Coerenti con se stessi e con Dio

 

 

a colloquio con Arturo Paoli

 

Che cosa significa essere autentici?
L’autenticità è la prima qualità della persona. Autentici equivale a veri. Fin dall’infanzia la realtà ci inclina a degli adattamenti: la mamma è una donna debole e quindi quando voglio ottenere qualcosa da lei so come fare perché il no diventi sì; il papà è un uomo che si arrabbia ed è arrivato a picchiarmi. Così imparo a nascondergli quello che penso, dico e faccio. Crescendo mi rendo conto che questa è la legge del vivere sociale. Mi avvicino alla autenticità quando un grande ideale dirige le mie energie interiori e le concentra in un punto. Non conosco una definizione della persona
autentica migliore di quella data da Paolo nella lettera agli Efesini (4,15): fare la verità nell’amore.

 

Come ci si educa all’autenticità?
Ci si educa attraverso la fedeltà. Io credo che l’autenticità sia un valore religioso nel senso che la prima coerenza dobbiamo averla con Dio, che non si può ingannare. Questo non vuol dire non commettere peccati perché dobbiamo sempre riconoscere la nostra fragilità e la nostra debolezza, ma quando non vi è coerenza tra ciò che siamo e ciò che appare di noi è la prova che non amiamo seriamente le persone che ci circondano. È il fallimento della vita, E purtroppo capita spesso.

 

Ma esiste la possibilità di cambiare?
Penso che la Chiesa allontani le persone per la sua eccessiva intransigenza su certi principi che la persona non è in condizione di seguire. Non significa lasciar andare le cose, ma accettare la debolezza della persona umana, invece di respingerla attraverso l’affermazione intransigente dei principi cristiani. Il nostro fratello Giorgio Gonella, nel suo libro sul deserto, ha scritto un bellissimo capitolo sulla misericordia di Dio: Dio non dice va tutto bene, ma il suo atteggiamento è espresso perfettamente dall’episodio di Gesù in casa del fariseo quando entra la donna peccatrice. Il
fariseo si scandalizza, gli dice: se tu conoscessi questa donna, Gesù in effetti la conosce ma conosce anche il suo dolore, la sua sofferenza, il suo pianto che ha una forza di conversione e trasformazione della sua vita che lei stessa non si aspettava. Certamente ci sono ambienti in cui si è facilmente trascinati dal negativo, ma c’è sempre la possibilità del ritorno che cancella il passato, una possibilità di cambiamento.

 

A proposito di luoghi dove cercare la propria autenticità: tu sei stato diverse volte a Romena,
che impressione ne hai ricavato?
Una impressione ottima perché la forza di aggregazione che ha don Gigi è piuttosto singolare, ed essa si deve alla sua ampiezza di vedute, alla sua libertà di accoglienza per cui la persona sente di andare in un luogo che non lo costringe ad assumere forme inautentiche. Come lui ho sempre desiderato che la gente venga, veda, che non sia obbligata ad assumere atteggiamenti diversi da quelli della vita ordinaria. Tra le tante iniziative che propone ce n’è una molto bella, che ho conosciuto da poco, che è consolare le persone che hanno avuto lutti gravi, perdite laceranti, e che
ricevono realmente molto conforto.

 

Quale contributo può offrire una realtà come Romena alla chiesa e alla società?
La Chiesa può ricevere una grande ricchezza: la rinascita della fede da parte di molte persone che sono vissute per anni trascurando la fede e che si riavvicinano perché trovano un ambiente familiare, fatto di semplicità e autenticità a cui possono aderire con entusiasmo.

 

*Silvia Pettiti, giornalista, ha recentemente pubblicato una bella biografia di Arturo Paoli raccontando i suoi 98 anni di vita spesi per gli altri, specie per i poveri delle favelas del Sudamerica. Il libro si intitola “Ne valeva la pena”, Edizioni Paoline.

 

in “http://www.romena.it/” dell’aprile 2011

 

 

Enzo Bianchi: Una vita da priore

La campana a Bose suona alle 5.30. Prima un tocco, sospeso nel vuoto. E poi altri, con le campane
che diventano due, a rincorrersi, veloci. È tempo di svegliarsi. I monaci svegli lo sono già, da un’ora.

 

 

Accendono la lampada alle 4.30 e cominciano la giornata con una lectio divina: leggono, meditano, pregano, scrivono, studiano, ridono o piangono nel segreto delle loro celle. «Dall’aurora io ti cerco», dice un verso di un salmo che cantano assieme all’alba nella chiesa al centro del monastero. Nei loro abiti bianchi i monaci siedono nella navata sinistra della chiesa. Le monache con gli stessi abiti e il cappuccio sul capo siedono dall’altro lato. Sono un’ottantina. Al centro c’è un leggio con una bibbia aperta. In fondo il crocifisso e il tabernacolo. Sopra, dalle  finestre, si intravedono nel buio i contorni innevati dei monti del biellese: Mucrone, Mars, Camino.
Bose è un gruppo di case di campagna, un tempo abbandonate, sulle colline piemontesi, tra campi chiazzati, filari di larici, betulle, un bosco di abeti e di cipressi. L’unico rumore, in questi giorni, è quello della neve che si scioglie, l’acqua scorre nelle gronde e nei canali. Alle 8 del mattino, dopo la fine di quello che qui chiamano il Grande silenzio – inizia la sera prima alle 20 dopo la cena – ognuno comincia la propria attività. Tutti hanno un lavoro da svolgere. E lo fanno con cura, con un ordine che sembra prestabilito. Nessuna cosa viene imposta. C’è un senso di libertà e di quiete. «Se vai in capo il mondo, trovi le tracce di Dio. Se scendi nel tuo profondo, trovi lo stesso Dio» è scritto nel foglio del monastero che accoglie gli ospiti.
Enzo Bianchi, 68 anni, per tutti qui “il priore”, ha uno sguardo profondo, la barba lunga bianca su un corpo di quercia. «Sono un figlio della cultura contadina» del Monferrato e delle Langhe. Il suo ultimo libro Ogni cosa alla sua stagione (Einaudi,130 pagine 17 euro) ha venduto in poche settimane oltre 130mila copie. Parla di ricordi, di terra, di spiritualità nascosta nelle persone semplici, di vecchiaia, di vita monastica e di ascesi. Successo editoriale curioso, in un paese come l’Italia dove si legge poco e il volume in cima alle classifiche di vendita è un manuale di ricette di cucina. «Ha stupito anche me questo successo. C’è un forte bisogno di profondità, di cose vere».
Il suo rapporto con la scrittura è strettamente legato alla vita monastica. «La mia scrittura nasce dal silenzio. Ho una cella nel bosco dove regna un grande silenzio e questo mi aiuta molto a dosare le parole, a discernere e a capire… Se non avessi ore e ore di silenzio sarei incapace di parlare e di scrivere».
Quando ha cominciato la vita a Bose, nel 1965, l’anno della fine del Concilio Vaticano II, era solo.
Studente di economia e commercio all’Università di Torino, aveva formato un gruppo di preghiera «ecumenico, prima ancora del concilio» con altri giovani cattolici, valdesi, ortodossi. «Sentivamo il bisogno di far coincidere la spiritualità cristiana e l’umanità». La svolta avviene nel 1965 quando trascorre tre mesi in Francia a fianco dell’Abbé Pierre. «Vivevamo in una catapecchia vicino al fiume, alla periferia di Rouen: io, l’Abbé Pierre, Dominique, un fratello laico, assieme a clochard, ex legionari, ex carcerati. Svuotavamo cantine, raccoglievamo stracci e li  vendevamo». Tornato a Torino non era più lo stesso. «Volevo continuare a vivere così: una vita cristiana radicale». All’inizio erano in quattro, ma rimase subito solo: uno dei compagni perse la fede, due ragazze decisero di sposarsi.
«Mio padre diceva che ero pazzo». Pazzo di Dio.
Nella prima casupola di Bose non c’era l’elettricità, né riscaldamento o acqua calda. Solo una stufa a legna durante i lunghi inverni, l’orto, le traduzioni dal francese per mantenersi e la vita monastica, in solitudine. Per tre anni. «In quel periodo ho toccato con mano quanto sia difficile l’arte di abitare con se stessi. La mia vita era come è adesso, con la liturgia delle ore, il silenzio e il lavoro. Durante l’inverno restavo lunghi mesi da solo senza vedere nessuno. Il sabato e la domenica, nella bella stagione, qualcuno veniva su a trovarmi. Le giornate erano lunghe ma piene. Avevo trovato una ragione per spendere la vita. Non desideravo altro… Quando ci ripenso ho nostalgia di quel tempo».

