L’amore di Cristo non è un peso per l’uomo, ma “gli dà quasi ali”.
Lo ha detto il Papa parlando di san Giovanni della Croce all’udienza generale di mercoledì 16 febbraio, nell’Aula Paolo VI.
Cari fratelli e sorelle, due settimane fa ho presentato la figura della grande mistica spagnola Teresa di Gesù.
Oggi vorrei parlare di un altro importante Santo di quelle terre, amico spirituale di santa Teresa, riformatore, insieme a lei, della famiglia religiosa carmelitana: san Giovanni della Croce, proclamato Dottore della Chiesa dal Papa Pio XI, nel 1926, e soprannominato nella tradizione Doctor mysticus, “Dottore mistico”.
Giovanni della Croce nacque nel 1542 nel piccolo villaggio di Fontiveros, vicino ad Avila, nella Vecchia Castiglia, da Gonzalo de Yepes e Catalina Alvarez.
La famiglia era poverissima, perché il padre, di nobile origine toledana, era stato cacciato di casa e diseredato per aver sposato Catalina, un’umile tessitrice di seta.
Orfano di padre in tenera età, Giovanni, a nove anni, si trasferì, con la madre e il fratello Francisco, a Medina del Campo, vicino a Valladolid, centro commerciale e culturale.
Qui frequentò il Colegio de los Doctrinos, svolgendo anche alcuni umili lavori per le suore della chiesa-convento della Maddalena.
Successivamente, date le sue qualità umane e i suoi risultati negli studi, venne ammesso prima come infermiere nell’Ospedale della Concezione, poi nel Collegio dei Gesuiti, appena fondato a Medina del Campo: qui Giovanni entrò diciottenne e studiò per tre anni scienze umane, retorica e lingue classiche.
Alla fine della formazione, egli aveva ben chiara la propria vocazione: la vita religiosa e, tra i tanti ordini presenti a Medina, si sentì chiamato al Carmelo.
Nell’estate del 1563 iniziò il noviziato presso i Carmelitani della città, assumendo il nome religioso di Mattia.
L’anno seguente venne destinato alla prestigiosa Università di Salamanca, dove studiò per un triennio arti e filosofia.
Nel 1567 fu ordinato sacerdote e ritornò a Medina del Campo per celebrare la sua Prima Messa circondato dall’affetto dei famigliari.
Proprio qui avvenne il primo incontro tra Giovanni e Teresa di Gesù.
L’incontro fu decisivo per entrambi: Teresa gli espose il suo piano di riforma del Carmelo anche nel ramo maschile dell’Ordine e propose a Giovanni di aderirvi “per maggior gloria di Dio”; il giovane sacerdote fu affascinato dalle idee di Teresa, tanto da diventare un grande sostenitore del progetto.
I due lavorarono insieme alcuni mesi, condividendo ideali e proposte per inaugurare al più presto possibile la prima casa di Carmelitani Scalzi: l’apertura avvenne il 28 dicembre 1568 a Duruelo, luogo solitario della provincia di Avila.
Con Giovanni formavano questa prima comunità maschile riformata altri tre compagni.
Nel rinnovare la loro professione religiosa secondo la Regola primitiva, i quattro adottarono un nuovo nome: Giovanni si chiamò allora “della Croce”, come sarà poi universalmente conosciuto.
Alla fine del 1572, su richiesta di santa Teresa, divenne confessore e vicario del monastero dell’Incarnazione di Avila, dove la Santa era priora.
Furono anni di stretta collaborazione e amicizia spirituale, che arricchì entrambi.
A quel periodo risalgono anche le più importanti opere teresiane e i primi scritti di Giovanni.
L’adesione alla riforma carmelitana non fu facile e costò a Giovanni anche gravi sofferenze.
L’episodio più traumatico fu, nel 1577, il suo rapimento e la sua incarcerazione nel convento dei Carmelitani dell’Antica Osservanza di Toledo, a seguito di una ingiusta accusa.
Il Santo rimase imprigionato per mesi, sottoposto a privazioni e costrizioni fisiche e morali.
Qui compose, insieme ad altre poesie, il celebre Cantico spirituale.
Finalmente, nella notte tra il 16 e il 17 agosto 1578, riuscì a fuggire in modo avventuroso, riparandosi nel monastero delle Carmelitane Scalze della città.
Santa Teresa e i compagni riformati celebrarono con immensa gioia la sua liberazione e, dopo un breve tempo di recupero delle forze, Giovanni fu destinato in Andalusia, dove trascorse dieci anni in vari conventi, specialmente a Granada.
Assunse incarichi sempre più importanti nell’Ordine, fino a diventare Vicario Provinciale, e completò la stesura dei suoi trattati spirituali.
Tornò poi nella sua terra natale, come membro del governo generale della famiglia religiosa teresiana, che godeva ormai di piena autonomia giuridica.
Abitò nel Carmelo di Segovia, svolgendo l’ufficio di superiore di quella comunità.
Nel 1591 fu sollevato da ogni responsabilità e destinato alla nuova Provincia religiosa del Messico.
Mentre si preparava per il lungo viaggio con altri dieci compagni, si ritirò in un convento solitario vicino a Jaén, dove si ammalò gravemente.
Giovanni affrontò con esemplare serenità e pazienza enormi sofferenze.
Morì nella notte tra il 13 e il 14 dicembre 1591, mentre i confratelli recitavano l’Ufficio mattutino.
Si congedò da essi dicendo: “Oggi vado a cantare l’Ufficio in cielo”.
I suoi resti mortali furono traslati a Segovia.
Venne beatificato da Clemente X nel 1675 e canonizzato da Benedetto XIII nel 1726.
Giovanni è considerato uno dei più importanti poeti lirici della letteratura spagnola.
Le opere maggiori sono quattro: Ascesa al Monte Carmelo, Notte oscura, Cantico spirituale e Fiamma d’amor viva.
Nel Cantico spirituale, san Giovanni presenta il cammino di purificazione dell’anima, e cioè il progressivo possesso gioioso di Dio, finché l’anima perviene a sentire che ama Dio con lo stesso amore con cui è amata da Lui.
La Fiamma d’amor viva prosegue in questa prospettiva, descrivendo più in dettaglio lo stato di unione trasformante con Dio.
Il paragone utilizzato da Giovanni è sempre quello del fuoco: come il fuoco quanto più arde e consuma il legno, tanto più si fa incandescente fino a diventare fiamma, così lo Spirito Santo, che durante la notte oscura purifica e “pulisce” l’anima, col tempo la illumina e la scalda come se fosse una fiamma.
La vita dell’anima è una continua festa dello Spirito Santo, che lascia intravedere la gloria dell’unione con Dio nell’eternità.
L’Ascesa al Monte Carmelo presenta l’itinerario spirituale dal punto di vista della purificazione progressiva dell’anima, necessaria per scalare la vetta della perfezione cristiana, simboleggiata dalla cima del Monte Carmelo.
Tale purificazione è proposta come un cammino che l’uomo intraprende, collaborando con l’azione divina, per liberare l’anima da ogni attaccamento o affetto contrario alla volontà di Dio.
La purificazione, che per giungere all’unione d’amore con Dio dev’essere totale, inizia da quella della vita dei sensi e prosegue con quella che si ottiene per mezzo delle tre virtù teologali: fede, speranza e carità, che purificano l’intenzione, la memoria e la volontà.
La Notte oscura descrive l’aspetto “passivo”, ossia l’intervento di Dio in questo processo di “purificazione” dell’anima.
Lo sforzo umano, infatti, è incapace da solo di arrivare fino alle radici profonde delle inclinazioni e delle abitudini cattive della persona: le può solo frenare, ma non sradicarle completamente.
Per farlo, è necessaria l’azione speciale di Dio che purifica radicalmente lo spirito e lo dispone all’unione d’amore con Lui.
San Giovanni definisce “passiva” tale purificazione, proprio perché, pur accettata dall’anima, è realizzata dall’azione misteriosa dello Spirito Santo che, come fiamma di fuoco, consuma ogni impurità.
In questo stato, l’anima è sottoposta ad ogni genere di prove, come se si trovasse in una notte oscura.
Queste indicazioni sulle opere principali del Santo ci aiutano ad avvicinarci ai punti salienti della sua vasta e profonda dottrina mistica, il cui scopo è descrivere un cammino sicuro per giungere alla santità, lo stato di perfezione cui Dio chiama tutti noi.
Secondo Giovanni della Croce, tutto quello che esiste, creato da Dio, è buono.
