Carlo Carretto, dall’azione cattolica al deserto

Un incontro a Spello e Foligno su una delle figure laicali la cui spiritualità e fedeltà al vangelo sono state e sono fonte di ispirazione di molte generazioni 

 

Nella sua Spello si svolge una due giorni dedicata alla luminosa figura di Carlo Caretto (Alessandria, 2 aprile 1910 – Spello, 4 ottobre 1988), uno dei grandi protagonisti della vita della Chiesa e della società del Novecento.

 

L’appuntamento è promosso dall’Azione cattolica italiana, dalla diocesi di Foligno, dai Piccoli Fratelli di Jesus Caritas e dai Piccoli Fratelli del Vangelo, dall’Istituto per la storia dell’Azione cattolica e del movimento cattolico in Italia “Paolo VI” (Isacem) e dalle amministrazioni territoriali. 

Luoghi dei lavori la città di Foligno e la “Casa San Girolamo” di Spello, il complesso residenziale presso il quale si trova la tomba dell’autore di “Lettere dal deserto” che l’Azione cattolica propone a chi intenda fare un’esperienza intensa e fraterna di contemplazione, discernimento e vita spirituale sulle orme di “Fratel Carlo”.

 

Il tema scelto per l’incontro vuole richiamare lo stretto legame tra Caretto, il Vaticano II e la Parola, alla vigilia del cinquantesimo anniversario dell’apertura dell’assise conciliare e all’inizio dell’anno della fede proclamato da Benedetto XVI. 

Ripercorrendo la parabola religiosa e civile di un uomo che ha vissuto intensamente la sua vicenda terrena: dai vivaci anni della formazione alla partecipe attenzione alle problematiche educative, dall’intenso impegno nell’Azione cattolica italiana all’appassionante esperienza nel deserto algerino, dalla fondazione della fraternità dei Piccoli fratelli di Charles de Foucauld a Spello fino all’effervescente coinvolgimento nel rinnovamento post-conciliare della Chiesa.

 

In programma dei lavori prevede: un incontro pubblico con gli studenti e don Antonio Sciortino, direttore di Famiglia Cristiana; la tavola rotonda con il presidente nazionale dell’Azione cattolica, Franco Miano, il sindaco di Spello, Sandro Vitali, e il direttore Sciortino; e un momento di confronto dedicato al grande tema della pace con testimonianze e proposte dalle nostre città e dal mondo, a cui prenderanno parte il sindacalista Luciano Recchioni, lo storico Paolo Trionfini, il gesuita padra Paolo Dall’Olio e il coordinatore della “Tavola della pace” Flavio Lotti.

“Catechesi con arte”: Speciale giovani

Le Missionarie della Divina Rivelazione presentano il nuovo itinerario di arte e fede dedicato interamente alle nuove generazioni, in occasione dell’Anno della Fede

di suor Rebecca Nazzaro, 
superiora delle Missionarie della Divina Rivelazione

Amore e fede, viaggi e conversione, santità e martirio, apostoli e primato di Pietro…. Cosa vogliono dire queste parole alle menti dei giovani, o azzarderemo, ai loro cuori?

Resta forse inconcepibile oggi far coesistere fede e amore, come splendidamente, ma non senza difficoltà, fecero gli sposi Cecilia e Valeriano. O ancor più strano può sembrare parlare di San Paolo che dopo tutti i suoi viaggi per convertire i pagani, spendendo la sua intera vita per Cristo, si ritrova solo in una minuscola prigione a scrivere le ultime righe prima di partire da questo mondo verso Gesù.

Come poter parlare poi di Pietro che dal lago della Galilea si ritrova a Roma, a morire per un Uomo che aveva detto essere il Figlio di Dio e che affidò solennemente a questo povero pescatore, la Sua Chiesa?

Queste persone possono veramente dire ancora qualcosa ai giovani del terzo millennio? Hanno lasciato tutto, hanno seguito Gesù Cristo, ma non solo, lo hanno amato fino a versare il loro sangue per Lui. Cosa vuol dire tutto questo? Cosa hanno capito queste persone tanto da agire così estremamente?

L’itinerario che proponiamo ai giovani cattolici – e non solo – consiste nel cercare di dimostrare attraverso l’arte, come tutto ciò non abbia “sapore di passato”, ma di un presente proteso verso un futuro al di là di noi.

E’ proprio conducendo i nostri giovani sui luoghi dove questi Santi hanno vissuto e testimoniato la loro fede che ci daremo tutte le risposte necessarie, cercando dunque di comprendere perché questi Santi hanno ritenuto che morire per Cristo non è stata una perdita, bensì un “guadagno”!

Per maggiori informazione sulle date e gli incontri, consultare il sito: www.divinarivelazione.org

Dalla Strenna 2013: la pedagogia della bontà al servizio dei giovani

«Rallegratevi nel Signore sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi» (Fil 4:4)

 

Come Don Bosco educatore, offriamo ai giovani il Vangelo della gioia attraverso la pedagogia della bontà

 

Carissimi Fratelli e Sorelle della Famiglia Salesiana,

Dopo aver centrato l’attenzione sulla storia di Don Bosco ed aver cercato di comprendere meglio tutta la sua vita, segnata dalla predilezione per i giovani, la Strenna 2013 ha come obiettivo quello di approfondire la sua proposta educativa. Concretamente vogliamo avvicinarci a Don Bosco educatore. Si tratta quindi di approfondire ed aggiornare il Sistema Preventivo.

Anche in questo compito, il nostro approccio non è solo intellettuale. È certamente necessario, da una parte, uno studio approfondito della pedagogia salesiana, per aggiornarla secondo la sensibilità e le esigenze del nostro tempo. Oggi, infatti, i contesti sociali, economici, culturali, politici, religiosi, nei quali ci troviamo a vivere la vocazione ed a svolgere la missione salesiana, sono profondamente cambiati. D’altra parte, per una fedeltà carismatica al nostro Padre, è ugualmente necessario fare nostro il contenuto e il metodo della sua offerta educativa e pastorale. Nel contesto della società di oggi siamo chiamati ad essere santi educatori come lui, donando come lui la nostra vita, lavorando con e per i giovani.


ALLA RISCOPERTA DEL SISTEMA PREVENTIVO

Ripensando all’esperienza educativa di Don Bosco, siamo chiamati a riviverla oggi con fedeltà. Ora per una corretta attualizzazione del Sistema Preventivo, più che pensare immediatamente a dei programmi, a delle formule, o ribadire  degli “slogans” generici e buoni per tutte le stagioni, oggi il nostro sforzo sarà, anzitutto, quello di una comprensione storica del metodo di Don Bosco. Si tratta in concreto di analizzare come sia stato diversificato il suo operare per i giovani, per il popolo, per la chiesa, per la società, per la vita religiosa, e anche come diversificato sia stato il suo modo di educare i giovani del primo Oratorio festivo, del piccolo seminario di Valdocco, dei chierici salesiani e non salesiani, dei missionari. Ma si può osservare come già nel primo Oratorio di casa Pinardi fossero presenti alcune importanti intuizioni che saranno successivamente acquisite nella loro valenza più profonda di complessa sintesi umanistico-cristiana:

  1. una struttura flessibile, quale opera di mediazione tra Chiesa, società urbana e fasce popolari giovanili;
  2. il rispetto e la valorizzazione dell’ambiente popolare;
  3. la religione posta a fondamento dell’educazione, secondo l’insegnamento della pedagogia cattolica trasmessa a lui dall’ambiente del Convitto;
  4. l’intreccio dinamico tra formazione religiosa e sviluppo umano, tra catechismo ed educazione;
  5. la convinzione che l’istruzione costituisce lo strumento essenziale per illuminare la mente;
  6. l’educazione, così come la catechesi, che si sviluppa in tutte le espressioni compatibili con la ristrettezza del tempo e delle risorse;
  7. la piena occupazione e valorizzazione del tempo libero;
  8. l’amorevolezza come stile educativo e, più in generale, come stile di vita cristiana.