L’esperienza di Bose, per niente mondana, ha un qualche successo, lo dimostrano le vendite del suo
libro e le 18mila persone che ogni anno vengono a visitare questo luogo sperduto nella campagna
piemontese. È una storia vera, di identità, di cristianesimo vissuto. «Tanta gente arriva qui, anche non
credenti. Facciamo una vita semplice. Io ho sempre cercato di creare rapporti veri, di comunicazione
sincera».
Rimpianti? No, non ci sono, ricordi piuttosto. «Adesso, con l’età che avanza, si comincia a guardare indietro, sempre più spesso. Quando sono nella solitudine della mia cella, alla sera, ripenso alle persone fondamentali nella mia vita: l’Abbé Pierre, Roger Schutz, Atenagora, ma anche ad alcune persone semplici che sono state importanti nel mio cammino». Nel libro racconta la storia di Teresina del Muchèt. Una donna che viveva sola sul pianoro ai bordi del paese natio, con la compagnia dei suoi animali «ed emanava un odore acre, un misto di stalla, di pecora, di sudore».
Parlava poco Teresina ma quando lo faceva era piena di sapienza, «poche frasi che coglievano sempre nel segno». Tra le pagine scorre anche la storia di Cocco ed Etta, la postina e la maestra del paese. Due donne non sposate, che vivevano insieme dandosi del lei, e che dopo h morte della madre lo hanno cresciuto alla vita, trasmettendogli valori e tolleranza.
«Ho avuto la grazia di trovare chi credeva in me. Avere qualcuno che crede in noi è decisivo  affinché possiamo a nostra volta credere negli altri, è determinante per riuscire a trovare senso nella vita».
Se oggi dovesse lasciare questa terra e le si chiedesse una parola, l’ultima, da lasciare ai suoi, un testamento racchiuso in una parola, cosa direbbe?: «Direi questo: ascoltate. Imparate ad ascoltare.
Per me è la cosa più importante. L’unica cosa che vorrei che si dicesse di me quando non ci sarò più è: “Era un uomo che ascoltava”».

 

in “Il Sole-24 Ore” del 27 marzo 2011

Il segreto di Gesù

1. Vogliamo vedere Gesù

 

 

Vogliamo vedere Gesù.” (Gio 12, 21). Era di fronte a loro, l’uomo, Gesù.

Non era che un uomo, canta Maria Maddalena nel film Jesus Christ Superstar;

e l’armonia sorprendente di quel canto ha attraversato, qualche anno addietro, le Contrade del mondo.

Non era che un uomo… Ma l’affermazione torna carica di evocazione e di mistero.

Non era che un uomo quando, entrato di sabato nella sinagoga, vi trova un uomo dalla mano inaridita: ‘e lo osservavano per vedere se lo guariva in giorno di sabato e poi accusarlo…

– mettiti nel mezzo.

– è lecito in giorno di sabato fare il bene o il male, salvare una vita o toglierla?

– Ma essi tacevano.

– E guardandoli tutt’intorno, con indignazione, rattristato per la durezza dei loro cuori,

disse a quell’uomo:

– stendi la mano!

– la stese e la sua mano fu risanata. (Cfr. Marco, 3, 1 e ss.)

Non era che un uomo quando la morte dell’amico lo sorprende.

– Se fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto, suona carica di amarezza la voce

della Sorella…

– Tuo fratello risusciterà!

– So che risusciterà nell’ultimo giorno.

– Io sono la risurrezione e la vita. …

E, detto questo, gridò a gran voce: Lazzaro, vieni fuori!

E il morto uscì con i piedi e le mani avvolti in bene e il volto coperto da un sudario.

Gesù disse loro: Scioglietelo e lasciatelo andare.

Non era che un uomo quando gli portano una donna colta in flagrante adulterio e insinuano: Mosé, nella legge, ci ha ordinato di lapidare donne come questa.

Tu che ne dici?

Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra.

E sulla loro insistenza:

– Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra contro di lei.

E chinatosi di nuovo, scriveva per terra.

Ma quelli, udito ciò, se ne andarono, uno per uno, cominciando dai più anziani, fino agli ultimi.

– Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?

– Nessuno, Signore.

– Neanch’io ti condanno; va’ e non peccare più.

Non era che un uomo quando umiliato  e vilipeso, sfigurato dal dolore, rivendica alta e sovrana la sua dignità.

– una delle guardie diede uno schiaffo a Gesù, dicendo: così rispondi al sommo sacerdote?

Gli rispose Gesù: “ Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?” (Gio. 18, 22-23)

– e al potente di turno che presume di avere ogni potere su di lui, ricorda:

“Tu non avresti alcun potere su di me se non Ti fosse stato dato dall’alto. Per questo chi mi ha consegnato nelle tue mani ha una colpa più grande.” (Gio.19, 11)

Non era che un uomo?

Il centurione romano lo accompagna, scorta d’onore, fino alla croce. Lo vede morire di una morte atroce, come può morire un uomo.

E tuttavia vedendolo spirare in quel modo, come nessun uomo muore, disse: “Veramente quest’uomo era figlio di Dio!” (Mc 15, 39).

Allora i Greci avevano ragione: volevano vedere Gesù. I suoi i gesti e le sue parole rivelavano, ma contemporaneamente nascondevano chi era veramente Gesù.

