Da Giordano Bruno alla Shoah quei «mea culpa» a sorpresa

 

 

Papa audace in tante direzioni — dalla lotta al comunismo alla predicazione del Vangelo «fino ai confini della terra» — in nessuna Wojtyla fu sorprendente quanto nel «mea culpa» che culminò nella «Giornata del perdono» del 12 marzo 2000.

Nei confronti di quell’eredità Benedetto XVI si pone come prudente continuatore: in due occasioni ha fatto sua la richiesta di perdono per la Shoah formulata dal predecessore e in un’altra ha formulato un proprio «mea culpa» per il peccato della pedofilia del clero.

«Confessione delle colpe e richiesta di perdono» era intitolata la speciale liturgia che si celebrò in San Pietro la prima domenica di Quaresima dell’anno 2000. Sette rappresentanti della Curia romana leggevano altrettanti «invitatori», ai quali rispondeva il Papa con sette «orazioni», riguardanti i «peccati in generale», le «colpe nel servizio della verità», i «peccati» che hanno diviso la Chiesa, le «colpe nei confronti di Israele», le «colpe commesse con comportamenti contro l’amore, la pace, i diritti dei popoli, il rispetto delle culture e delle religioni», i «peccati che hanno ferito la dignità della donna e l’unità del genere umano», i «peccati nel campo dei diritti fondamentali della persona». Ecco la seconda confessione di peccato, riguardante «le colpe nel  servizio della verità», che fu letta dal cardinale Ratzinger: «Preghiamo perché ciascuno di noi, riconoscendo che anche uomini di Chiesa, in nome della fede e della morale, hanno talora fatto ricorso a metodi non evangelici nel pur doveroso impegno di difesa della verità, sappia imitare il Signore Gesù, mite e umile di cuore». Così suonò la quarta delle sette «confessioni», riguardante la persecuzione degli ebrei: «Dio dei nostri padri, tu hai scelto Abramo e la sua discendenza perché il
tuo nome fosse portato alle genti; noi siamo profondamente addolorati per il comportamento di quanti nel corso della storia hanno fatto soffrire questi tuoi figli e, chiedendo perdono a Dio, vogliamo impegnarci in un’autentica fraternità con il popolo dell’alleanza». A conclusione di quella liturgia penitenziale, Giovanni Paolo pronunciò cinque «mai più» che suonano come una delle utopie evangeliche più forti che siano state affermate nella nostra epoca disincantata: «Mai più contraddizioni alla carità nel servizio della verità, mai più gesti contro la comunione della Chiesa, mai più offese verso qualsiasi popolo, mai più ricorsi alla violenza, mai più discriminazioni, esclusioni, oppressioni, disprezzo dei poveri e degli ultimi». Dal riesame del caso Galileo (impostato nel novembre del 1969) all’ultimo pronunciamento autocritico, riguardante i tribunali dell’Inquisizione (arrivato il 15 giugno 2004, con la lettera di accompagnamento della pubblicazione degli atti del simposio storico sull’Inquisizione dell’ottobre del 1998) sono oltre un centinaio le circostanze in cui Giovanni Paolo ha riconosciuto «errori» e «colpe» del passato e del presente, o ha invitato i cattolici ad applicarsi a questo «esame». Ai temi già detti vanno aggiunti— tra i principali— la tratta dei neri, il maltrattamento degli indios, la strage degli Ugonotti, il saccheggio di Costantinopoli da parte dei «crociati» nel 1204, il rogo di Giordano Bruno nell’anno 1600. Più volte Benedetto in questi sei anni si è richiamato all’atto penitenziale del  predecessore e in due occasioni (il 12 febbraio del 2009 e il 17 gennaio 2010, durante la visita alla sinagoga di Roma) ha fatto sua e ripetuto alla lettera la richiesta di perdono riguardante gli ebrei. L’ 11 giugno 2010 abbiamo invece avuto una richiesta di perdono formulata in proprio dal Papa teologo e proposta a nome della Chiesa per una colpa dei suoi «figli»: lo ha fatto per un «peccato» di oggi—gli abusi sessuali del clero— e non della storia, come invece tante volte aveva fatto Papa Wojtyla ma come lui ha accompagnato il «mea culpa» con l’impegno a fare in modo che quel misfatto non si verifichi «mai più» . Appare dunque chiaro come in questa pedagogia della penitenza e della purificazione Papa Ratzinger segua le orme del predecessore e nello stesso tempo se ne distingua”.

 

in “Corriere della Sera” del 1 maggio 2011

Karol: un film su Giovanni Paolo II

il film d’animazione Karol è incentrato sulla vita del Pontefice

 

Nel giorno della Beatificazione di Papa Giovanni Paolo II, anche Boing renderà a suo modo omaggio alla figura di Karol Wojtyla con un lungometraggio prodotto da Mondo Tv. Andrà in onda, infatti, proprio domenica 1° Maggio, in prima serata alle 20.35, il film d’animazione Karol, incentrato sulla vita del Pontefice.

Realizzato con tecniche d’animazione in computer grafica, il film narra le principali vicende che hanno segnato il percorso umano e spirituale di Wojtyla. Una storia ricca di eventi ed emozionante, in cui ampio risalto verrà dato al rapporto tra il Papa e i giovani. Un rapporto da sempre molto intenso, che portò il Pontefice a istituire la Giornata Mondiale della Gioventù, diventata nel corso degli anni occasione d’incontro per milioni di ragazzi.

Il film, che vedrà Luca Ward dare la voce a Papa Giovanni Paolo II, si rivolge non solo ai più piccoli ma a tutta la famiglia, rappresentando un’ulteriore offerta della rete, sempre più premiata dal pubblico. Ad oggi Boing è infatti il canale più seguito nella fascia 4-14 anni, oltre che essere ottava rete nazionale, subito dopo le  reti generaliste Rai, Mediaset e La7.

Si è identificato con la Chiesa perciò ne può essere la voce

Dal volume Giovanni Paolo II pellegrino per il Vangelo (Cinisello Balsamo – Torino, Edizioni Paoline – Editrice Saie, 1988) pubblichiamo integralmente l’articolo nel quale il cardinale Joseph Ratzinger ripercorreva e faceva emergere gli aspetti fondamentali dei primi dieci anni di pontificato di Karol Wojtyla.

