgendosi alle famiglie venute in pellegrinaggio a san Pietro per l’anno della fede -, sono la Famiglia santificata dalla presenza di Gesù, che è il compimento di tutte le promesse». Le famiglie cristiane, continuava, così come la famiglia di Nazareth, sono inserite nella storia di un popolo e sono custodi di una memoria. Ciascuna famiglia se ha Gesù al centro, mantiene la memoria della sua origine divina, la comunione trinitaria, della sua missione nel mondo, cioè essere sacramento dell’amore di Dio per l’uomo, e della sua destinazione, ovvero la partecipazione escatologica alla vita divina del Padre, del Figlio e dello Spirito.


Bellini, investigando con molte sfumature il tema dell’amore tra la Madre e il Figlio, dipinge Maria la quale tiene stretto a sé quel Figlio che tuttavia consegna alle mani del sacerdote perché si compia la volontà di Dio. Anche Giuseppe, in secondo piano, assiste al passaggio di Gesù dalle mani della Madonna a quelle del sommo sacerdote, in un gesto che esprime la consegna del Figlio da parte del Padre e la consegna del Figlio al Padre e al mondo sulla croce. Lo sfondo scuro favorisce l’assoluta concentrazione dello sguardo sui personaggi raffigurati. Nessun elemento architettonico o paesaggistico può distrarre dall’evento che in quell’istante si sta compiendo. L’artista riesce a rendere la forte umanità che si palesa nei gesti, nella posizione dei volti e soprattutto negli sguardi che si scambiano i diversi personaggi.


Maria e Giuseppe, in particolare, chinano il capo dinanzi al mistero. Sono consapevoli di ciò che Dio chiedeva loro e senza indugio, con la trepidazione del cuore e con l’adesione dello spirito, pronunciano il loro sì a Dio. Tutto ciò riceve nuova luce se rileggiamo il n. 23 della Relatio Synodi della recente assemblea generale del Sinodo dei Vescovi sulla Famiglia: «La Santa Famiglia di Nazareth ne è il modello mirabile, alla cui scuola noi “comprendiamo perché dobbiamo tenere una disciplina spirituale, se vogliamo seguire la dottrina del Vangelo e diventare discepoli del Cristo” (Paolo VI, Discorso a Nazareth, 5 gennaio 1964). Il Vangelo della famiglia, nutre pure quei semi che ancora attendono di maturare, e deve curare quegli alberi che si sono inariditi e necessitano di non essere trascurati».

La santa Famiglia

Al centro di questa icona. Gesù è al tempo stesso punto focale e motivo di unione tra Maria e Giuseppe. Egli, seduto su un trono regale, è rivestito dell’abito che rivela la sua onnipotente e mite regalità; con un gesto ampio e carico di dolcezza, benedice i genitori e noi che contempliamo l’icona.

Sul capo del Figlio scende un raggio con la simbologia delle altre due Persone della divina Trinità: del Padre, a cui allude la mano creatrice, e dello Spirito Santo, nel simbolo della bianca colomba. Con il gesto indicativo delle mani, Maria e Giuseppe mostrano e porgono alla nostra fede la pienezza del Mistero della Santissima Trinità che dimora nella loro vita. Tale Mistero, che riempie e che dona armonia alla vita, è qui unito da un raggio di luce che raffigura il legame d’amore che ogni famiglia tenta di esprimere nell’umile quotidianità della vita e che la santa Famiglia di Nazaret ha vissuto in maniera compiuta.

E tu,

Madre,

cui era stata predetta una spada nell’anima,

ogni giorno trepidante

segui la vita di un figlio che non è tuo…

Non sono nostri i figli,

Maria!

Sono i figli e le figlie della vita.

Hanno un percorso da compiere,

una gioia da realizzare,

un amore da costruire.

Come frecce scoccate lontano

i nostri figli se ne vanno…

Custodiscili tu,

o Madre,

e prega

per tutti i figli e le figlie dell’umanità

lacerata da discordie

e violenze.

Consola il nostro cuore,

come il tuo attraversato da una spada,

e sia data a tutti

benedizione e pace.

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia,Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– R. FERRIGATO (ed.), Avvento e Natale 2012. Sussidio liturgico-pastorale, Milano, San Paolo, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– Don TONINO BELLO, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO