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Come degli sherpa: che cosa significa accompagnare

Taciti, soli, sanza compagnia
n’andavam l’un dinanzi e l’altro dopo,
come frati minor vanno per via.
Dante, Commedia, Inferno, XXIII, 1-3

Che cosa significa accompagnare spiritualmente ed educativamente un ragazzo o un adolescente? Si sa che la parola “accompagnare” deriva dal latino “cum+panis”: compagno è colui che mangia il pane insieme a me, che mangia il mio pane o che condivide il suo fino a che le parole “mio” e “suo” perdono di senso; e non può non venire in mente la narrazione dei discepoli di Emmaus nella quale proprio il pane spezzato trasforma lo sconosciuto pellegrino da casuale percorritore della stessa strada a vero accompagnatore spirituale, al quale i discepoli (che adesso si sanno tali) hanno appena chiesto di prolungare il piacere della sua compagnia: “quando fu a tavola con loro prese il pane, lo benedisse, lo spezzò e lo diede loro. Allora i loro occhi furono aperti e lo riconobbero” (Lc 24, 30.31). “Accompagnare” significa diventare compagni e spezzare il pane insieme, ri-conoscersi, dunque, conoscersi di nuovo sulla strada che si sceglie di percorrere insieme.
Condividere il pane ricorda anche il gusto del fermarsi a fare merenda al sacco in certe gite, quando si è stanchi e ognuno mette a disposizione del gruppo quello che ha: “c’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cosa sono per tanta gente?” (Gv 6,9) Accompagnare significa condividere, e fare comunità, realizzare insieme un nuovo modo di vivere: “tutti quelli che credevano stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le proprietà e i beni, e li distribuivano a tutti, secondo il bisogno di ciascuno” (At 2, 44-45).
La relazione educativa è sempre un faccia-a-faccia, un rapporto tra un “io” e un “tu”, ma è anche sempre questione comunitaria. Accompagnando un allievo si accompagna un mondo e si accompagna se stessi dentro il mondo. Non esiste relazione educativa che possa pensarsi sull’isola di Robinson, perché anche Robinson non era solo, aveva rapporti di memoria, ricordo, attesa che lo riguardavano anche da lontano. Questo è il mistero dell’accompagnamento educativo: porto te, proprio te, in mezzo al mondo, al “tuo” mondo che però cessa subito di essere solo “tuo” per diventare “nostro”, “di altri”, “di tutti”.
Una prima osservazione dunque è che per accompagnare i ragazzi occorrono gesti fisici di riconoscimento; e in quest’epoca nella quale la gestualità corporea e fisica è sostituita dai simboli virtuali è difficile trovare riti e gesti che ci aiutino a riconoscere i nostri compagni di strada; spezzare il pane è diventato difficile anche perché al supermercato lo vendono già affettato, nel tentativo di alleviare ogni sforzo, ogni fatica, ogni atto corporeo. Anche la fatica di alzare un pollice per dire “sono d’accordo” (un significato socialmente determinato e non universale) è sostituita da un click su un social. Chissà se coloro che usano mille volte al giorno questo “like” sanno che, dagli ultimi studi, pare che il pollice rivolto verso l’alto indicasse, negli agoni romani, non la salvezza del gladiatore sconfitto ma la sua morte. Amara ironia per il mondo destoricizzato e banalizzante dei social!
L’accompagnamento è sempre fisico, non è mai virtuale. Non si accompagna l’anima se al contempo non si accompagna anche il corpo. Non ci dispiace nemmeno troppo sottrarci dall’allucinata enfasi che da ogni dove si pone sulle cosiddette “nuove tecnologie” e soprattutto sull’ossimoro “insegnamento a distanza” (che potrebbe essere simile a “cielo liquido” se quest’ultima espressione non fosse infinitamente più poetica). Certo accompagnare significa giocare con le distanze: lasciar andare, contemplare da lontano, eclissarsi, ma il tutto in una prossimità che è fisica anche quando il corpo sceglie di stare un po’ in disparte, come Virgilio quando Dante parla con i suicidi. Accompagnare significa prendere in carico il corpo del ragazzo o della ragazza, con la sua fatica, con il suo piacere e anche con il suo dolore. Un dolore che rimane privato, intimo, anche indicibile a volte, ma che nel momento in cui viene accolto viene anche accompagnato a una possibile soluzione. Dante e Virgilio faticano per le erte vie dell’Inferno e a tratti il lettore si dimentica che uno solo dei due è portatore di un corpo. Stare fisicamente di fianco ai ragazzi, saperli abbracciare senza essere invasivi, sapere quando compiere un gesto e quando astenersene, saper leggere i messaggi del corpo senza trasformarsi in psicoanalisti improvvisati: tutto questo rientra nel bagaglio dell’accompagnatore educativo, tutto questo si può e si deve imparare se si vuole stare realmente a fianco dei ragazzi. Accompagnare è un’arte, ma anche le arti si imparano. Lasciare tutto a un indefinito “talento” educativo significa non considerare gli educatori come dei professionisti.
L’accompagnamento educativo non è uno strumento retorico: non annulla le differenze, non è un pacchetto turistico che vende lo stesso itinerario ad anonimi clienti. Anzitutto ogni ragazzo ha un suo modo di essere accompagnato, e questo pone all’educatore una grande sfida. “Trattare tutti allo stesso modo” è una ovvietà se parliamo di diritti, è falso se ci riferiamo alla relazione educativa, che semmai fornisce a tutti le stesse opportunità ma proprio attraverso relazioni che non sono mai le stesse perché declinate a partire dal singolo. La strada può essere la stessa per tutti, e a volte deve esserlo, ma non è mai lo stesso il passo che si utilizza per percorrerla. L’educatore sa stare al passo di ogni ragazzo, ma soprattutto sa sintonizzarsi sul ritmo degli ultimi: “il mio signore passi prima del suo servo, mentre io mi sposterò a tutto mio agio, al passo di questo bestiame che mi precede e al passo dei fanciulli, finché arriverò presso il mio signore a Seir” (Gen 33,14). Abituati alla retorica dei capi che guidano le masse ponendosi davanti a loro (e magari non accorgendosi che ormai nessuno li segue) abbiamo scordato che la vera guida è quella che prende in braccio un bambino che fatica o un agnellino azzoppato. Accompagnare significa certo stimolare il passo, motivare al cammino, ma non deve trasformarsi in una sfrenata corsa nel quale chi resta indietro è una “perdita collaterale”. Le parole “educazione” e “competizione” non possono vivere insieme, si respingono, si escludono a vicenda. Uno dei tratti più angoscianti della scuola oggi è proprio questo importare al proprio interno categorie competitive che sono deleterie già nell’ambito del mercato e dell’azienda, figurarsi in campo educativo. Ancora una volta la pedagogia ha aperto le porte al cavallo di Troia, e sono sempre meno numerose le Cassandre che cercano di evitare il peggio.
Ma la principale retorica che l’accompagnamento educativo sgretola è quella della presunta uguaglianza di educatore ed educando; non nel senso dei diritti, ovviamente, ma in quello delle responsabilità. Essi non viaggiano paralleli, ma “l’un dinanzi e l’altro dietro”, perché uno conosce la strada e ha la responsabilità di guidare, l’altro deve scoprirla. Spesso sentiamo educatori dire “io non so quale sia la strada da proporre ai ragazzi”, oppure insegnanti affermare “io non ho niente da insegnare”. Aspettiamo che qualche medico dica che non ha nessuna terapia da prescrivere così il cerchio della banale retorica sarà chiuso. Quando un ragazzo si affida a un educatore, chiede che gli si mostri una strada; da percorrere, da abbandonare, sulla quale sdraiarsi, ma comunque una via. E’ sano che l’educatore nutra continuamente dubbi sul senso e sulla direzione del suo lavoro; è un antidoto alla presunzione, all’arroganza o all’abitudine. Ma i dubbi si pongono e si risolvono in equipe, non tra i ragazzi.
Questo significa che la relazione educativa non è democratica? E’ proprio questo il paradosso: educare alla democrazia è possibile anche (non solo: pensiamo alle pratiche di peer education) attraverso una relazione che formalmente non è democratica, perché c’è chi decide e chi no. E anche quando è l’educando a decidere, è l’educatore che “decide chi decide”. Indicare una strada significa assumersi una responsabilità, cosa che chi traveste la relazione educativa in relazione tra pari si guarda bene dal fare. Ovviamente un educatore deve imparare dai propri ragazzi, anzi questa è una delle sue principali qualità professionali. Ma la differenza consiste nel fatto che l’educatore ha tutto il carico delle relazione educativa, e quando impara dai suoi allievi in realtà sta insegnando qualcosa a se stesso. La nostra è un’idea molto forte di educatore, visto che i pensieri deboli hanno portato alla dissoluzione del pensiero, e con esso della pedagogia e dell’educazione.
Nessuna meta è mai certa in un mondo di cambiamenti repentini, nessun cammino è mai tracciato per sempre e definitivamente; ma come educatori non possiamo far naufragare i nostri ragazzi nella retorica per cui la strada si traccia solo percorrendola. “Caminante no hay camino” è uno splendido verso del grandissimo Antonio Machado, ma se lo vogliamo leggere in chiave educativa (come abbiamo sentito fare più volte e spesso senza nemmeno conoscere l’autore della poesia e la sua conclusione) allora occorre chiedersi se sia etico esporre i ragazzi all’”alto mar aperto” dell’assoluta incertezza che confina spesso con il più ancora assoluto relativismo (che è molto meno relativista di quanto sembri, facendo della relatività dei punti di vista il vero assoluto). I due poli opposti dell’arroganza del capo e della disperazione del naufrago non hanno cittadinanza nella relazione educativa. L’educatore è sfuggito al naufragio, è “fuor del pelago”, conosce l’Inferno e cerca di guidare il ragazzo a una qualche strada di salvezza; può darsi che non conosca del tutto la strada, che abbia paura delle sue buche e delle curve cieche, ma sa che una strada esiste.
In questo senso è possibile iniziare il cammino, in questo senso l’accompagnatore è qualcosa di diverso da un dittatore, da un amico, da un’anima sperduta. Occorre saper accendere di speranza e di fiducia l’anima di un ragazzo perché questi possa davvero iniziare il cammino insieme a noi e possa poi raccontare l’inizio dell’avventura educativa: “allor si mosse, e io li tenni dietro” (Inferno, 1, 136)

Inserito in NPG annata 2019.

Pedagogia dell’accompagnamento educativo /1

Raffaele Mantegazza

(NPG 2019-04-64)

“Dare casa al futuro”: il convegno di Pastorale Giovanile della CEI e l’invito a guardare alle “cose alte”

Si è concluso a Terrasini il XVI Convegno nazionale PG con la presentazione delle Linee guida per la pastorale giovanile, una cassetta degli attrezzi con gli strumenti che servono per lavorare insieme. Qui le slides di don Michele Falabretti.
Don Michele Falabretti ha presentato le nuove linee progettuali, “una cassetta degli attrezzi nella quale ci sono gli strumenti per lavorare e con i quali adesso ci si mette all’opera”. «Abitare questo tempo è possibile» – ha detto don Michele. E non bisogna avere paura di «avere pochi giovani» perché se «si costruisce comunione, la comunità si allargherà sempre più, è sempre stato così».
Le linee sono state pensate come “complementari” ai tre volumi della “piccola biblioteca del Sinodo” consegnate a tutti i partecipanti, “ma il nostro lavoro – ha detto Falabretti – è complementare alle linee: occorre ragionare per piccoli progetti, magari progetti che crescono un po’ per volta, e fare piccoli passi. Abitare questo tempo – ha aggiunto – richiede fatica, ma va fatto, in libertà, con coraggio e insieme”.

 

“Tutti parlano di tutto”. 

Il XVI Convegno Servizio Nazionale per la Pastorale Giovanile della CEI – Dare casa al futuro – è cominciato con queste parole di Silvano Petrosino ed io non so che altro potrei dire rispetto a quanto giornalisti autorevoli, grandi filosofi e teologi hanno già detto durante e alla luce questo convegno. Vorrei però condividere, da giovane, da appartenente al Movimento Giovanile Salesiano, la bellezza di questa esperienza di Chiesa.

Sì, di Chiesa. A volte noi giovani ci dimentichiamo che nei nostri oratori, nei nostri gruppi, siamo parte di questa grande famiglia.
Noi, Cristiani, siamo chiamati a un compito incredibile: annunciare che c’è dell’Altro.
Noi, salesiani, in particolare ad annunciarlo ai giovani.

Cos’è che abbiamo visto e ascoltato? Cos’è che ha cambiato il nostro cuore così tanto da farci innamorare di Cristo? Ecco, questo dobbiamo annunciare: l’Infinitamente Bello che abbiamo incontrato.

Molte sono state le provocazioni ispirate dall’attenta analisi del percorso sinodale.

Si è parlato di giovani e ai giovani.

Abbiamo parlato di vocazione, una vocazione di cui non bisogna avere paura, perché possiamo starne certi, Dio ci chiama al Bene. Compito degli educatori, compito nostro, parlare della ricerca della volontà del Padre, parlarne con coraggio! Rendendo coscienti i nostri giovani che si diventa uomini e donne adulti nel limite, nella sofferenza, nella fatica della ricerca. Tutto questo tenendo a mente il vero significato di educare, ovvero rendere capace il prossimo di compiere scelte libere e buone.

Questo sinodo ci ha donato tre documenti, l’Instrumentum Laboris, il Documento Finale e l’esortazione apostolica Christus Vivit. In essi gli strumenti per il cammino dei prossimi anni. Abbiamo gettato le fondamenta, ora dobbiamo costruire, per dare davvero casa al futuro. Per costruire servono basi, che devono aiutarci a sviluppare identità, identità di Chiesa secondo il modello della vera giovinezza, quella di Gesù.

Le nostre parrocchie, scuole, oratori, devono essere casa. In una generazione di orfani, come dice Papa Francesco, noi dobbiamo essere casa. Per imparare a esserlo il consiglio è uno solo: convivere con i giovani. Sono loro che con il loro essere ci rimettono al nostro posto, danno il senso al nostro essere per loro.

Non dobbiamo avere paura di parlare di cose alte, ogni giovane contiene in sé la grandezza, grandi sogni e grandi speranze. In questo tempo ricco di novità, di scoperte, di avanzamenti tecnologici, manca qualcuno che parli di Vangelo, che parli di Dio, d’Amore. Noi Educatori non dobbiamo avere paura.

Chiediamo ai giovani cosa pensano, chiedeteci cosa sogniamo!

Cari Adulti, aiutateci a creare nuove strade! Sapete, noi corriamo veloci, ma spesso non sappiamo dove andare. Guidateci, così che quando arriveremo alla meta, lì vi aspetteremo con gioia.

Elena S. Marcandella
Coordinatrice Nazionale MGS

Il Papa: “Sacerdoti, siate gioiosi come don Bosco!”

“La gioia di don Bosco è conosciuta: è il maestro della gioia, eh? Perché lui faceva gioire gli altri e giova lui stesso. E soffriva lui stesso”…

I sacerdoti siano gioiosi e guardino con gli occhi di uomo e con occhi di Dio, come ha fatto san Giovanni Bosco di cui si celebra oggi la memoria liturgica. Lo sottolinea papa Francesco alla Messa a Casa Santa Marta per esortare i sacerdoti a guardare la realtà con il cuore di un padre e di un maestro, come ha fatto don Bosco. Uno sguardo che gli ha indicato la via: ha visto quei giovani poveri sulle strade e si è commosso e quindi ha pensato modi per farli maturare. Ha camminato e pianto con loro. Lo riferisce Vatican News.

 

Guardare con occhi di di uomo e di Dio

Francesco ricorda che il giorno della ordinazione di don Bosco, la mamma, una donna umile, contadina, «che non aveva studiato nella facoltà di teologia», gli disse: «Oggi incomincerai a soffrire». Voleva certamente sottolineare una realtà ma anche attirare l’attenzione perché se il figlio si fosse accorto che non c’era sofferenza, voleva dire che qualcosa non andava bene. «È una profezia di una mamma», una donna semplice ma col cuore pieno dello spirito. Per un sacerdote quindi la sofferenza è un segnale che la cosa va bene ma non perché «faccia il fachiro» ma per quello che ha fatto don Bosco che ha avuto il coraggio di guardare la realtà con gli occhi di uomo e con gli occhi di Dio. «Lui – dice Papa Francesco – ha visto in quell’epoca massonica, mangiapreti», di «un’aristocrazia chiusa, dove i poveri erano realmente i poveri, lo scarto, lui ha visto sulle strade quei giovani e ha detto: “Non può essere!”».

«Ha guardato con gli occhi di uomo, un uomo che è fratello e papà pure, e ha detto: “Ma no, questo non può andare così! Questi giovani forse finiranno da don Cafasso, sulla forca … no, non può andare così”, e si è commosso come uomo e come uomo ha incominciato a pensare strade per fare crescere i giovani, per fare maturare i giovani. Strade umane. E poi, ha avuto il coraggio di guardare con gli occhi di Dio e andare da Dio e dire: “Ma, fammi vedere questo … questo è un’ingiustizia … come si fa davanti a questo … Tu hai creato questa gente per una pienezza e loro sono in una vera tragedia …”. E così, guardando la realtà con amore di padre – padre e maestro, dice la liturgia di oggi – e guardando Dio con occhi di mendicante che chiede qualcosa di luce, comincia ad andare avanti».

Don Giuseppe Cafasso confortava infatti i carcerati nella Torino dell’Ottocento e spesso seguiva fino al patibolo i condannati a morte. Fu grande amico di san Giovanni Bosco.

 

Un sacerdote alla mano

Il sacerdote quindi – ribadisce il Papa – deve avere «queste due polarità»: «guardare la realtà con occhi di uomo» e con «occhi di Dio». E questo significa passare «tanto tempo davanti al tabernacolo».

«Il guardare così gli ha fatto vedere la strada, perché lui non è andato con il Catechismo e il Crocifisso soltanto, “fate questo …” … I giovani gli avrebbero detto: “Buonanotte, ci vediamo domani”. No, no: lui è andato vicino a loro, con la vivacità loro. Li ha fatti giocare, li ha fatti in gruppo, come fratelli … è andato, ha camminato con loro, ha sentito con loro, ha visto con loro, ha pianto con loro e li ha portati avanti, così. Il sacerdote che guarda umanamente la gente, che sempre è alla mano».

 

Non impiegati o funzionari

Il Papa sottolinea quindi che i sacerdoti non devono essere dei funzionari o degli impiegati che ricevono, ad esempio, «dalle 15 alle 17.30». «Ne abbiamo tanti di funzionari, bravi – prosegue – che fanno il loro mestiere, come lo devono fare i funzionari. Ma il prete non è un funzionario, non può esserlo». Il Papa quindi torna ad esortare a guardare con occhi di uomo e – promette – «arriverà a te quel sentimento, quella saggezza di capire che sono i tuoi figli, i tuoi fratelli. E poi, avere il coraggio di andare a lottare lì: il sacerdote è uno che lotta con Dio».

Il Papa sa che «sempre c’è il rischio di guardare troppo l’umano e niente il divino, o troppo il divino e niente l’umano» ma «se non rischiamo, nella vita non faremo nulla», avverte. Un papà infatti rischia per il figlio, un fratello rischia per un fratello quando c’è amore. Questo certamente comporta sofferenza, cominciano le persecuzioni, il chiacchiericcio: «questo prete sta lì, sulla strada» con questi ragazzi maleducati che con il pallone «mi rompono il vetro della finestra».

 

Don Bosco, il maestro della gioia

Il Papa quindi ringrazia Dio per «averci dato» san Giovanni Bosco che da bambino iniziò a lavorare, sapeva cosa fosse guadagnarsi il pane ogni giorno e aveva capito cosa fosse la pietà, «qual era la vera verità».

Quest’uomo – evidenzia ancora in conclusione il Papa – ha avuto da Dio un grande cuore di padre e di maestro: «E qual è il segnale che un prete va bene, guardando la realtà con gli occhi di uomo e con gli occhi di Dio? La gioia. La gioia. Quando un prete non trova gioia dentro, si fermi subito e si chieda perché. E la gioia di don Bosco è conosciuta: è il maestro della gioia, eh? Perché lui faceva gioire gli altri e giova lui stesso. E soffriva lui stesso. Chiediamo al Signore, per l’intercessione di don Bosco, oggi, la grazia che i nostri preti siano gioiosi: gioiosi perché hanno il vero senso di guardare le cose della pastorale, il popolo di Dio con occhi di uomo e con occhi di Dio».

 

Debora Donnini

https://www.avvenire.it

 

Papa . «Don Bosco portatore sano di gioia. I salesiani mi hanno formato al bello»

Pubblichiamo la prefazione del Papa al volume, curato da Antonio Carriero, “Evangelii gaudium con don Bosco”, testo in cui la Famiglia salesiana riprende in chiave educativo pastorale il messaggio dell’Esortazione apostolica di Francesco, vero e proprio documento programmatico del suo pontificato. Il titolo del contributo firmato dal Pontefice è “Cari salesiani”.

Voi salesiani siete fortunati perché il vostro fondatore, Don Bosco, non era un santo dalla faccia da “venerdì santo”, triste, musone… Ma piuttosto da “domenica di Pasqua”. Era sempre gioioso, accogliente, nonostante le mille fatiche e le difficoltà che lo assediavano quotidianamente. Come scrivono nelle Memorie biografiche, «il suo volto raggiante di gioia manifestava, come sempre, la propria contentezza nel trovarsi tra i suoi figli» ( Memorie biografiche di Don Giovanni Bosco, volume XII, 41). Non a caso per lui la santità consisteva nello stare “molto allegri”. Possiamo definirlo quindi un “portatore sano” di quella “gioia del Vangelo” che ha proposto al suo primo grande allievo, San Domenico Savio, e a voi tutti salesiani, come stile autentico e sempre attuale della «misura alta della vita cristiana» (Giovanni Paolo II, Novo Millennio Ineunte, 31).