Una volta conosciuto correttamente il passato storico, occorre tradurre nell’oggi le grandi intuizioni e virtualità del Sistema Preventivo. Bisogna modernizzarne i principi, i concetti, gli orientamenti originari, reinterpretando sul piano teorico e pratico sia le grandi idee di fondo, sia i grandi orientamenti di metodo. E tutto ciò a vantaggio della formazione di giovani “nuovi” del sec. XXI, chiamati a vivere e confrontarsi con una vastissima ed inedita gamma di situazioni e problemi, in tempi decisamente mutati, sui quali le stesse scienze umane sono in fase di riflessione critica.

In particolare, desidero suggerire tre prospettive, analizzando più in profondità la prima di esse.

1. Il rilancio dell’ “onesto cittadino” e del “buon cristiano”

In un mondo profondamente cambiato rispetto a quello dell’ottocento, operare la carità secondo criteri angusti, locali, pragmatici, dimenticando le più ampie dimensioni del bene comune, a raggio nazionale e mondiale, sarebbe una grave lacuna di ordine sociologico ed anche teologico. Concepire la carità solo come elemosina, aiuto d’emergenza, significa rischiare di muoversi nell’ambito di un “falso samaritanesimo”.

Ci si impone pertanto una riflessione profonda, innanzitutto a livello speculativo. Essa deve estendere la sua considerazione a tutti i contenuti relativi al tema della promozione umana, giovanile, popolare, avendo, al contempo, attenzione alle diverse qualificate considerazioni filosofico-antropologiche, teologiche, scientifiche, storiche, metodologiche pertinenti. Questa riflessione, si  deve poi concretizzare sul piano della esperienza e della riflessione operativa dei singoli e delle comunità.

Dovremo procedere nella direzione di una riconferma aggiornata della “scelta socio-politica-educativa” di Don Bosco. Questo non significa promuovere un attivismo ideologico, legato a particolari scelte politiche di partito, ma formare ad una sensibilità sociale e politica, che porta comunque ad investire la propria vita per il bene della comunità sociale, impegnando la vita come missione, con un riferimento costante agli inalienabili valori umani e cristiani. Detto in altri termini, la riconsiderazione della qualità sociale dell’educazione dovrebbe incentivare la creazione di esplicite esperienze di impegno sociale nel senso più ampio.

Chiediamoci: la Congregazione Salesiana, la Famiglia Salesiana, le nostre Ispettorie, gruppi e case stanno facendo tutto il possibile in tale direzione? La loro solidarietà con la gioventù è solo atto di affetto, gesto di donazione, o anche contributo di competenza, risposta razionale, adeguata e pertinente ai bisogni dei giovani e delle classi sociali più deboli?

E altrettanto si dovrebbe dire del rilancio del “buon cristiano”. Don Bosco, “bruciato” dallo zelo per le anime, ha compreso l’ambiguità e la pericolosità della situazione, ne ha contestato i presupposti, ha trovato forme nuove di opporsi al male, pur con le scarse risorse (culturali, economiche…) di cui disponeva. Si tratta di svelare e aiutare a vivere consapevolmente la vocazione di uomo, la verità della persona. E proprio in questo i credenti possono dare il loro contributo più prezioso.

Ma come attualizzare il “buon cristiano” di Don Bosco? Come salvaguardare oggi la totalità umano-cristiana del progetto in iniziative formalmente o prevalentemente religiose e pastorali, contro i pericoli di antichi e nuovi integrismi ed esclusivismi? Come trasformare la tradizionale educazione, il cui contesto era “una società monoreligiosa”, in un’educazione aperta e, al tempo stesso, critica, di fronte al pluralismo contemporaneo? Come educare a vivere in autonomia e nello stesso tempo essere partecipi di un mondo plurireligioso, pluriculturale, plurietnico? A fronte dell’attuale superamento della tradizionale pedagogia dell’obbedienza, adeguata ad un certo tipo di ecclesiologia, come promuovere una pedagogia della libertà e della responsabilità, tesa alla costruzione di persone responsabili, capaci di libere decisioni mature, aperte alla comunicazione interpersonale, inserite attivamente nelle strutture sociali, in atteggiamento non conformistico, ma costruttivamente critico?

2. Il ritorno ai giovani con maggior qualificazione

 

È tra i giovani che Don Bosco ha elaborato il suo stile di vita, il suo patrimonio pastorale e pedagogico, il suo sistema, la sua spiritualità. Missione salesiana è consacrazione, è “predilezione” per i giovani e tale predilezione, al suo stato iniziale, lo sappiamo, è un dono di Dio, ma spetta alla nostra intelligenza ed al nostro cuore svilupparla e perfezionarla.

La fedeltà alla nostra missione poi, per essere incisiva, deve essere posta a contatto con i “nodi” della cultura di oggi, con le matrici della mentalità e dei comportamenti attuali. Siamo di fronte a sfide davvero grandi, che esigono serietà di analisi, pertinenza di osservazioni critiche, confronto culturale approfondito, capacità di condividere psicologicamente ed esistenzialmente la situazione. Ed allora, per limitarci ad alcune domande:

 

a- Chi sono esattamente i giovani ai quali “consacriamo” personalmente e in comunità la nostra vita?

b- Qual è la nostra professionalità pastorale, a livello di riflessione teorica sugli itinerari educativi ed a livello di prassi pastorale?

c- La responsabilità educativa oggi non può essere che collettiva, corale, partecipata. Qual è allora il nostro “punto di aggancio” con la “rete di relazioni” sul territorio e anche oltre il territorio  in cui vivono i nostri giovani?

d- Se qualche volta la Chiesa si trova disarmata di fronte ai giovani, non è che per caso lo sono anche i Salesiani o la Famiglia Salesiana di oggi?

3. Un’educazione di cuore

In questi ultimi decenni forse le nuove generazioni salesiane provano un senso di smarrimento di fronte alle antiche formulazioni del Sistema Preventivo: o perché non sanno come applicarlo oggi, oppure perché inconsapevolmente lo immaginano come un “rapporto paternalistico” con i giovani. Al contrario, quando guardiamo a Don Bosco, visto nella sua realtà vissuta, scopriamo in lui un istintivo e geniale superamento del paternalismo educativo inculcato da molta parte della pedagogia dei secoli a lui precedenti (’500-’700).

 

Possiamo chiederci: oggi i giovani e gli adulti entrano o possono entrare nel cuore dell’educatore salesiano? Che vi scoprono? Un tecnocrate, un abile, ma vacuo comunicatore, oppure una umanità ricca, completata e animata dalla Grazia di Gesù Cristo, nel Corpo Mistico, ecc.?

A partire dalla conoscenza della pedagogia di Don Bosco, i grandi punti di riferimento e gli impegni della Strenna del 2013 sono i seguenti.

  1. 1. Il ‘vangelo della gioia’, che caratterizza tutta la storia di Don Bosco ed è l’anima delle sue molteplici attività. Don Bosco ha intercettato il desiderio di felicità presente nei giovani e ha declinato la loro gioia di vivere nei linguaggi dell’allegria, del cortile e della festa; ma non ha mai cessato di indicare Dio quale fonte della gioia vera.
  1. La pedagogia della bontà. L’amorevolezza di Don Bosco è, senza dubbio, un tratto caratteristico della sua metodologia pedagogica ritenuto valido anche oggi, sia nei contesti ancora cristiani sia in quelli dove vivono giovani appartenenti ad altre religioni. Non è però riducibile solo a un principio pedagogico, ma va riconosciuta come elemento essenziale della nostra spiritualità.

3.  Il Sistema Preventivo. Rappresenta il condensato della saggezza pedagogica di Don Bosco e costituisce il messaggio profetico che egli ha lasciato ai suoi eredi e a tutta la Chiesa. È un’esperienza spirituale ed educativa che si fonda su ragione, religione ed ‘amorevolezza.