Giovanni Paolo II è senz’altro colui che, ai nostri tempi, si è incontrato personalmente con il maggior numero di esseri umani. Innumerevoli sono le persone a cui egli ha stretto la mano, a cui ha parlato, con cui ha pregato e che ha benedetto. Se il suo elevato ufficio può creare distanza, la sua personale irradiazione crea invece vicinanza. Anche le persone semplici, incolte, povere non hanno da lui l’impressione della superiorità, dell’irraggiungibilità o del timore, quei sentimenti che colpiscono così sovente chi si trova nelle camere d’aspetto dei potenti, delle autorità. Quando poi si hanno contatti personali con lui, è come se lo si conoscesse da lungo tempo, come se si parlasse con un parente prossimo, con un amico. Il titolo di “Padre” (= Papa) non appare più solo un titolo, ma l’espressione di quel rapporto reale che si prova veramente davanti a lui.
Tutti conoscono Giovanni Paolo II: il suo volto, il suo modo caratteristico di muoversi e di parlare; la sua immersione nella preghiera, la sua spontanea letizia. Certe sue parole si sono incise in maniera indelebile nella memoria, a cominciare dall’appassionato richiamo con cui egli si è presentato all’inizio del suo pontificato: “Spalancate le porte a Cristo, non abbiate paura di lui!”. Oppure queste altre: “Non si può vivere per prova, non si può amare per prova!”. In parole come queste si condensa tutto un pontificato. È come se egli volesse aprire dappertutto vie d’accesso a Cristo, come se desiderasse rendere accessibile a tutti gli uomini il varco verso la vita vera, verso il vero amore. Se, come Paolo, lo si ritrova instancabilmente sempre in cammino, fino “ai confini della terra”, se vuol essere vicino a tutti e non perdere alcuna occasione per annunciare la Buona Novella, non è per scopi pubblicitari o per sete di popolarità, ma perché si realizzi in lui la parola apostolica: Charitas Christi urget nos (II Corinzi, 5, 14). Accanto a lui lo si avverte: gli sta a cuore l’uomo perché gli sta a cuore Dio.
Molto probabilmente si conosce meglio Giovanni Paolo II quando si è concelebrato con lui e ci si è lasciati attirare nell’intenso silenzio della sua preghiera, più che non quando si sono analizzati i suoi libri o i suoi discorsi. Giacché, proprio partecipando alla sua preghiera, si attinge ciò che è proprio della sua natura, al di là di qualsiasi parola. A partire da questo centro ci si spiega anche perché egli, pur essendo un grande intellettuale, che nel dialogo culturale del mondo contemporaneo possiede una voce sua propria e importante, ha conservato anche quella semplicità che gli permette di comunicare con ogni singola persona. Qui si manifesta anche un altro elemento di quella grande capacità di integrazione, che contrassegna il Papa che viene dalla Polonia: l’aver cambiato il classico “noi” dello stile pontificale con l'”io” personale e immediato dello scrittore e dell’oratore. Una simile rivoluzione stilistica non è da sottovalutare. A tutta prima può sembrarci l’ovvia eliminazione di un’usanza antiquata, che non si intonava più ai nostri tempi. Ma non si deve dimenticare che questo “noi” non era solo una formula di retorica cortigiana. Quando parla il Papa, egli non parla a nome proprio. In quel momento, in ultima analisi, non contano niente le teorie o le opinioni private che egli ha elaborato nel corso della sua vita, per quanto alto possa essere il loro livello intellettuale.
Il Papa non parla come un singolo uomo dotto, con il suo io privato o, per così dire, come un solista sulla scena della storia spirituale dell’umanità. Egli parla attingendo dal “noi” della fede di tutta la Chiesa, dietro il quale l’io ha il dovere di scomparire. Mi viene in mente a questo proposito il grande Papa umanista Pio II, Enea Silvio Piccolomini, il quale da Papa doveva talvolta dire, attingendo appunto dal “noi” del suo magistero pontificio, cose in contraddizione con le teorie di quel dotto umanista che precedentemente era stato lui stesso. Quando gli venivano segnalate simili contraddizioni soleva rispondere: Eneam reicite, Pium recipite (“Lasciate stare Enea, prendete Pio, il Papa”).
In un certo senso non è dunque un fenomeno innocuo se l'”io” rimpiazza il “noi”. Ma chi fa la fatica di studiare attentamente tutti gli scritti di Papa Giovanni Paolo II, capisce ben presto che questo Papa sa distinguere molto bene tra le opinioni personali di Karol Wojtyla e il suo insegnamento magisteriale in quanto Papa; egli però sa anche riconoscere che le due cose non sono reciprocamente eterogenee, ma riflettono un’unica personalità imbevuta della fede della Chiesa. L’io, la personalità, è entrata interamente al servizio del “noi”. Non ha degradato il “noi” sul piano soggettivo di opinioni private, ma gli ha semplicemente conferito la densità di una personalità tutta plasmata da questo “noi”, tutta dedita al suo servizio.
Io credo che tale fusione, maturata nella vita e nella riflessione di fede, tra il “noi” e l'”io” fondi in modo essenziale il fascino di questa figura di Papa. La fusione gli consente di muoversi in questo suo sacro ufficio in maniera del tutto libera e naturale; gli consente di essere come Papa interamente se stesso, senza dover temere di far scivolare troppo l’ufficio nel soggettivo.
Ma come è cresciuta questa unità? In che modo una strada personale di fede, di pensiero, di vita conduce a tal punto nel centro della Chiesa? Questa è una domanda che va ben oltre la semplice curiosità biografica. Giacché proprio tale “identificazione” con la Chiesa senza velo alcuno di ipocrisia o di schizofrenia sembra impossibile oggi a molti uomini che sono in travaglio per la fede.
Nella teologia è diventato, nel frattempo, quasi civetteria di moda il muoversi in distanza critica a riguardo della fede della Chiesa e far sentire al lettore che lui, il teologo, non è poi così ingenuo, così acritico e servile da porre il suo pensiero del tutto al servizio di questa fede. In tal modo mentre la fede viene svalutata, le frettolose proposte di questi teologi non ne traggono alcuna rivalutazione; invecchiano in fretta come in fretta sono nate. Nasce allora di nuovo un grande desiderio non solo di ripensare intellettualmente la fede in modo leale, ma anche di poterla vivere in modo nuovo.
La vocazione di Karol Wojtyla maturò quando egli lavorava in un’azienda di produzione chimica, durante gli orrori della guerra e dell’occupazione. Egli stesso ha de-finito questo periodo di quattro anni, vissuto nell’ambiente operaio, come la fase formativa più determinante della sua vita. In tale contesto egli ha studiato la filosofia, apprendendola faticosamente dai libri, e il sapere filosofico gli si presentava di primo acchito come una giungla impenetrabile.
Il suo punto di partenza era stato la filologia, l’amore per la lingua, combinata all’applicazione artistica della lingua, in quanto rappresentazione della realtà in una nuova forma di teatro. È sorta così quella specie particolare di “filosofia” caratteristica del Papa attuale. È un pensiero in dialettica con il concreto, un pensiero fondato sulla grande tradizione, ma sempre alla ricerca della sua verifica nella realtà presente. Un pensiero che scaturisce da uno sguardo artistico e, nello stesso tempo, è guidato dalla cura del pastore: rivolto all’uomo per indicargli la via.
Mi sembra interessante scorrere per un momento la serie cronologica degli autori determinanti nei quali egli si imbatté lungo l’iter della sua formazione. Il primo era stato, come lui stesso riferisce nella sua intervista ad André Frossard, un manuale d’introduzione alla metafisica. Se altri studenti tentano solo di comprendere in qualche modo l’intera logica della struttura concettuale esposta nel testo e di fissarsela in mente in vista dell’esame, in lui ebbe inizio invece la lotta per una reale comprensione, cioè per cogliere il rapporto tra concetto ed esperienza, ed effettivamente si accese, dopo due mesi di duro impegno, il cosiddetto “lampo”: “Scoprii quale senso profondo aveva tutto ciò che io avevo prima solo vissuto e presagito”.
Poi arrivò l’incontro con Max Scheler e, quindi, con la fenomenologia. Questo indirizzo filosofico aveva la preoccupazione, dopo controversie infinite circa i confini e le possibilità del conoscere umano, di vedere di nuovo semplicemente i fenomeni così come appaiono, nella loro varietà e nella loro ricchezza. Questa precisione del vedere, questa intelligenza dell’uomo non a partire da astrazioni e da principi teorici, ma cercando di cogliere nell’amore la sua realtà, è stata ed è rimasta decisiva per il pensiero del Papa. Infine egli scoprì assai presto, prima ancora della vocazione al sacerdozio, l’opera di san Giovanni della Croce, attraverso la quale gli si aprì il mondo dell’interiorità, “dell’anima maturata nella grazia”. L’elemento metafisico, quello mistico, quello fenomenologico e quello estetico, collegandosi insieme, spalancano lo sguardo verso le molteplici dimensioni della realtà e diventano alla fine un’unica percezione sintetica, capace di paragonarsi con tutti i fenomeni e di imparare a comprenderli, proprio trascendendoli. La crisi della teologia postconciliare è in larga misura la crisi dei suoi fondamenti filosofici. La filosofia presentata nelle scuole teologiche mancava di ricchezza percettiva; le mancava la fenomenologia, e le mancava la dimensione mistica. Ma, quando i fondamenti filosofici non vengono chiariti, alla teologia viene a mancare il terreno sotto i piedi. Perché allora non è più chiaro fino a che punto l’uomo conosce davvero la realtà, e quali sono le basi a partire da cui egli possa pensare e parlare.
Così pare a me che sia una disposizione della Provvidenza il fatto che, in questo tempo, è salito alla cattedra di Pietro un “filosofo”, che fa filosofia non come una scienza da manuale, ma partendo dal travaglio necessario per reggere di fronte alla realtà e dall’incontro con l’uomo che cerca e che domanda. Wojtyla è stato ed è l’uomo. Il suo interesse scientifico fu sempre più contrassegnato dalla sua vocazione di pastore. Di qui si comprende come la sua collaborazione alla Costituzione conciliare sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, il cui testo è determinato in modo centrale dalla preoccupazione per l’uomo, è diventata un’esperienza decisiva per il futuro Papa.
“La via della Chiesa è l’uomo”. Questa tematica, concretissima e radicalissima nella sua profondità, si è trovata sempre e ancora si trova al centro del suo pensiero che è insieme azione. Ne è risultato che la questione della teologia morale è divenuta il centro del suo interesse teologico. Anche questa era una importante predisposizione umana in ordine al compito del massimo pastore della Chiesa. Giacché la crisi dell’orientamento filosofico si manifesta dal punto di vista teologico soprattutto come crisi della norma teologico-morale. Qui si trova il collegamento tra filosofia e teologia, il ponte fra la ricerca razionale sull’uomo e il compito teologico, ed è così evidente, che non è possibile sottrarvisi.
Dove crolla l’antica metafisica, anche i comandamenti perdono il loro nesso interiore: allora grande diventa la tentazione di ridurli al piano unicamente storico-culturale. Wojtyla aveva imparato da Scheler a indagare, con una sensibilità umana finora ignota, l’essenza della verginità, del matrimonio, della maternità e della paternità, il linguaggio del corpo e, di conseguenza, l’essenza dell’amore. Egli ha assunto nel suo pensiero le nuove scoperte del personalismo, ma proprio così ha anche imparato nuovamente a capire che il corpo stesso parla, che la creazione parla e ci delinea le vie da percorrere: il pensiero dell’età moderna ha dischiuso per la teologia morale una dimensione nuova, e Wojtyla l’ha percepita in una continua implicazione di riflessione e d’esperienza, di vocazione pastorale e speculativa e l’ha compresa nella sua unità con i grandi temi della tradizione.
Un altro elemento ancora è stato importante per questo cammino di vita e di pensiero, per l’unità di esperienza, pensiero e fede. Tutta la battaglia di quest’uomo non si è svolta dentro un cerchio più o meno privato, unicamente nello spazio interno di una fabbrica o in un seminario. Essa era circonfusa dalle fiamme della grande storia.
La presenza di Wojtyla in fabbrica fu conseguenza dell’arresto dei suoi professori universitari. Il tranquillo corso accademico fu interrotto e sostituito da un durissimo tirocinio in mezzo a un popolo oppresso. L’appartenenza al seminario maggiore del cardinal Sapieha era già, in quanto tale, un atto di resistenza. E così la questione della libertà, della dignità e dei diritti dell’uomo, della responsabilità politica della fede, non penetrò nel pensiero del giovane teologo come un semplice problema teorico. Era la necessità, molto reale e concreta, di quel momento storico.
Ancora una volta la situazione particolare della Polonia, situata nel punto d’intersezione tra est e ovest, era diventata il destino di questo Paese. I critici del Papa osservano con frequenza che egli, come polacco, conosce veramente solo la pietà tradizionale, sentimentale, del suo Paese e non può quindi comprendere pienamente le complicate questioni del mondo occidentale.
Nulla è più insensato di una simile osservazione, che tradisce un’ignoranza completa della storia. Basta leggere l’enciclica Slavorum apostoli per derivarne l’idea che precisamente di questa eredità polacca aveva bisogno il Papa per poter pensare all’interno di una molteplicità di culture. Essendo la Polonia un punto di intersezione delle civiltà, in particolare delle tradizioni germaniche, romaniche, slave e greco-bizantine, la questione del dialogo delle varie culture proprio in Polonia è, per molti aspetti, più ardente che altrove. E così proprio questo Papa è un Papa veramente ecumenico e veramente missionario, preparato provvidenzialmente anche in tale senso per affrontare le questioni del tempo successivo al concilio Vaticano II.
Rifacciamoci ancora una volta all’interesse pastorale e antropologico del Papa. “La via della Chiesa è l’uomo”. Il significato autentico di questa affermazione, spesso malintesa, dell’enciclica sul “Redentore dell’uomo” si può veramente capire se ci si ricorda che per il Papa “l’uomo” in senso pieno è Gesù Cristo. La sua passione per l’uomo non ha nulla a che fare con un antropocentrismo autosufficiente. Qui l’antropocentrismo è aperto verso l’alto.
Ogni antropocentrismo mirante a cancellare Dio come concorrente dell’uomo si è già da tempo capovolto in noia dell’uomo e per l’uomo. L’uomo non può più considerarsi centro del mondo. Ed ha paura di se stesso a motivo della sua propria potenza distruttiva. Quando l’uomo viene collocato al centro escludendovi Dio, l’equilibrio complessivo viene sconvolto: vale allora la parola della lettera ai Romani (8, 19. 21-22), in cui si dice che il mondo viene trascinato nel dolore e nel gemito dell’uomo; guastato in Adamo, è da allora in attesa della comparsa dei figli di Dio, della loro liberazione. Proprio perché al Papa sta a cuore l’uomo, egli vorrebbe aprire le porte a Cristo. Giacché unicamente con la venuta di Cristo i figli di Adamo possono diventare figli di Dio, e l’uomo e la creazione entrare nella loro libertà.
L’antropocentrismo del Papa è quindi, nel suo nucleo più profondo, teocentrismo. Se la sua prima enciclica è apparsa tutta concentrata sull’uomo, le sue tre grandi encicliche si coordinano naturalmente tra di loro in un grande trittico trinitario: l’antropocentrismo è nel Papa teocentrismo, perché egli vive la sua vocazione pastorale a partire dalla preghiera, fa la sua esperienza dell’uomo nella comunione con Dio e a partire da qui egli ha appreso a comprenderla.
Un’ultima osservazione. Il profondo amore del Papa a Maria è certamente, innanzitutto, un’eredità che gli viene dalla sua patria polacca. Ma l’enciclica mariana dimostra quanto questa pietà mariana è stata in lui biblicamente approfondita nella preghiera e nella vita. Nello stesso modo in cui la sua filosofia era stata resa più concreta e vivificata mediante la fenomenologia, ossia attraverso lo sguardo alla realtà che appare, così anche il rapporto con Cristo non rimane per il Papa nell’astratto delle grandi verità dogmatiche, ma diventa un concreto umano incontrarsi con il Signore in tutta la sua realtà e in tal modo logicamente anche un incontrarsi con la Madre, nella quale l’Israele credente e la Chiesa orante sono diventati persona. Ancora una volta è sempre e solo a partire da questa concreta vicinanza, in cui si vede il mistero di Cristo in tutta la ricchezza della sua pienezza divino-umana, che il rapporto col Signore riceve il suo calore e la sua vitalità. E naturalmente è qualcosa che si ripercuote su tutta l’immagine dell’uomo il fatto che questa risposta della fede ha preso figura per sempre in una donna, in Maria.
Che cosa voglio dire con tutto ciò? Il mio scopo era quello di dimostrare l’unità fra mistero e persona nella figura di Papa Giovanni Paolo II. Egli si è realmente “identificato” con la Chiesa, e ne può quindi essere anche la voce. Tutto ciò non è detto per glorificare una creatura umana, ma per dimostrare che il credere non estingue il pensare e non ha bisogno di mettere fra parentesi l’esperienza del nostro tempo. Al contrario: soltanto la fede dona al pensiero la sua apertura e all’esperienza il suo significato. L’uomo non diventa libero quando diviene un solista, ma quando riesce a trovare il grande contesto al quale appartiene. Dieci anni di pontificato di Giovanni Paolo II. L’ampiezza del suo messaggio appare già ora quasi incalcolabile, immensa. Ho voluto tentare di accennare in pochi tratti alle energie portanti che ne costituiscono la forza profonda, e, insieme, rendere così meglio comprensibile la direzione che egli ci indica. Il Signore voglia conservarci a lungo questo Papa, perché ci sia di guida sulla strada verso il terzo millennio della storia cristiana.

(©L’Osservatore Romano 1° maggio 2011)

Il mio Wojtyla segreto

 

intervista a Joaquin Navarro-Valls

 

«Sono seduto accanto a Gianni Agnelli, nella sede della Stampa estera. La segretaria mi porta un bigliettino scritto a mano: il Papa la vorrebbe vedere a pranzo. È uno scherzo. E quando sarebbe?
Subito, tra un’ora». Fu un’ora che sarebbe durata ventidue anni per Joaquin Navarro-Valls, il  giornalista e medico psichiatra spagnolo che sarebbe stato fino alla sera dell’addio alla vita di Giovanni Paolo II, il Beato Wojtyla dal primo maggio prossimo, il decoder quotidiano fra l’eterno e il quotidiano, fra la santità e il giornalismo. Nessun altro, salvo monsignor Dziwisz, oggi cardinale, e le suore di pietra che vidi pregare accanto alla salma esposta nella Sala Clementina, avrebbe trascorso tanto tempo, diviso tanti silenzi, tanti segreti e tante parole con Karol Josef Wojtyla,
quanto Navarro-Valls. Una vita con il Papa, in perenne equilibrio tra la comunicazione pubblica e le stanze segrete, tra il sublime del messaggio e il purgatorio dei mass media.