Il suo è stato un messaggio rivoluzionario in un tempo in cui i preti vivevano con distacco la vita del popolo. La «misura alta della vita cristiana» Don Bosco la mette in pratica entrando nella “periferia sociale ed esistenziale” che cresceva nella Torino dell’800, capitale d’Italia e città industriale, che attirava centinaia di ragazzi in cerca di lavoro. Infatti, il “prete dei giovani poveri e abbandonati”, seguendo il consiglio lungimirante del suo maestro san Giuseppe Cafasso, scendeva per le strade, entrava nei cantieri, nelle fabbriche e nelle carceri, e lì trovava ragazzi soli, abbandonati, in balia dei padroni del lavoro, privi di ogni scrupolo. Portava la gioia e la cura del vero educatore a tutti i ragazzi che strappava dalle strade, i quali ritrovavano a Valdocco un’oasi di serenità e il luogo in cui apprendevano ad essere «buoni cristiani e onesti cittadini». È lo stesso clima di gioia e di famiglia che ho avuto la fortuna di vivere e gustare anche io da ragazzo frequentando la sesta elementare al Colegio Wilfrid Barón de los Santos Ángeles, a Ramos Mejía. I salesiani mi hanno formato alla bellezza, al lavoro e a stare molto allegro e questo è un carisma vostro.

Mi hanno aiutato a crescere senza paura, senza ossessioni. Mi hanno aiutato ad andare avanti nella gioia e nella preghiera. Come ebbi occasione di ricordarvi nella visita alla Basilica di Maria Ausiliatrice, il 21 giugno 2015, torno a raccomandarvi i tre amori bianchi di Don Bosco: la Madonna, l’Eucaristia e il Papa. Oggi si parla poco della Madonna con lo stesso amore con cui ne parlava il vostro Santo. Si affidava a Dio pregando la Madonna e quella fiducia in Maria gli dava il coraggio di affrontare sfide e pericoli della vita e della sua missione. L’Eucaristia, come secondo amore di Don Bosco, deve ricordarvi di avviare i ragazzi alla pratica della liturgia, vissuta bene, per aiutarli ad entrare nel mistero eucaristico e non dimenticate anche l’Adorazione. Infine, l’amore al Papa: non è solo amore per la sua persona, ma per Pietro come capo della chiesa e come rappresentante di Cristo e sposo della Chiesa. Dietro quell’amore bianco per il Papa, c’è l’amore per la Chiesa. L’interrogativo che dovete porvi è: «Che salesiano di Don Bosco bisogna essere per i giovani di oggi?». Io direi: un uomo concreto, come il vostro fondatore, che da giovane prete ha preferito alla carriera di precettore nelle famiglie dei nobili il servizio tra i ragazzi poveri e abbandonati. Un salesiano che sa guardarsi attorno, vede le situazioni critiche e i problemi, li affronta, li analizza e prende decisioni coraggiose. È chiamato ad andare incontro a tutte le periferie del mondo e della storia, le periferie del lavoro e della famiglia, della cultura e dell’economia, che hanno bisogno di essere guarite.

E se accoglie, con lo spirito del Risorto, le periferie abitate dai ragazzi e dalle loro famiglie, allora il regno di Dio inizia ad essere presente e un’altra storia diventa possibile. Il salesiano è un educatore che abbraccia le fragilità dei ragazzi che vivono nell’emarginazione e senza futuro, si china sulle loro ferite e le cura come un buon samaritano. Il salesiano è anche ottimista per natura, sa guardare i ragazzi con realismo positivo. Come insegna ancora oggi Don Bosco, il salesiano riconosce in ognuno di loro, anche il più ribelle e fuori controllo, «quel punto di accesso al bene» su cui lavorare con pazienza e fiducia. Il salesiano è, infine, portatore della gioia, quella che nasce dalla notizia che Gesù Cristo è risorto ed è inclusiva di ogni condizione umana. Dio infatti non esclude nessuno. Per amarci non ci chiede di essere bravi. E né ci chiede il permesso di amarci. Ci ama e ci perdona. E se ci lasciamo sorprendere con quella semplicità di chi non ha nulla da perdere, sentiremo il nostro cuore inondato di gioia. Quando queste caratteristiche vengono a mancare, ecco quei musi lunghi, facce tristi.

No! Ai ragazzi si deve portare questa notizia bella, una notizia vera contro tutte le notizie che passano ogni giorno sui giornali e la rete. Cristo è veramente risorto, e a dimostrarlo sono stati Don Bosco e Madre Mazzarello, tutti i santi e i beati della Famiglia Salesiana, come anche tutti i membri che ogni giorno trasfigurano la vita di chi li incontra perché si sono lasciati loro per primi raggiungere dalla misericordia di Dio. Il salesiano diventa così testimone del Vangelo, la Buona Notizia che nella sua semplicità deve confrontarsi con la cultura complessa di ogni Paese. Mettere insieme semplicità e complessità, per un figlio di Don Bosco, è una missione quotidiana. L’ampio commento che segue, rilegge l’Esortazione apostolica Evangelii gaudium in chiave salesiana. È affidato a grandi esperti delle diverse discipline che, con fine sensibilità e sotto la lente di Don Bosco, mettono in risalto il pensiero del Papa in collegamento con le diverse situazioni attuali, per educare e orientare al bene dei ragazzi e dei giovani. Sono convinto che la lettura di queste pagine potrà fare del bene a tutti i figli e alle figlie di Don Bosco sparsi nel mondo, e a quanti condividono il carisma educativo salesiano. Troveranno nelle pagine di questo testo molti spunti di interpretazione della realtà e di rinnovamento della prassi educativa al servizio dei ragazzi e dei giovani del nostro tempo.

 

Papa Francesco ai catechisti: non anteponete la legge all’annuncio della misericordia di Dio

Video messaggio di Papa Francesco ai partecipanti del Congresso Internazionale di Catechesi tenutosi a Roma dal 20 al 23 settembre, organizzato dal  Pontificio Consiglio per la promozione della Nuova Evangelizzazione.