  1. L’educazione è cosa del cuore. «La pedagogia di Don Bosco, ha scritto don Pietro Braido, s’identifica con tutta la sua azione; e tutta l’azione con la sua personalità; e tutto Don Bosco è raccolto, in definitiva, nel suo cuore».[1] Ecco la sua grandezza ed il segreto del suo successo come educatore. «Affermare che il suo cuore era donato interamente ai giovani, significa dire che tutta la sua persona, intelligenza, cuore, volontà, forza fisica, tutto il suo essere era orientato a fare loro del bene, a promuoverne la crescita integrale, a desiderarne la salvezza eterna».[2]

5.  La formazione dell’onesto cittadino e del buon cristiano. Formare “buoni cristiani e onesti cittadini” è intenzionalità più volte espressa da Don Bosco per indicare tutto ciò di cui i giovani necessitano per vivere con pienezza la loro esistenza umana e cristiana. Quindi, la presenza educativa nel sociale comprende queste realtà: la sensibilità educativa, le politiche educative, la qualità educativa del vivere sociale, la cultura.

  1. Umanesimo salesiano. Don Bosco sapeva “valo­rizzare tutto il positivo radicato nella vita delle persone, nelle realtà create, negli eventi della storia. Ciò lo portava a cogliere gli autentici valori presenti nel mondo, specie se gra­diti ai giovani; a inserirsi nel flusso della cultura e dello sviluppo umano del proprio tempo, stimolando il bene e rifiutandosi di gemere sui mali; a ricercare con saggezza la cooperazione di molti, convinto che ciascuno ha dei doni che vanno scoperti, riconosciuti e valorizzati; a credere nella forza dell’educazione che sostiene la crescita del giovane e lo incoraggia a diventare onesto cittadino e buon cristiano; ad affidarsi sempre e comunque alla prov­videnza di Dio, percepito e amato come Padre”.[3]
  1. Sistema Preventivo e Diritti Umani. La Congregazione non ha motivo di esistere se non per la salvezza integrale dei giovani. Questa nostra missione, il vangelo e il nostro carisma oggi ci chiedono di percorrere anche la strada dei diritti umani; si tratta di una via e di un linguaggio nuovi che non possiamo trascurare. Il sistema preventivo e i diritti umani interagiscono, arricchendosi l’un l’altro. Il sistema preventivo offre ai diritti umani un approccio educativo unico ed innovativo rispetto al movimento di promozione e protezione dei diritti umani. Allo stesso modo i diritti umani offrono al sistema preventivo nuove frontiere ed opportunità di impatto sociale e culturale come risposta efficace al “dramma dell’umanità moderna, della frattura tra educazione e società, del divario tra scuola e cittadinanza”.[4]
  2. Per una comprensione approfondita e l’attuazione dei punti nodali suindicati sono utilmente da leggere: Il Sistema Preventivo nell’educazione della gioventù, la Lettera da Roma, le Biografie di Domenico Savio, Michele Magone, Francesco Besucco, tutti scritti di Don Bosco che illustrano bene sia la sua esperienza educativa che le sue scelte pedagogiche.

 

Don Pascual Chávez V., SDB

Rettor Maggiore


[1] Cf. P. BRAIDO, Prevenire non reprimere. Il sistema educativo di Don Bosco, LAS, Roma 1999, p. 181.

[2] P. RUFFINATO, Educhiamo con il cuore di Don Bosco, in “Note di Pastorale Giovanile”, n. 6/2007, p. 9.

[3] Cfr Art. 7 – Carta di identità carismatica della Famiglia Salesiana – Roma 2012

[4] Si veda P. Pascual Chàvez Villanueva, Educazione e cittadinanza. Lectio Magistralis per la Laurea Honoris Causa, Genova, 23 aprile 2007.

Omelia RM 16ago12

Evangelizzazione: occorre un insegnamento più innovativo della religione

Il cardinale Ravasi parla dell’evento del Cortile dei Gentili ad Assisi, del Sinodo di ottobre e di una Nuova Evangelizzazione che deve riflettersi anche in un insegnamento più innovativo della religione

di Salvatore Cernuzio

Al termine della conferenza di presentazione dell’evento del Cortile dei Gentili, “Dio questo sconosciuto. Dialogo tra credenti e non credenti”, che si svolgerà il 5 e 6 ottobre, ad Assisi, ZENIT ha intervistato il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura.

***

L’evento del Cortile dei Gentili è stato un evento di pre-evangelizzazione che ha creato terreno fertile per l’imminente Sinodo dei vescovi dedicato appunto alla Nuova Evangelizzazione. Cosa si aspetta, invece, il Cortile dal grande assise di ottobre?

Card. Ravasi: Prescindendo dal fatto che lo stesso Sinodo cita il Cortile dei Gentili nell’Instrumentum Laboris, ciò che noi ci aspettiamo è che la presentazione della fede avvenga in una forma, con un linguaggio, che sia il più possibile comprensibile, non soltanto per i credenti ma anche per l’orizzonte culturale generale. Cioè che non sia soltanto autoreferenziale o legato a formule che, seppur preziose, sono ormai datate.

È qui l’importanza della comunicazione della fede, che è quello che, in un certo senso, facciamo anche noi, senza però voler evangelizzare.

E in questa direzione, quale potrebbe essere una formula efficace per vincere anche quel mare di indifferenza che lei, durante la conferenza, ha accusato essere l’atteggiamento più pericoloso del mondo attuale?

Card. Ravasi: Penso che per vincere la “nebbia” della superficialità, della banalità, dell’indifferenza generica, ci siano due strade. Una è quella adottata da alcune Chiese americane, soprattutto protestanti, che è il proporre l’essenziale, il minimo, impegnandosi, particolarmente, sul versante della carità, del volontariato e dell’impegno sociale. È questa una componente certamente significativa, ma, a mio avviso, insufficiente, in quanto la Chiesa non è “un’agenzia caritativa”.

L’altra via, invece, è quella della verità ultime, ovvero il coraggio di gettare sul tappeto, in un linguaggio comprensibile, i temi della vita, della morte, del bene, del male, della giustizia, della sofferenza, dell’amore.

Tutte quelle domande, cioè, che sono deposte in tutte le persone e che riaffiorano quando attraversano una sofferenza come, ad esempio, un familiare che muore di cancro o anche quando s’innamorano, si trovano a contatto con la bellezza e via dicendo. Tali quesiti devono essere riproposti con un linguaggio incisivo e culturalmente efficace: è l’unica via per far trovare all’umanità una risposta. Solo così la superficialità verrebbe scossa come da un elettroshock.

All’incontro di Assisi si svolgerà un dialogo tra lei e il presidente Giorgio Napolitano. Cosa rappresenta la figura del presidente della Repubblica nel dialogo tra credenti e non credenti?

Card. Ravasi: Rappresenta due componenti fondamentali: da un lato, incarna la figura dell’Italia in tutte le sue dimensioni e quindi di un Paese dalla grande tradizione cristiana. È la voce di un’Italia che ha pur sempre nel panorama della tradizione culturale il tema religioso. Non si può entrare in una pinacoteca o in una città senza “scontrarsi” con cattedrali, monumenti, dipinti che richiamano il sacro.

D’altra parte, il presidente Napolitano rappresenta una grande personalità che ha riproposto i valori, anche in mezzo al degrado culturale, sociale e politico. Egli insiste spesso, soprattutto con i giovani, sul tema dei grandi valori. È proprio lì che si crea una sintonia: quando entrambi cominciamo ad interrogarci sulle questioni fondamentali per la società stessa.

In questi giorni, il ministro per la Pubblica Istruzione, Francesco Profumo, a margine di un Convegno del Miur, ha parlato di una revisione di materie come la religione e la geografia, considerando ormai la forte presenza nelle scuole di studenti di culture e religioni differenti. Qual è il suo pensiero riguardo a questa tematica?