Era il 1984.
«Davanti a me c’è il capo della Chiesa Cattolica, il successore di Pietro, di cui avevo letto alcuni testi ma che conoscevo soltanto da lontano, come giornalista. Mi chiede se avessi qualche idea per migliorare la comunicazione della Santa Sede».

 

In che lingua parlavate?
«In italiano. La vostra, anzi, la nostra lingua come aveva detto la sera della elezione, parlando dalla Loggia».

 

Lei che idee gli propose?
«Gli dissi che non sapevo che cosa dire, così, su due piedi. E lui, ridendo: e lei me lo dica lo stesso.
Lui taceva, mi studiava con il capo un po’ piegato, quei suoi occhi taglienti, ironici, allegri, lo sguardo che mantenne anche quando gli occhi furono imprigionati nella maschera della sofferenza».

 

Per due decenni, fino a quando l’infermiera suor Tobiana Sobodka riferì di avere sentito il Papa mormorarle all’orecchio in polacco «…pozwólcie mi odejsc do domu Ojca…», «lasciatemi tornare alla casa del Padre», nella sera del 2 aprile 2005, Navarro-Valls avrebbe guardato ogni giorno in quegli occhi, cercando di capire quello che lui stesso non poteva capire, il mistero di un Pontefice destinato al cielo delle beatitudini cristiane.

«Me lo domandavo, agli inizi, anche io chi fosse, che cosa fosse il mistero di Wojtyla. Ha cambiato la storia della politica e della diplomazia, senza essere né un politico né un diplomatico. Ha rivoltato le premesse della filosofia dominante senza esercitare più la professione del filosofo, ha affascinato il mondo dei media prendendo posizioni impopolari. Voleva appassionatamente attirare l’attenzione sul messaggio, ma il mondo sembrava ossessionato dal messaggero. Credevano di amare il cantante, e non si rendevano conto, o non volevano ammetterlo, che in realtà erano attratti dalla musica».

 

Una musica che all’orecchio del tempo sembrava stonata.
«Perché suonava alla rovescia rispetto agli spartiti dominanti dell’epoca: il pessimismo e la cupezza della nostra esistenza e della nostra condizione umana dietro il benessere materiale del nostro piccolo spicchio di mondo, Europa e Americhe. Il messaggio di Giovanni Paolo II è radicale, rivolta quegli spartiti. Diceva: voi uomini siete molto meglio di quanto la cultura moderna vi faccia credere, siete molto meglio di quanto voi stessi crediate di essere. Dunque non abbiate paura di essere ciò che siete, creature divine».

 

Invadeva i teleschermi, li “bucava”, occupava la televisione ormai divenuta satellitare, dunque globale. Lei non temeva, come curatore della sua immagine, di rischiare l’overdose?
«No, perché sapeva che il segreto per dominare la televisione e non lasciarsene dominare è semplicemente ignorarla, come scrisse il critico televisivo del New York Times quando andammo in America nel 1987. C’era il suo messaggio, c’erano le sue parole, e c’era la fusione tra la forza del suo messaggio e il vissuto esistenziale che si manifestava quando lo comunicava alla gente. Chi lo ascoltava sapeva che quanto diceva era vero. Il suo linguaggio e i suoi gesti esprimevano la verità».

 

Si preparava a questi eventi? Studiava le pose, gli angoli di ripresa, le luci, la scenografia e la sceneggiatura?
«Mai, neppure una volta. Per lui le telecamere, il trucco, le luci non esistevano. Questi atteggiamenti da personaggetti che si fanno spiegare come e dove devono guardare, se fissare l’obbiettivo o guardare fuori, se sorridere o sembrare seri, non lo sfioravano mai. I primi tempi mi preoccupavo, sapendo quanto la telecamera possa essere crudele. Ma per lui comunicare era far apparire la verità, non costruire un’apparenza».

 

La Curia diffidava?
«La Curia, come ogni organizzazione istituzionalizzata, può tendere alle volte a guardare verso il proprio interno. Lui la faceva guardare verso l’esterno».

 

Recalcitravano, le porpore?
«La Curia era non soltanto utile ma necessaria. E lui, come Papa, marcava la strada».

 

Una lunghissima strada. Duecento viaggi dentro l’Italia, poi in centosessanta nazioni fuori dall’Italia.
«Una volta mi disse una cosa che sembrava elementare: “Sa, nel passato era la gente ad andare in parrocchia. Oggi è il parroco che deve andare dalla gente”. Questa, così apparentemente semplice, era una un’illuminazione straordinaria che lui portava con sé da una lunga esperienza nel proprio Paese».

 

Lei che è un credente, un uomo dell’Opus Dei, si rendeva conto di vivere accanto a un santo?
«Lo andavo comprendendo standogli accanto giorno dopo giorno, non avevo dubbi. La fede non l’ho avuta da lui ma accanto a lui il contenuto della fede si “vedeva”, e lo metta tra virgolette perché questo andrebbe spiegato. Quello che cercavo di imparare era come la santità si sarebbe fatta carne in lui, in noi cristiani. Questo lo avrei scoperto soltanto nella convivenza quotidiana».

 

Per esempio?
«La preghiera. Per un credente, la preghiera spesso è un obbligo. Oppure il risultato di una convinzione fondata. Per lui era una necessità, un bisogno, come per noi respirare».

 

Aveva un preghiera preferita?
«Nutriva la sua preghiera con i bisogni degli altri. Gli arrivavano migliaia di messaggi di tutto il mondo, in tutte le lingue: una malattia, un problema famigliare, l’angoscia di un futuro senza futuro… L’ho visto in ginocchio per ore nella sua cappella con questi messaggi in mano: tutte le sofferenze umane come tema della sua conversazione con Dio. Penso che per se stesso non rimanesse alcuno spazio nella sua preghiera. Penso che lui non avesse delle “cose sue”. Solo cose
degli altri».

 

E c’era una costante nel parlare con Dio?
«Lui, che pure aveva riportato l’ottimismo nel mondo incupito e pessimista, custodiva un suo segreto. Era convinto che quello di cui veramente l’essere umano avesse più bisogno era la misericordia di Dio. Per questo la cerimonia di beatificazione avverrà il primo maggio, il giorno della Misericordia. Sembrerebbe un paradosso. Tanto fiducioso, tanto ottimista, lui che apriva orizzonti sterminati alla persona umana, eppure con il senso della limitatezza della creatura umana.
L’ultima messa, celebrata nella stanza in cui morì, era già la messa della domenica, la messa della Divina Misericordia».

 

Come psichiatra, lei, dottor Navarro, è mai caduto nella tentazione di guardare Karol Wojtyla come a un paziente?
«Non c’era materia per considerarlo un paziente. E non c’era tentazione, semmai deformazione professionale, come il sarto che vede un abito o il calzolaio che guarda le scarpe e le valuta, per abitudine. Mi impressionava il magnifico equilibrio interiore tra tutte le sue virtù. Virtù che, quando coabitano in una sola persona, possono anche impazzire. In lui, questa pazzia delle virtù non c’era.
Convivevano senza difficoltà. Per esempio: non sapeva perdere un minuto eppure non aveva mai fretta».

 

Neppure alla vigilia degli incontri più delicati?
«Nemmeno in queste occasioni. Semplicemente, metteva tutto se stesso nella preparazione di questi viaggi. Sapeva mortificarsi senza spettacolarità: rispetto al cibo, per esempio. Il rapporto con il cibo e con le bevande era di indifferenza, ne era quasi infastidito. Andavamo in paesi tropicali, caldissimi, umidi, come l’Indonesia. Era ovvia la disidratazione per il caldo. Il suo medico, io stesso, eravamo preoccupati per la perdita di liquidi. Lui, con straordinaria e discreta eleganza, ritardava di bere».

 

Dormiva bene, quando non soffriva?
«Voleva sempre che si viaggiasse di notte nei voli intercontinentali, per arrivare al mattino sul posto e avere così davanti a sé tutta una giornata di lavoro. Nel suo ultimo viaggio in Messico, e aveva ottant’anni, l’Alitalia gli aveva preparato un lettino dietro una tenda. Noi del seguito – laici, cardinali, monsignori – cercavamo di dormire almeno un po’, raggomitolandoci nei sedili. Quando atterriamo, l’incaricato della compagnia mi avvicina e mi dice: noi avevamo preparato il lettino per il Papa, ma abbiamo visto che è intatto. Era troppo stretto, era scomodo? Non si preoccupi, lo
rassicurai, è stato sveglio tutto il viaggio per prepararsi. Tredici ore di viaggio leggendo, studiando, pregando».

 

Mangiava anche poco?
«Non gli importava molto di ciò che aveva davanti. In certi periodi dell’anno faceva soltanto un pasto completo al giorno. E fino all’ultimo, il giorno prima di ordinare nuovi vescovi o sacerdoti, digiunava».

 

Potrebbe essere una definizione laica della santità il riuscire a vivere nell’equilibrio delle proprie virtù. Era questa serenità la radice, la causa del suo essere un uomo allegro, ironico? «Era un uomo allegro, è verissimo. L’ironia era il suo tratto caratteriale più evidente. Ma la sua  gioiosità non era quella banale delle persone che non sanno fare a meno della risata da barzelletta.
Le fondamenta del suo carattere, che io definisco allegro, stanno tutte in due righe».

 

Di diari? Di confessioni?
«No, della Genesi. Dove si dice che siamo stati creati a Sua immagine e somiglianza. È chiaro che se ci credi, ma se ci credi davvero davvero, allora, qualunque cosa accada, anche la tragedia più spaventosa, anche Fukushima, non cambia il fatto che il mio fine ultimo di creatura è il lieto fine, l’happy end. Non ce ne possono essere altri. Dio non può tradire le creature fatte a propria immagine e somiglianza. Se hai questa certezza, anche la sofferenza ha un senso».

 

Lo sentiva scherzare?
«Molto. Amava scherzare, stuzzicare e prendere affettuosamente in giro anche i suoi collaboratori, i parroci e i preti diocesani delle parrocchie romane che andava a visitare. Incontrandoli la sera prima, voleva sapere quanti vecchi, quanti bambini, quante donne incinte, quanti malati gravi fossero sotto le loro cure, per poi trovarsi preparato a tutto. Ma come, Santità, gli disse un cardinale quando già stava poco bene, vuole andare a visitare un’altra parrocchia romana? Guardi eminenza che forse lei dimentica che io sono il vescovo di Roma».

 

Cercava sempre il contatto con la gente?
«C’era una grande fisicità in lui, baciava le donne in fronte e coccolava i loro bambini, prendeva sottobraccio i vecchi, afferrava le mani di chi gliele tendeva. “Ma sei proprio tu quello che ho visto in televisione?”, gli domandò un bambino colombiano sfuggito alla sorveglianza e corso sul palco del Papa. Prima che lo riacciuffassero, lui lo abbracciò e tolse al bambino quel dubbio – che a quella età doveva essere importante».

 

Un Papa prete, come sarebbe stato anche Luciani, da cui prese il nome, Giovanni Paolo. Aveva anche lui dubbi sulla morte improvvisa del suo predecessore, nel sonno, appena trenta giorni dopo l’elezione?
«No. Per lui, i sospetti erano letteratura, fiction, non lo interessavano. Mi raccontò invece di come ebbe la notizia della morte di Papa Luciani. Lo seppe dal suo autista, mentre quella mattina andava in visita pastorale a una parrocchia di Cracovia. Lui che era stato nel Conclave pochi giorni prima dovette sapere dall’autista che era morto il Pontefice che aveva eletto».

 

Come reagì?
«Sentì un’immensa tristezza invaderlo, poi lo assalì un’inquietudine enorme che lo scuoteva e che non riusciva a spiegarsi».

 

Forse un presentimento.
«Forse. Ma lui non ripartì per Roma, per il secondo Conclave in poche settimane, pensando di doverci restare come Papa. Non parlava mai di quei due Conclavi. Non disse mai se avesse ricevuto qualche voto anche nel Conclave che elesse Luciani».

 

Anche i santi si arrabbiano?
«Raramente, ma sì, se la ragione è giusta. Le uniche volte in cui l’ho visto arrabbiato, se arrabbiato è la parola corretta, erano sempre situazioni di violenza fisica o morale rivolta contro la gente, come la guerra nel Libano, o nei Balcani. Si tormentava, e tormentava noi chiedendoci che altro può fare il Papa per impedire una guerra. O come sarebbe poi stata l’invasione dell’Iraq, alla quale era molto contrario».