“Il catechista, di conseguenza, non può dimenticare, soprattutto oggi in un contesto di indifferenza religiosa, che la sua parola è sempre un primo annuncio. “

” Primo annuncio equivale a sottolineare che Gesù Cristo morto e risorto per amore del Padre, dona il suo perdono a tutti senza distinzione di persone, se solo aprono il loro cuore a lasciarsi convertire!”

Testo integrale del video messaggio di Papa Francesco ai catechisti

Si è trattato della seconda tappa di confronto con il Catechismo della Chiesa Cattolica, dedicata al Catechista, testimone del Mistero e dunque al rapporto tra dimensione liturgica e dimensione di annuncio, argomento posto all’attenzione della nostra riflessione nazionale nel convegno dello scorso anno con l’Ufficio Liturgico.

 

Video messaggio di Papa Francesco

 

Sinodo. I giovani e l’impegno nel mondo: ecco il testo finale del Sinodo

Un documento ampio, ricco e articolato, che affronta ogni aspetto della condizione giovanile. Che, soprattutto, ricorda e testimonia come i ragazzi di oggi, pur tra mille difficoltà, non siano soli ma abbiano in Gesù un maestro e un compagno di viaggio con cui condividere le loro inquietudini. E nella Chiesa una madre affettuosa che ogni volta aspetta il loro ritorno a casa.
Una casa dove vige la regola dell’ascolto. Se c’è infatti un verbo che più di ogni altro è risuonato nell’aula sinodale sin dal primo giorno di lavoro, è stato “ascoltare”. Che significa avvicinare l’altro, provare a capirlo, non lasciarlo mai solo. Aiutarlo a trovare la strada per diventare protagonista. E il testo finale ne è la plastica documentazione, perché ciascuno dei suoi 167 paragrafi è sempre orientato, per meglio dire “sta” dalla parte dei ragazzi. Un documento ampio, si diceva, che comprende un’introduzione, un proemio, tre parti e una conclusione, che indica ai giovani, a ciascuno di loro, la meta della santità. Vocazione di ogni uomo e di ogni donna. Tutti i punti sono stati approvati con la maggioranza qualificata dei 2/3 compresi i temi relativi alla sessualità e alla presenza delle donne nella Chiesa, quelli con il maggior numero di “non placet”.

Uno dei paragrafi più controversi del documento finale del Sinodo è il numero 39, le «domande dei giovani»: ha avuto 195 placet e 43 non placet dei padri sinodali. «Frequentemente – si legge – la morale sessuale è causa di incomprensione e di allontanamento dalla Chiesa, in quanto è percepita come uno spazio di giudizio e di condanna. Di fronte ai cambiamenti sociali e dei modi di vivere l’affettività e la molteplicità delle prospettive etiche, i giovani si mostrano sensibili al valore dell’autenticità e della dedizione, ma sono spesso disorientati. Essi esprimono più particolarmente un esplicito desiderio di confronto sulle questioni relative alla differenza tra identità maschile e femminile, alla reciprocità tra uomini e donne, all’omosessualità».

«Riconoscere e reagire a tutti i tipi di abuso» è il titolo della sezione che raccoglie i paragrafi 29-31, sul tema degli abusi nella Chiesa. In essa si legge che «il Sinodo esprime gratitudine verso coloro che hanno il coraggio di denunciare il male subìto: aiutano la Chiesa a prendere coscienza di quanto avvenuto e della necessità di reagire con decisione». Tra i motivi che tengono oggi tanti giovani distanti dalla Chiesa, il paragrafo 53 ricorda «gli scandali sessuali ed economici; l’impreparazione dei ministri ordinati che non sanno intercettare adeguatamente la sensibilità dei giovani; la scarsa cura nella preparazione dell’omelia e nella presentazione della Parola di Dio; il ruolo passivo assegnato ai giovani all’interno della comunità cristiana; la fatica della Chiesa di rendere ragione delle proprie posizioni dottrinali ed etiche di fronte alla società contemporanea».

La seconda parte è incentrata sul «mistero della vocazione» e «l’arte di discernere», la terza affronta in particolare la vita dei giovani nelle parrocchie. Forte è l’invito a «vivere in comunione con loro, crescendo insieme nella comprensione del Vangelo e nella ricerca delle forme autentiche per viverlo». Inevitabile la richiesta che le parrocchie sappiano accogliere meglio i giovani, perché «i giovani ci chiedono di camminare insieme». Dunque «porsi in ascolto» che è qualcosa di «più che sentire» la loro voce. «Potremmo procedere verso una Chiesa partecipativa e corresponsabile, capace di valorizzare la ricchezza della varietà di cui si compone» (paragrafo 123), quindi anche dei giovani, cominciando dalla fase della preparazione ai Sacramenti dell’iniziazione cristiana.
L’invito è a «non vivere la fede come un insieme di nozioni e regole che appartengono a un ambito separato dalla loro esistenza» esorta il documento al punto 128. Occorre dunque «un ripensamento pastorale della parrocchia in una logica di corresponsabilità ecclesiale e di slancio missionario». Ecco perché gli «itinerari catechistici devono dimostrare l’intima connessione della fede con l’esperienza concreta di ogni giorno» (numero 133), con una catechesi che si rinnovi nei linguaggi e nelle metodologie. La stessa pastorale giovanile è chiamata a essere «in chiave vocazionale», superando «una certa frammentazione attualmente esistente al suo interno».

Cercando di affrontare anche alcuni ambiti concreti, ecco l’attenzione all’ambiente digitale che «rappresenta per la Chiesa una sfida su molteplici livelli»: esserci sì, ma con discernimento. Sul tema dei migranti vengono ribaditi i quattro verbi indicati dal Papa: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. E mentre si chiede una maggior presenza e ruolo della donne nella Chiesa, si chiede anche di trovare «modalità più adeguate» per «cammini formativi rinnovati sulla visione cristiana della corporeità e della sessualità». «Dio ama ogni persona e così fa la Chiesa rinnovando il suo impegno contro ogni discriminazione e violenza su base sessuale, pur riaffermando la determinante rilevanza antropologica della differenza e reciprocità tra l’uomo e la donna.