Attraverso le creature, noi possiamo pervenire alla scoperta di Colui che in esse ha lasciato una traccia di sé.
La fede, comunque, è l’unica fonte donata all’uomo per conoscere Dio così come Egli è in se stesso, come Dio Uno e Trino.
Tutto quello che Dio voleva comunicare all’uomo, lo ha detto in Gesù Cristo, la sua Parola fatta carne.
Gesù Cristo è l’unica e definitiva via al Padre (cfr Gv 14, 6).
Qualsiasi cosa creata è nulla in confronto a Dio e nulla vale al di fuori di Lui: di conseguenza, per giungere all’amore perfetto di Dio, ogni altro amore deve conformarsi in Cristo all’amore divino.
Da qui deriva l’insistenza di san Giovanni della Croce sulla necessità della purificazione e dello svuotamento interiore per trasformarsi in Dio, che è la meta unica della perfezione.
Questa “purificazione” non consiste nella semplice mancanza fisica delle cose o del loro uso; quello che rende l’anima pura e libera, invece, è eliminare ogni dipendenza disordinata dalle cose.
Tutto va collocato in Dio come centro e fine della vita.
Il lungo e faticoso processo di purificazione esige certo lo sforzo personale, ma il vero protagonista è Dio: tutto quello che l’uomo può fare è “disporsi”, essere aperto all’azione divina e non porle ostacoli.
Vivendo le virtù teologali, l’uomo si eleva e dà valore al proprio impegno.
Il ritmo di crescita della fede, della speranza e della carità va di pari passo con l’opera di purificazione e con la progressiva unione con Dio fino a trasformarsi in Lui.
Quando si giunge a questa meta, l’anima si immerge nella stessa vita trinitaria, così che san Giovanni afferma che essa giunge ad amare Dio con il medesimo amore con cui Egli la ama, perché la ama nello Spirito Santo.
Ecco perché il Dottore Mistico sostiene che non esiste vera unione d’amore con Dio se non culmina nell’unione trinitaria.
In questo stato supremo l’anima santa conosce tutto in Dio e non deve più passare attraverso le creature per arrivare a Lui.
L’anima si sente ormai inondata dall’amore divino e si rallegra completamente in esso.
Cari fratelli e sorelle, alla fine rimane la questione: questo santo con la sua alta mistica, con questo arduo cammino verso la cima della perfezione ha da dire qualcosa anche a noi, al cristiano normale che vive nelle circostanze di questa vita di oggi, o è un esempio, un modello solo per poche anime elette che possono realmente intraprendere questa via della purificazione, dell’ascesa mistica? Per trovare la risposta dobbiamo innanzitutto tenere presente che la vita di san Giovanni della Croce non è stata un “volare sulle nuvole mistiche”, ma è stata una vita molto dura, molto pratica e concreta, sia da riformatore dell’ordine, dove incontrò tante opposizioni, sia da superiore provinciale, sia nel carcere dei suoi confratelli, dove era esposto a insulti incredibili e a maltrattamenti fisici.
È stata una vita dura, ma proprio nei mesi passati in carcere egli ha scritto una delle sue opere più belle.
E così possiamo capire che il cammino con Cristo, l’andare con Cristo, “la Via”, non è un peso aggiunto al già sufficientemente duro fardello della nostra vita, non è qualcosa che renderebbe ancora più pesante questo fardello, ma è una cosa del tutto diversa, è una luce, una forza, che ci aiuta a portare questo fardello.
Se un uomo reca in sé un grande amore, questo amore gli dà quasi ali, e sopporta più facilmente tutte le molestie della vita, perché porta in sé questa grande luce; questa è la fede: essere amato da Dio e lasciarsi amare da Dio in Cristo Gesù.
Questo lasciarsi amare è la luce che ci aiuta a portare il fardello di ogni giorno.
E la santità non è un’opera nostra, molto difficile, ma è proprio questa “apertura”: aprire le finestre della nostra anima perché la luce di Dio possa entrare, non dimenticare Dio perché proprio nell’apertura alla sua luce si trova forza, si trova la gioia dei redenti.
Preghiamo il Signore perché ci aiuti a trovare questa santità, lasciarsi amare da Dio, che è la vocazione di noi tutti e la vera redenzione.
Grazie.
Bendetto XVI (©L’Osservatore Romano – 17 febbraio 2011)
Categoria: Giovani
Una teologa della salvezza.
Conoscevo Adriana Zarri dai libri e dagli articoli, ma l’ho incontrata soltanto durante la campagna sul referendum contro l’aborto.
Difendeva la libertà per una donna di rifiutare la gravidanza non perché la condividesse, ma per avvertire le credenti che nulla nelle scritture poteva essere invocato contro di essa.
Ricordo la sua persona nel mio studio, nell’unica sfondata poltrona del «manifesto», esile, diritta, i capelli rialzati, in un pomeriggio romano.
Poco dopo – veniva spesso a Roma – m’invitò al Molinasso, dove è stato scritto Erba della mia erba, e la prima volta che salii a Torino mi presi un giorno di piú per raggiungerla.
Il Molinasso era una cascina, forse un vecchio mulino, appena fuori della strada fra le colline attorno a Ivrea.
Stava su un poggio, isolato, lontano qualche chilometro dall’aggregato piú prossimo, in vista di un’unica altra cascina che si presumeva abitata per avervi intravvisto qualche luce.
Vi si accedeva da un sentiero tra l’erba, qualche rovo e un ruscello, era un’antica costruzione contadina, semplice, armoniosa, con un portone ancora orlato di marmo, e subito la scala che saliva al piano.
La scala finiva in una stanza abbastanza grande, con una stufa a legna e un gatto e le finestre che si aprivano su un orizzonte ondulato fin alla linea azzurra delle montagne.
Non si vedeva anima viva.
Adriana aveva lasciato le scarpe e gli abiti di città per gli zoccoli, un vasto grembiule su una vasta gonna, scuri come quelli delle contadine, e mi guidò nei suoi domini chiamando con il loro nome le piante, gli ortaggi e gli animali – i morbidi conigli che si lasciavano tirar su per le orecchie e i rumorosi polli, fra i quali pescò qualche uovo.
In quel silenzio e nel calare della sera parlammo a lungo, e cosí fu sempre quando potevo arrivare.
Prima di cena mi chiedeva se volevo assistere a una sua preghiera, che era di solito una lettura di qualche passo dell’antico Testamento, di quelli dove Dio è indulgente, al massimo un poco geloso – vuoi leggere tu? e io leggevo – qualche minuto di silenzio (lei non amava la parola che mi parve giusta, raccoglimento) e poi a tavola, non senza gustare un bicchiere di vino.
Attorno, verso il buio, vecchi mobili contadini, qualche arnese agricolo ormai fuori uso, qualche vaso con fiori o foglie o bacche delle prime brume dell’autunno.
Era la povertà della quale i poveri diffidano, perché non c’era nulla che non avesse una sua bellezza.
Ricordo di un trauma Del Molinasso m’era rimasta la persuasione che sarebbe stato per sempre, e che era tutto quel che ad Adriana occorreva, né molto né poco.
Lo aveva trovato, credo, nel 1975 e non so quante volte vi salii, almeno una volta l’anno per molti anni, per uno o due giorni di pace.
Né lei cercava di convertirmi, anche perché convinta che tutti saremo salvati, ci piaccia o no, né io di dissuaderla da quel che non provavo; ognuna ascoltava l’altra; solo una volta, dicendomi quanto amava questo mondo fatto da Dio (si doleva che lo scrivessi con la minuscola), aggiunse che non avrebbe potuto ccettare la morte se non avesse creduto alla resurrezione.
Ma restammo là, e d’altronde c’era poco da commentare.
La notte mettevamo fuori il micio, chiamato Malestro per qualche giovanile misfatto, e ci ritiravamo presto, io a leggere e lei a scrivere perché di giorno non aveva tempo.
L’orto, le piante e gli animali cui badare, la corrispondenza, le telefonate, il riporre o pescare dal cassone refrigerato le provviste, il muoversi ordinatamente in uno spazio vasto e che a me pareva disordinato, insomma soltanto a ora tarda era in grado di lavorare.
A quel tempo non la aiutava nessuno.
Quando doveva mettersi nella sua vecchia macchina o saltare in un treno per combattere il nemico principale, che era allora Comunione e Liberazione, chiudeva approssimativamente tutto, badava che al micio non mancasse né un rifugio né il cibo oltre alle lucertole e ai topi forniti dalla provvidenza, e trovava tutto uguale al ritorno.
Il Molinasso era la quiete e pareva che sarebbe stato cosí sempre.