Dietro il volto palese e fascinoso si sottraeva la vera figura del Maestro:

restava nascosto il segreto di Gesù

 

RPR    10 marzo ’11

Mons. Rouet, i laici e le lezioni del Vaticano II

Domenica 13 febbraio la diocesi di Poitiers ha festeggiato il commiato di colui che è stato il suo pastore per 17 anni.
L’eco suscitata dalle dimissioni di Albert Rouet per raggiunti limiti di età (75 anni) va al di là dell’ordinario.
L’uomo simboleggia un modello di prelato oggi raro, di quelli che vanno oltre la semplice fedeltà formale allo spirito del Vaticano II.
“È succeduto a due vescovi dinamici.
Non è un vescovo che esce dal nulla”, spiega tuttavia Marc Taillebois, direttore della comunicazione della diocesi e iniziatore dell’opera Vous avez fait de moi un évêque heureux.
La diocesi di Poitiers ha infatti puntato da molto tempo sulla formazione dei laici creando, dal 1974, un Centro teologico per accompagnare il cambiamento della Chiesa (abbandono di preti, emersione dei laici) e prestare attenzione alla società.
Mons.
Rouet resterà per molti come colui che ha osato uscire dalla struttura tradizionale “una parrocchia – un prete”, organizzando, dal 1995, delle “comunità locali”.
Una équipe di cinque delegati pastorali laici per cinque funzioni – annuncio della Parola, preghiera, carità, finanza e coordinamento – accompagnata da un prete.
“Nessuno sapeva in che direzione stavamo andando, ricorda Éric Boone, oggi direttore del Centro teologico diocesano.
Le reazioni erano tutte positive.
Proponevamo uno strumento di rivitalizzazione delle campagne.
E i laici erano sorpresi nel rendersi conto che la Chiesa aveva bisogno di loro.” “Padre Rouet ha una concezione paolina della missione: i carismi, i ruoli di tutte le membra del corpo…”, precisa Marc Taillebois.
Quindi, la governance nella diocesi di Poitiers si intende sinodale.
“Il Consiglio pastorale diocesano è chiamato a decidere insieme.
L’arcivescovo non impone.” corresponsabilità Invitati da un prete e dai delegati precedenti, Nathalie e Thierry Durouchoux iniziano il loro secondo mandato di tre anni di delegati pastorali per una comunità del centro città a Poitiers.
“Non intendiamo questo ruolo come una buona azione.
Viviamo veramente la corresponsabilità tra preti e laici.
In altre diocesi, i cristiani si riuniscono attorno a un prete.
Qui, è la comunità che si riunisce e il prete viene a raggiungerla.” Questo modo poco comune (in ambiente cattolico) di concepire l’azione pastorale non è però un’invenzione del vescovo.
“Padre Rouet ha semplicemente preso molto sul serio il Concilio e la dignità battesimale dei fedeli”, riassume Éric Boone.
Mentre tutti i suoi colleghi prelati sono oberati di lavoro e di preoccupazioni, Albert Rouet si prende il tempo di leggere i giornali, di incontrare degli eletti, di interessarsi a mille cose.
Marc Taillebois riassume: “È vescovo di Poitiers per tutti gli abitanti della Vienne e delle Deux-Sèvres”, nel senso che si rivolge “agli uomini di buona volontà”, secondo l’espressione cara a Giovanni XXIII.
Personalità atipica, Albert Rouet sa far venire accanto a sé le persone giuste per il suo progetto.
“L’ho conosciuto quando era vescovo ausiliare a Parigi.
Sono venuto a Poitiers per lui”, racconta Marc Taillebois.
Stessa avventura per Isabelle Parmentier, che lavorava per un’altra diocesi.
“Mi ha proposto un impiego, che ho rifiutato.
Allora ne ha creato un altro, per farmi venire!”, racconta questa teologa che occupa un posto “trasversale” a servizio della Parola, intervenendo un giorno nelle comunità locali, il giorno dopo in un servizio diocesano o in un movimento.
Quando non predica un ritiro per i preti.
“Sono venuta per servire i suoi orientamenti pastorali.
E sto vivendo gli anni più belli del mio impegno di cristiana.” A sentire i suoi collaboratori, il lavoro accanto all’arcivescovo di Poitiers è un piacere.
“Governa con la fiducia, spiega la teologa Isabelle Parmentier.
Poiché crede in Dio, crede profondamente nell’Uomo, senza aver paura delle sue debolezze, né delle proprie.
Ci spinge alla creatività, all’inventiva.” Scelte Perché mai il laboratorio di Poitiers – visitato in questi ultimi anni da emissari di più di 70 diocesi francesi ed estere! – non ha avuto emuli (o forse pochissimi)? “Il progetto corrisponde ad un territorio, a una storia.
Non è replicabile, assicura Marc Taillebois, che fa notare che esistono altre esperienze.
La diocesi di Poitiers ha istituzionalizzato una struttura, l’ha codificata.
Noi l’abbiamo fatto per scelta, non per mancanza di preti.” A forza di sentire l’antifona “Eh, voi a Poitiers siete fortunati”, il direttore della comunicazione frena gli entusiasmi.
“Vediamo le fragilità”, dice pensando alla decina di preti che hanno rifiutato il sistema, vivono da elettroni liberi e sono felici di veder arrivare domani un “vero vescovo”.
Il futuro immediato preoccupa coloro che vivono pienamente l’avventura.
“Certi tremano, altri sperano”, riassume Marc Taillebois, che assicura che il solco tracciato in questi quarant’anni non  potrà essere cancellato da un nuovo prelato.
Non foss’altro per il fatto che migliaia di laici (1) preparati e abituati alle responsabilità non si lascerebbero sottomettere senza reagire.
“Coloro che si sono lanciati nell’avventura sono convinti dei benefici.
Lo spirito delle comunità locali ha dato impulso a delle abitudini che resteranno”, assicura Nathalie Durouchoux.
Questo cambiamento è una vera sfida per Isabelle Parmentier: “Per difendere quello che abbiamo vissuto, ci crediamo abbastanza? Sapremo adattarlo al nuovo vescovo e al mondo che si muove?” Il mio ministero è fecondo ma non redditizio”, riconosce la teologa che sa che le realtà finanziarie possono essere fatali al suo posto di lavoro.
“Ma questa funzione, tutta al servizio delle relazioni, resterà profetica.” Proprio come il ministero di un vescovo fuori del comune.
(1) Cinque delegati in 320 comunità locali, certe create 15 anni fa, e nominati per tre anni.
intuizioni e convinzioni Albert Rouet, Vous avez fait de moi un évêque heureux, intervista con Marc Taillebois e Éric Boone, éd.
de l’Atelier.
Due anni dopo il successo di J’aimerais vous dire (Bayard), Albert Rouet presenta un’ultima testimonianza sui 17 anni che hanno profondamente segnato la sua diocesi.
Interrogato da due collaboratori laici vicini a lui, Marc Taillebois e Éric Boone, il vescovo di Poitiers rivisita lungamente le linee fondamentali della sua azione pastorale.
Si comprendono meglio le concezioni che hanno dato vita alle famose comunità locali, e le sue convinzioni sul ministero dei preti (“il problema non è il loro numero, ma per fare che cosa”) o l’impegno nel mondo (“la vera contrapposizione non è tra lo spirituale e il sociale, ma tra impegnati e sonnolenti”).
Senza mai porsi come uno che fa lezione, Albert Rouet spiega semplicemente come ha organizzato la sua diocesi per “dare gusto alla vita cristiana”.
Un libro istruttivo e di facile lettura.
in “www.temoignagechrétien.fr” del 19 febbraio 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)