Card. Ravasi: Credo che sia indubbiamente importante rinnovare la didattica, prima di tutto, nel metodo. Pensiamo adesso a come avviene la comunicazione, non più con la carta scritta o il pennino come nella mia infanzia, ma con la tecnologia e altre modalità differenti. Anche nei contenuti, però, è necessario un rinnovamento! Ci sono componenti che sono fondanti da cui non si può prescindere, non solo per la religione, ma anche per le scienze. Allo stesso tempo, però, ci sono interpellanze sempre nuove: pensiamo ai problemi della Bioetica, un termine che 50 anni fa neppure esisteva. Credo, pertanto, che l’insegnamento della religione, in maniera corretta, sulla base del messaggio evangelico e dei grandi insegnamenti cristiani che vanno comunque sempre trasmessi, deve agganciarsi con il mutare della società e l’evoluzione dei tempi e della cultura.

Nella prospettiva di una trasmissione innovativa e, al contempo, essenziale della cultura, come si inserisce un evento interamente dedicato a Dante, come quello da lei annunciato per il 12 novembre alla Chiesa del Gesù di Roma?

Card. Ravasi: È tutto in linea con quello che si diceva. L’eredità che noi abbiamo è talmente alta e gloriosa che non può essere considerata una cosa del passato, marginale o da buttare. È una delle basi più feconde in assoluto. Ricordiamo, però, che il metodo è fondamentale, nel senso che un evento di tale spessore culturale non deve essere presentato come un’operazione filologica, ma come stimolo sul quale costruire oltre. Esprimono al meglio questo concetto, le parole del filosofo Bernardo di Chartres: “Noi siamo nani sulle spalle di giganti, ma è per questo che riusciamo a vedere più lontano”.

“Legami di vita buona” riflessione dal convegno della Azione Cattolica

Il Concilio è il nostro presente e il nostro futuro. È la chiamata a rinnovare il nostro patto di fedeltà alla Chiesa e a dare risposte alle aspettative di questo nostro tempo, carico di drammi e pur fecondo”.

Così il presidente nazionale dell’Azione Cattolica, Franco Miano, ha concluso ieri a Roma il convegno nazionale “Legami di vita buona. Azione Cattolica, Chiesa locale e Chiesa universale”, che dal 21 al 23 settembre ha riunito oltre 350 tra presidenti e assistenti unitari diocesani e regionali di Ac.

Con lo sguardo al nuovo anno associativo, che s’inserisce e si orienta nel cammino tracciato dalla coincidenza di tre grandi eventi – i 50 anni dall’apertura del Concilio, l’inizio dell’Anno della fede e l’imminente inaugurazione del Sinodo dei vescovi sulla nuova evangelizzazione -, Miano ha rinnovato la “promessa” dei laici di Ac di “costruire legami di vita buona con tutti gli uomini e le donne di buona volontà, nel cammino ordinario compiuto da ciascuno di noi nelle diocesi e nelle parrocchie”.

Una fede intelligente. Ogni fondamento di “vita buona”, ha spiegato inaugurando i lavori mons. Domenico Sigalini, assistente generale dell’Azione Cattolica e vescovo di Palestrina, presuppone una “fede intelligente”, poiché “una fede senza intelligenza è un insulto a noi stessi e allo stesso Signore che non vuole automi o persone compiacenti”, bensì “persone vere, intere, diritte nella loro dignità; non vuole atteggiamenti servili, compromissori”. Nella sua relazione di apertura, “I laici e il Concilio”, il monaco camaldolese Franco Mosconi ha offerto all’uditorio un “percorso conciliare” basato su tre direttrici “da riscoprire”. A partire dalla speranza, ossia l’avere fisso “un orizzonte escatologico”, per arrivare alla santità, “termine ormai relegato tra gli incensi”, ma che “significa costruire la propria maturità umana come Dio la sogna, guardando il Figlio”. Su di esse si erge come “stella polare” la “Parola di Dio”. Di qui la domanda: “Cosa ne abbiamo fatto della Parola a mezzo secolo dalla ‘Dei Verbum’?”. “Questo arco di tempo – che per la Bibbia è il segno di un’intera generazione – quanto è stato inquietato e trasformato dalla Parola?”. La Parola divina “è come un mare in cui ci si deve immergere”; invece, ha concluso Mosconi, “spesso non incide ferite nella placida superficialità dei nostri giorni”.

Seminatori della Parola. Nell’omelia della celebrazione eucaristica presieduta il 22 settembre, mons. Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, ha ricordato che “dopo Gesù, ognuno di noi è seminatore della Parola di Dio”, e ciò comporta anzitutto “la responsabilità a non essere seminatori qualunque”. “Non ci si improvvisa evangelizzatori, come non ci si improvvisa buoni seminatori: occorre formarsi a questo compito”. “Il buon seminatore – ha ammonito il presule – non è colui che resta immobile. Come Gesù, è in continuo andare incontro all’altro. Dunque, non è più tempo di rimanere chiusi nelle nostre parrocchie. Bisogna uscire e andare lì dove l’uomo vive. Il che non vuol dire andare in Paesi lontani, ma al di là del nostro pianerottolo, dove vive il nostro vicino. Questa è la nuova evangelizzazione”. “L’unica e indivisibile missione della Chiesa – ha precisato mons. Diego Coletti, vescovo di Como – si articola secondo tre prospettive principali, intimamente connesse tra loro”: “Secolare, profetica e pastorale”. La prima consiste nel permeare “dello spirito evangelico la vita dell’uomo in tutti i suoi aspetti “secolari” (famiglia, lavoro, economia, cultura, politica, scienza…)”. La prospettiva “profetica” si esplica nel manifestare “in grado straordinario, nel proprio stile di vita, le esigenze radicali della sequela di Gesù, indicate nel Vangelo”. “La prospettiva “pastorale” è, infine, il modo di “vivere ed esprimere l’unica e indivisibile missione della Chiesa assumendo, con la forza dello Spirito Santo, il compito di dar vita alla comunità cristiana, nutrirla con la Parola e i sacramenti, coordinarne i carismi e i ministeri, curarne i difetti e le malattie, vigilare per diffonderla e custodirla: in una parola, edificare e condurre la comunità in quanto tale”. 

Testimonianza dalla Romania. Il “profilo delle responsabilità cui è chiamato il laico cristiano nel suo servizio alla comunità” è stato delineato da Anna Maria Basile, presidente diocesana di Andria dal 2005 al 2011. A partire da tre verbi, ha spiegato: “Custodire, tramandare, generare ancora” per “capire meglio il tempo e il luogo in cui viviamo”, avere “uno sguardo nuovo”, cercare “nel passato le radici del futuro”. La storia di un’Ac romena “cresciuta in numeri e impegno, in particolare nel far conoscere il ruolo dei laici nella Chiesa e nella società, considerando che i documenti del Concilio sono stati pubblicati in lingua romena solo dal 1990, dopo la caduta del comunismo, a 35 anni sua dalla chiusura”. A raccontarla sono stati la presidente dell’Ac di Iasi, Adriana Ianus, l’assistente don Felix Roca, e il vescovo ausiliare mons. Aurel Percã. Un’esperienza di laicato missionario ed evangelizzatore, “impegnato nell’educazione alla fede e nell’azione di carità” e “particolarmente attento ai temi della famiglia”.


Riportiamo la Lectio divinadi mons. Domenico Sigalini, Assistente generale dell’Azione cattolica e vescovo di Palestrina, al Convegno nazionale dei Presidenti e Assistenti unitari diocesani e regionali dell’Ac, in corso a Roma.