Ma per la campagna piemontese correvano dei disperati che una notte le sfondarono la porta.
Dovevano averla sorvegliata, era una donna sola, palesemente non contadina, palesemente non miserabile, e non capirono perché non tirasse fuori i soldi che esigevano.
Non potevano immaginare che Adriana di soldi non ne avesse affatto, forse non ne aveva mai avuti, urlarono, la minacciarono e alla fine, dopo avere buttato all’aria tutto, la lasciarono legata a terra, e fu la postina a trovarla due giorni dopo.
(…) La sua inconfessata aristocrazia Fu un trauma, fra il terrore, il malessere, il freddo, quelle ore fra vita e morte e una perdita della quale non riusciva a consolarsi.
Dove poteva andare? Poteva mantenersi ma non aveva denaro per comprare niente, tanto meno un’altra cascina, e in una solitudine meno deserta e pericolosa.
Non le mancarono le proposte, di venire qui o andare là, di amici che ne aspettavano le parole e gli scritti, ma naturalmente non erano eremiti.
Vagò per un certo tempo senza nido, fin che parve rassegnata a fermarsi nel cuneese, dove una famiglia generosa deteneva il dorso di una collina fra i carpini.
Vi si scorgevano qualche rada costruzione e un borgo nel fondovalle.
La coppia ospitava dei tossicodipendenti.
Ricordo il volto smarrito di Adriana alla tavola comune, fra due adulti calorosi e alcuni giovani risentiti, incapaci di muovere un dito, infelicissimi e tetri.
Ho pensato allora, con qualche malizia, che delle virtú teologali la mia amica ne aveva in sovrabbondanza due, fede e speranza, mentre frequentava a modo suo la carità, il suo amore essendo tutto per Dio e qualche grande causa, ma poco incline alla sofferenza dei singoli, che in verità non ha nulla di splendido.
I suoi occhi spalancati su quelle infelicità ne vedevano la bruttezza e non riusciva, come i suoi amici, a tendere le braccia.
Non sarebbe mai stata come madre Teresa e le sue seguaci, delle quali diffidava e, come capii piú tardi, non a torto.
Il suo bisogno di solitudine veniva anche, credo, da una inconfessata aristocrazia del modo di essere.
Intanto era una gran pena e si stava già rassegnando a far planare sul terreno dei suoi ospiti, come la casa di Loreto portata dagli angeli, un prefabbricato norvegese minimo, munito di una poderosa stufa.
Me lo descrisse con voce ottimista.
Addio viste e orizzonti aperti, orto e rose.
Doveva mettersi da qualche parte dove poter chiudere una porta.
Fu allora che qualcuno, penso Luigi Bettazzi che allora era vescovo di Ivrea, la salvò, offrendole in comodato, che deve essere una sorta di affitto a termine, una proprietà diocesana abbandonata, che aveva il vantaggio di stare proprio sull’orlo di un paesino del torinese, un lato sulle ultime case e l’altro su una sconfinata campagna.
Un miracolo.
Adriana rifiorí, vi si insediò subito e io salii a vedere.
Avevo in mente il Molinasso e rimasi di stucco, era un luogo bruttissimo.
Un gran cancello arrugginito, fra due santi antipatici, immetteva a sinistra su una cascina disabitata e a destra su n’altra cascina appena meno sbrindellata, cui si accedeva da un’erta scala di legno, a sua volta collegata a uno sgarbato casone giallo, forse degli anni Trenta, che dava sulla campagna e un giardinetto ad aiuole.
Il quarto lato era indeciso fra una costruzione informe e un arruffato boschetto.
In mezzo uno spazio interrotto da un alto muro, inteso a dividere una delle due cascine e il casone dall’altra.
Adriana si era collocata al primo piano della cascina di destra, che era poi uno stanzone affacciato in fondo verso il paese, e per me aveva collocato un letto giú al pianterreno.
C’era dappertutto una polvere decennale, dappertutto tracce di immemoriali abbandoni, sgomberi frettolosi e confusi, mi misi a scopare e riordinare inutilmente, e quando ci lasciammo dopo una breve cena afferrai una coperta e scesi quella scala da vertigini giú in cortile dove, saltata la lampadina, sbagliai di porta e mi infilai a tastoni in una stanza dove mi parve di individuare un letto di legno.
La mattina dopo scoprii che avevo dormito su un catafalco, con i suoi bravi manici davanti e dietro, e un cespo di rose di pezza coperto di falso filo d’oro rimasto attaccato dall’ultima cerimonia.
Ero in una sorta di magazzino dove era stato ammucchiato tutto quel che una sacrestia povera poteva lasciare di non sacro dietro di sé.
(…) in “il manifesto” del 12 febbraio 2011
La tristezza della lussuria
La sapienza dei padri della Chiesa fin dai primi secoli ha saputo distinguere tra alcuni peccati gravissimi – passibili di «scomunica» e di una lunga penitenza pubblica prima della riammissione nella comunità cristiana: apostasia, adulterio, omicidio, aborto…
– ma legati a un singolo gesto e altri peccati o vizi «capitali» che sono invece espressione di una patologia spirituale molto più profonda.
Comportamenti generati da «pensieri malvagi» che in certo senso minano la personalità stessa di chi li commette, facendolo finire in una spirale di depravazione sempre più disumana: autentici «vizi dell’anima», che nascono dal cuore e che a partire dal cuore vanno contrastati.
Tra questi la lussuria, il rapporto deformato con il sesso, una passione che porta a ricercare il piacere per se stesso, il godimento fisico avulso dallo scopo al quale è legato.
Il piacere sessuale è il più intenso piacere fisico, un piacere complesso che investe il corpo e la psiche, un piacere inerente all’atto sessuale, di cui tuttavia costituisce solo un aspetto.
Ora, se il piacere è cercato nella «quantità», nella compulsione, nell’eccedenza, l’incontro sessuale viene ridotto alla sola genitalità, al piacere fisico e all’orgasmo, l’interesse si focalizza sull’organo specificamente implicato in esso e lì si rinchiude, senza aperture ad alcuna finalità.
L’unico scopo diventa possedere l’altro per farlo strumento del proprio piacere: l’altro è ridotto al suo corpo, alle sue parti erotiche e desiderabili, diventa un oggetto, addirittura un elemento feticistico…
Ma l’energia sessuale è unificante quando è rivolta all’amore, alla comunicazione, alla relazione, cioè a una «storia» d’amore; ridotta all’erotismo, invece, essa frammenta, divide, dissipa il soggetto.
Chi è preda della lussuria assolutizza la propria pulsione e nega la relazione con l’altro, compiendo così una scissione della propria personalità e riducendo l’altro a una «cosa», prima ancora che a una merce.
Le pulsioni erotiche, non più ordinate e armonizzate nella totalità del sé, sfogano la propria natura caotica e selvaggia, fino a sommergere l’altro, indotto nella fantasia o nella realtà – quasi sempre con prepotenza – all’atto sessuale: la lussuria si manifesta là dove il piacere sessuale è incapace di sottostare alle elementari regole della dignità propria e altrui.
Eppure questa passione nasce nello spazio della sessualità, dimensione umana positiva tesa alla comunione tra uomo e donna: la complessità del piacere sessuale non riguarda solo la genitalità e l’orgasmo, ma coinvolge la persona intera, con tutti i suoi sensi.
Linguaggio d’amore, manifestazione del dono di sé all’altro, il piacere sessuale è coronamento dell’unione e, come tale, resta inscritto nella storia di un uomo o di una donna: appare nella pubertà ed è accompagnato dalla fecondità, per poi conoscere una stagione di sterilità, fino alla sua estinzione.
La lussuria, per contro, consiste nell’intendere il piacere come realtà scissa dai soggetti, dalla loro storia d’amore, ed è perciò una ferita inferta a se stessi e all’altro.
Quando si separa il corpo dalla persona, allora l’esercizio della sessualità è sfigurato, degenera, sfocia in aridità, diventa ripetizione ossessiva, obbedisce all’aggressività e alla violenza.
L’amore, che è dono di sé e accoglienza dell’altro, è smentito radicalmente dalla lussuria, che vuole il possesso dell’altro; e così il rapporto sessuale, che dovrebbe essere un linguaggio «altro», sempre accompagnato dalla parola ma anche eccedente la parola stessa, diventa la morte del linguaggio, della comunicazione, impedendo di fatto ogni comunione.
Viviamo in un contesto culturale, costruito ad arte da molti mass media e sfruttato dalla pubblicità, in cui l’unica realtà non oscena è quella dell’erotismo: è ormai inevitabile imbattersi in immagini erotiche, che si imprimono nella mente per riemergere in seguito e stimolare fantasie perverse.