San Giovanni della Croce

L’amore di Cristo non è un peso per l’uomo, ma “gli dà quasi ali”.
Lo ha detto il Papa parlando di san Giovanni della Croce all’udienza generale di mercoledì 16 febbraio, nell’Aula Paolo VI.
Cari fratelli e sorelle, due settimane fa ho presentato la figura della grande mistica spagnola Teresa di Gesù.
Oggi vorrei parlare di un altro importante Santo di quelle terre, amico spirituale di santa Teresa, riformatore, insieme a lei, della famiglia religiosa carmelitana: san Giovanni della Croce, proclamato Dottore della Chiesa dal Papa Pio XI, nel 1926, e soprannominato nella tradizione Doctor mysticus, “Dottore mistico”.
Giovanni della Croce nacque nel 1542 nel piccolo villaggio di Fontiveros, vicino ad Avila, nella Vecchia Castiglia, da Gonzalo de Yepes e Catalina Alvarez.
La famiglia era poverissima, perché il padre, di nobile origine toledana, era stato cacciato di casa e diseredato per aver sposato Catalina, un’umile tessitrice di seta.
Orfano di padre in tenera età, Giovanni, a nove anni, si trasferì, con la madre e il fratello Francisco, a Medina del Campo, vicino a Valladolid, centro commerciale e culturale.
Qui frequentò il Colegio de los Doctrinos, svolgendo anche alcuni umili lavori per le suore della chiesa-convento della Maddalena.
Successivamente, date le sue qualità umane e i suoi risultati negli studi, venne ammesso prima come infermiere nell’Ospedale della Concezione, poi nel Collegio dei Gesuiti, appena fondato a Medina del Campo: qui Giovanni entrò diciottenne e studiò per tre anni scienze umane, retorica e lingue classiche.
Alla fine della formazione, egli aveva ben chiara la propria vocazione: la vita religiosa e, tra i tanti ordini presenti a Medina, si sentì chiamato al Carmelo.
 Nell’estate del 1563 iniziò il noviziato presso i Carmelitani della città, assumendo il nome religioso di Mattia.
L’anno seguente venne destinato alla prestigiosa Università di Salamanca, dove studiò per un triennio arti e filosofia.
Nel 1567 fu ordinato sacerdote e ritornò a Medina del Campo per celebrare la sua Prima Messa circondato dall’affetto dei famigliari.
Proprio qui avvenne il primo incontro tra Giovanni e Teresa di Gesù.
L’incontro fu decisivo per entrambi: Teresa gli espose il suo piano di riforma del Carmelo anche nel ramo maschile dell’Ordine e propose a Giovanni di aderirvi “per maggior gloria di Dio”; il giovane sacerdote fu affascinato dalle idee di Teresa, tanto da diventare un grande sostenitore del progetto.
I due lavorarono insieme alcuni mesi, condividendo ideali e proposte per inaugurare al più presto possibile la prima casa di Carmelitani Scalzi: l’apertura avvenne il 28 dicembre 1568 a Duruelo, luogo solitario della provincia di Avila.
Con Giovanni formavano questa prima comunità maschile riformata altri tre compagni.
Nel rinnovare la loro professione religiosa secondo la Regola primitiva, i quattro adottarono un nuovo nome: Giovanni si chiamò allora “della Croce”, come sarà poi universalmente conosciuto.
Alla fine del 1572, su richiesta di santa Teresa, divenne confessore e vicario del monastero dell’Incarnazione di Avila, dove la Santa era priora.
Furono anni di stretta collaborazione e amicizia spirituale, che arricchì entrambi.
A quel periodo risalgono anche le più importanti opere teresiane e i primi scritti di Giovanni.
L’adesione alla riforma carmelitana non fu facile e costò a Giovanni anche gravi sofferenze.
L’episodio più traumatico fu, nel 1577, il suo rapimento e la sua incarcerazione nel convento dei Carmelitani dell’Antica Osservanza di Toledo, a seguito di una ingiusta accusa.
Il Santo rimase imprigionato per mesi, sottoposto a privazioni e costrizioni fisiche e morali.
Qui compose, insieme ad altre poesie, il celebre Cantico spirituale.
Finalmente, nella notte tra il 16 e il 17 agosto 1578, riuscì a fuggire in modo avventuroso, riparandosi nel monastero delle Carmelitane Scalze della città.
Santa Teresa e i compagni riformati celebrarono con immensa gioia la sua liberazione e, dopo un breve tempo di recupero delle forze, Giovanni fu destinato in Andalusia, dove trascorse dieci anni in vari conventi, specialmente a Granada.
Assunse incarichi sempre più importanti nell’Ordine, fino a diventare Vicario Provinciale, e completò la stesura dei suoi trattati spirituali.
Tornò poi nella sua terra natale, come membro del governo generale della famiglia religiosa teresiana, che godeva ormai di piena autonomia giuridica.
Abitò nel Carmelo di Segovia, svolgendo l’ufficio di superiore di quella comunità.
Nel 1591 fu sollevato da ogni responsabilità e destinato alla nuova Provincia religiosa del Messico.
Mentre si preparava per il lungo viaggio con altri dieci compagni, si ritirò in un convento solitario vicino a Jaén, dove si ammalò gravemente.
Giovanni affrontò con esemplare serenità e pazienza enormi sofferenze.
Morì nella notte tra il 13 e il 14 dicembre 1591, mentre i confratelli recitavano l’Ufficio mattutino.
Si congedò da essi dicendo: “Oggi vado a cantare l’Ufficio in cielo”.
I suoi resti mortali furono traslati a Segovia.
Venne beatificato da Clemente X nel 1675 e canonizzato da Benedetto XIII nel 1726.
Giovanni è considerato uno dei più importanti poeti lirici della letteratura spagnola.
Le opere maggiori sono quattro: Ascesa al Monte Carmelo, Notte oscura, Cantico spirituale e Fiamma d’amor viva.
Nel Cantico spirituale, san Giovanni presenta il cammino di purificazione dell’anima, e cioè il progressivo possesso gioioso di Dio, finché l’anima perviene a sentire che ama Dio con lo stesso amore con cui è amata da Lui.
La Fiamma d’amor viva prosegue in questa prospettiva, descrivendo più in dettaglio lo stato di unione trasformante con Dio.
Il paragone utilizzato da Giovanni è sempre quello del fuoco: come il fuoco quanto più arde e consuma il legno, tanto più si fa incandescente fino a diventare fiamma, così lo Spirito Santo, che durante la notte oscura purifica e “pulisce” l’anima, col tempo la illumina e la scalda come se fosse una fiamma.