Troppo indurito è il nostro cuore

Ma i discepoli avevano dimenticato di prendere dei pani e non avevano con sé sulla barca che un pane solo. Allora egli li ammoniva dicendo: “Fate attenzione, guardatevi dal lievito dei farisei e dal lievito di Erode! ”. E quelli dicevano fra loro: “Non abbiamo pane”. Ma Gesù, accortosi di questo, disse loro: “Perché discutete che non avete pane? Non intendete e non capite ancora? Avete il cuore indurito? Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite ? E non vi ricordate, quando ho spezzato i cinque pani per i cinquemila, quante ceste colme di pezzi avete portato via? ”. Gli dissero: “Dodici”. “E quando ho spezzato i sette pani per i quattromila, quante sporte piene di pezzi avete portato via? ”. Gli dissero: “Sette”. E disse loro: “Non capite ancora? ”.(Mc 8, 14-21)

Appena prima di questo brano di vangelo sono state narrate due moltiplicazioni dei pani, al capitolo 6 (vv. 41-43) e al capitolo 8 (vv. 6-8). Hanno destato grande meraviglia e discussioni, piccoli egoismi e grandi progetti materiali. Chi aveva trovato la panacea per tutti i suoi mali: che vuoi di più, ci dà anche da mangiare! Chi aveva pensato che il miracolo poteva essere di casa tutti i giorni con un uomo così. Gesù coglie il rischio e fa fatica a far capire che i suoi miracoli sono segno, soltanto segno. Questo è segno di un altro pane. I farisei continuano a chiedere segni, sicurezze, certezze, ma Gesù offre un segno decisivo per la fede dei cristiani: il pane che è Lui, il pane eucaristico, che è ancora Lui, il pane dell’offerta sacrificale dell’Eucaristia, che è sempre Lui, il pane della vita, che ne è il senso, la pienezza.

Ma i discepoli avevano dimenticato di prendere dei pani e non avevano con sé sulla barca che un pane solo.

Ne erano avanzati di pani dopo la prima e la seconda moltiplicazione; Gesù li sollecita a prendere la barca per non fissarsi sui facili successi e sul facile indice di gradimento ottenuto con il miracolo. E i discepoli lasciano a terra tutto quel ben di Dio. Era la scorta per la loro fame, ma la lasciano e si adattano a quel pezzo che è rimasto in barca. E’ solo un pezzo di pane o è il pane della vita che è Gesù? Su questo gioco di simboli si sviluppano le domande dure, incalzanti, mozzafiato di Gesù.

Che pane avevano con sé sulla barca?

Io chi sono per voi? Mi sto facendo in quattro per aiutarvi ad alzare lo sguardo dal piatto e voi ci ficcate dentro pure la vita! Non siete capaci di fare il salto di qualità che deve fare ogni uomo di fronte a tutte le cose. Niente è solo materia, tutto ha un significato che rimanda a Dio. Questo pane non è la sorgente di un litigio per quando gli apostoli sentiranno un buco nello stomaco, ma è la presenza di Gesù. Lui è il pane della vita, il sapore, il senso; il nutrimento, il gusto della casa e del forno, dell’amore di chi lo ha preparato e del lavoro che lo ha reso possibile: è una introduzione umanissima alla sua presenza nel pane e nel vino.

Allora egli li ammoniva dicendo: “Fate attenzione, guardatevi dal lievito dei farisei e dal lievito di Erode!

Il lievito dei farisei e il lievito di Erode sono inseriti in questa scena da Marco come un inciso, prima di proseguire con le domande di Gesù e possono essere letti nel contesto come due preoccupazioni o condizioni per credere alla grandezza del pane che è Gesù: c’è un lievito che traduce la cecità dovuta alle ideologie, o ad atteggiamenti culturali di autosufficienza e un lievito, quello di Erode, che stigmatizza e rappresenta ogni strumentalizzazione del potere. Sono minacce all’accoglienza del pane che è Gesù, al significato del consumarsi per gli altri che è assolutamente opposto a quello che i due lieviti rappresentano.

Se questo pane è poi figura non troppo velata e lontana del pane eucaristico che deve essere spezzato per tutti, i lieviti errati possono essere letti come l’autosufficienza, l’egoismo, il dominio dell’uomo sull’uomo, come fu la vita di Erode. Non sono assolutamente compatibili questi modi di vivere con l’accoglienza di questo pane, con la disponibilità e la comunione fraterna che deve caratterizzare ogni comunità che si raccoglie la domenica attorno al pane eucaristico. Che senso avrebbe spezzare il pane da gente che si ignora, che non si sopporta, che si fa la guerra, che non vive in pace, che cerca in tutti i modi di sopraffare l’altro, di usarlo, pure con i guanti bianchi?.

E quelli dicevano fra loro: “Non abbiamo pane”.

Siamo senza nutrimento, siamo senza concretezza, ci siamo ritrovati euforici, dopo le belle moltiplicazioni dei pani, dopo aver goduto di un successo insperato con la gente, dopo che tutti ci guardavano con invidia perché siamo del giro di Gesù, ma oggi tutto è finito e siamo rimasti soli. Cercavano con gli occhi un forno, invece dovevano guardare a Gesù. Quante volte anche noi davanti a Dio diciamo: non abbiamo più pane

L’abbiamo consumato nell’ingordigia

L’abbiamo creduto un modo di dire di Gesù e non abbiamo conservato quella fede semplice della prima comunione

Non abbiamo pane perché nelle nostre comunità non si fa posto alla sua Parola.

Non abbiamo pane perché abbiamo perso il senso della vita

Non abbiamo pane perché siamo pigri; niente ci soddisfa, e tiriamo a campare

Non abbiamo pane perché ci manca la speranza nella vita

Non abbiamo pane perché sentiamo una fame che non passa con il cibo

Non abbiamo pane perché ci siamo affidati alle superficialità e ora ci lasciano soli

Non abbiamo pane perché la messa domenicale viene dopo le nostre preoccupazioni economiche, di riposo, di relax. Dopo lo spread e i dati della borsa.

Ma Gesù, accortosi di questo, disse loro: “Perché discutete che non avete pane? Non intendete e non capite ancora? Avete il cuore indurito?

Inizia qui la serie di domande che anche noi ci vogliamo fare, che Gesù in maniera incalzante fa ai suoi discepoli.

Se scorriamo il testo vediamo che la parola pane o pani è detta almeno sei volte e che almeno sette volte Gesù coglie la loro assoluta incomprensione. Non ci sono dubbi su che cosa voglia dirci il vangelo con questo episodio e val la pena di lasciarci interrogare. Solo rispondendo a queste domande potremo trovare pace.

Discutere, intendere, capire è il desiderio e l’impegno di mettere al servizio della situazione la propria intelligenza e l’intelligenza degli amici: assieme si sta cercando di capire, ma non ci si riesce. L’intelligenza è la prima scintilla che deve scattare quando si tratta di fede; forse è la fame che ha innescato la discussione, forse la rabbia, il dispetto, ma Gesù vuole che si metta testa a quello che si fa e si vuol pensare. Ogni esperienza di fede può avere mille motivi, ma deve passare per il crogiuolo dell’intelligenza. Dio ci ha dato l’intelligenza perché la usiamo sempre fino in fondo. Abbiamo una razionalità che non può essere mandata all’ammasso perché troviamo più comodo fidarci del sentito dire, del sentimento, delle emozioni, delle atmosfere, delle tradizioni.

Una fede senza intelligenza è un  insulto a noi stessi e allo stesso Signore che non vuole automi o persone compiacenti. Vuole persone vere, intere, diritte nella loro dignità; non vuole atteggiamenti servili, compromissori. Quanti giovani credono che la fede sia abbandonare la lucidità della ragione, un atto che non regge di fronte alla scienza. Certo, se le conoscenze di Dio e della sua Parola sono ferme alle nozioni rabberciate al catechismo della fanciullezza, non possiamo dire che stiamo usando l’intelligenza. Abbiamo un luogo dove la fede deve fare i conti con l’intelligenza sempre, con la vita concreta, con i fatti quotidiani come la nascita, la morte, la malattia; questo luogo è la vita concreta di una comunità cristiana: la parrocchia

La parrocchia serve una fede che cerca l’intelligenza e che non si dà senza ragioni. Il sapere Dio che offre la parrocchia è intrinsecamente spinto a delinearsi nella vita dell’uomo e in ogni sua domanda, per questo non può non dirsi con parole di uomo, con simboli e linguaggi umani, dentro i significati profondi della vita e di ogni vita, nella quotidianità e nel susseguirsi degli eventi, nella ricerca faticosa di senso e di felicità degli uomini. La mediazione culturale non è un optional per la testimonianza cristiana della fede.