 

Lo disse pubblicamente.
«E anche privatamente. Quando incontrò George W. Bush, gli disse chiaramente: mister President, lei sa quale opinione ho della guerra in Iraq. Discutiamo di altro. Ogni violenza, contro uno o un milione, era una bestemmia diretta all’immagine e alla somiglianza di Dio. Non accettava che l’essere umano cercasse di risolvere le differenze con gli altri attraverso la violenza, come gli animali».

 

Molti grandi santi, antichi e moderni, hanno confessato di avere vacillato, di essere stati aggrediti da dubbi. Lo so che sembra una bestemmia, detta per un Papa e oggi un beato, ma Karol Wojtyla credeva davvero davvero, come dice lei, in Dio?
«Penso che possa rispondere qualsiasi persona che lo abbia visto e seguito. La sua fede la si vedeva.
Alla fine ormai della sua vita, nel 2005, quando dovettero praticargli una tracheotomia all’ospedale Gemelli per permettergli di respirare e quindi non poteva parlare, in sala post-operatoria fece un gesto. Sembrava voler dire qualcosa che non poteva dire. La suora capì. Gli portò un cartoncino con un pennarello. Lui ci scrisse sopra con decisione, a grandi lettere irregolari: TOTUS TUUS. Era mettere per iscritto la sua accettazione di quello che Dio voleva per lui anche in quel momento».

 

Era rassegnato.
«No, era convinto della propria totale appartenenza a Dio, attraverso l’intercessione di Maria. Ho detto convinto, perché questa era stata la motivazione profonda di tutta la sua vita di Papa. Non voleva vincere, voleva convincere, come lui stesso era stato convinto dallo Spirito quando era un giovanotto che giocava a calcio come portiere e remava sul suo adorato kayak in Polonia».

 

Ma il duello contro l’Urss, i regimi, le burocrazie comuniste lo aveva pur vinto.
«Vincere non era una parola che appartenesse alla sua filosofia, al suo orizzonte interiore».

 

Eppure fu costretto a una sfida che al mondo apparve un duello senza quartiere attorno alle sorti della sua Polonia, nel 1980. Il tempo di Solidarnosc e di Lech Walesa…
«In quei anni di tensione Ronald Reagan gli scriveva molto, gli mandava a Roma l’ambasciatore  Vernon Walters, ex generale, uno dei pochi ambasciatori americani che parlassero le lingue, poi il consigliere per la sicurezza nazionale Bob McFarlane. Reagan parlava allora della Russia come “l’impero del male”: un’espressione che il Papa non avrebbe mai usato sapendo che il cristianesimo esisteva in Russia da mille anni prima. Era inevitabile vedere in loro due strade diverse. Il fine che muoveva Giovanni Paolo II non era l’America o l’anticomunismo, e neanche in fondo una qualsiasi
forma di società neo capitalistica e libertaria idealizzata, bensì la dignità assoluta e trascendente della persona umana che è capace di scegliere il proprio destino. La sua originalità era la potenza dei valori antropologici universali e la fede incrollabile nella persona umana in quanto tale».

 

Forse perché il Papa non ha divisioni corazzate, come diceva Stalin.
«Aveva una forza diversa e il Cremlino se ne accorse presto. Non è molto noto ma, in quel 1980, i satelliti spia e gli Awacs fotografavano i movimenti delle truppe della Germania comunista che si dispiegavano sul confine occidentale della Polonia, da dove sarebbe partita l’invasione che tutti temevamo. Io ero a Varsavia in quei giorni e andavo a dormire convinto che mi sarei svegliato con i carri sovietici in strada. Era dicembre e Giovanni Paolo II scrisse una lettera personale e privata a  Leonid Breznev».

 

Come Leone Magno con Attila? Per ordinargli in nome di Dio di non toccare la Polonia?
«No, sarebbe forse stato un errore, avrebbe fatto infuriare il Cremlino e offeso l’orgoglio dei sovietici. Gli scrisse, con grande chiarezza e con la conoscenza diretta che aveva di quei regimi e della loro mentalità, solo per ricordargli che appena cinque anni prima, nel 1975, lui stesso, Breznev, aveva firmato a Helsinki un trattato solenne in cui l’Urss si impegnava a non interferire negli affari interni di ogni altra nazione europea. Dunque, se avesse invaso la Polonia avrebbe violato la sua stessa parola, la parola dell’Unione Sovietica».

 

E Breznev rispose?
«Sì, ma non con una lettera, né per via diplomatica. La sua vera risposta fu la rinuncia all’azione di forza. Eppure Breznev sapeva, come sapevamo tutti, che lasciare la Polonia al proprio destino sarebbe stata la fine per la stessa Unione Sovietica e che il sogno del Papa, che era un’Europa dall’Atlantico agli Urali, ma senza il dominio di una potenza, si sarebbe inesorabilmente avvicinato».

 

La lettera segreta di Giovanni Paolo II fece quello che le potenze militari e la Guerra fredda non avevano saputo fare.
«Quando andammo a Praga nel 1990, pochi mesi dopo la caduta del Muro di Berlino, il presidente Vaclav Havel ricevette il Papa all’aeroporto e, da buon letterato, gli disse: “Io non so se so che cosa è un miracolo. Ma oggi mi sembra di vedere un miracolo”».

 

Un miracolo politico, diplomatico, strategico. Il profeta disarmato che distrugge la massima potenza militare del mondo.
«Questo era chiaro, ma non si deve pensare a lui come a un leader politico in abito religioso, deciso a cambiare regimi e confini. Non salì sulla cattedra di Pietro per liberare l’Europa dell’Est dal comunismo, ma per diffondere il messaggio dell’assoluta centralità della persona umana, della creatura, che esiste come tale perché ha un creatore, e in quella verità deve ritrovarsi. Questa era l’essenza postmoderna, post-ideologica, post-esistenzialista, dunque implicitamente post-marxista e leninista, l’essenza cristiana della sua predicazione».

 

Ci fu però un’altra risposta, un anno dopo la resa sovietica di fronte alla Polonia. In Piazza San Pietro. Il giorno 13 maggio del 1981. Ali Agca.
«La sofferenza era già entrata nella sua vita da anni ma probabilmente quello fu il suo primo incontro, brutale, inaspettato, con il dolore fisico: uomo robusto e sano, non lo aveva davvero mai affrontato. La prima di una serie tremenda di prove».

 

La corsa all’ospedale Gemelli, destinato a diventare il “Vaticano 2”. Il complicato lavoro dei chirurghi sull’intestino, perforato da due dei quattro proiettili sparati dall’aggressore, con colostomia temporanea.
«Era ancora cosciente, sull’ambulanza. Perse i sensi arrivando in ospedale, per la perdita di sangue e il crollo della pressione sanguigna. Ma riuscì in un momento di lucidità a dire ai medici di lasciargli al collo lo scapolare, il rettangolo di stoffa dei carmelitani dedicato alla Vergine. Fu operato con lo scapolare addosso, quella volta e in tutti gli interventi successivi che dovette subire».

 

Ebbe la certezza dell’intervento provvidenziale, «materno» come lo definì, della Madonna per deviare le pallottole e non colpire organi vitali. Ci fu chi lo accusò di un peccato di superbia, per averlo pensato.

«È esattamente il contrario. Per una persona che ha il senso della totale dedizione alla Madonna, è
semmai un riconoscere di aver ricevuto un dono e di avere un debito».

Ma qualche dubbio doveva averlo.
«Non sull’attentato ma sul possibile collegamento dell’attentato con il terzo segreto di Fatima. Per questo prima di far pubblicare quel testo anni dopo, mandò il cardinale Tarcisio Bertone, allora segretario della Dottrina della fede sotto il cardinale Ratzinger, in missione da suor Lucia, l’ultima superstite dei tre bambini che videro la Madonna. Voleva essere certo, sapere se l’ultimo segreto fosse davvero la profezia dell’attentato al Papa. Bertone chiese a suor Lucia se questa interpretazione fosse coerente con quello che la Madonna le aveva rivelato. Suor Lucia rispose di sì; che era coerente con quanto lei aveva scritto con l’ingenuità di una bambina di allora dieci anni che lo aveva visto attraverso questa immagine. Fece inviare a Fatima il bossolo di un proiettile sparato da Agca che ora è incastonato all’interno della corona della Vergine nel santuario».

 

Credette dunque alla «mano materna che aveva deviato un’altra mano». Ma chi aveva mosso invece la mano assassina di Agca? I servizi segreti bulgari appaltati da Mosca utilizzando una marionetta turca? Il Papa lo pensava?
«Rispondo con quello che disse lui stesso andando per la prima volta in visita in Bulgaria dopo la fine del regime: non considero il carissimo popolo bulgaro responsabile collettivamente».

 

Era un uomo solo, come si dice tanto spesso dei potenti e dei veri grandi?
«No, non lo era né di fatto né per carattere. Raramente era da solo o con il suo segretario, durante i pasti. Riceveva vecchi amici, collaboratori, intellettuali… Erano occasioni stupende per conversazioni informali. C’era nella sua vita sempre ampio spazio per l’interazione. Giovanni Paolo II non era mai solo, perché non voleva esserlo. Però questa facilità nei contatti umani non lo privava della solitudine riflessiva, il pensare da solo».

 

Nessun amico, nessun cardinale, neppure l’amatissimo cardinale Ratzinger, nessun addetto stampa possono però mai essere tua madre, tuo fratello.
«Ricordo che quando una volta gli domandai chi lo avesse accompagnato il giorno in cui fu ordinato sacerdote, lui mi rispose: “A quell’età avevo già perso tutte le persone che avrei potuto amare”. Sul tavolino accanto al suo letto di morte c’era la piccola foto del padre e della madre che gli era stata regalata in uno dei viaggi all’estero».

 

L’incontro con la sofferenza morale era avvenuto molto presto, da ragazzo. La salita sul monte della sofferenza fisica sarebbe cominciata quel giorno in piazza San Pietro e non si sarebbe più fermata fino al morbo di Parkinson, l’umiliazione finale del suo messaggio, il male che colpisce la gestualità, l’espressività. Perché attendeste tanti anni, dodici, per ammettere che ne era stato colpito?
«Perché non ce n’era bisogno. Il Parkinson, con quel tremore incontrollabile alle mani e la rigidità dei muscoli facciali, è una malattia che qualunque studente di medicina del primo anno, qualunque persona che ne sia stata colpita o che abbia un parente che ne sia stato colpito, può diagnosticare guardando un minuto la persona che ne soffre. Lei pensa che è necessario presentare una persona incinta di sei mesi dicendo che è incinta? Lo si vede; è evidente. Anche nella patologia, Wojtyla non poteva e non voleva nascondere nulla».

 

Vedeste insieme, e a volte lei da solo, i cosiddetti grandi del mondo. Lei andò in missione a Mosca, poi a Pechino per coronare il sogno di un viaggio in Russia e in Cina… «Che non si fecero….». …e a Cuba dove invece riusciste.
«Parlai a lungo, dalle otto di sera alle due del mattino, con Fidel Castro, e così si sistemarono alcune precondizioni al viaggio del Papa. Nei colloqui privati non gli parlai mai della sua educazione presso i Gesuiti, fu lui a ricordarla a me».

 

Si rendeva conto, il Papa, che avrebbe celebrato messe in chiese in cui si mescolavano tranquillamente il cristianesimo con la santeria, le Madonne con i Serpenti di Mare?
«Lo sapeva benissimo. E questa conoscenza era una ragione in più per quel viaggio. La gente aveva bisogno delle sue parole, del suo insegnamento che non trovavano da nessuna parte per la scarsità del clero, l’isolamento cubano e le difficoltà di formarsi».

 

Le diceva tutto, sui suoi colloqui privati con capi di stato o di governo?
«Raccontava i termini dei colloqui e lasciava decidere che cosa era necessario dire all’opinione pubblica. Naturalmente faceva con tutti loro riflessioni profonde di carattere etico. Un giorno  ricevette un capo di stato autocrate e violento. Uscendo, dopo il colloquio, commentò quasi tra sé: “Sembra quasi un agnellino”».

 

Come vedeva gli Stati Uniti, i suoi presidenti?
«Ammirava moltissime cose dell’America, l’apertura, la mobilità sociale, il senso religioso che pervade la vita e non solo la Costituzione. Ha conosciuto e incontrato cinque presidenti americani.
Si comportava allo stesso modo con tutti, con Carter, con Reagan, con Bush padre, con Clinton, con Bush figlio. Di Bush giovane apprezzava, per esempio, la legge che ritirava i finanziamenti pubblici alla ricerca sulle staminali embrionali, non le guerre».