La vita dell’anima è una continua festa dello Spirito Santo, che lascia intravedere la gloria dell’unione con Dio nell’eternità.
L’Ascesa al Monte Carmelo presenta l’itinerario spirituale dal punto di vista della purificazione progressiva dell’anima, necessaria per scalare la vetta della perfezione cristiana, simboleggiata dalla cima del Monte Carmelo.
Tale purificazione è proposta come un cammino che l’uomo intraprende, collaborando con l’azione divina, per liberare l’anima da ogni attaccamento o affetto contrario alla volontà di Dio.
La purificazione, che per giungere all’unione d’amore con Dio dev’essere totale, inizia da quella della vita dei sensi e prosegue con quella che si ottiene per mezzo delle tre virtù teologali: fede, speranza e carità, che purificano l’intenzione, la memoria e la volontà.
La Notte oscura descrive l’aspetto “passivo”, ossia l’intervento di Dio in questo processo di “purificazione” dell’anima.
Lo sforzo umano, infatti, è incapace da solo di arrivare fino alle radici profonde delle inclinazioni e delle abitudini cattive della persona: le può solo frenare, ma non sradicarle completamente.
Per farlo, è necessaria l’azione speciale di Dio che purifica radicalmente lo spirito e lo dispone all’unione d’amore con Lui.
San Giovanni definisce “passiva” tale purificazione, proprio perché, pur accettata dall’anima, è realizzata dall’azione misteriosa dello Spirito Santo che, come fiamma di fuoco, consuma ogni impurità.
In questo stato, l’anima è sottoposta ad ogni genere di prove, come se si trovasse in una notte oscura.
 Queste indicazioni sulle opere principali del Santo ci aiutano ad avvicinarci ai punti salienti della sua vasta e profonda dottrina mistica, il cui scopo è descrivere un cammino sicuro per giungere alla santità, lo stato di perfezione cui Dio chiama tutti noi.
Secondo Giovanni della Croce, tutto quello che esiste, creato da Dio, è buono.
Attraverso le creature, noi possiamo pervenire alla scoperta di Colui che in esse ha lasciato una traccia di sé.
La fede, comunque, è l’unica fonte donata all’uomo per conoscere Dio così come Egli è in se stesso, come Dio Uno e Trino.
Tutto quello che Dio voleva comunicare all’uomo, lo ha detto in Gesù Cristo, la sua Parola fatta carne.
Gesù Cristo è l’unica e definitiva via al Padre (cfr Gv 14, 6).
Qualsiasi cosa creata è nulla in confronto a Dio e nulla vale al di fuori di Lui: di conseguenza, per giungere all’amore perfetto di Dio, ogni altro amore deve conformarsi in Cristo all’amore divino.
Da qui deriva l’insistenza di san Giovanni della Croce sulla necessità della purificazione e dello svuotamento interiore per trasformarsi in Dio, che è la meta unica della perfezione.
Questa “purificazione” non consiste nella semplice mancanza fisica delle cose o del loro uso; quello che rende l’anima pura e libera, invece, è eliminare ogni dipendenza disordinata dalle cose.
Tutto va collocato in Dio come centro e fine della vita.
Il lungo e faticoso processo di purificazione esige certo lo sforzo personale, ma il vero protagonista è Dio: tutto quello che l’uomo può fare è “disporsi”, essere aperto all’azione divina e non porle ostacoli.
Vivendo le virtù teologali, l’uomo si eleva e dà valore al proprio impegno.
Il ritmo di crescita della fede, della speranza e della carità va di pari passo con l’opera di purificazione e con la progressiva unione con Dio fino a trasformarsi in Lui.
Quando si giunge a questa meta, l’anima si immerge nella stessa vita trinitaria, così che san Giovanni afferma che essa giunge ad amare Dio con il medesimo amore con cui Egli la ama, perché la ama nello Spirito Santo.
Ecco perché il Dottore Mistico sostiene che non esiste vera unione d’amore con Dio se non culmina nell’unione trinitaria.
In questo stato supremo l’anima santa conosce tutto in Dio e non deve più passare attraverso le creature per arrivare a Lui.
L’anima si sente ormai inondata dall’amore divino e si rallegra completamente in esso.
Cari fratelli e sorelle, alla fine rimane la questione: questo santo con la sua alta mistica, con questo arduo cammino verso la cima della perfezione ha da dire qualcosa anche a noi, al cristiano normale che vive nelle circostanze di questa vita di oggi, o è un esempio, un modello solo per poche anime elette che possono realmente intraprendere questa via della purificazione, dell’ascesa mistica? Per trovare la risposta dobbiamo innanzitutto tenere presente che la vita di san Giovanni della Croce non è stata un “volare sulle nuvole mistiche”, ma è stata una vita molto dura, molto pratica e concreta, sia da riformatore dell’ordine, dove incontrò tante opposizioni, sia da superiore provinciale, sia nel carcere dei suoi confratelli, dove era esposto a insulti incredibili e a maltrattamenti fisici.
È stata una vita dura, ma proprio nei mesi passati in carcere egli ha scritto una delle sue opere più belle.
E così possiamo capire che il cammino con Cristo, l’andare con Cristo, “la Via”, non è un peso aggiunto al già sufficientemente duro fardello della nostra vita, non è qualcosa che renderebbe ancora più pesante questo fardello, ma è una cosa del tutto diversa, è una luce, una forza, che ci aiuta a portare questo fardello.
Se un uomo reca in sé un grande amore, questo amore gli dà quasi ali, e sopporta più facilmente tutte le molestie della vita, perché porta in sé questa grande luce; questa è la fede: essere amato da Dio e lasciarsi amare da Dio in Cristo Gesù.
Questo lasciarsi amare è la luce che ci aiuta a portare il fardello di ogni giorno.
E la santità non è un’opera nostra, molto difficile, ma è proprio questa “apertura”: aprire le finestre della nostra anima perché la luce di Dio possa entrare, non dimenticare Dio perché proprio nell’apertura alla sua luce si trova forza, si trova la gioia dei redenti.
Preghiamo il Signore perché ci aiuti a trovare questa santità, lasciarsi amare da Dio, che è la vocazione di noi tutti e la vera redenzione.
Grazie.
Bendetto XVI (©L’Osservatore Romano – 17 febbraio 2011)