Entra in campo qui un servizio alla fede che deve abitare la cultura.

È autentico servizio alla vita quotidiana della gente, al tessuto di relazioni del territorio, alla costruzione di una società una fede che si fa cultura.

– Che sa rispondere ai grandi interrogativi dell’uomo andando oltre le risposte ben compaginate o didascaliche di ogni catechismo, che si fa domanda prima di essere risposta. E’ una fede che si comunica, qualitativamente diversa da quella che rimane nel chiuso della propria consolazione

– per questo è necessario un passaggio da una cultura inconsapevole, che faceva parte dell’habitat naturale di una società cristiana a una nuova consapevolezza. Forzando, ma non troppo, il concetto si può dire che occorre passare da una generazione di cristiani che hanno ricevuto le risposte senza farsi le domande, a cristiani che si interrogano con tutti gli uomini sul proprio destino, sul senso ultimo della vita. Qui si apre tutto il campo della inculturazione della fede

– un altro livello di necessità dell’esprimersi culturalmente della fede e che è a portata di parrocchia, proprio per la sua popolarità e concretezza, è

* tutto lo sforzo di cambiamento di mentalità assolutamente improrogabile per aiutare i nuovi poveri a ridarsi speranza da sé, entro nuovi modi di pensarsi nel proprio territorio, per uscire dall’usura, per ridare forza alle strutture educative, per innestarsi nelle relazioni umane. E’ ancora fede che si fa cultura se è vero come abbiamo detto sopra, che la carità e forma della fede.

* la consapevolezza che si deve tradurre ogni pensiero, ogni contenuto della fede in un linguaggio laico, in un linguaggio che ha la persona umana al centro dell’attenzione. Bisogna diffidare delle comunicazioni semplicemente cristiane. Il pensiero sociale della Chiesa è tutto traducibile in linguaggio laico. E’ in voga purtroppo una sorta di fondamentalismo che non si applica seriamente a ridire con linguaggio laico le grandezze della fede in Gesù. E’ una scorciatoia che, se da una parte aiuta a sentirsi a posto in coscienza, perché siamo stati capaci di dire con coraggio la nostra fede, dall’altra lascia l’uomo solo ad affrontare il delicato momento del dirsi della fede nella sua vita, nelle sue fatiche quotidiane, nella pressione degli eventi, nei problemi che rimangono spesso aperti non solo per tutta una vita, ma anche per stagioni di storia.

Il nostro cuore è indurito

Gesù fa però anche un’altra domanda, chiama in causa non solo l’intelligenza, ma anche il cuore, anche la capacità di lasciarsi coinvolgere in una  esperienza di dono. Cuore, nel nostro modo di dire è termine che significa amore, dono, l’offerta di tutta la persona. E’ necessario per la completezza di una adesione di vita. Non basta l’intelligenza, occorre la capacità di amare. Gesù fa una domanda che suona come un rimprovero, che ci mette al muro: avete il cuore indurito? Sclerocardia è l’indurimento: sclerosi del cuore. E’ lì bloccato come una pietra. Che cosa può esprimere un pezzo di pietra se non la durezza di una vita che sta altrove, che non si commuove per niente, che non comanda al viso nemmeno un sorriso, alle mani una stretta d’accoglienza, al corpo uno slancio di dedizione? Chi ha il cuore indurito per eccellenza nell’Antico Testamento è il faraone, il padrone dell’Egitto, colui che tiene prigioniero il popolo, che lo sfrutta, che non bada a sofferenze, che calcola il  numero dei mattoni, che comanda la morte dei neonati, che si mette contro Dio, contro il suo piano di salvezza (cfr Es 4, 21). Alla fine di ogni piaga che ritma le speranze e delusioni del popolo di Israele che vuol uscire dall’Egitto c’è un ritornello: il cuore del faraone è ostinato nella sua durezza di cuore. Il salmo 4 dice:  Fino a quando, o uomini, sarete duri di cuore? Perché amate cose vane e cercate la menzogna? Nel vangelo di Matteo (13, 15) si richiamano le parole di Isaia : Voi udrete, ma non comprenderete,  guarderete, ma non vedrete.  Perché il cuore di questo popolo  si è indurito. Ezechiele (2,4) dice:  Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito.

Lo stesso Marco (6,52) appena dopo la moltiplicazione dei pani, nelle stesse condizioni, sulla barca, nella fatica di reggerla col vento contrario, con Gesù che cammina sulle acque e viene in loro aiuto, ancora dice: Ed erano enormemente stupiti in se stessi, perché non avevano capito il fatto dei pani, essendo il loro cuore indurito.

Insomma Gesù nella sua infinita sapienza e bontà continua a chiedere agli apostoli di aprire il cuore, di mettersi in una condizione di amore, di dono, di accoglienza, di apertura.

Lasciati andare, smollati, vieni giù dalle tue sicurezze, fidati, fa un passo, rischia, dona la tua vita, smettila di stare sulle tue, apriti alla vita, buttati nell’avventura dell’amore, esci dal tuo comodo loculo…Se vi sarà in mezzo a te qualche tuo fratello che sia bisognoso in una delle tue città del paese che il Signore tuo Dio ti dá, non indurirai il tuo cuore e non chiuderai la mano davanti al tuo fratello bisognoso (Deut 15, 7)

A questo cuore indurito serve una cardioterapia, fatta di preghiera, di ascolto della Parola, di relazioni umanissime e di scuola d’amore. La famiglia, l’amicizia, l’innamoramento, il fidanzamento sono tutte cardioterapie se hanno al centro l’amore fino all’ultima goccia di Gesù. Questi apostoli hanno bisogno di una full immersion nel cuore di Gesù. La faranno, ma prima verrà la passione

Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite ?

Sono domande che Gesù fa usando letteralmente le parole dei profeti

Is 6, 9-10 Ascoltate pure, ma senza comprendere,
osservate pure, ma senza conoscere.
Rendi insensibile il cuore di questo popolo,
fallo duro d’orecchio e acceca i suoi occhi
e non veda con gli occhi
né oda con gli orecchi
né comprenda con il cuore
né si converta in modo da esser guarito”.

Ger 5, 21 “Questo dunque ascoltate,
o popolo stolto e privo di senno,
che ha occhi ma non vede,
che ha orecchi ma non ode.

Ez 12, 12 Il principe, che è in mezzo a loro si caricherà il bagaglio sulle spalle, nell’oscurità, e uscirà per la breccia che verrà fatta nel muro per farlo partire; si coprirà il viso, per non vedere con gli occhi il paese.

Nei discepoli si verifica un’altra volta e chissà per quante volte ancora il dramma dell’antico popolo, dell’uomo che continua a fuggire la premura di Dio, che snobba il suo amore, che chiude gli occhi davanti all’evidenza, che si chiude in se stesso, che butta fuori Dio dalla vita. Gesù si mette così nella linea dello struggente amore di Dio per l’umanità e vuol far capire agli apostoli che in questa azione di assoluta misericordia si vuol collocare.

Gesù si manifesta come colui che realizza il piano di Dio, pensato da secoli, come poi San Paolo cercherà di annunciare a tutti i pagani.

Allora la storia di questi discepoli è la nostra storia, le loro difficoltà sono le nostre, le loro chiusure sono le nostre autosufficienze, i loro dubbi sono i nostri rifiuti a seguire Gesù.

E non vi ricordate….