 

Dunque non poteva apprezzare molto Clinton, che era dichiaratamente pro aborto.
«Il presidente Clinton aveva una certa simpatia naturale. E Clinton, che ammirava Wojtyla, ha scritto: “Non vorrei mai fare una campagna elettorale contro di lui”».

 

E con Reagan?
«Si sono incontrati diverse volte. Parlavano in profondità ma avevano due missioni diverse anche se alla fine storicamente hanno coinciso. Erano come due linee parallele: la diplomazia della forza e la forza delle virtù».

 

Come guardava all’Italia, alla vita politica italiana?
«Con enorme tenerezza. In Italia facemmo più di duecento viaggi, visite, pellegrinaggi, e quella sua scelta celebre di rivolgersi alla folla in Piazza San Pietro usando l’italiano…».

 

… se sbaglio mi coriggerete?
«…Appunto. Fu la testimonianza di quell’affetto, del riconoscimento all’Italia che aveva donato mezzo millennio di papi. Seguiva la politica italiana ma non le scaramucce quotidiane. L’ho detto, non era un politico. Quando andò in Parlamento si rivolse alla nazione italiana, non a questo o quel gruppo; parlò di valori, non di destra o sinistra. Guardava spesso i titoli dei telegiornali alla sera e poi basta. Ma il capitolo di una sua amicizia italiana è tutto da ricordare».

 

Sandro Pertini.
«Sì, il presidente Pertini. Nel giorno dell’attentato, Pertini si fece portare all’ospedale Gemelli e restò in attesa dell’esito dell’intervento, come un parente prossimo, tempestando di domande medici e infermieri, lui che non era credente. Restò fino alle rassicurazioni dell’équipe dei chirurghi. Soltanto dopo cinque ore tornò al Quirinale».

 

Wojtyla ricambiò questo gesto?
«Ci provò. Quando seppe che l’ex presidente stava morendo, nel 1990, il Papa andò discretamente nell’ospedale dove era ricoverato. Chiese di vederlo, di parlargli per un’ultima volta perché lui sapeva che Pertini lo avrebbe voluto salutare».

 

Forse sperava in una conversione sul letto di morte.
«Questo non lo so. Non conosco i pensieri del Papa né quelli di Pertini. Forse voleva soltanto confortare un moribondo, da uomo a uomo. Se avesse voluto anche il conforto religioso, il Papa sarebbe stato lì, il prete accanto al moribondo».

 

Riuscì a vederlo, prima che morisse?
«No. Non lo lasciarono entrare nella stanza dell’amico. Quando il Papa si sentì negare il permesso, chiese soltanto che gli portassero una sedia. Se la fece sistemare nel corridoio sul quale dava la stanza del Presidente e rimase a pregare in silenzio e in solitudine, per il vecchio amico che se ne stava andando. Dopo parecchio tempo si alzò e disse che tutto era già fatto. E, altrettanto discretamente, tornò in Vaticano. Non volle dare nessuna pubblicità alla cosa».

 

C’era, anche in tanti che avrebbero voluto ascoltare la sua voce, la delusione per il suo conservatorismo dottrinale e inflessibile in materia di amore, di sesso, di omosessualità, di sacerdozio femminile, di celibato sacerdotale. Sembrava stridere così violentemente con la sua persona pubblica, con la fisicità di cui abbiamo parlato. Eppure era entrato in seminario a diciannove anni, dunque aveva visto e conosciuto la vita.
«Concordo con il giudizio di tanti studiosi – dentro e fuori la geografia cattolica – che il più originale contributo del pensiero di Wojtyla è la sua concezione della persona umana. Ne parlammo molto.
Prima ancora di parlare di peccato, di legge divina, di morale, Wojtyla vedeva la natura umana, della quale tutti siamo portatori. Oggi, “natura umana” è un’espressione politicamente scorretta, si tende di più a parlare di “genere”, di “costruzione sociale” come antagonista alla natura. Ma anche se la cultura prende origine nell’azione, questo non vuole dire che non sia naturale. E la natura umana ha una sua eloquenza evidente».

 

Negarlo sembra la negazione della libertà morale, dunque della salvazione?
«Giovanni Paolo II pensava che all’essere umano – e soltanto all’essere umano – appartiene anche il dover essere. Questo fa dell’uomo una “persona”. Anche gli animali sono, ma non devono essere niente altro di ciò che sono; la loro perfezione è biologica. Nell’uomo la perfezione non è di natura biologica ma morale. Naturalmente si può rifiutare la questione del “dover essere” ma in questo caso l’uomo sta rifiutando se stesso, sta rifiutando di essere ciò che è».

 

Era quella intransigenza che i critici avvertivano dietro la sua personalità, la sua figura così affascinante?
«Non c’era nessuna contraddizione, se ci pensiamo. L’intransigenza morale, sui principi che hanno a che vedere con la verità, che non era intellettualmente negoziabile, si accompagnava sempre alla sua infinita, illimitata pietas, alla comprensione, alla tolleranza per la persona. La discussione è sulle idee e, alla fine, sulla verità; la persona merita di più che la discussione. E questo lo portava esattamente a quello di cui l’essere umano aveva per lui un bisogno assoluto: la misericordia, soprattutto quella divina».

 

Ma prima la devi accettare, questa misericordia?
«Certo e la puoi rifiutare, ma allora si entra nel vuoto della solitudine assoluta, nel buio più completo. Quando lo sentivo parlare, si vedeva insieme la profondità della sua fede e la ricchezza del suo pensiero. O se si vuole, della enorme ragionevolezza della religione e della fede».

 

Un uomo allegro che predicava non il diritto a non soffrire, come scrive oggi la scienza, ma quasi il dovere di soffrire?
«Direi piuttosto, l’inevitabilità della sofferenza. Con un realismo ottimista ma non ingenuo, pensava che imparare a vivere è anche imparare a soffrire. La sofferenza è l’ambito dell’umano, è la condizione del nostro essere, è ciò di cui abbiamo paura. Non soltanto la sofferenza fisica, ma quella spicciola, quotidiana, il figlio che ti fa penare, il sogno che non si avvera, l’amico che ti tradisce, il mondo che sembra impazzire, tutto quello che ci fa soffrire ma che non ci farà mai andare da un medico perché nessun medico può curare o lenire queste cose».

 

Eppure l’insegnamento della Chiesa sembra essere così spaventato da questo nostro corpo, dalle sue pulsioni, dai suoi desideri.
«Non per Wojtyla. E io penso nemmeno per la Chiesa. Non aveva nessuna paura del corpo.
Accarezzava e benediva la pancia delle donne incinte, faceva sport – quando poteva, e cioè non con la frequenza necessaria – lottava tenacemente per tenere in funzione il proprio corpo anche quando era logoro e già non rispondeva agli impulsi. Amava il corpo perché con il corpo l’essere umano si inserisce nella storia: nella storia umana e in quella della salvezza. Ma a questo amore per il corpo si aggiungeva il rispetto che un corpo – il proprio e quello degli altri – merita proprio perché non è un ammasso di cellule ma la condizione storica della persona. Di tutto questo rimane un suo magnifico libro – Uomo e donna lo creò – che è già un classico non soltanto della letteratura cristiana ma anche del pensiero umano».

 

Anche a rischio di apparire crudeli, ingenerosi, verso chi risponde ad altri richiami, a chi vorrebbe scegliere la propria fine?
«Anche a rischio di questo perché la più terribile delle crudeltà sarebbe ingannare trattando gli altri come cose anziché come persone».

 

Un rischio che il successore, Papa Ratzinger, corre anche di più, non mostrando quella fisicità, quella corporeità che Wojtyla esprimeva.
«Ma questo è soltanto l’aspetto esteriore. Si dovrebbe riflettere su quanto profonda fosse la sintonia fra questi due uomini pur tanto diversi fra loro. Era stato lui a chiedere a Ratzinger, nel 1981, di venire a Roma, e poi a trattenerlo anche dopo l’età del pensionamento quasi, direi, contro la sua volontà».

Aveva bisogno di lui?
«Probabilmente, sì».

 

Si può parlare di un capolavoro del pontificato di Wojtyla?
«Per me, il suo capolavoro è stato quello che verrà confermato nella sua beatificazione. Il capolavoro che, con l’aiuto di Dio, lui ha compiuto in se stesso: aver detto di sì fino all’ultimo momento a tutto quello che Dio gli chiedeva. La sua totale disponibilità ad essere quello che Dio gli domandava che fosse, sia quando era un giovane uomo vigoroso sia quando non ce la faceva più.
Quando voleva parlare alla finestra e non ci riusciva e si agitava prima di calmarsi. Totus tuus, non ce la faccio più, e subito dopo Totus tuus. Questo era il presagio di santità che vedevo in lui, come mi avevate chiesto all’inizio, fino al momento in cui si arrese all’ultima volontà divina, che era quella di tornare alla casa del Padre. Non scelse di morire. Scelse – ancora una volta nella sua vita – di accettare quello che un Altro aveva scelto per lui».

 

Erano le 21,37 del 2 aprile 2005, quando il tracciato cardiografico si appiattì e il dottor Buzzonetti, medico pontificio, certificò la fine. Alla finestra della sua stanza nel Palazzo apostolico, fu accesa la piccola candela della tradizione polacca per i morti. Suor Tobiana gli posò la mano sulla testa.
Attorno al letto di morte del Papa, «senza che ci fosse stato prima un accordo» dice ora Joaquin Navarro-Valls, suore, infermieri, preti cominciarono a intonare il Te Deum laudamus, non una nenia funebre, ma l’inno cristiano più solenne e trionfale del ringraziamento. Ringraziamento non per una morte, ma per tutta la vita straordinaria nell’ordinario quotidiano che l’aveva preceduta.
La piazza, là sotto, era piena, ma silenziosa. Le voci del «Santo subito» avrebbero presto riempito quel silenzio.

 

in “la Repubblica” del 24 aprile 2011

 

 


 

 

 

 

 

 

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Wojtyla beato di Massimo Faggioli in Europa del 30 aprile 2011

“questa beatificazione è anche la presa d’atto che il pontificato di Giovanni Paolo II ha ridetto il cattolicesimo contemporaneo, che non si lascia ridurre ad un’unica ed esclusiva dimensione teologica o ideologica: con buona pace degli atei devoti, dei lefebvriani di complemento à la de Mattei, e dei chierici del dissenso di Micromega”
  • La verità di Wojtyla intervista a Joaquìn Navarro-Valls a cura di Aldo Maria Valli in Europa del 30 aprile 2011
Anticipiano alcuni stralci dell’intervista di Aldo Maria Valli con Joaquín Navarro-Valls che apparirà nel fascicolo di maggio della rivista “Studi cattolici”. “Lui diceva loro che erano molto superiori alle ipotesi che la cultura moderna offriva su loro stessi. Sapeva aprire loro orizzonti antropologici e religiosi che nessuno osava proporre ai giovani.”
“Domani tutti costoro… guarderanno – mi domando – in alto e penseranno che una storia umana si è definitivamente conclusa e c’è un altrove? Penseranno alla beatitudine di Giovanni Paolo II? A cos’altro penseranno? «Sta in silenzio davanti al Signore e spera» recita l’inizio del Salmo 36. È un Salmo bellissimo, colmo di conforto. Ma anche colmo di vuoto, nella semplicità di questo versetto, per i cristiani. Perché i cristiani devono credere e sperare in cose impossibili…”
“Un’opzione rischiosa ma al contempo feconda è stata quella scelta da Alberto Melloni… che ha individuato «Le cinque perle di Giovanni Paolo II» (Mondadori), cioè «i gesti di Wojtyla che hanno cambiato la storia», come recita il sottotitolo… mi sembra che la «perla» chiave che ha in sé la capacità di suscitare le altre sia proprio la prima: la valorizzazione del Vaticano II…”
“da Papa Wojtyla può venire un messaggio anche per la festa del lavoro. Per cui si può ben immaginare e auspicare un filo diretto che da Piazza S. Pietro giunge a Piazza S.Giovannni.”
“Tra i motivi di grande attualità dell’azione svolta da Giovanni Paolo II c’è soprattutto il tema dell’accoglienza. (…) Una lezione tanto piu utile e necessaria oggi che anche nella comunità ecclesiale, sul tema immigrazione, non tutte le sensibilità sono armonizzate, vista anche la contiguità, assai discutibile, con alcune posizioni politiche. (…)

 