Per reagire a tale clima ammorbante dovremmo acquisire la consapevolezza che la lussuria toglie la libertà: chi ne è schiavo finisce per asservirsi all’idolo del piacere sessuale, un idolo ossessionante che innesca una pericolosa dipendenza.
Chi è preda della lussuria è come malato di bulimia dell’altro, lo cosifica in modo reale nella prestazione sessuale o in modo virtuale nell’immaginazione.
La vera perversione in atto nella lussuria è infatti quella che induce a concepire l’altro come semplice possibilità di incontro sessuale, come mera occasione di piacere erotico.
Come non notare oggi il fenomeno della senescenza precoce dell’esercizio sessuale nelle nuove generazioni? Come ignorare l’esercizio di un eros virtuale, la ornodipendenza da internet? Per questa strada ci si incammina verso il baratro di un libidogramma piatto, si uccide l’eros per sempre.
Una gestione sana del piacere sessuale comporta che la presa di coscienza di un corpo sessuato si accompagni alla volontà di incontrare l’altro nella differenza e nel rispetto dell’alterità: si tratta di integrare la sessualità nella persona, attraverso l’unità interiore della persona nel suo essere corpo e spirito.
Certo, richiede una padronanza di sé, ma questa è pedagogia alla vera libertà umana: o l’essere umano domina le proprie passioni oppure si lascia da esse alienare e ne diventa schiavo.
Il lussurioso riceve come salario del proprio vizio una tristezza e una solitudine più pesanti, alle quali pensa di riparare entrando nella spirale lussuriosa per nuove esperienze, nuovi incontri, nuovi piaceri: sì, una spirale «dia-bolica» che separa sempre di più piacere da relazione e fecondità.
Per questo la disciplina interiore, anche nello spazio della sessualità, è sempre opera di libertà e, quindi, di ordine e di bellezza: è uno sforzo di umanizzazione capace di trasformare anche l’esercizio della sessualità in un’opera d’arte, in un capolavoro che corona una storia d’amore.
in “La Stampa” del 19 gennaio 2011
I cristiani perseguitati
Voto a Strasburgo: niente aiuti ai Paesi in cui sono discriminati o perseguitati.
Chiesta con urgenza ai Ventisette una strategia comune con possibili misure restrittive contro gli Stati che volutamente non tutelano le confessioni religiose.
Il documento sarà recapitato immediatamente ai rappresentanti di Pakistan, Iran, Iraq, Nigeria, Filippine e Vietnam. –
DOCUMENTAZIONE
Un segno una speranza di Luigi Geninazzi
Dorothy Day: autentica radicale
I cattolici statunitensi hanno celebrato ieri il trentesimo anniversario della scomparsa della serva di Dio Dorothy Day, la fondatrice, nel 1933, del Catholic Worker Movement, l’organizzazione di assistenza ai poveri che attualmente conta centottantacinque sedi sparse negli Stati Uniti.
In occasione della ricorrenza, monsignor Charles Joseph Chaput, arcivescovo di Denver, ha sottolineato che Dorothy Day è stata una “radicale” nel vero senso della parola, perché profondamente impegnata nella sua “vocazione cristiana”.
In una dichiarazione rilasciata a Catholic News Agency, il presule ha affermato che “come san Francesco d’Assisi, Dorothy Day ha scelto di vivere il vangelo fino in fondo senza eccezioni e compromessi.
Nella sua vita, l’attaccamento al soccorso dei poveri ha avuto dei risvolti eroici e il suo amore verso la Chiesa, da lei considerata come una madre e una maestra allo stesso tempo, non le ha impedito di prendere coscienza di alcuni aspetti della sua vita non conformi all’insegnamento religioso.
La perdurante vitalità del Catholic Worker movement, da lei fondato, è la prova delle sue straordinarie virtù”.
Donna Ecker, co-direttrice della Bethany House, una Catholic Worker community, con sede a Rochester, Stato di New York, dichiara che “benché non abbia mai avuto la possibilità d’incontrare personalmente Dorothy Day, conosco molto di lei grazie a mia zia e mio zio che sono stati con Dorothy i co-fondatori della St Joseph House e suoi grandi amici”.
La Bethany House fornisce assistenza alle madri single che non riescono a trovare una decente dimora per se stesse e per i loro bambini.
Donna Ecker ha ricordato il periodo della vita di Dorothy Day quando, insieme alla figlia Tamar, ritornò da Staten Island a New York all’inizio degli anni Trenta e, insieme a Peter Maurin, fondò, nel 1933, il Catholic Worker movement.
La co-direttrice della Bethany House ha sottolineato che “sull’esempio delle difficoltà passate da Dorothy Day in quel periodo, si è deciso che la nostra missione va indirizzata all’accoglienza e all’aiuto di ragazze madri che si trovano in situazioni di grande bisogno”.
Fin dagli inizi della sua vita terrena, Dorothy Day, nata a Brooklyn nel 1896 e cresciuta a Chicago, dove a dodici anni era stata accolta nella comunità episcopaliana, aveva fatto trasparire una forte carica di spiritualità.
Secondo la biografia della serva di Dio scritta da David Scott nel 2002 e intitolata “Praying in the Presence of Our Lord”, fin dalla prima adolescenza Dorothy era devota alla preghiera e mortificava il corpo scegliendo volontariamente di riposare su duri giacigli.
Tuttavia il clima di forte tensione sociale e la sua spiccata propensione per i più deboli la spingono, appena sedicenne, a lasciare gli studi presso il college di Chicago e a ritornare a New York dove inizia a scrivere brevi cronache per il giornale socialista “The Call”.
Per alcuni anni si trasferisce a Staten Island insieme a Forster Batterham, convinto ecologista di idee anarchiche.
In questo periodo, Dorothy inizia di nuovo ad approfondire la sua fede in Dio e ad accostarsi sempre più alla fede cattolica.
Questo suo cambiamento, che non venne accettato da Batterham, la porta, nel 1927, a chiedere d’iniziare i corsi di catechismo per ricevere il battesimo in una Chiesa cattolica.
La svolta definitiva nella sua vita avviene nel 1933: il movimento Catholic Worker inizia l’attività di assistenza in modo molto modesto aprendo due cucine all’aperto par sfamare i tanti lavoratori disoccupati colpiti dalla grande depressione economica degli anni Trenta.
Ben presto le opere di carità si moltiplicano: grazie all’aiuto di alcuni esperti agrari, sorgono cooperative specializzate nella produzione di alimenti coltivati con metodi naturali e viene anche fondato un giornale che riporta i progressi compiuti dalle varie iniziative del Catholic Worker Movement.
Per sottolineare il grande altruismo di Dorothy Day, l’autore della sua biografia sottolinea che in oltre cinquant’anni di attività la serva di Dio non ha mai percepito alcun salario.
(©L’Osservatore Romano – 1 dicembre 2010)
Jacob, il bambino di creta
«I bambini sono come la creta: duttili, capaci di assumere forme diverse, di adeguarsi a ogni circostanza.
Ho letto alcune testimonianze incredibili.
Pare che riuscissero a ridere anche nei treni che li portavano ad Auschwitz, “forse ci portano al mare” pensavano».
Uno di questi bambini, una mattina d’autunno del 1943 (era il 16 ottobre) fu costretto da alcuni uomini con una strana divisa a uscire di casa e scendere in strada.
Quegli strani personaggi urlavano tutti.
Lo fecero salire su dei grandi camion militari.
Con lui, oltre al padre e alle sorelle più grandi, altri 200 bambini: in totale furono 1022 gli ebrei deportati dal ghetto di Roma quella mattina di 67 anni fa.
Di tutti loro, giunti ad Auschwitz il 22 ottobre, ne sarebbero tornati anni dopo a Roma soltanto 17: tra questi una donna e nessun bambino.
Marco nella fretta riuscì a portare con sé una sola cosa dalla sua casa: un piccolo panetto di creta raccolto in classe il giorno prima.
Quel pezzettino di terra morbida da lavorare con le mani sarebbe diventato il suo miglior amico dentro la fabbrica nera dell’omino dalla divisa unta.
Sarebbe diventato Jacob, il bambino di creta.
E’ questo il titolo del nuovo libro di Andrea Salvatici, scrittore-poeta-educatore nonché l’ autore scelto da Einaudi per pubblicare una favola non semplice.
«Ero a Tel Aviv durante lo Shabbat, in un luogo pieno di bambini festanti ed ebbi come un brivido lungo la schiena.