E’ utile dare risalto anche a questo verbo che spesso torna nelle Sacre Scritture; un verbo legato alla memoria, che per la bibbia non è il riportarsi a cose passate, ma a un fatto vivo e attualmente operante. Così è la memoria della Pasqua, così è l’Eucaristia che è memoria, memoriale della morte e Risurrezione di Gesù, così sono tutti i gesti sacramentali.

Gli apostoli se vorranno fare parte di un nuovo modo di vivere la vita e il rapporto con Dio dovranno esercitare e confrontarsi continuamente con questo significato di memoria. Non siamo cultori di diari, di musei, non siamo antiquari o specialisti del mercato delle pulci dove puoi trovare pezzi antichi a basso prezzo, ma siamo ricostruttori di vita vera, riproduttori di gesti autentici di salvezza, li riviviamo, non li togliamo dalla formalina per guardarli o dall’antitarme per metterli in mostra. L’Eucaristia è qui, è oggi spezzare il pane che è la vita, la morte e la risurrezione di Gesù. Vengono ricordate le sette sporte, le dodici ceste: sono ancora le sporte e le ceste del pane eucaristico che viene spezzato ogni giorno, ogni domenica nell’Eucaristia per i fedeli di oggi. Si dice due volte “pezzi di pane”, perché l’Eucaristia è proprio pane spezzato, fatto in pezzi. L’intento degli evangelisti è chiarissimo e noi oggi ancora viviamo questa gioia di avere tra noi il pane che è Gesù.

E disse loro: “Non capite ancora? ”

Il brano di vangelo termina con un’altra domanda ancora, con una infinita serie di punti interrogativi, di inviti a cambiare testa, a entrare in un altro ordine di idee, di atteggiamenti, di conoscenza di Gesù. Dobbiamo decidere di affidarci interamente a Gesù. E’ tempo di accorgerci della nostra durezza di cuore, di risvegliarci nella verità. Questo brano di vangelo ci dice la forza e l’impegno che esige sempre la lettura della Parola di Dio; è una lettura che continuamente ci provoca, non è fatta per far riposare le orecchie, ma per far cantare il cuore.

Così mi immagino che dicessero tra di loro gli apostoli:

Siamo su quella barca e stiamo riprendendo il cammino con Gesù; è stato veramente emozionante partecipare alle moltiplicazioni dei pani, ma ci siamo fermati al livello dello stomaco. Ci siamo riempiti la pancia, e capivamo a fatica che non erano espedienti per soccorrere la fame di cibo della gente. Noi euforici di questo potere abbiamo avvertito in Gesù una certa tensione. Dopo la prima moltiplicazione ci ha quasi obbligati a metterci in barca per cambiare aria. Ci aveva visti troppo attaccati al successo, non voleva che ci lasciassimo prendere la mano da un eventuale potere e già lì ci ha detto che avevamo un cuore duro. Ma perché?

Poi un’altra moltiplicazione e ci siamo ancora meravigliati. Ancora un altro spostamento in barca, con un solo pane. Non ci eravamo accorti che quel pane era per noi solo Gesù. Non capivamo, Ci ha fatto un fuoco di fila di domande, ci sembrava perfino impaziente. Ci ha detto che abbiamo il cuore malato, duro come una pietra. Ci ha riportato alla storia dei nostri padri che hanno spesso voltato le spalle a Dio. Volete abbandonare Dio anche voi? Volete capire che questo pane sono io, il senso della vita sono io, il Dio che ha fatto cielo e terra si fa incontrare da me?

Gli avremmo creduto pienamente più tardi, quando dopo quell’ultima cena, abbiamo toccato con mano la sua tristezza, ma anche la sua volontà incrollabile di dono fino alla fine, il suo essere pronto a dare la vita volontariamente. Quella sera ci ha fatto capire che nessuno lo stava consegnando anche se lo tradiva o ingannava, nessuno lo stava prendendo con inganno, ma si offriva lui. Da sempre aveva aspettato quel momento. Quel pane oggi per noi è ancora la sua presenza, Lui nella pienezza del dono di sé e sarà sempre la nostra forza, sarà al centro della nostra preghiera, lo contempleremo in adorazione ininterrotta.

Giovani, protagonisti del mondo che cambia

Riportiamo di seguito una riflessione sulla disoccupazione giovanile firmata da monsignor Bruno Forte, arcivescovo della diocesi di Chieti-Vasto (in Abruzzo), e pubblicato sull’edizione di domenica 9 settembre del quotidiano Il Sole 24 Ore.

È drammatico il dato sulla disoccupazione giovanile nel nostro Paese. Un giovane su tre, fra chi ne avrebbe le potenzialità, è senza lavoro, con prospettive incerte anche sull’immediato avvenire. Impegnarsi per creare opportunità occupazionali ai giovani è compito prioritario nell’agenda delle cose da fare, come ha riconosciuto con chiarezza il Presidente Monti. Il Governo dovrà certo fare la sua parte, ma sarebbe illusorio pensare che il problema si risolva unicamente dall’alto.

Mai come in questo campo si richiede una sinergia ampia e convinta, che vada dalle famiglie alla scuola, dalla società civile alla comunità ecclesiale, dalle imprese ai sindacati, dalle amministrazioni locali alle diverse agenzie che operano sul territorio al servizio del bene comune. È importante, però, che i primi protagonisti di questo sforzo corale siano proprio i giovani.

Come? Vorrei rispondere a questa domanda partendo da un’immagine biblica, tratta dal libro dei Numeri (cap.13), dove si narra degli esploratori mandati da Mosè a visitare la terra promessa. Ritornando, essi portano il grappolo d’uva, il melograno e il fico e, nel raccontare quello che hanno visto, trasmettono una tale, convinta emozione, che tutto il popolo decide di affrontare il rischio di entrare in una terra dove abitano i giganti. È l’immagine di quello che dovrebbero fare i giovani di fronte alle sfide della crisi in atto. Come gli esploratori, i giovani non sono i capi del popolo, non sono Mosè, né Aronne; essi non sono neanche i sacerdoti o i leviti, e neppure la grande massa costituita dalle famiglie, dagli anziani, dai bambini. I giovani sono per loro natura gli esploratori, mandati a scoprire il futuro di tutti. Chi entrerà nella terra promessa, chi la vedrà e la farà sua? Chi ne intuisce già i tratti, ne avverte il sapore e il profumo? Sono i giovani.

In questo senso, aveva ragione Giovanni Paolo II nel dire che sono loro le sentinelle del mattino, che annunciano con i loro sogni e le loro attese il giorno che verrà. Sono loro i primi destinatari di quel sì di Dio al mondo, di cui parla spesso Benedetto XVI. I giovani anticipano il futuro, ce lo fanno assaggiare. Ecco perché un adulto che abbia perso il contatto coi giovani diventa presto vecchio; e chi è rimasto a contatto con loro conserva una carica stupefacente di giovinezza e di speranza.

Mi chiedo, allora, quali caratteristiche dovranno avere questi esploratori della terra promessa. Come agli inviati del libro dei Numeri, è chiesto ai giovani di raccontare un mondo ai più sconosciuto: essi devono essere dei narratori. Narrare non significa aver capito tutto, voler spiegare tutto, descrivere ogni dettaglio. Narrare vuol dire comunicare un’esperienza vissuta in maniera così intensa da risultare contagiosa di futuro. È questo che mi aspetto dai giovani: che aiutino tutti noi a conoscere, attraverso i loro racconti – che sono i loro “sogni diurni”, le loro attese e speranze – un mondo che per tanti aspetti non conosciamo, quello che condividono ogni giorno nelle scuole, negli ambienti di vita, con i loro amici, con quanti sanno dialogare con loro. Da questo mondo ci separa spesso una distanza, che ci rende difficile capirlo. È evidente, peraltro, che non si può imparare la lingua degli altri senza conoscerli. Chi conosce la lingua dei giovani, chi sta esplorando il mondo che deve venire, sono anzitutto loro, i giovani stessi. Perciò, noi adulti abbiamo bisogno di loro, perché senza di loro non potremo parlare al futuro; è grazie a loro, se accettano di coinvolgersi nell’avventura di sognare insieme e di organizzare la speranza, che anche noi potremo parlare al domani e costruirlo con loro. Il mio appello è allora a coinvolgere i giovani nello sforzo creativo del progetto, necessario ad aprire le vie del domani di tutti. Gli organismi di partecipazione (ad esempio scolastica) sono importanti, ma non bastano. Occorre un livello ulteriore di ascolto e di condivisione.