29 aprile 2011

 

Per “essere in comunione con Roma”, “essere presenti”, “rendere omaggio” o semplicemente “dire grazie a Giovanni Paolo II” … numerosi momenti di preghiera e celebrazioni ritrasmesse su grandi schermi… Dediche di vie, centri pastorali, vetrate di chiese… statue (di m. 1,30 a Neudorf, m. 1,80 a Aix, di m. 3 a Fourvière, di m. 3,80 a Parigi…) … e anche un flash-mob di danza…
Gli “anni di Giovanni Paolo II” restano per molti cattolici sinonimo di dinamismo e fierezza. “Beatificando rapidamente Giovanni Paolo II, il Vaticano si sforza di riattivare quel momento di grazia che si è da allora assopito, sottolinea Portier. Bisogna ricordarsi che, dopo il pontificato depressivo di Paolo VI, quello di Giovanni Paolo II ha mostrato che la Chiesa poteva ancora essere piena di vitalità, sicura di se stessa, capace di guadagnare punti sullo scacchiere demografico e politico”
“Almeno in due campi – predicazione della pace e rapporto con le religioni non cristiane – Papa Wojtyla è andato in avanscoperta, oltre le indicazioni che erano venute dal Vaticano II. Quando i due temi coincidevano – come nelle tre «giornate» interreligiose di Assisi: 27 ottobre 1986, 9-10 gennaio 1993, 24 gennaio 2002 – egli si affidava al genio dei gesti simbolici.”
“Il malessere della Chiesa si è aggravato a causa del fatto che essa non ha accettato di cambiare. Piuttosto essa è regredita nell’utero materno, si è aggrappata alla Roccia Polacca per non avere le vertigini. Il rischio è che questa beatificazione si trasformi, nella gestione di alcuni settori cattolici identitari, in un tentativo di riprodurre il wojtylismo e dunque il nuovo regime di cristianità oltre Wojtyla, bloccando ulteriormente i cambiamenti. A meno che Benedetto XVI non trovi il coraggio di rovesciare il piatto”

 

28 aprile 2011

 

“i santi, tutti i santi, sono uomini e come tali non possono essere perfetti”. Sbaglia dunque il Vaticano che da tempo cerca di staccare Wojtyla dal suo pontificato: “Impossibile staccare l’uomo dalle sue azioni” e per questo Wojtyla va beatificato.
Il 1 Maggio Giovanni Paolo II verrà beatificato: due voci opposte a confronto. ” Io considero Karol Wojtyla il più grande oscurantista del XX secolo. …. Il nemico è l’illuminismo: questo è il filo rosso di tutta la sua predicazione. La presunzione, mostruosa secondo lui, che l’uomo prenda in mano il proprio destino prescindendo dall’obbedienza a Dio”(Flores D’Arcais “Nella memoria popolare,…, non attecchisce l’idea del papa oscurantista. Ha aperto nuovi orizzonti al cattolicesimo. Il rapporto con gli ebrei: …. Ha posto con forza la questione dei diritti sindacali sul finire del secolo XX, specie dopo la caduta del comunismo… L’autocritica sugli errori del passato …”(Politi)
“C’è chi dice che è stato fatto beato troppo presto. Concorda? «aspettare uno o due anni in più non avrebbe molto significato. Esiste nei confronti di Wojtyla un certo revisionismo: la sua grandezza scandalizza la stretta misura sia di alcuni laici sia di alcuni ecclesiastici. Per altro verso, lui si è sempre sentito un uomo del Concilio Vaticano II, come è evidente anche dal suo testamento»”

L’acqua del Vangelo e la dittatura dell’apparenza

 

Per riflettere insieme in questo giorno di Pasqua parto da alcune frasi del romanzo «Il nomade» (Feeria 2010) di Giuliano Agresti, l’Arcivescovo di Lucca che è scomparso nel 1990 lasciando in quanti lo conobbero il ricordo di una fede e di una carità vissute fino alla misura della santità.

Il protagonista del racconto è un uomo che nella maturità dell’esistenza decide di vivere da nomade, muovendosi su una povera bicicletta e facendo il mestiere di arrotino, forte solo della sua fede in Dio e del suo bisogno di libertà.

 

L’essersi fatto nomade non gli impedisce di seguire le vicende del suo tempo – l’Italia degli anni di piombo – e di portarne le stigmate nel cuore. «Gli doleva – afferma il racconto, chiaramente autobiografico – soprattutto una società presaga di ulteriori sfasci, involuzioni, tempi neri e che non trovava la forza morale di essere diversa. In questo più ancora lo provava lo spengimento mediocre dei credenti, dediti al piccolo cabotaggio, mentre negavano la profezia. Si sentiva addosso la suggestione dell’impotenza. Lo avrebbe reso cinico se non avesse avuto il suo “Dio familiare”».
Queste parole mi sembrano di un’impressionante attualità e danno ragione del tema che ho scelto di proporre alla riflessione comune in questa Pasqua: la profezia e il rischio della sua negazione.
La testimonianza biblica è concorde sul fatto che la profezia non s’inventa, non è frutto di carne o di sangue, né tanto meno è un atteggiamento legato al prurito di novità o al desiderio di farsi strada. Si è profeti per dono dall’alto, per vocazione e missione, e si vive la profezia in umile obbedienza all’Eterno, quasi costretti, nella condizione di chi non può sottrarsi a un obbligo che lo sovrasta e che gli chiede tutto.
Lo esprime bene una storiella, frutto di fantasia, eppure carica di verità. Un umile fedele, ricco di carità e amico del vero, muore e si presenta al cospetto di Dio. L’Eterno lo accoglie alla Sua presenza e dopo averlo a lungo scrutato dall’alto del suo trono, gli dice: «Sai che sei stato un profeta?». Lui risponde: «Signore, non me n’ero mai accorto!». Lo spirito profetico è dono ricevuto, e si vive nella docilità di un cuore umile e di una vita donata.
Che cos’è dunque la profezia? Spesso si pensa che essa sia un guardare in avanti, anticipando gli eventi. In realtà, nella Bibbia profezia vuol dire guardare la storia dalla fine, vederla cioè nella luce di Dio e misurarla sulle esigenze della Sua verità e del Suo amore infinito. Come ci fa capire l’Apocalisse – vera teologia della speranza sotto forma di teologia della storia – sguardo profetico è quello che riferisce tutto al sovrano e ultimo giudizio dell’Eterno. Per la fede cristiana rivelatore di questo giudizio d’assoluto amore è il Cristo: è in lui che apparirà la verità su ogni cuore, «e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto».
Lui solo è l’Amen, «l’Alfa e l’Omega, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!». “Amen” richiama in ebraico la parola emet, che vuol dire sia verità che fedeltà, perché nella mentalità biblica la verità è un rapporto di alleanza, una fedeltà che non va mai tradita. La parola emet è composta da tre consonanti, “alef”, “mem” e “tau”, che sono rispettivamente la prima lettera dell’alfabeto ebraico, quella centrale e l’ultima: l’inizio, il centro e il compimento del mondo, che nelle parole viene rappresentato.
Si capisce allora come Gesù, «Alfa e Omega, Colui che è, che era e che viene», sia per chi crede la verità – fedeltà di Dio, nella cui luce tutto va vagliato nel suo autentico valore. Come Lui il profeta è testimone della verità, pronto a dirla anche quando fosse rischioso o risultasse perdente secondo la logica mondana.
Come Gesù è profeta chi annuncia la buona novella ai poveri qui e ora e proclama la liberazione ai prigionieri e la vista ai ciechi, contagiando la libertà agli oppressi e la grazia ai peccatori oggi.
Nega, invece, la profezia chi guarda ai poveri – per esempio agli immigrati che fuggono dalla disperazione e bussano alle nostre porte – solo come a un problema o a un fastidio da evitare; chi considera i prigionieri delle schiavitù del nostro tempo – drogati, alcolisti, dipendenti dalle alienazioni prodotte dal mondo virtuale della rete – solo come colpevoli che si sono cercati la loro punizione, senza muovere un dito per aiutarli; chi giudica la cecità e lo smarrimento di tanti come la conseguenza inevitabile di loro scelte sbagliate, e non si adopera a testimoniare con amore la luce; chi, insomma, agli oppressi non s’impegna a dire una parola di speranza e a donare una possibilità di
liberazione. Parimenti, nega la profezia chi non chiama per nome il male, chi chiude gli occhi di fronte allo scandalo dato specialmente dai potenti moralmente corrotti e non ne denuncia l’intollerabilità in nome di un calcolo politico, di un volgare interesse.
Lo «spengimento mediocre dei credenti, dediti al piccolo cabotaggio, mentre negano la profezia» può riguardare, insomma, tutti, specialmente quanti dovrebbero proporsi come guide affidabili del popolo, lampade poste a illuminare la via. Il rischio è che non scorra più limpida l’acqua del Vangelo, e che possa un giorno venir imputato a quanti non danno voce alla verità di essere stati conniventi con un potere malato, con la dittatura dell’apparenza.
L’augurio che faccio a me e a tutti noi, credenti e non credenti appassionati al bene comune, è pertanto quello di un’autentica libertà di cuore, di una lungimiranza evangelica, di una capacità di pensare in grande, per sognare il sogno di Dio ed essere pronti a pagare il prezzo più alto perché esso prenda corpo nella vita degli uomini. Lo formulo con le parole di un cristiano d’altri tempi, che seppe credere nella forza della profezia di Gesù e la visse fino in fondo, pagando con la vita il coraggio della sua testimonianza: Tommaso Moro. Lord Cancelliere del Re d’Inghilterra, andò incontro al martirio pur di non rinnegare la propria coscienza piegandosi ai soprusi del sovrano o facendosi connivente con la sua vita corrotta.
Prigioniero nella Torre di Londra in attesa dell’esecuzione, scrisse tra l’altro queste parole: «Dammi la Tua grazia, Signore buono, per stimare un nulla il mondo, per aggrapparmi a Te con la mente e non dipendere dalla bocca degli uomini, per camminare nella via stretta che conduce alla vita e ritenere un niente la perdita della ricchezza del mondo, degli amici, della libertà, della vita, onde possedere Te».

*Arcivescovo di Chieti-Vasto

in “Il Sole 24 Ore” del 24 aprile 2011

Il senso della Pasqua per chi non crede


 

La vita nella Pasqua si mostra più forte della morte

Mentre il Natale suscita istintivamente l’immagine di chi si slancia con gioia (e anche pieno di salute) nella vita, la Pasqua è collegata a rappresentazioni più complesse. È la vicenda di una vita passata attraverso la sofferenza e la morte, di un’esistenza ridonata a chi l’aveva perduta.

 

Perciò, se il Natale suscita un po’ in tutte le latitudini (anche presso i non cristiani e i non credenti) un’atmosfera di letizia e quasi di spensierata gaiezza, la Pasqua rimane un mistero più nascosto e difficile. Ma tutta la nostra esistenza, al di là di una facile retorica, si gioca prevalentemente sul
terreno dell’oscuro e del difficile.

Penso soprattutto, in questo momento, ai malati, a coloro che soffrono sotto il peso di diagnosi infauste, a coloro che non sanno a chi comunicare la loro angoscia, e anche a tutti quelli per cui vale il detto antico, icastico e quasi intraducibile, senectus ipsa morbus , «la vecchiaia è per sua natura una malattia ». Penso insomma a tutti coloro che sentono nella carne, nella psiche o nello spirito lo stigma della debolezza e della fragilità umana: essi sono probabilmente la maggioranza degli uomini e delle donne di questo mondo. Per questo vorrei che la Pasqua fosse sentita soprattutto come un invito alla speranza anche per i sofferenti, per le persone anziane, per tutti coloro che sono
curvi sotto i pesi della vita, per tutti gli esclusi dai circuiti della cultura predominante, che è (ingannevolmente) quella dello «star bene» come principio assoluto. Vorrei che il saluto e il grido che i nostri fratelli dell’Oriente si scambiano in questi giorni, «Cristo è risorto, Cristo è veramente risorto», percorresse le corsie degli ospedali, entrasse nelle camere dei malati, nelle celle delle prigioni; vorrei che suscitasse un sorriso di speranza anche in coloro che si trovano nelle sale di attesa per le complicate analisi richieste dalla medicina di oggi, dove spesso si incontrano volti tesi,
persone che cercano di nascondere il nervosismo che le agita.