Una teologa della salvezza.

Conoscevo Adriana Zarri dai libri e dagli articoli, ma l’ho incontrata soltanto durante la campagna sul referendum contro l’aborto.
Difendeva la libertà per una donna di rifiutare la gravidanza non perché la condividesse, ma per avvertire le credenti che nulla nelle scritture poteva essere invocato contro di essa.
Ricordo la sua persona nel mio studio, nell’unica sfondata poltrona del «manifesto», esile, diritta, i capelli rialzati, in un pomeriggio romano.
Poco dopo – veniva spesso a Roma – m’invitò al Molinasso, dove è stato scritto Erba della mia erba, e la prima volta che salii a Torino mi presi un giorno di piú per raggiungerla.
Il Molinasso era una cascina, forse un vecchio mulino, appena fuori della strada fra le colline attorno a Ivrea.
Stava su un poggio, isolato, lontano qualche chilometro dall’aggregato piú prossimo, in vista di un’unica altra cascina che si presumeva abitata per avervi intravvisto qualche luce.
Vi si accedeva da un sentiero tra l’erba, qualche rovo e un ruscello, era un’antica costruzione contadina, semplice, armoniosa, con un portone ancora orlato di marmo, e subito la scala che saliva al piano.
La scala finiva in una stanza abbastanza grande, con una stufa a legna e un gatto e le finestre che si aprivano su un orizzonte ondulato fin alla linea azzurra delle montagne.
Non si vedeva anima viva.
Adriana aveva lasciato le scarpe e gli abiti di città per gli zoccoli, un vasto grembiule su una vasta gonna, scuri come quelli delle contadine, e mi guidò nei suoi domini chiamando con il loro nome le piante, gli ortaggi e gli animali – i morbidi conigli che si lasciavano tirar su per le orecchie e i rumorosi polli, fra i quali pescò qualche uovo.
In quel silenzio e nel calare della sera parlammo a lungo, e cosí fu sempre quando potevo arrivare.
Prima di cena mi chiedeva se volevo assistere a una sua preghiera, che era di solito una lettura di qualche passo dell’antico Testamento, di quelli dove Dio è indulgente, al massimo un poco geloso – vuoi leggere tu? e io leggevo – qualche minuto di silenzio (lei non amava la parola che mi parve giusta, raccoglimento) e poi a tavola, non senza gustare un bicchiere di vino.
Attorno, verso il buio, vecchi mobili contadini, qualche arnese agricolo ormai fuori uso, qualche vaso con fiori o foglie o bacche delle prime brume dell’autunno.
Era la povertà della quale i poveri diffidano, perché non c’era nulla che non avesse una sua bellezza.
Ricordo di un trauma Del Molinasso m’era rimasta la persuasione che sarebbe stato per sempre, e che era tutto quel che ad Adriana occorreva, né molto né poco.
Lo aveva trovato, credo, nel 1975 e non so quante volte vi salii, almeno una volta l’anno per molti anni, per uno o due giorni di pace.
Né lei cercava di convertirmi, anche perché convinta che tutti saremo salvati, ci piaccia o no, né io di dissuaderla da quel che non provavo; ognuna ascoltava l’altra; solo una volta, dicendomi quanto amava questo mondo fatto da Dio (si doleva che lo scrivessi con la minuscola), aggiunse che non avrebbe potuto ccettare la morte se non avesse creduto alla resurrezione.
Ma restammo là, e d’altronde c’era poco da commentare.
La notte mettevamo fuori il micio, chiamato Malestro per qualche giovanile misfatto, e ci ritiravamo presto, io a leggere e lei a scrivere perché di giorno non aveva tempo.
L’orto, le piante e gli animali cui badare, la corrispondenza, le telefonate, il riporre o pescare dal cassone refrigerato le provviste, il muoversi ordinatamente in uno spazio vasto e che a me pareva disordinato, insomma soltanto a ora tarda era in grado di lavorare.
A quel tempo non la aiutava nessuno.
Quando doveva mettersi nella sua vecchia macchina o saltare in un treno per combattere il nemico principale, che era allora Comunione e Liberazione, chiudeva approssimativamente tutto, badava che al micio non mancasse né un rifugio né il cibo oltre alle lucertole e ai topi forniti dalla provvidenza, e trovava tutto uguale al ritorno.
Il Molinasso era la quiete e pareva che sarebbe stato cosí sempre.
Ma per la campagna piemontese correvano dei disperati che una notte le sfondarono la porta.
Dovevano averla sorvegliata, era una donna sola, palesemente non contadina, palesemente non miserabile, e non capirono perché non tirasse fuori i soldi che esigevano.
Non potevano immaginare che Adriana di soldi non ne avesse affatto, forse non ne aveva mai avuti, urlarono, la minacciarono e alla fine, dopo avere buttato all’aria tutto, la lasciarono legata a terra, e fu la postina a trovarla due giorni dopo.
(…) La sua inconfessata aristocrazia Fu un trauma, fra il terrore, il malessere, il freddo, quelle ore fra vita e morte e una perdita della quale non riusciva a consolarsi.
Dove poteva andare? Poteva mantenersi ma non aveva denaro per comprare niente, tanto meno un’altra cascina, e in una solitudine meno deserta e pericolosa.
Non le mancarono le proposte, di venire qui o andare là, di amici che ne aspettavano le parole e gli scritti, ma naturalmente non erano eremiti.
Vagò per un certo tempo senza nido, fin che parve rassegnata a fermarsi nel cuneese, dove una famiglia generosa deteneva il dorso di una collina fra i carpini.
Vi si scorgevano qualche rada costruzione e un borgo nel fondovalle.
La coppia ospitava dei tossicodipendenti.
Ricordo il volto smarrito di Adriana alla tavola comune, fra due adulti calorosi e alcuni giovani risentiti, incapaci di muovere un dito, infelicissimi e tetri.
Ho pensato allora, con qualche malizia, che delle virtú teologali la mia amica ne aveva in sovrabbondanza due, fede e speranza, mentre frequentava a modo suo la carità, il suo amore essendo tutto per Dio e qualche grande causa, ma poco incline alla sofferenza dei singoli, che in verità non ha nulla di splendido.
I suoi occhi spalancati su quelle infelicità ne vedevano la bruttezza e non riusciva, come i suoi amici, a tendere le braccia.
Non sarebbe mai stata come madre Teresa e le sue seguaci, delle quali diffidava e, come capii piú tardi, non a torto.
Il suo bisogno di solitudine veniva anche, credo, da una inconfessata aristocrazia del modo di essere.
Intanto era una gran pena e si stava già rassegnando a far planare sul terreno dei suoi ospiti, come la casa di Loreto portata dagli angeli, un prefabbricato norvegese minimo, munito di una poderosa stufa.
Me lo descrisse con voce ottimista.
Addio viste e orizzonti aperti, orto e rose.
Doveva mettersi da qualche parte dove poter chiudere una porta.
Fu allora che qualcuno, penso Luigi Bettazzi che allora era vescovo di Ivrea, la salvò, offrendole in comodato, che deve essere una sorta di affitto a termine, una proprietà diocesana abbandonata, che aveva il vantaggio di stare proprio sull’orlo di un paesino del torinese, un lato sulle ultime case e l’altro su una sconfinata campagna.
Un miracolo.
Adriana rifiorí, vi si insediò subito e io salii a vedere.
Avevo in mente il Molinasso e rimasi di stucco, era un luogo bruttissimo.
Un gran cancello arrugginito, fra due santi antipatici, immetteva a sinistra su una cascina disabitata e a destra su n’altra cascina appena meno sbrindellata, cui si accedeva da un’erta scala di legno, a sua volta collegata a uno sgarbato casone giallo, forse degli anni Trenta, che dava sulla campagna e un giardinetto ad aiuole.
Il quarto lato era indeciso fra una costruzione informe e un arruffato boschetto.
In mezzo uno spazio interrotto da un alto muro, inteso a dividere una delle due cascine e il casone dall’altra.
Adriana si era collocata al primo piano della cascina di destra, che era poi uno stanzone affacciato in fondo verso il paese, e per me aveva collocato un letto giú al pianterreno.
C’era dappertutto una polvere decennale, dappertutto tracce di immemoriali abbandoni, sgomberi frettolosi e confusi, mi misi a scopare e riordinare inutilmente, e quando ci lasciammo dopo una breve cena afferrai una coperta e scesi quella scala da vertigini giú in cortile dove, saltata la lampadina, sbagliai di porta e mi infilai a tastoni in una stanza dove mi parve di individuare un letto di legno.
La mattina dopo scoprii che avevo dormito su un catafalco, con i suoi bravi manici davanti e dietro, e un cespo di rose di pezza coperto di falso filo d’oro rimasto attaccato dall’ultima cerimonia.
Ero in una sorta di magazzino dove era stato ammucchiato tutto quel che una sacrestia povera poteva lasciare di non sacro dietro di sé.
(…) in “il manifesto” del 12 febbraio 2011