AVVENIRE Redazione Catholica sabato 27 ottobre 2018

Paolo VI e Romero santi. Il Papa: “Era Gesù il loro tesoro”

In Piazza San Pietro il rito presieduto da Francesco. “Hanno lasciato tutto per abbracciare la Sua via. Dove si mettono al centro i soldi non c’è spazio per Dio e per l’uomo”. Sono santi. Paolo VI, Oscar Arnulfo Romero Galdámez, Francesco Spinelli, Vincenzo Romano, Maria Caterina Kasper, Nazaria Ignazia di Santa Teresa di Gesù e Nunzio Sulprizio aggiungono i loro nomi all’immenso elenco dei canonizzati di tutte le epoche. Papa Francesco li ha proclamati all’inizio della celebrazione eucaristica in una piazza San Pietro invasa da fedeli giunti da Brescia, Milano, Napoli, Pescara, dalla Spagna, dalla Germania e da tutta l’America Latina. Sono santi, ha detto il Papa nell’omelia, perché hanno fatto “la scelta coraggiosa di rischiare” per seguire Gesù e “hanno avuto il gusto di lasciare qualcosa per abbracciare la sua via”.

In sostanza hanno applicato quanto Gesù dice nel Vangelo proclamato in questa domenica 14 ottobre di “lasciare quello che appesantisce il cuore” e soprattutto le ricchezze terrene. “Dove si mettono al centro i soldi non c’è posto per Dio e non c’è posto neanche per l’uomo”, ha ammonito Francesco. “Per questo la ricchezza è pericolosa e – dice Gesù – rende difficile persino salvarsi. Non perché Dio sia severo, no – ha proseguito il Papa -. Il problema è dalla nostra parte: il nostro troppo avere, il nostro troppo volere ci soffocano il cuore e ci rendono incapaci di amare”. “Non si può seguire veramente Gesù quando si è zavorrati dalle cose”.

I santi invece hanno fatto la scelta di mettere Gesù al centro delle loro vite. “Gesù è radicale. Egli dà tutto e chiede tutto”, ha sottolineato il pontefice. “Gesù non si accontenta di una ‘percentuale di amore’: non possiamo amarlo al venti, al cinquanta o al sessanta per cento. O tutto o niente”. L’ha fatto Paolo VI, ha ricordato Francesco, “sull’esempio dell’Apostolo del quale assunse il nome. Come lui ha speso la vita per il Vangelo di Cristo, valicando nuovi confini e facendosi suo testimone nell’annuncio e nel dialogo, profeta di una Chiesa estroversa che guarda ai lontani e si prende cura dei poveri”.

Paolo VI, ha fatto notare il Pontefice, “anche nella fatica e in mezzo alle incomprensioni, ha testimoniato in modo appassionato la bellezza e la gioia di seguire Gesù totalmente. Oggi ci esorta ancora, insieme al Concilio di cui è stato il sapiente timoniere, a vivere la nostra comune vocazione: la vocazione universale alla santità. Non alle mezze misure, ma alla santità”.Papa Bergoglio ha poi notato che “è bello che insieme a lui e agli altri santi e sante odierni ci sia Mons. Romero, che ha lasciato le sicurezze del mondo, persino la propria incolumità, per dare la vita secondo il Vangelo, vicino ai poveri e alla sua gente, col cuore calamitato da Gesù e dai fratelli”.

Lo stesso possiamo dire, ha aggiunto il Papa, di Francesco Spinelli, di Vincenzo Romano, di Maria Caterina Kasper, di Nazaria Ignazia di Santa Teresa di Gesù e del nostro ragazzo napoletano Nunzio Sulprizio, santo giovane, coraggioso, umile – ha aggiunto a braccio -, che ha saputo incontrare Gesù nella sofferenza, nel silenzio e offerta di se stesso”. “Tutti questi santi, in diversi contesti, hanno tradotto con la vita la Parola di oggi, senza tiepidezza, senza calcoli, con l’ardore di rischiare e di lasciare. Il Signore ci aiuti a imitare i loro esempi”.Francesco ha anche proposto, alla luce di questi esempi, un esame di coscienza ai cristiani di oggi.

“Chiediamoci da che parte stiamo. Ci accontentiamo di qualche precetto o seguiamo Gesù da innamorati? Insomma, ci basta Gesù o cerchiamo tante sicurezze del mondo?”. Perciò ha esortato: “Chiediamo la grazia di saper lasciare per amore del Signore: lasciare le ricchezze, le nostalgie di ruoli e poteri, le strutture non più adeguate all’annuncio del Vangelo, i pesi che frenano la missione, i lacci che ci legano al mondo. Senza un salto in avanti nell’amore la nostra vita e la nostra Chiesa si ammalano di«autocompiacimento egocentrico»: si cerca la gioia in qualche piacere passeggero, ci si rinchiude nel chiacchiericcio sterile, ci si adagia nella monotonia di una vita cristiana senza slancio, dove un po’ di narcisismo copre la tristezza di rimanere incompiuti”. La tristezza, ha concluso il Papa, “è la prova dell’amore in compiuto”. Mentre la gioia sgorga da “un cuore alleggerito di beni, che libero ama il Signore”.