 

La domanda che mi faccio è: che cosa dice oggi a me, anziano, un po’ debilitato nelle forze, ormai in lista di chiamata per un passaggio inevitabile, la Pasqua? E che cosa potrebbe dire anche a chi non condivide la mia fede e la mia speranza? Anzitutto la Pasqua mi dice che «le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi» (Rom 8,18). Queste sofferenze sono in primo luogo quelle del Cristo nella sua Passione, per le quali sarebbe difficile trovare una causa o una ragione se non si guardasse oltre il muro della morte. Ma ci sono anche tutte le sofferenze personali o collettive che gravano sull’umanità, causate o dalla cecità della natura o dalla cattiveria o negligenza degli uomini. Bisogna ripetersi con audacia, vincendo la resistenza interiore, che non c’è proporzione tra quanto ci tocca soffrire e quanto attendiamo con fiducia. In occasione della Pasqua vorrei poter dire a me stesso con fede le parole di Paolo nella seconda Lettera ai Corinzi: «Per questo non ci scoraggiamo, ma anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo,
leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d’un momento, quelle invisibili sono eterne». Tutto questo richiede una grande tensione di speranza.

Perché, come dice ancora san Paolo, «nella speranza noi siamo salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza» (Rom 8,24). Sperare così può essere difficile, ma non vedo altra via di uscita dai mali di questo mondo, a meno che non si voglia nascondere il volto nella sabbia e non voler vedere o pensare nulla.

Più difficile è però per me esprimere che cosa può dire la Pasqua a chi non partecipa della  mia  fede ed è curvo sotto i pesi della vita. In questo mi vengono in aiuto persone che ho incontrato e in cui ho sentito come una scaturigine misteriosa, che le aiuta a guardare in faccia la sofferenza e la morte anche senza potersi dare ragione di ciò che seguirà. Vedo così che c’è dentro tutti noi qualcosa di quello che san Paolo chiama «speranza contro ogni speranza» (Lettera ai Romani, 4,18), cioè una volontà e un coraggio di andare avanti malgrado tutto, anche se non si è capito il senso di quanto è avvenuto. È così che molti uomini hanno dato prova di una capacità di ripresa che ha del miracoloso. Si pensi a tutto quanto è stato fatto con indomita energia dopo lo tsunami del 26 dicembre 2004 o dopo l’inondazione di New Orleans provocata dall’uragano Katrina nell’agosto successivo. Si pensi alle energie di ricostruzione che sorgono come dal nulla dopo la tempesta delle guerre. Si pensi alle parole che la ventottenne Etty Hillesum scrisse il 3 luglio 1942, prima di essere portata a morire ad Auschwitz: «Io guardavo in faccia la nostra distruzione imminente, la nostra prevedibile miserabile fine, che si manifestava già in molti momenti ordinari della nostra vita quotidiana. È questa possibilità che io ho incorporato nella percezione della mia vita, senza sperimentare quale conseguenza una diminuzione della mia vitalità. La possibilità della morte è una presenza assoluta nella mia vita, e a causa di ciò la mia vita ha acquistato una nuova dimensione».

Per queste cose non ci si può affidare alla scienza, se non per chiederle qualche strumento tecnico: al massimo essa permette un debole prolungamento dei nostri giorni.
L’interrogativo è invece sul senso di quanto sta avvenendo e più ancora sull’amore che è dato di cogliere anche in simili frangenti. C’è qualcuno che mi ama talmente da farmi sentire pieno di vita persino nella debolezza, che mi dice «io sono la vita, la vita per sempre». O almeno c’è qualcuno al quale posso dedicare i miei giorni, anche quando mi sembra che tutto sia perduto. È così che la risurrezione entra nell’esperienza quotidiana di tutti i sofferenti, in particolare dei malati e degli anziani, dando loro la possibilità di produrre ancora frutti abbondanti a dispetto delle forze che vengono meno e della debolezza che li assale. La vita nella Pasqua si mostra più forte della morte ed è così che tutti ci auguriamo di coglierla.

 

in “Avvenire” del 15 aprile 2011

Coerenti con se stessi e con Dio

 

 

a colloquio con Arturo Paoli

 

Che cosa significa essere autentici?
L’autenticità è la prima qualità della persona. Autentici equivale a veri. Fin dall’infanzia la realtà ci inclina a degli adattamenti: la mamma è una donna debole e quindi quando voglio ottenere qualcosa da lei so come fare perché il no diventi sì; il papà è un uomo che si arrabbia ed è arrivato a picchiarmi. Così imparo a nascondergli quello che penso, dico e faccio. Crescendo mi rendo conto che questa è la legge del vivere sociale. Mi avvicino alla autenticità quando un grande ideale dirige le mie energie interiori e le concentra in un punto. Non conosco una definizione della persona
autentica migliore di quella data da Paolo nella lettera agli Efesini (4,15): fare la verità nell’amore.

 

Come ci si educa all’autenticità?
Ci si educa attraverso la fedeltà. Io credo che l’autenticità sia un valore religioso nel senso che la prima coerenza dobbiamo averla con Dio, che non si può ingannare. Questo non vuol dire non commettere peccati perché dobbiamo sempre riconoscere la nostra fragilità e la nostra debolezza, ma quando non vi è coerenza tra ciò che siamo e ciò che appare di noi è la prova che non amiamo seriamente le persone che ci circondano. È il fallimento della vita, E purtroppo capita spesso.

 

Ma esiste la possibilità di cambiare?
Penso che la Chiesa allontani le persone per la sua eccessiva intransigenza su certi principi che la persona non è in condizione di seguire. Non significa lasciar andare le cose, ma accettare la debolezza della persona umana, invece di respingerla attraverso l’affermazione intransigente dei principi cristiani. Il nostro fratello Giorgio Gonella, nel suo libro sul deserto, ha scritto un bellissimo capitolo sulla misericordia di Dio: Dio non dice va tutto bene, ma il suo atteggiamento è espresso perfettamente dall’episodio di Gesù in casa del fariseo quando entra la donna peccatrice. Il
fariseo si scandalizza, gli dice: se tu conoscessi questa donna, Gesù in effetti la conosce ma conosce anche il suo dolore, la sua sofferenza, il suo pianto che ha una forza di conversione e trasformazione della sua vita che lei stessa non si aspettava. Certamente ci sono ambienti in cui si è facilmente trascinati dal negativo, ma c’è sempre la possibilità del ritorno che cancella il passato, una possibilità di cambiamento.

 

A proposito di luoghi dove cercare la propria autenticità: tu sei stato diverse volte a Romena,
che impressione ne hai ricavato?
Una impressione ottima perché la forza di aggregazione che ha don Gigi è piuttosto singolare, ed essa si deve alla sua ampiezza di vedute, alla sua libertà di accoglienza per cui la persona sente di andare in un luogo che non lo costringe ad assumere forme inautentiche. Come lui ho sempre desiderato che la gente venga, veda, che non sia obbligata ad assumere atteggiamenti diversi da quelli della vita ordinaria. Tra le tante iniziative che propone ce n’è una molto bella, che ho conosciuto da poco, che è consolare le persone che hanno avuto lutti gravi, perdite laceranti, e che
ricevono realmente molto conforto.

 

Quale contributo può offrire una realtà come Romena alla chiesa e alla società?
La Chiesa può ricevere una grande ricchezza: la rinascita della fede da parte di molte persone che sono vissute per anni trascurando la fede e che si riavvicinano perché trovano un ambiente familiare, fatto di semplicità e autenticità a cui possono aderire con entusiasmo.

 

*Silvia Pettiti, giornalista, ha recentemente pubblicato una bella biografia di Arturo Paoli raccontando i suoi 98 anni di vita spesi per gli altri, specie per i poveri delle favelas del Sudamerica. Il libro si intitola “Ne valeva la pena”, Edizioni Paoline.

 

in “http://www.romena.it/” dell’aprile 2011

 

 

Enzo Bianchi: Una vita da priore

La campana a Bose suona alle 5.30. Prima un tocco, sospeso nel vuoto. E poi altri, con le campane
che diventano due, a rincorrersi, veloci. È tempo di svegliarsi. I monaci svegli lo sono già, da un’ora.

 

 

Accendono la lampada alle 4.30 e cominciano la giornata con una lectio divina: leggono, meditano, pregano, scrivono, studiano, ridono o piangono nel segreto delle loro celle. «Dall’aurora io ti cerco», dice un verso di un salmo che cantano assieme all’alba nella chiesa al centro del monastero. Nei loro abiti bianchi i monaci siedono nella navata sinistra della chiesa. Le monache con gli stessi abiti e il cappuccio sul capo siedono dall’altro lato. Sono un’ottantina. Al centro c’è un leggio con una bibbia aperta. In fondo il crocifisso e il tabernacolo. Sopra, dalle  finestre, si intravedono nel buio i contorni innevati dei monti del biellese: Mucrone, Mars, Camino.
Bose è un gruppo di case di campagna, un tempo abbandonate, sulle colline piemontesi, tra campi chiazzati, filari di larici, betulle, un bosco di abeti e di cipressi. L’unico rumore, in questi giorni, è quello della neve che si scioglie, l’acqua scorre nelle gronde e nei canali. Alle 8 del mattino, dopo la fine di quello che qui chiamano il Grande silenzio – inizia la sera prima alle 20 dopo la cena – ognuno comincia la propria attività. Tutti hanno un lavoro da svolgere. E lo fanno con cura, con un ordine che sembra prestabilito. Nessuna cosa viene imposta. C’è un senso di libertà e di quiete. «Se vai in capo il mondo, trovi le tracce di Dio. Se scendi nel tuo profondo, trovi lo stesso Dio» è scritto nel foglio del monastero che accoglie gli ospiti.
Enzo Bianchi, 68 anni, per tutti qui “il priore”, ha uno sguardo profondo, la barba lunga bianca su un corpo di quercia. «Sono un figlio della cultura contadina» del Monferrato e delle Langhe. Il suo ultimo libro Ogni cosa alla sua stagione (Einaudi,130 pagine 17 euro) ha venduto in poche settimane oltre 130mila copie. Parla di ricordi, di terra, di spiritualità nascosta nelle persone semplici, di vecchiaia, di vita monastica e di ascesi. Successo editoriale curioso, in un paese come l’Italia dove si legge poco e il volume in cima alle classifiche di vendita è un manuale di ricette di cucina. «Ha stupito anche me questo successo. C’è un forte bisogno di profondità, di cose vere».
Il suo rapporto con la scrittura è strettamente legato alla vita monastica. «La mia scrittura nasce dal silenzio. Ho una cella nel bosco dove regna un grande silenzio e questo mi aiuta molto a dosare le parole, a discernere e a capire… Se non avessi ore e ore di silenzio sarei incapace di parlare e di scrivere».
Quando ha cominciato la vita a Bose, nel 1965, l’anno della fine del Concilio Vaticano II, era solo.
Studente di economia e commercio all’Università di Torino, aveva formato un gruppo di preghiera «ecumenico, prima ancora del concilio» con altri giovani cattolici, valdesi, ortodossi. «Sentivamo il bisogno di far coincidere la spiritualità cristiana e l’umanità». La svolta avviene nel 1965 quando trascorre tre mesi in Francia a fianco dell’Abbé Pierre. «Vivevamo in una catapecchia vicino al fiume, alla periferia di Rouen: io, l’Abbé Pierre, Dominique, un fratello laico, assieme a clochard, ex legionari, ex carcerati. Svuotavamo cantine, raccoglievamo stracci e li  vendevamo». Tornato a Torino non era più lo stesso. «Volevo continuare a vivere così: una vita cristiana radicale». All’inizio erano in quattro, ma rimase subito solo: uno dei compagni perse la fede, due ragazze decisero di sposarsi.
«Mio padre diceva che ero pazzo». Pazzo di Dio.
Nella prima casupola di Bose non c’era l’elettricità, né riscaldamento o acqua calda. Solo una stufa a legna durante i lunghi inverni, l’orto, le traduzioni dal francese per mantenersi e la vita monastica, in solitudine. Per tre anni. «In quel periodo ho toccato con mano quanto sia difficile l’arte di abitare con se stessi. La mia vita era come è adesso, con la liturgia delle ore, il silenzio e il lavoro. Durante l’inverno restavo lunghi mesi da solo senza vedere nessuno. Il sabato e la domenica, nella bella stagione, qualcuno veniva su a trovarmi. Le giornate erano lunghe ma piene. Avevo trovato una ragione per spendere la vita. Non desideravo altro… Quando ci ripenso ho nostalgia di quel tempo».