La tristezza della lussuria

La sapienza dei padri della Chiesa fin dai primi secoli ha saputo distinguere tra alcuni peccati gravissimi – passibili di «scomunica» e di una lunga penitenza pubblica prima della riammissione nella comunità cristiana: apostasia, adulterio, omicidio, aborto…
– ma legati a un singolo gesto e altri peccati o vizi «capitali» che sono invece espressione di una patologia spirituale molto più profonda.
Comportamenti generati da «pensieri malvagi» che in certo senso minano la personalità stessa di chi li commette, facendolo finire in una spirale di depravazione sempre più disumana: autentici «vizi dell’anima», che nascono dal cuore e che a partire dal cuore vanno contrastati.
Tra questi la lussuria, il rapporto deformato con il sesso, una passione che porta a ricercare il piacere per se stesso, il godimento fisico avulso dallo scopo al quale è legato.
Il piacere sessuale è il più intenso piacere fisico, un piacere complesso che investe il corpo e la psiche, un piacere inerente all’atto sessuale, di cui tuttavia costituisce solo un aspetto.
Ora, se il piacere è cercato nella «quantità», nella compulsione, nell’eccedenza, l’incontro sessuale viene ridotto alla sola genitalità, al piacere fisico e all’orgasmo, l’interesse si focalizza sull’organo specificamente implicato in esso e lì si rinchiude, senza aperture ad alcuna finalità.
L’unico scopo diventa possedere l’altro per farlo strumento del proprio piacere: l’altro è ridotto al suo corpo, alle sue parti erotiche e desiderabili, diventa un oggetto, addirittura un elemento feticistico…
Ma l’energia sessuale è unificante quando è rivolta all’amore, alla comunicazione, alla relazione, cioè a una «storia» d’amore; ridotta all’erotismo, invece, essa frammenta, divide, dissipa il soggetto.
Chi è preda della lussuria assolutizza la propria pulsione e nega la relazione con l’altro, compiendo così una scissione della propria personalità e riducendo l’altro a una «cosa», prima ancora che a una merce.
Le pulsioni erotiche, non più ordinate e armonizzate nella totalità del sé, sfogano la propria natura caotica e selvaggia, fino a sommergere l’altro, indotto nella fantasia o nella realtà – quasi sempre con prepotenza – all’atto sessuale: la lussuria si manifesta là dove il piacere sessuale è incapace di sottostare alle elementari regole della dignità propria e altrui.
Eppure questa passione nasce nello spazio della sessualità, dimensione umana positiva tesa alla comunione tra uomo e donna: la complessità del piacere sessuale non riguarda solo la genitalità e l’orgasmo, ma coinvolge la persona intera, con tutti i suoi sensi.
Linguaggio d’amore, manifestazione del dono di sé all’altro, il piacere sessuale è coronamento dell’unione e, come tale, resta inscritto nella storia di un uomo o di una donna: appare nella pubertà ed è accompagnato dalla fecondità, per poi conoscere una stagione di sterilità, fino alla sua estinzione.
La lussuria, per contro, consiste nell’intendere il piacere come realtà scissa dai soggetti, dalla loro storia d’amore, ed è perciò una ferita inferta a se stessi e all’altro.
Quando si separa il corpo dalla persona, allora l’esercizio della sessualità è sfigurato, degenera, sfocia in aridità, diventa ripetizione ossessiva, obbedisce all’aggressività e alla violenza.
L’amore, che è dono di sé e accoglienza dell’altro, è smentito radicalmente dalla lussuria, che vuole il possesso dell’altro; e così il rapporto sessuale, che dovrebbe essere un linguaggio «altro», sempre accompagnato dalla parola ma anche eccedente la parola stessa, diventa la morte del linguaggio, della comunicazione, impedendo di fatto ogni comunione.
Viviamo in un contesto culturale, costruito ad arte da molti mass media e sfruttato dalla pubblicità, in cui l’unica realtà non oscena è quella dell’erotismo: è ormai inevitabile imbattersi in immagini erotiche, che si imprimono nella mente per riemergere in seguito e stimolare fantasie perverse.
Per reagire a tale clima ammorbante dovremmo acquisire la consapevolezza che la lussuria toglie la libertà: chi ne è schiavo finisce per asservirsi all’idolo del piacere sessuale, un idolo ossessionante che innesca una pericolosa dipendenza.
Chi è preda della lussuria è come malato di bulimia dell’altro, lo cosifica in modo reale nella prestazione sessuale o in modo virtuale nell’immaginazione.
La vera perversione in atto nella lussuria è infatti quella che induce a concepire l’altro come semplice possibilità di incontro sessuale, come mera occasione di piacere erotico.
Come non notare oggi il fenomeno della senescenza precoce dell’esercizio sessuale nelle nuove generazioni? Come ignorare l’esercizio di un eros virtuale, la  ornodipendenza da internet? Per questa strada ci si incammina verso il baratro di un libidogramma piatto, si uccide l’eros per sempre.
Una gestione sana del piacere sessuale comporta che la presa di coscienza di un corpo sessuato si accompagni alla volontà di incontrare l’altro nella differenza e nel rispetto dell’alterità: si tratta di integrare la sessualità nella persona, attraverso l’unità interiore della persona nel suo essere corpo e spirito.
Certo, richiede una padronanza di sé, ma questa è pedagogia alla vera libertà umana: o l’essere umano domina le proprie passioni oppure si lascia da esse alienare e ne diventa schiavo.
Il lussurioso riceve come salario del proprio vizio una tristezza e una solitudine più pesanti, alle quali pensa di riparare entrando nella spirale lussuriosa per nuove esperienze, nuovi incontri, nuovi piaceri: sì, una spirale «dia-bolica» che separa sempre di più piacere da relazione e fecondità.
Per questo la disciplina interiore, anche nello spazio della sessualità, è sempre opera di libertà e, quindi, di ordine e di bellezza: è uno sforzo di umanizzazione capace di trasformare anche l’esercizio della sessualità in un’opera d’arte, in un capolavoro che corona una storia d’amore.
in “La Stampa” del 19 gennaio 2011

I cristiani perseguitati

Voto a Strasburgo: niente aiuti ai Paesi in cui sono discriminati o perseguitati.
Chiesta con urgenza ai Ventisette una strategia comune con possibili misure restrittive contro gli Stati che volutamente non tutelano le confessioni religiose.
Il documento sarà recapitato immediatamente ai rappresentanti di Pakistan, Iran, Iraq, Nigeria, Filippine e Vietnam.  –

 

DOCUMENTAZIONE

Cristiani, la Ue li difenderà

Un segno una speranza di Luigi Geninazzi

Il card. Turkson: «Nessuno può impedire al Papa di parlare»

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Dorothy Day: autentica radicale