Alla Messa erano presenti numerosi capi di Stato, tra i quali il presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella. All’inizio della celebrazione è stato il prefetto della Congregazione per le cause dei Santi, cardinale Angelo Becciu, a presentare brevemente i profili dei sette nuovi santi. Sono state portate all’altare le loro reliquie: per Paolo VI la maglietta che indossava a Manila nel 1970 con le gocce di sangue delle ferite subite in seguito all’attentato. Frammenti di osso per gli altri canonizzati. Una ciocca di capelli per Nazaria Ignazia March Mesa.

QUI LE BIOGRAFIE DEI NUOVI SANTI

Mimmo Muolo domenica 14 ottobre 2018

 

Sinodo. La domanda dei giovani: «Dateci una liturgia più bella e partecipata»

Emergono dal Sinodo due richieste alla Chiesa di tutto il mondo. Da una parte quella di offrire al clero, ai religiosi e alle religiose, ma anche ai formatori in genere, “una nuova educazione sul corpo, sull’affettività e sulla sessualità”. Dall’altro lato, e sono gli stessi giovani presenti nell’Assise sinodale ad averla formulata durante i lavori, quella di una liturgia migliore. “Dateci una liturgia più bella e partecipata – ha riferito così il cardinale Oswald Gracias, arcivescovo di Bombay, la domanda dei ragazzi, aggiungendo che “è stata una vera sorpresa” per lui -, affinché attraverso la liturgia possiamo fare esperienza di Dio”.

Le due richieste sono emerse nel corso della conferenza stampa sull’andamento dei lavori, in una giornata in cui sono state distribuite anche le relazioni dei 14 circoli minori (quattro di lingua inglese, tre di lingua francese, uno tedesco, due spagnoli, tre italiani e uno portoghese).

Secondo il cardinale Désiré Tsarahazana, presidente della Conferenza episcopale del Madagascar, dal Sinodo viene innanzitutto “un appello alla conversione personale”. “In sostanza l’appello a tutti i battezzati affinché abbiano una vita più coerente con la fede”.
Questa è anche la chiave per affrontare in maniera decisiva la questione degli abusi e in generale della sessualità, un tema che è stato affrontato largamente nel corso dei lavori. Il cardinale africano ha poi annunciato, rispondendo a una domanda, che il Papa si recherà in Madagascar nel 2019, possibilità che il portavoce vaticano Greg Burke, presente alla conferenza stampa non ha confermato, anche se, ha detto, “viene studiata con cura”.

Allo stesso modo Burke non ha confermato un eventuale viaggio in Nord Corea, su invito del presidente nord coreano. “Aspettiamo che l’invito arrivi, poi si vedrà”, ha detto.

Per il resto i lavori del Sinodo stanno confermando il clima gioioso in cui si svolgono e il fatto che i giovani amano la Chiesa (lo ha detto il cardinale canadese Gérald Cyprien Lacroix). Una Chiesa “plurale, inclusiva e capace di camminare insieme con loro”, ha aggiunto l’uditrice suor Nathalie Becquart.

Tutte indicazioni che si ritrovano anche nelle relazioni dei circoli minori, insieme all’invito ad accompagnare le nuove generazioni sull’esempio di Gesù nei confronti dei discepoli di Emmaus (Circolo italiano A). Nella relazione del circolo italiano C questo invito diventa anche appello “a usare il web senza farsi usare”, o
“rifiuto della cultura dell’omologazione, definita spesso cultura del faraone”.

Temi come quello della famiglia (tradizionale, allargata, convivenze, nuove forme di unione) si affacciano spesso nelle relazioni, insieme alla domanda su come porsi pastoralmente di fronte a queste realtà. Anche le migrazioni ricorrono spesso nei resoconti del dibattito, come fenomeno epocale da affrontare sotto diversi profili, non ultimo quello dell’integrazione delle seconde generazioni, spesso relegate alla marginalità della “cultura dello scarto”.

da Avvenire Mimmo Muolo martedì 9 ottobre 2018

TUTTI GLI ARTICOLI SUL SINODO SUI GIOVANI

IL VIDEO DELL’INCONTRO TRA IL PAPA, I PADRI SINODALI E I GIOVANI

“da Papa Francesco un solo consiglio: rischiare”

“Di fronte alla provvisorietà delle decisioni che caratterizza il mondo e i giovani di oggi, l’indicazione del Papa è: ‘Rischia!’”. Lo scrive padre Diego Fares nel quarto volume della collana Accènti de “La Civiltà Cattolica” sul prossimo Sinodo dei vescovi dedicato ai giovani. Lo scrittore de La Civiltà Cattolica segnala che il Papa ha detto tante volte che “chi non rischia non cammina”. “Ma se sbaglio?. Sbaglierai di più se tu rimani fermo”. Richiamando la pedagogia di Francesco, padre Fares spiega che la sua caratteristica è “non umiliare i giovani per i loro limiti, laddove essi sono più fragili, e, d’altra parte, essere esigente e audace laddove invece sta la loro forza: giocarsi tutto per un ideale”. A proposito della vocazione dei giovani, lo scrittore gesuita richiama il Documento preparatorio del Sinodo e sottolinea che “non si parte dal problema della necessità di vocazioni sacerdotali e religiose, ma si ‘universalizza la questione vocazionale’”. Il discernimento vocazionale “viene presentato come ‘un processo progressivo di discernimento interiore e di maturazione della fede’ che riguarda tutti i cristiani” e “non viene considerato come un atto puntuale, ma come il modo costante di vivere una ‘vita spirituale’ che cerca di essere docile agli impulsi dello Spirito”. Di qui l’accenno alle tre nascite – naturale, battesimale e spirituale – di cui parla la Chiesa orientale. “Nel discernimento come ‘nascita nello spirito’ convergono la tradizione antica e le esperienze carismatiche attuali. La missione dei pastori è custodire e sostenere le libertà che ancora si stanno costituendo”.