Cosa succederebbe ora se arrivassero i nazisti? Se mi trovassi a Roma nel 1943? Alcuni giorni prima avevo conosciuto nella comunità dove lavoro a Milano un bambino meraviglioso: ha una malattia grave che gli impedisce di crescere.
Tutte queste cose insieme mi hanno fatto pensare a una favola che raccontasse i pensieri e le fantasie di tutti quei piccoli esseri umani che non sono mai tornati dai campi di concentramento.
Quali saranno stati i loro pensieri? Quanto li avrà aiutati la fantasia in quei momenti tragici?».
Salvatici ha cominciato a scrivere questa storia appena rientrato da Israele, pubblicandola a puntate sul blog “Il posto delle favole” che, da oltre due anni, tiene sul sito del Corriere della Sera.
L’ultima puntata è uscita per il giorno della memoria, il 27 gennaio scorso.
Orietta Fatucci, che dirige la collana “Storie e Rime” dell’Einaudi Ragazzi l’ha letta, ne è rimasta colpita ed ha deciso di pubblicarla in tempi brevissimi (il romanzo è nelle librerie).
Una storia nella storia.
L’Olocausto visto dagli occhi di un bambino si trasforma in un viaggio fantastico fatto diallegorie in cui il male affiora di tanto in tanto in lontananza.
Il piccolo Jacob è accompagnato da una strana accozzaglia di personaggi: una stella guarita da un grillo, una fata cimosa, una talpa studiosa, un orso vegetariano, una balena innamorata di un faro, gamberetti accordatori, alberi da frutta yo yo che distribuiscono fantasia e altri personaggi.
Nascosta nel suo zaninetto, l’arma letale contro il perfido e mediocre generale Exametron, padrone della fabbrica nera che mangia bambini di carne e di creta: la filastrocca del bosco.
Exametron la vuole rubare a tutti i costi perché lo fa tanto arrabbiare e sfugge al suo controllo.
Dice così: «Stecca di vaniglia, anice stellato/ grilli felici su questo prato/ torni il sorriso di zucchero filato/ a tutti i bambini dietro il filo spinato».
Se Jacob riuscirà a liberare o no il suo amico Marco dipende solo dalla scelta emozionale del lettore.
<Non si può pensare a un lieto fine per un episodio che ha prodotto troppo, troppo dolore> afferma Salvatici.
Consola forse immaginare, leggendo tra le righe di questo racconto onirico, che solo la fantasia – magari sotto forma di un piccolo pezzetto di creta – abbia permesso ai troppi bambini che hanno avuto la sorte di Marco di non sopravvivere ma continuare a vivere (e magari anche sorridere) dentro «il campo del filo di ferro» durante quella assurda e tragica follia dell’umanità che è stata l’Olocausto.
Iacopo Gori
Addio ad Adriana Zarri teologa di sinistra
Cantava i suoi salmi all’alba con gli uccelli, i gatti e le ortensie, il suo tempio era il creato ma teneva nel casale ad Albiano che aveva rifatto come suo eremo un piccolo tabernacolo per l’adorazione, come la “messa sul mondo” imparata da Teilhard de Chardin.
Se ne è andata quietamente Adriana Zarri, questa pura eremita di vocazione, progenie di una stirpe che fa ricca di silenzi una terra stravolta dal baccano, dalla menzogna e dallo spettacolo, e probabilmente le assicurano una segreta scialuppa.
L’eremo in realtà non era solo suo, era un rifugio per tanti spiriti in ricerca accolti come tali, a prescindere dalle loro convinzioni religiose o atee.
E anche per il mondo cattolico, nel quale aveva donato la sua fedeltà da laica, da teologa, da militante critica, da donna capace di emancipazione e dunque d’imprudenza, pronta a scottarsi la lingua con la verità impavida anche di fronte a vescovi e papi, questa asceta solitaria aveva continuato fino all’ultimo dei suoi 91 anni a tener viva l’inquietudine della profetessa: non era azzardato, alla fine dei conti, paragonarla a una piccola Caterina da Siena con la frusta in mano contro le deviazioni simoniache di una Chiesa ancora concubina ad Avignone.
Era stata lei (il cui ultimo libro uscirà a febbraio per Einaudi Un eremo non è un guscio di lumaca) a rompere il ghiaccio maschilista della corporazione teologica in Italia, rivendicando il carisma femminile del discorso su Dio.
Era stata nel 1969 la prima donna laica ammessa nel direttivo dell’Associazione Teologica Italiana.
Bolognese di San Lazzaro di Savena, era arrivata alla teologia da ragazza, spinta da un profondo interesse religioso e da un’attrazione non meno forte per la filosofia.
Questa passione assume essenzialmente tre forme, la produzione ecclesiologica (a cominciare da un libro sui Padri della Chiesa, specialmente Sant’Agostino), la narrativa e la spiritualità contemplativa, mai però distratta dai problemi della terra per l’alto dei Cieli: prima donna laica in Italia a scrivere un libro sulla teologia e antropologia della preghiera Nostro Signore del deserto.
Nel 1961 Adriana interviene nel dibattito aperto da Giovanni XXIII con La Chiesa nostra figlia, il primo contributo di una donna ai temi della riforma della Chiesa.
La sua critica al trionfalismo clericale prefigura lo sviluppo del modello di “Chiesa di comunione”, libera da egemonie di genere e ricca di carismi.
Teologia del probabile resta probabilmente il suo intervento più incisivo e lungimirante.
Nel 1967, a Concilio appena concluso, gettava l’allarme sulle letture o catastrofista o trionfalista del Vaticano II, l’illusione di una Chiesa definitivamente salva e l’allarme per una Chiesa totalmente turbata, in cui si bloccavano le riforme.
Aveva cercato di fugare il malinteso per cui il modello della riforma era un adattamento borghese del Vangelo.
Era convinta che l’umanesimo cristiano o sarà un ascetismo o un semplice naturalismo, alla caccia di un’ascetica del meno e del negoziato: «Quanti s’illudono che il nuovo corso sia una manica larga che chiude un occhio e permette evasioni hanno torto di esaltare questa nuova stagione della Chiesa: non sarebbe stagione feconda.
Ma il Concilio non incoraggia nulla di tutto questo».
Una frase l’aveva commossa, nei documenti conciliari: «Ignoriamo, non sappiamo».
Le sembrava che la Chiesa ammettesse la sua sprovvedutezza, avendo molto sbagliato lungo i secoli: «Quell’ammissione di ignoranza ci ha depurato il sangue da secoli di presunzione teologica, ci ha reso più umili e poveri di fronte alla grandezza del mistero».
Anche nei romanzi (Quaestio 98: nudi senza vergogna, 1994) le sua militanze religiose, i suoi stessi leggendari furori polemici versavano trame paradossali di storie di monaci che s’inebriano di sessualità come via maestra per la palingenesi cosmica e sociale.
E sull’onda di queste leggende ritroviamo negli anni una mistica che difende la legge sull’aborto come strumento di difesa da pratiche abortive clandestine, reagendo allo zelo intollerante e all’astratta morale del sabato.
E resta il suo monito contro le richieste e quasi le pretese di una legislazione civile che avalli una posizione teologica parziale.
In pagine amare, le ultime, ripeteva la domanda: «Perché tante cattoliche e cattolici sono ormai degli ex? E perché, sconfessandoci, i vescovi rendono sterile la nostra evangelizzazione? Perché tagliano l’ultimo ponte da cui tanti potrebbero passare?».
in “la Repubblica” del 19 novembre 2010 Un amore lungo una vita di Raniero La Valle Non so se la Chiesa, nelle sue istituzioni, renderà onore a Adriana Zarri.
Non foss’altro che per il suo lunghissimo amore, che è durato quanto la sua vita.
Un amore esigente e critico, per il quale ella si ostinava a pensare che non necessariamente la Chiesa dovesse essere così come era, che essa potesse avere migliori papi e migliori vescovi, che potesse cambiare, rinnovarsi, per dispensare più largamente parole di vita.
E di una Chiesa capace di rimettersi in questione, di riaprire tutti i canali di comunicazione col mondo, di tornare a narrare in modo nuovo il suo racconto di salvezza, Adriana Zarri era stata testimone durante il Concilio, e al Concilio è poi rimasta sempre fedele.
Anche la scelta eremitica, mai pensata come fuga dal mondo o isolamento aristocratico, la rendeva più forte nella sua libertà di fronte all’istituzione, come è proprio di tutta la tradizione monastica.