L’esperienza di Bose, per niente mondana, ha un qualche successo, lo dimostrano le vendite del suo
libro e le 18mila persone che ogni anno vengono a visitare questo luogo sperduto nella campagna
piemontese. È una storia vera, di identità, di cristianesimo vissuto. «Tanta gente arriva qui, anche non
credenti. Facciamo una vita semplice. Io ho sempre cercato di creare rapporti veri, di comunicazione
sincera».
Rimpianti? No, non ci sono, ricordi piuttosto. «Adesso, con l’età che avanza, si comincia a guardare indietro, sempre più spesso. Quando sono nella solitudine della mia cella, alla sera, ripenso alle persone fondamentali nella mia vita: l’Abbé Pierre, Roger Schutz, Atenagora, ma anche ad alcune persone semplici che sono state importanti nel mio cammino». Nel libro racconta la storia di Teresina del Muchèt. Una donna che viveva sola sul pianoro ai bordi del paese natio, con la compagnia dei suoi animali «ed emanava un odore acre, un misto di stalla, di pecora, di sudore».
Parlava poco Teresina ma quando lo faceva era piena di sapienza, «poche frasi che coglievano sempre nel segno». Tra le pagine scorre anche la storia di Cocco ed Etta, la postina e la maestra del paese. Due donne non sposate, che vivevano insieme dandosi del lei, e che dopo h morte della madre lo hanno cresciuto alla vita, trasmettendogli valori e tolleranza.
«Ho avuto la grazia di trovare chi credeva in me. Avere qualcuno che crede in noi è decisivo  affinché possiamo a nostra volta credere negli altri, è determinante per riuscire a trovare senso nella vita».
Se oggi dovesse lasciare questa terra e le si chiedesse una parola, l’ultima, da lasciare ai suoi, un testamento racchiuso in una parola, cosa direbbe?: «Direi questo: ascoltate. Imparate ad ascoltare.
Per me è la cosa più importante. L’unica cosa che vorrei che si dicesse di me quando non ci sarò più è: “Era un uomo che ascoltava”».

 

in “Il Sole-24 Ore” del 27 marzo 2011

Il segreto di Gesù

1. Vogliamo vedere Gesù

 

 

Vogliamo vedere Gesù.” (Gio 12, 21). Era di fronte a loro, l’uomo, Gesù.

Non era che un uomo, canta Maria Maddalena nel film Jesus Christ Superstar;

e l’armonia sorprendente di quel canto ha attraversato, qualche anno addietro, le Contrade del mondo.

Non era che un uomo… Ma l’affermazione torna carica di evocazione e di mistero.

Non era che un uomo quando, entrato di sabato nella sinagoga, vi trova un uomo dalla mano inaridita: ‘e lo osservavano per vedere se lo guariva in giorno di sabato e poi accusarlo…

– mettiti nel mezzo.

– è lecito in giorno di sabato fare il bene o il male, salvare una vita o toglierla?

– Ma essi tacevano.

– E guardandoli tutt’intorno, con indignazione, rattristato per la durezza dei loro cuori,

disse a quell’uomo:

– stendi la mano!

– la stese e la sua mano fu risanata. (Cfr. Marco, 3, 1 e ss.)

Non era che un uomo quando la morte dell’amico lo sorprende.

– Se fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto, suona carica di amarezza la voce

della Sorella…

– Tuo fratello risusciterà!

– So che risusciterà nell’ultimo giorno.

– Io sono la risurrezione e la vita. …

E, detto questo, gridò a gran voce: Lazzaro, vieni fuori!

E il morto uscì con i piedi e le mani avvolti in bene e il volto coperto da un sudario.

Gesù disse loro: Scioglietelo e lasciatelo andare.

Non era che un uomo quando gli portano una donna colta in flagrante adulterio e insinuano: Mosé, nella legge, ci ha ordinato di lapidare donne come questa.

Tu che ne dici?

Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra.

E sulla loro insistenza:

– Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra contro di lei.

E chinatosi di nuovo, scriveva per terra.

Ma quelli, udito ciò, se ne andarono, uno per uno, cominciando dai più anziani, fino agli ultimi.

– Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?

– Nessuno, Signore.

– Neanch’io ti condanno; va’ e non peccare più.

Non era che un uomo quando umiliato  e vilipeso, sfigurato dal dolore, rivendica alta e sovrana la sua dignità.

– una delle guardie diede uno schiaffo a Gesù, dicendo: così rispondi al sommo sacerdote?

Gli rispose Gesù: “ Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?” (Gio. 18, 22-23)

– e al potente di turno che presume di avere ogni potere su di lui, ricorda:

“Tu non avresti alcun potere su di me se non Ti fosse stato dato dall’alto. Per questo chi mi ha consegnato nelle tue mani ha una colpa più grande.” (Gio.19, 11)

Non era che un uomo?

Il centurione romano lo accompagna, scorta d’onore, fino alla croce. Lo vede morire di una morte atroce, come può morire un uomo.

E tuttavia vedendolo spirare in quel modo, come nessun uomo muore, disse: “Veramente quest’uomo era figlio di Dio!” (Mc 15, 39).

Allora i Greci avevano ragione: volevano vedere Gesù. I suoi i gesti e le sue parole rivelavano, ma contemporaneamente nascondevano chi era veramente Gesù.

Dietro il volto palese e fascinoso si sottraeva la vera figura del Maestro:

restava nascosto il segreto di Gesù

 

RPR    10 marzo ’11

Mons. Rouet, i laici e le lezioni del Vaticano II

Domenica 13 febbraio la diocesi di Poitiers ha festeggiato il commiato di colui che è stato il suo pastore per 17 anni.
L’eco suscitata dalle dimissioni di Albert Rouet per raggiunti limiti di età (75 anni) va al di là dell’ordinario.
L’uomo simboleggia un modello di prelato oggi raro, di quelli che vanno oltre la semplice fedeltà formale allo spirito del Vaticano II.
“È succeduto a due vescovi dinamici.
Non è un vescovo che esce dal nulla”, spiega tuttavia Marc Taillebois, direttore della comunicazione della diocesi e iniziatore dell’opera Vous avez fait de moi un évêque heureux.
La diocesi di Poitiers ha infatti puntato da molto tempo sulla formazione dei laici creando, dal 1974, un Centro teologico per accompagnare il cambiamento della Chiesa (abbandono di preti, emersione dei laici) e prestare attenzione alla società.
Mons.
Rouet resterà per molti come colui che ha osato uscire dalla struttura tradizionale “una parrocchia – un prete”, organizzando, dal 1995, delle “comunità locali”.
Una équipe di cinque delegati pastorali laici per cinque funzioni – annuncio della Parola, preghiera, carità, finanza e coordinamento – accompagnata da un prete.
“Nessuno sapeva in che direzione stavamo andando, ricorda Éric Boone, oggi direttore del Centro teologico diocesano.
Le reazioni erano tutte positive.
Proponevamo uno strumento di rivitalizzazione delle campagne.
E i laici erano sorpresi nel rendersi conto che la Chiesa aveva bisogno di loro.” “Padre Rouet ha una concezione paolina della missione: i carismi, i ruoli di tutte le membra del corpo…”, precisa Marc Taillebois.
Quindi, la governance nella diocesi di Poitiers si intende sinodale.
“Il Consiglio pastorale diocesano è chiamato a decidere insieme.
L’arcivescovo non impone.” corresponsabilità Invitati da un prete e dai delegati precedenti, Nathalie e Thierry Durouchoux iniziano il loro secondo mandato di tre anni di delegati pastorali per una comunità del centro città a Poitiers.
“Non intendiamo questo ruolo come una buona azione.
Viviamo veramente la corresponsabilità tra preti e laici.
In altre diocesi, i cristiani si riuniscono attorno a un prete.
Qui, è la comunità che si riunisce e il prete viene a raggiungerla.” Questo modo poco comune (in ambiente cattolico) di concepire l’azione pastorale non è però un’invenzione del vescovo.
“Padre Rouet ha semplicemente preso molto sul serio il Concilio e la dignità battesimale dei fedeli”, riassume Éric Boone.
Mentre tutti i suoi colleghi prelati sono oberati di lavoro e di preoccupazioni, Albert Rouet si prende il tempo di leggere i giornali, di incontrare degli eletti, di interessarsi a mille cose.
Marc Taillebois riassume: “È vescovo di Poitiers per tutti gli abitanti della Vienne e delle Deux-Sèvres”, nel senso che si rivolge “agli uomini di buona volontà”, secondo l’espressione cara a Giovanni XXIII.
Personalità atipica, Albert Rouet sa far venire accanto a sé le persone giuste per il suo progetto.
“L’ho conosciuto quando era vescovo ausiliare a Parigi.
Sono venuto a Poitiers per lui”, racconta Marc Taillebois.
Stessa avventura per Isabelle Parmentier, che lavorava per un’altra diocesi.
“Mi ha proposto un impiego, che ho rifiutato.
Allora ne ha creato un altro, per farmi venire!”, racconta questa teologa che occupa un posto “trasversale” a servizio della Parola, intervenendo un giorno nelle comunità locali, il giorno dopo in un servizio diocesano o in un movimento.
Quando non predica un ritiro per i preti.
“Sono venuta per servire i suoi orientamenti pastorali.
E sto vivendo gli anni più belli del mio impegno di cristiana.” A sentire i suoi collaboratori, il lavoro accanto all’arcivescovo di Poitiers è un piacere.
“Governa con la fiducia, spiega la teologa Isabelle Parmentier.
Poiché crede in Dio, crede profondamente nell’Uomo, senza aver paura delle sue debolezze, né delle proprie.
Ci spinge alla creatività, all’inventiva.” Scelte Perché mai il laboratorio di Poitiers – visitato in questi ultimi anni da emissari di più di 70 diocesi francesi ed estere! – non ha avuto emuli (o forse pochissimi)? “Il progetto corrisponde ad un territorio, a una storia.
Non è replicabile, assicura Marc Taillebois, che fa notare che esistono altre esperienze.
La diocesi di Poitiers ha istituzionalizzato una struttura, l’ha codificata.
Noi l’abbiamo fatto per scelta, non per mancanza di preti.” A forza di sentire l’antifona “Eh, voi a Poitiers siete fortunati”, il direttore della comunicazione frena gli entusiasmi.
“Vediamo le fragilità”, dice pensando alla decina di preti che hanno rifiutato il sistema, vivono da elettroni liberi e sono felici di veder arrivare domani un “vero vescovo”.
Il futuro immediato preoccupa coloro che vivono pienamente l’avventura.
“Certi tremano, altri sperano”, riassume Marc Taillebois, che assicura che il solco tracciato in questi quarant’anni non  potrà essere cancellato da un nuovo prelato.
Non foss’altro per il fatto che migliaia di laici (1) preparati e abituati alle responsabilità non si lascerebbero sottomettere senza reagire.
“Coloro che si sono lanciati nell’avventura sono convinti dei benefici.
Lo spirito delle comunità locali ha dato impulso a delle abitudini che resteranno”, assicura Nathalie Durouchoux.
Questo cambiamento è una vera sfida per Isabelle Parmentier: “Per difendere quello che abbiamo vissuto, ci crediamo abbastanza? Sapremo adattarlo al nuovo vescovo e al mondo che si muove?” Il mio ministero è fecondo ma non redditizio”, riconosce la teologa che sa che le realtà finanziarie possono essere fatali al suo posto di lavoro.
“Ma questa funzione, tutta al servizio delle relazioni, resterà profetica.” Proprio come il ministero di un vescovo fuori del comune.
(1) Cinque delegati in 320 comunità locali, certe create 15 anni fa, e nominati per tre anni.
intuizioni e convinzioni Albert Rouet, Vous avez fait de moi un évêque heureux, intervista con Marc Taillebois e Éric Boone, éd.
de l’Atelier.
Due anni dopo il successo di J’aimerais vous dire (Bayard), Albert Rouet presenta un’ultima testimonianza sui 17 anni che hanno profondamente segnato la sua diocesi.
Interrogato da due collaboratori laici vicini a lui, Marc Taillebois e Éric Boone, il vescovo di Poitiers rivisita lungamente le linee fondamentali della sua azione pastorale.
Si comprendono meglio le concezioni che hanno dato vita alle famose comunità locali, e le sue convinzioni sul ministero dei preti (“il problema non è il loro numero, ma per fare che cosa”) o l’impegno nel mondo (“la vera contrapposizione non è tra lo spirituale e il sociale, ma tra impegnati e sonnolenti”).
Senza mai porsi come uno che fa lezione, Albert Rouet spiega semplicemente come ha organizzato la sua diocesi per “dare gusto alla vita cristiana”.
Un libro istruttivo e di facile lettura.
in “www.temoignagechrétien.fr” del 19 febbraio 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)