I cattolici statunitensi hanno celebrato ieri il trentesimo anniversario della scomparsa della serva di Dio Dorothy Day, la fondatrice, nel 1933, del Catholic Worker Movement, l’organizzazione di assistenza ai poveri che attualmente conta centottantacinque sedi sparse negli Stati Uniti.
In occasione della ricorrenza, monsignor Charles Joseph Chaput, arcivescovo di Denver, ha sottolineato che Dorothy Day è stata una “radicale” nel vero senso della parola, perché profondamente impegnata nella sua “vocazione cristiana”.
In una dichiarazione rilasciata a Catholic News Agency, il presule ha affermato che “come san Francesco d’Assisi, Dorothy Day ha scelto di vivere il vangelo fino in fondo senza eccezioni e compromessi.
Nella sua vita, l’attaccamento al soccorso dei poveri ha avuto dei risvolti eroici e il suo amore verso la Chiesa, da lei considerata come una madre e una maestra allo stesso tempo, non le ha impedito di prendere coscienza di alcuni aspetti della sua vita non conformi all’insegnamento religioso.
La perdurante vitalità del Catholic Worker movement, da lei fondato, è la prova delle sue straordinarie virtù”.
 Donna Ecker, co-direttrice della Bethany House, una Catholic Worker community, con sede a Rochester, Stato di New York, dichiara che “benché non abbia mai avuto la possibilità d’incontrare personalmente Dorothy Day, conosco molto di lei grazie a mia zia e mio zio che sono stati con Dorothy i co-fondatori della St Joseph House e suoi grandi amici”.
La Bethany House fornisce assistenza alle madri single che non riescono a trovare una decente dimora per se stesse e per i loro bambini.
Donna Ecker ha ricordato il periodo della vita di Dorothy Day quando, insieme alla figlia Tamar, ritornò da Staten Island a New York all’inizio degli anni Trenta e, insieme a Peter Maurin, fondò, nel 1933, il Catholic Worker movement.
La co-direttrice della Bethany House ha sottolineato che “sull’esempio delle difficoltà passate da Dorothy Day in quel periodo, si è deciso che la nostra missione va indirizzata all’accoglienza e all’aiuto di ragazze madri che si trovano in situazioni di grande bisogno”.
Fin dagli inizi della sua vita terrena, Dorothy Day, nata a Brooklyn nel 1896 e cresciuta a Chicago, dove a dodici anni era stata accolta nella comunità episcopaliana, aveva fatto trasparire una forte carica di spiritualità.
Secondo la biografia della serva di Dio scritta da David Scott nel 2002 e intitolata “Praying in the Presence of Our Lord”, fin dalla prima adolescenza Dorothy era devota alla preghiera e mortificava il corpo scegliendo volontariamente di riposare su duri giacigli.
Tuttavia il clima di forte tensione sociale e la sua spiccata propensione per i più deboli la spingono, appena sedicenne, a lasciare gli studi presso il college di Chicago e a ritornare a New York dove inizia a scrivere brevi cronache per il giornale socialista “The Call”.
Per alcuni anni si trasferisce a Staten Island insieme a Forster Batterham, convinto ecologista di idee anarchiche.
In questo periodo, Dorothy inizia di nuovo ad approfondire la sua fede in Dio e ad accostarsi sempre più alla fede cattolica.
Questo suo cambiamento, che non venne accettato da Batterham, la porta, nel 1927, a chiedere d’iniziare i corsi di catechismo per ricevere il battesimo in una Chiesa cattolica.
La svolta definitiva nella sua vita avviene nel 1933:  il movimento Catholic Worker inizia l’attività di assistenza in modo molto modesto aprendo due cucine all’aperto par sfamare i tanti lavoratori disoccupati colpiti dalla grande depressione economica degli anni Trenta.
Ben presto le opere di carità si moltiplicano:  grazie all’aiuto di alcuni esperti agrari, sorgono cooperative specializzate nella produzione di alimenti coltivati con metodi naturali e viene anche fondato un giornale che riporta i progressi compiuti dalle varie iniziative del Catholic Worker Movement.
Per sottolineare il grande altruismo di Dorothy Day, l’autore della sua biografia sottolinea che in oltre cinquant’anni di attività la serva di Dio non ha mai percepito alcun salario.
(©L’Osservatore Romano – 1 dicembre 2010)

Jacob, il bambino di creta

«I bambini sono come la creta: duttili, capaci di assumere forme diverse, di adeguarsi a ogni circostanza.
Ho letto alcune testimonianze incredibili.
Pare che riuscissero a ridere anche nei treni che li portavano ad Auschwitz, “forse ci portano al mare” pensavano».
Uno di questi bambini, una mattina d’autunno del 1943 (era il 16 ottobre) fu costretto da alcuni uomini con una strana divisa a uscire di casa e scendere in strada.
Quegli strani personaggi urlavano tutti.
Lo fecero salire su dei grandi camion militari.
Con lui, oltre al padre e alle sorelle più grandi, altri 200 bambini: in totale furono 1022 gli ebrei deportati dal ghetto di Roma quella mattina di 67 anni fa.
Di tutti loro, giunti ad Auschwitz il 22 ottobre, ne sarebbero tornati anni dopo a Roma soltanto 17: tra questi una donna e nessun bambino.
Marco nella fretta riuscì a portare con sé una sola cosa dalla sua casa: un piccolo panetto di creta raccolto in classe il giorno prima.
Quel pezzettino di terra morbida da lavorare con le mani sarebbe diventato il suo miglior amico dentro la fabbrica nera dell’omino dalla divisa unta.
Sarebbe diventato Jacob, il bambino di creta.
E’ questo il titolo del nuovo libro di Andrea Salvatici, scrittore-poeta-educatore nonché l’ autore scelto da Einaudi per pubblicare una favola non semplice.
«Ero a Tel Aviv durante lo Shabbat, in un luogo pieno di bambini festanti ed ebbi come un brivido lungo la schiena.
Cosa succederebbe ora se arrivassero i nazisti? Se mi trovassi a Roma nel 1943? Alcuni giorni prima avevo conosciuto nella comunità dove lavoro a Milano un bambino meraviglioso: ha una malattia grave che gli impedisce di crescere.
Tutte queste cose insieme mi hanno fatto pensare a una favola che raccontasse i pensieri e le fantasie di tutti quei piccoli esseri umani che non sono mai tornati dai campi di concentramento.
Quali saranno stati i loro pensieri? Quanto li avrà aiutati la fantasia in quei momenti tragici?».
Salvatici ha cominciato a scrivere questa storia appena rientrato da Israele, pubblicandola a puntate sul blog “Il posto delle favole” che, da oltre due anni, tiene sul sito del Corriere della Sera.
L’ultima puntata è uscita per il giorno della memoria, il 27 gennaio scorso.
Orietta Fatucci, che dirige la collana “Storie e Rime” dell’Einaudi Ragazzi l’ha letta, ne è rimasta colpita ed ha deciso di pubblicarla in tempi brevissimi (il romanzo è nelle librerie).
Una storia nella storia.
L’Olocausto visto dagli occhi di un bambino si trasforma in un viaggio fantastico fatto diallegorie in cui il male affiora di tanto in tanto in lontananza.
Il piccolo Jacob è accompagnato da una strana accozzaglia di personaggi: una stella guarita da un grillo, una fata cimosa, una talpa studiosa, un orso vegetariano, una balena innamorata di un faro, gamberetti accordatori, alberi da frutta yo yo che distribuiscono fantasia e altri personaggi.
Nascosta nel suo zaninetto, l’arma letale contro il perfido e mediocre generale Exametron, padrone della fabbrica nera che mangia bambini di carne e di creta: la filastrocca del bosco.
Exametron la vuole rubare a tutti i costi perché lo fa tanto arrabbiare e sfugge al suo controllo.
Dice così: «Stecca di vaniglia, anice stellato/ grilli felici su questo prato/ torni il sorriso di zucchero filato/ a tutti i bambini dietro il filo spinato».
Se Jacob riuscirà a liberare o no il suo amico Marco dipende solo dalla scelta emozionale del lettore.
<Non si può pensare a un lieto fine per un episodio che ha prodotto troppo, troppo dolore> afferma Salvatici.
Consola forse immaginare, leggendo tra le righe di questo racconto onirico, che solo la fantasia – magari sotto forma di un piccolo pezzetto di creta – abbia permesso ai troppi bambini che hanno avuto la sorte di Marco di non sopravvivere ma continuare a vivere (e magari anche sorridere) dentro «il campo del filo di ferro» durante quella assurda e tragica follia dell’umanità che è stata l’Olocausto.
Iacopo Gori