E anche nei momenti più critici, la sua fedeltà non è venuta mai meno.
Certo parlava della Chiesa con piglio da teologa, e con quella autorità che poche donne hanno saputo esercitare nella Chiesa, e che in ogni caso ben raramente viene loro riconosciuto.
Ma la sua teologia era meno interessata al «logos» che all’amore, meno alla «verità» che alla misericordia; ed è per questo che pur dal suo eremo, la sua presenza straripava su giornali e televisioni per dire la parola necessaria; e per questo è stata compagna di speranze e di lotte, non violente e pacifiche, di molti di noi.
Perciò oggi di sicuro c’è una Chiesa che le rende onore, che ne raccoglie la lezione, che ne custodisce la memoria, anche al di là della Chiesa visibile; è quella Chiesa che Adriana Zarri rintracciava nell’umanità tutta intera, fatta di santi e di peccatori, di fedeli e di infedeli, di laici e di preti, di poveri e di viandanti, tutti insieme, senza separazione né discriminazione alcuna.
Certo, è un dolore che sia morta nella solitudine, e non solo in forza della sua scelta monastica, ma per amicizie fattesi avare, e per quella disattenzione e miopia che non fa riconoscere i valori, là dove fermentano per tutti.
Ma lei era contenta di vivere, ed anche pronta a morire.
Non so se è stato l’ultimo o uno degli ultimi suoi scritti, quello su Rocca del primo agosto scorso.
Era un «controcorrente» che significativamente era intitolato «Stagioni».
Raccontava le stagioni come le vedeva dalla sua cascina del Canavese, ma anche le stagioni della vita.
E diceva che «l’alternarsi delle stagioni è come i tempi della vita: l’acerbo verde dell’infanzia, la rossa accensione dell’età matura, lo stanco biondo dell’invecchiamento, il bianco fermo della morte.
Ma la morte dà origine alla vita.
È la resurrezione».
E dell’autunno diceva che in esso «si raccolgono i frutti che il caldo agosto ha maturato» e che terminato l’inverno «torna la primavera.
Il sole sarà ancora caldo, il prato sarà ancora verde e noi ancora con tanta voglia di vivere».
Adriana Zarri se ne è andata tra l’autunno della raccolta dei frutti e l’inverno che preannuncia «ancora tanta voglia di vivere».
È questa sua voglia e capacità di vivere che ora vogliamo celebrare, non la definitività della morte a cui lei negava la vittoria.
E non solo celebrare, ma raccogliere come lascito e come monito.
in “il manifesto” del 19 novembre 2010
In memoria di Alda Merini
Avevo ancora le valigie in mano; ero appena rientrato da un viaggio un po’ spossante da San José di Costa Rica ove avevo presieduto un importante incontro di vescovi delle due Americhe.
Il telefono della mia casa romana squillava con insistenza e a più riprese.
Erano alcuni giornalisti che volevano almeno una battuta su Alda Merini che era scomparsa poche ore prima in quel 1° novembre 2009.
A distanza di un anno, ora che non ho più neppure il legame delle sue chilometriche telefonate, ma solo l’eco dei suo versi, vorrei anch’io affacciarmi in mezzo al coro di quelli – e sono ancora tanti – che la ricordano e che in questi giorni la commemoreranno.
Lo faccio anche per lanciarle un grazie dalla terra agli spazi infiniti del cielo, non soltanto per l’affetto che mi ha riservato per anni, ma anche per aver voluto accompagnare molti momenti della mia vita con la testimonianza personale della sua poesia.
Inizierei con poche righe della raccolta poetica Clinica dell’abbandono, pubblicata da Einaudi nel 2003, un libro che aveva voluto esplicitamente dedicarmi, sorprendendo non pochi lettori.
«Se tu conoscessi / l’ala dell’Angelo / se tu lasci la madre terra / che ti ha così devastato (…) / ora che vedi Dio / riconosci in te stesso / il fiore della sua lingua».
Sì, io penso che ora Alda possa parlare la lingua di Dio e certamente nell’infinita biblioteca paradisiaca (per usare un’immagine di Isaac Bashevis Singer) sono stati collocati molti dei suoi testi poetici, anche quelli che sono rimasti solo nell’aria.
Infatti, spesso a me – ma anche a molti altri suoi interlocutori – durante i dialoghi diretti o telefonici riservava intere poesie che lei, come accadeva agli antichi rapsodi, affidava solo alla parola detta, lasciando che si cristallizzassero soltanto sulla pagina viva dell’anima di chi l’ascoltava.
Sempre in quella raccolta aveva scritto: «Ogni poeta / laverà nella notte / il suo pensiero / ne farà tante lettere / imprecise / che spedirà all’amato / senza un nome».
Non so quando e come avvenne la nostra conoscenza: certamente fu dal momento in cui la vena mistica, che era da sempre in lei, si irrobustì fino ad assumere una forma nettamente cristologica.
Fu così che nel 2001 mi chiese di scrivere la prefazione del suo Corpo d’amore.
Un incontro con Gesù.
La carnaltà, che in lei era spesso intrecciata all’eros, qui si trasfigurava e diventata la sarx giovannea, la “carne” del Verbo, e la Divinità diveniva Umanità gloriosa e dolente.
Aveva, così, voluto che fossi ancora io ad accompagnare una delle sue opere più alte, quel Poema della Croce (2004), non di rado approdato nelle chiese o in spazi religiosi come una moderna rappresentazione sacra.
La poetessa poneva il suo Cristo al centro dello spazio e del tempo in una epifania tragica eppur luminosa.
Attorno allo sperone roccioso del Calvario s’addensava non solo l’odio del mondo, ma si delineava anche «il teatro della derisione», cioè la brutale stupidità e la volgarità dell’umanità che la Merini tanto detestava.
Eppure su quell’asse della derisione e della crudeltà si inaugurava il giudizio definitivo sul male e si apriva il cielo della redenzione.
La croce, ove si raggrumava il dolore di Dio, diventava segno d’amore: «Dio ha espresso il suo amore per l’uomo col pianto».
Cristo è «la lacrima di Dio», una lacrima che «coprì tutta la carne del Figlio».
La colpa e la grazia, l’inferno e la gloria, la tenebra e la luce sono stati i poli della ricerca spirituale di Alda, una ricerca attraversata non di rado dai fulmini della follia che lei non temeva di rappresentare, consapevole – come era accaduto nella grande tradizione mistica e letteraria (si pensi solo all’Idiota di Dostoevskij) – che esiste una possibilità di conoscenza metarazionale che non è sempre e necessariamente irrazionale.
È per questo che nel 2007 aveva voluto che io preparassi un’altra introduzione per il poema consacrato al santo «folle» Francesco d’Assisi, «il liuto di Dio».
Libero e nudo, egli entra agli occhi degli uomini «logici» e calcolatori in quella pazzia che è suprema saggezza, «folle come te, Signore, folle d’amore».
Alda Merini non mi aveva mai perdonato di avere lasciato Milano, la comune città, per Roma (l’inedito che ora pubblichiamo mi fu indirizzato proprio in quell’occasione).
Le sue sterminate telefonate avevano negli ultimi tempi avevano sempre questa stuimmata sanguinante d’amarezza.
Quando l’avevo visitata anni fa per la prima volta nella sua cas ai Navigli, aveva voluto rivestire il terribile abbandono e la povertà con una valanga di fiori, secondo quella generosità che la spogliava perfino del necessario pur di donare qualcosa ad un altro.
Aveva persino convocato un violinista che l’accompagnasse al pianoforte che lei sapeva suonare, mentre il cantore delle sue poesie, Giovanni Nuti, mi avrebbe offerto alcuni versi musicati.
Anche prima che io partissi per quel viaggio in America, chiamandola all’ospedale milanese ove era ricoverata mi aveva strappato la promessa che l’avrei visitata a Natale, quando sarei ritornato lassù, anche perché – mi diceva – «non riuscirò a venire a Roma nella Cappella Sistina per l’incontro del Papa con gli artisti del 21 novembre» del 2009, incontro a cui l’avevo invitata e per il quale aveva già pensato all’abito da indossare.
Ci ritroveremo, invece, su altre strade.
Per me sarà la via della memoria spirituale e del ricordo a Dio, ma anche quella dei molti doni che mi aveva destinato, come il crocifisso di un artista noto che aveva voluto darmi alla vigilia della mia ordinazione episcopale e che ora è nella mia casa romana.
Nata nel primo giorno di primavera, Alda Merini è morta nella solennità di Tutti i Santi.
Vorrei, allora, idealmente ringraziarla e ricordarla applicando a lei quei versi finali d’una poesia inedita che mi aveva inviato proprio nel giorno – più di tre anni fa – del funerale di mio padre: «Non scongiurare la morte / di lasciarlo qui sulla Terra: / ha già sentito il profumo di Dio, / lascialo andare nei suoi giardini».
Alla soglia della sua partenza per Roma ove Benedetto XVI lo avrebbe consacrato arcivescovo e nominato Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, Alda Merini aveva indirizzato a monsignor Ravasi questi versi finora inediti.
Chi mi renderà il mio peccato nascosto che sta nelle tue mani: ho amato il tuo grande sapere, oh guida della canzone dall’inferno dei miei peccati guardavo a te che salivi il calvario di una notorietà senza pace.
Non vogliamo perderti Milano non ti dimenticherà mai ma così come i grandi figli vanno a morire lontano sappi che la tua gloria è qui nel nostro quotidiano, morire insieme al desiderio di riaverti.
La profezia di Raimon Panikkar
Credo sia doveroso da parte della Cittadella ricordare l’amico Raimon Panikkar morto il 27 agosto sulla soglia dei 92 anni (li avrebbe compiuti il prossimo 3 novembre).
Alla Cittadella aveva affidato la traduzione di un libro prezioso: Dialogo intrareligioso (NY 1978, Assisi 1988), che resta una fedele testimonianza della sua esperienza spirituale.
Egli ha lasciato l’impronta del suo passaggio dove ha sostato nel suo cammino di pensatore profondo e versatile scrittore.
Penso, tuttavia, che il valore più grande della sua vita stia nell’esperienza multi religiosa e multi culturale che è riuscito a compiere.
Una strada aperta che nel futuro dovrà essere battuta da molti altri.
La sua vastissima cultura, la conoscenza e la pratica di molte lingue, la duttilità dell’intelligenza, la finezza dell’intuito gli ha consentito di intessere rapporti e di affrontare esperienze straordinariamente varie.
Quando andò in pensione (1987) gli chiesi cosa pensava di fare: mi guardò con lo sguardo trasparente di chi è abituato a osservare il silenzio e rispose lentamente: «ora semplicemente sono».
Aveva ancora molto da vivere.
Si era stabilito a Tavertet (Osona), un piccolo centro dei pre-Pirenei catalani, dove fondò un centro di studi interculturali chiamato Vivarium e portò a maturazione la sua visione del mondo, espressione della profonda esperienza mistica che stava compiendo.
È stata soprattutto la ricchezza della vita spirituale a consentirgli quella che costituirà certamente la eredità più preziosa lasciata ai posteri.
Egli ha vissuto con profondità e illustrato con la sua intelligenza tre mondi religiosi in contemporanea.
In modo non sincretista o confusionario bensì mantenendo la specificità e la ricchezza delle distinte spiritualità.
Negli ultimi mesi già colpito dal disturbo cardiaco che l’ha condotto alla morte, a Raffaele Luise che lo interrogava attestava: «Io mi sono innamorato di Cristo dalla prima giovinezza e non l’ho mai tradito…
non l’ho mai lasciato» (Un grande maestro del nostro tempo, in L’altro come esperienza di rivelazione, L’altrapagina, Città di Castello 2008, p.
73).
Nella esperienza multireligiosa era stato preceduto da persone profetiche, che egli aveva incontrato.
In particolare egli era stato «il più grande amico di Henri Le Saux» (1910-1973) come ha più volte testimoniato (L’altro.., o.
c., p.
52).
Con lui aveva compiuto diversi pellegrinaggi in luoghi sacri induisti e gli aveva anche affidato una sua casetta sull’Hymalaya, poi travolta da una piena del Gange.
Poteva attestare: «Le Saux si è liberato lentamente, senza rivoluzione, benché con un trauma interiore, da una formazione ristretta, microdossica, per acquistare totalmente la libertà totale.
…Si è sempre considerato cristiano, monaco, benedettino, ma ha lavorato appassionatamente per non essere un cristiano chiuso, un benedettino fanatico, un monaco retrivo» (ib.).
Aveva frequentato anche il monaco Jules Monchanin (1895-1957) che con Le Saux aveva fondato l’asram Satcitananda e più tardi il benedettino Bede Griffits, che ne aveva continuato la tradizione e aveva poi affidato l’asram ai PP.
Camaldolesi, che ora ne garantiscono la continuità nella esperienza del dialogo e della spiritualità multireligiosa.
L’aspetto più significativo della esistenza di Raimon Panikkar è l’esperienza mistica compiuta, la sintesi che egli ha operato tra spiritualità cristiana, induista e buddhista.
Panikkar aveva conoscenza dottrinale approfondita anche di altre religioni, soprattutto dell’ebraismo e dell’Islam, ma dell’induismo e del buddhismo aveva conoscenza vitale, sperimentale.
Egli era giunto a viverle dal di dentro.
Ciò gli era stato reso possibile per il livello spirituale raggiunto, nel quale le differenze dei modelli interpretativi e delle strutture religiose si erano in modo progressivo compenetrate.
Il processo non si è realizzato per sincretismo o per giustapposizione di pratiche diverse, bensì per lo sviluppo di un livello spirituale nel quale le differenze sono divenute compatibili perché la vita si svolge in forma più pura e più sostanziale.
Le modalità contingenti appaiono secondarie e compatibili.
Credo che Panikkar sia stato l’unico nel nostro tempo a immergersi in modo autentico in tre esperienze religiose e sentirsi in grado di farle, parlare dal di dentro.
Era cristiano e sacerdote cattolico ed è rimasto fedele alla sua scelta proprio perché in virtù di questa ha raggiunto l’apertura che gli ha consentito di vivere realmente anche l’esperienza induista e buddhista.
Credo che valga anche per lui quello che aveva detto dell’esperienza dell’amico Henri Le Saux: «È un fenomeno straordinariamente positivo.
Il suo itinerario personale è stato un itinerario di liberazione da una cosa dopo l’altra, senza distruggere nessuna delle sue fedeltà» (ib.).
È frutto di un’autentica esperienza mistica, aperta a tutti coloro che intendono vivere oggi il dialogo interreligioso.
La mistica, come egli la definisce, è: «l’esperienza della Vita» (Vita e Parola.
La mia opera, Jaca Book 2010, p.
12), «l’esperienza integrale della Vita» (ib., p.14), «l’esperienza suprema della realtà» (ib.,p.
21).
La «spiritualità va intesa come cammino per giungere a tale esperienza» (ib., p.
21).
Il termine vita in queste definizioni deve essere inteso nel senso di esistenza, ed appartiene ad ogni essere anche materiale.
Vita e realtà si corrispondono.
Egli spiega: «Abbiamo scritto Vita con la maiuscola per non escludere a priori che la vita può avere altre dimensioni oltre a quelle inerenti ai suoi aspetti fisiologici e psichici.
Esiste anche una vita spirituale: esiste la Vita dell’Essere e quindi la vita della materia» (ib., p.
14).
In questa prospettiva Panikkar distingueva la sostanza della realtà o della vita che è perenne dalle sue forme limitate e transitorie.
Egli chiariva questa distinzione con l’esempio che spesso portava del rapporto tra la goccia (l’uomo) e l’oceano (Dio o la totalità).
«Ognuno di noi è una goccia d’acqua.
Quest’acqua a un certo momento o evapora nel nulla o cade nel mare…
Quando noi moriamo cosa capita alla mia goccia d’acqua? Dipende da chi sono io: la goccia d’acqua o l’acqua della goccia? Se sono la goccia d’acqua, la goccia d’acqua sparisce, muore; se durante la mia vita ho superato il mio individualismo, il mio egoismo e mi sono scoperto acqua e non soltanto goccia, non mi capita niente, anzi divento più acqua, non muoio…
È la tensione superficiale che fa la goccia, è la nostra sostanza che fa l’acqua.
Abbiamo tutti la possibilità di scoprirci acqua» (L’altro come esperienza.., o.
c., p.
59).
Il lavoro spirituale tende appunto a «scoprirci acqua e non accontentarsi di essere soltanto goccia» (ib).
Giunti a questa scoperta l’interpretazione dell’esistenza personale, degli altri, della storia, cambia completamente.
Si apre quello che egli stesso chiama «il terzo occhio».
A questo sguardo la propria esistenza si configura come l’ambito dove la Vita stessa prende coscienza di una sua modalità di apparizione; l’altro, ogni altro, appare come la rivelazione di una modalità della Vita; la storia come il suo dispiegarsi nel tempo.
Panikkar riconosce che «a volte ci costa lasciare che la Vita prenda coscienza di se stessa, proprio per la [nostra] superficialità…
Questa coscienza della vita non è nostra proprietà privata, non appartiene al nostro ego; per questo la mistica ci dirà che, se non si supera l’egoismo, se non si muore all’ego (egoista), non si può godere di questa esperienza» (Vita e Parola, o.
c., p.
14).
In noi la «Vita fa esperienza di se stessa e ognuno di noi partecipa a questa esperienza con maggiore o minore chiarezza e profondità».
Egli precisa: «Quando dico esperienza della Vita non intendo l’esperienza della mia vita, ma della Vita, quella vita che non è mia benché sia in me; quella vita, che, come dicono i Veda, non muore, che è infinita, che alcuni definirebbero divina, Vita tuttavia che si sente palpitare, o per meglio dire, semplicemente vivere in noi.
Le interpretazioni che se ne danno naturalmente spaziano da ciò che è definito sentimento oceanico fino alla sensazione biologica di vivere, passando attraverso l’esperienza di Dio, di Cristo, dell’Amore o anche dell’Essere» (ib., p.
15).
Panikkar introducendo Mistica pienezza di vita, il primo volume dell’Opera Omnia, poteva attestare che esso «tratta del tema più importante della mia vita, che ha ispirato in forma discreta tutti i miei scritti, così da diventarne una chiave ermeneutica indispensabile» (Vita e Parola, o.
c., p.
11).
Ha ispirato tutti i suoi scritti perché rappresentava la sostanza, la trama della sua esistenza.
Il dialogo ormai non può avvenire e svilupparsi che in questa prospettiva.
«Quando le mura delle proprie costruzioni interiori crollano perché esposte al vento del dialogo intrareligioso si può rimanere sepolti sotto le macerie…
ma si può cominciare a costruire la propria dimora in modo che altri possano entrare e uscire» (A.
Rossi, Un artista del dialogo, in L’altro…, o.
c., p.
19).
Allora veramente «la ricerca diventa una preghiera aperta verso tutte le direzioni; aperta anche alle direzioni del prossimo e persino a quelle del lontano’» (R.
Panikkar, Il dialogo intrareligioso, Cittadella 1988, p.
17).
Panikkar ha percorso questi cammini in modo esemplare.
Ora che egli è tornato alla Vita ha affidato a noi la consegna di diffondere la pratica e la spiritualità del dialogo in “Rocca” n.
18 del 15 settembre 2010
Il deserto fiorito di fratel Carlo
«Avevo fatto del treno il “luogo” della mia preghiera.
Facevo il pendolare per motivi di lavoro e tu sai cos’è un vagone ferroviario che parte e arriva in città, al mattino e alla sera, stracarico di operai e di studenti.
Chiasso, risate, fumo, trambusto, pigia-pigia.
Io mi sedevo in un angolo e non sentivo nulla.
Leggevo il Vangelo.
Chiudevo gli occhi.
Ascoltavo Dio.
Che dolcezza, che pace, che silenzio! La potenza dell’amore superava la dispersione che cercava di penetrare nella mia fortezza».
Secoli fa correvano nelle aspre solitudini del deserto egiziano, eppure gli eremiti si accorgevano spesso che la città li aveva seguiti col suo frastuono e le sue seduzioni.
Ora forse è possibile il movimento inverso, diventare monaci urbani, creando aree di silenzio nel fragore assordante della modernità.
È ciò che testimoniava autobiograficamente già nel titolo Il deserto nella città, oltre che nel brano sopra citato, Carlo Carretto, una delle figure suggestive della spiritualità italiana contemporanea.
Lo rievochiamo anche noi nel centenario della sua nascita, affidandoci a due suoi ritratti biografici pubblicati proprio per questo anniversario.
La sua vicenda è, per certi aspetti, la rappresentazione della Chiesa italiana del Novecento in alcuni suoi ambiti rilevanti.
Presidente nazionale della Gioventù Italiana di Azione Cattolica nel periodo effervescente post-bellico, egli si batterà poi per la “scelta religiosa” di questa associazione, in quegli anni ancora poderosamente influente nel tessuto civile, e la sua Lettera a Pietro divenne una sorta di manifesto per coloro che sostenevano tale opzione, da altri contrastata come rinunciataria e passiva.
In realtà, la presenza di Carretto nell’agorà sociale ed ecclesiale era tutt’altro che arrendevole: le sue scelte talora si scostarono dalla linea ufficiale della Chiesa italiana, come nel caso del referendum sul divorzio, quando aderì al gruppo dei “cattolici per il No”.
Tuttavia il suo itinerario aveva ormai imboccato un’altra direzione, emblematicamente illustrata proprio dal deserto.
Infatti egli si era avviato sulle orme di Charles de Foucauld, il mistico del Sahara algerino, incontrato attraverso la biografia e gli scritti del discepolo René Voillaume, fondatore della congregazione religiosa dei Piccoli Fratelli del Vangelo.
Così, Carretto divenne fratel Carlo, aderendo a quella comunità che egli trapiantò anche in Italia nella Spello umbra, immersa nell’atmosfera francescana.
Da quel momento la sua vita, la sua parola, i suoi scritti furono un riferimento per molti cattolici italiani che sostanzialmente condividevano la famosa esclamazione della citata Lettera a Pietro: «Quanto sei contestabile, Chiesa, eppure quanto ti amo!».
Cercare una sigla riassuntiva per questo eremita nel mondo risulta difficile, proprio per il suo attestarsi sul crinale tagliente tra fede e storia, tra mistica e impegno civile, tra contemplazione e azione.
Si potrebbe accostare fratel Carlo – pur nelle molteplici distanze culturali e spirituali – alla francese Madeleine Delbrêl che si fece assistente sociale per vivere un’esperienza di “mistica quotidiana” nella tormentata banlieue di Ivry, nella cintura parigina, ove morirà sessantenne nel 1964.
Essa scriveva nei suoi Poemetti di Alcide: «Coloro che amano Dio hanno sempre sognato il deserto; per questo a coloro che lo amano Dio non può rifiutarlo».
È il deserto del treno affollato, del quartiere operaio, del romitorio incastonato nella politica e nella vita sociale.
In questo senso può essere adottata per fratel Carlo la definizione che appare già nel titolo della biografia di Gianni Di Santo, Il profeta di Spello.
Certo, è un po’ abusata e crea qualche equivoco, ma la profezia biblica è per eccellenza l’incrocio tra spiritualità e storia, senza il timore di impolverarsi il mantello nelle strade della città degli uomini.
Questa classificazione è, comunque, sostenuta da un’analisi accurata della vicenda personale di Carretto, della sua corrispondenza e delle relazioni che egli intratteneva con le più diverse personalità e tutti coloro che rendevano Spello un crocevia di incontri, sempre però alonati dal silenzio dell’adorazione e della contemplazione.
A questo riguardo è significativa l’altra biografia, affidata a un giornalista, Alberto Chiara, il quale propone una sorta di galleria di testimonianze di figure che hanno avuto la loro vita segnata dall’ascolto di Carretto, pur procedendo poi su percorsi più ramificati: Oscar Luigi Scalfaro, Rosy Bindi, Gian Carlo Sibilia, ma anche curio Colombo e Gianni Vattimo.
Certo, l’eredità di fratel Carlo è custodita da un filone minoritario del complesso panorama dell’attuale cattolicesimo italiano e può rivelare anche profili datati.
Rimane, però, ancor vivo il suo appello alla fedeltà pura e nuda al Vangelo, all’attaccamento sincero alla Chiesa senza però ipocrisie, all’aderenza alla lezione del Concilio Vaticano II ma soprattutto all’amore per Dio e per il prossimo.
L’oasi del silenzio non isola ma feconda la città degli uomini.
E così possiamo ritornare alla scena del treno da cui siamo partiti.
«Ero veramente uno con me stesso e nulla mi poteva distrarre.
Sotto la presa dell’amore divino ero in pace.
Sì, doveva essere proprio l’amore a creare l’unità in me.
Difatti gli innamorati che si trovavano sul treno bisbigliavano tra di loro in perfetta armonia, senza preoccuparsi di ciò che capitava attorno.
Io bisbigliavo col mio Dio».
Gianni Di Santo, «Carlo Carretto il profeta di Spello», San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), pagg. 174, € 12,00;
Alberto Chiara, «Carlo Carretto. L’impegno, il silenzio, la speranza», Paoline, Milano, pagg. 168, € 16,50.
in “Il Sole 24 Ore” del 26 settembre 2010