Oltre a essere i narratori della speranza, i giovani, come gli esploratori della terra di Canaan, sono chiamati a considerare lucidamente il desiderio e le sfide della conquista. Quando presentano il melograno, il fico e l’asta con i grappoli d’uva, gli esploratori lo fanno per dire: “Guardate che bello, questi sono i frutti della terra promessa”, una terra di cui si sono innamorati. Essi descrivono qualcosa per cui vale la pena di rischiare. Vorrei chiedere allora ai giovani: non narrateci l’ovvio, lo scontato; narrateci, invece, quello che nella vita vi fa sognare. Narrateci le vostre speranze, i vostri desideri; siate i trasmettitori di un’esperienza che solo l’amore dischiude, perché solo se si guarda con amore la terra della promessa di Dio, si può anche vedere il grappolo d’uva e il melograno e il fico. Aiutateci a sognare con voi un sogno anche arduo, ma possibile! Proprio per questo, come fecero gli esploratori della terra promessa, non tacete a voi stessi e agli altri le difficoltà dell’impresa. Il vostro sogno sia a occhi aperti, tanto da risultare interprete lucido e razionale della realtà! Bisogna scommettere sulle capacità dei giovani: ad essi non dobbiamo solo chiedere di trasmetterci un’emozione, ma anche di aiutarci a pensare, di proporci delle sfide, di farci valutare senza ambiguità le difficoltà dell’impresa. Nella terra promessa ci sono i giganti, le grandi agenzie che puntano solo al profitto e non esitano a scarificare ad esso i più deboli, a cominciare dai giovani! Non si può, né si deve tacere sulle difficoltà, le sfide, le prove che vanno affrontate. Amare i giovani significa chiedere loro sacrifici sensati, impegnarli a prepararsi, a studiare, a esercitarsi nel dono di sé. Guai a stimolarli solo a fare bella figura, ad apparire! I giovani vanno educati e devono educarsi a capire i problemi, a esaminarli e ad affrontarli insieme con gli altri, a lavorare sodo per superarli.

Da questo consegue una svolta decisiva: da semplici destinatari, più o meno raggiunti dalle nostre analisi e dai nostri progetti, i giovani vanno riconosciuti e trattati da veri protagonisti e interlocutori. Qui c’è il nuovo cui aprirsi: normalmente si parla dei giovani, si progetta sui giovani, ma i giovani non ci sono. In tutti gli organismi decisionali i giovani sono una rarità: si studiano i loro problemi, ma loro sono assenti, non convocati. Ovviamente, con questo non intendo entrare nel dibattito intorno ai cosiddetti “rottamatori” e alle loro ragioni, ma stimolare tutti, specialmente gli adulti e quanti hanno responsabilità di azione, ad ascoltare seriamente il mondo dei giovani, con mente lucida e cuore aperto. Ai giovani, infine, perché siano protagonisti del loro domani, chiederei di sentirsi caricati di un invio, coscienti di una responsabilità, portatori di speranza e di fede, innamorati della bellezza, che salverà il mondo. Giovani luminosi, capaci di guardare agli altri non con indifferenza, ma con attenzione d’amore, col desiderio di raggiungere tutti con un sogno comune, pronti a pagare il prezzo necessario per fare della speranza il dono di un presente possibile. Don Lorenzo Milani proponeva ai ragazzi di Barbiana il motto “I care”, mi sta a cuore: abbiamo bisogno di giovani che credano in questo, che amino i deboli e i poveri, che regalino un po’ del loro tempo agli altri, che non si risparmino nel prepararsi seriamente al domani, che soprattutto non si chiudano mai a quelle che i credenti chiamano – con discernimento e umile consapevolezza – le sfide e le sorprese di Dio. È quello che auguro a tutti i nostri giovani e in modo speciale a chi in questi giorni inizia un nuovo anno scolastico, perché sia cammino fecondo verso un futuro più giusto e bello per tutti.

Non c’è formazione integrale senza insegnamento della religione

Nicola Rosetti spiega come sarebbe difficile comprendere la storia, la scienza, la cultura senza sapere di religione

Un nuovo anno scolastico è alle porte e fra le tante materie che i nostri alunni studieranno ce n’è una che possono scegliere: l’Insegnamento della Religione Cattolica (IRC). L’IRC in Italia è regolato dai Patti Lateranensi e dalle successive modifiche approvate di comune accordo dalla Chiesa Cattolica e dallo Stato Italiano.

Su questa materia è in corso da sempre un vivace dibattito: ci si interroga sulla sua presenza accanto alle altre materie, sulla sua legittimità all’interno dell’ordinamento degli studi di uno stato laico e sulla sua opportunità, visto che molti alunni appartengono ad altre religioni o non si riconoscono in nessuna di esse.

Se vogliamo capire la presenza dell’insegnamento religioso fra le attività didattiche, dobbiamo prima chiederci più in generale quale sia la finalità generale della scuola.

L’istituzione scolastica ha il dovere di aprire gli occhi degli alunni sulla realtà che li circonda e di questa  fa parte, a pieno titolo, l’esperienza religiosa. Se vogliamo per i nostri alunni una formazione integrale, cioè completa, non possiamo non farli riflettere su questo significativo e determinante aspetto della realtà: gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi hanno aderito ad una religione e questa ha spesso determinato i costumi e i modi di vivere dei popoli, al punto che nella nostra lingua le parole “culto” e “cultura” sono affini.

Una volta appurato che la presenza dell’IRC rientra nel quadro delle attività formative rivolte agli studenti, ci si domanda perché l’insegnamento religioso sia confessionale. Contrariamente a quanto si potrebbe credere, il fatto che l’IRC sia gestito dalla Chiesa Cattolica e dallo Stato Italiano non è un’anomalia nel panorama europeo.

Infatti l’insegnamento religioso, presente in quasi tutti gli stati dell’Unione Europea, è cogestito dagli stati e dalle comunità religiose maggiormente diffusi in essi. Laicità non vuol dire ateismo. La laicità, rettamente intesa, rispetta il fattore religioso e in uno stato laico, religione e politica, pur essendo distinte, possono collaborare per il bene comune delle persone: l’insegnamento religioso va visto proprio in questa logica. Questo principio è anche sancito dall’articolo 7 della nostra Costituzione, la quale afferma  che Chiesa e Stato sono indipendenti e sovrani.

La religione cattolica è sicuramente la tradizione religiosa più comune e diffusa nel nostro paese e lo Stato Italiano la riconosce come parte integrante del proprio patrimonio culturale. Ecco dunque perché viene data la possibilità ai nostri alunni di conoscerla. Il cattolicesimo ha influito nel corso dei secoli sulla nostra civiltà: sarebbe sicuramente più complicato comprendere la Divina Commedia, i Promessi Sposi, un dipinto di Giotto o di Caravaggio senza possedere una minima conoscenza dei contenuti di questa religione.

Questo vale sia per gli alunni italiani che per quelli stranieri che vivono nel nostro paese. Gli alunni che appartengono ad altre tradizioni religiose possono frequentare l’IRC, che non va confuso con il catechismo. Questi alunni hanno la possibilità di studiare, senza aderirvi, la religione cattolica e ciò può essere per loro un’ulteriore opportunità di integrazione. Allo stesso tempo, per gli alunni cattolici la presenza durante l’ora di religione di ragazzi appartenenti ad altre religioni può costituire una grande occasione di confronto.

Indagine OCSE: cresce in Europa l’età media degli insegnanti

Bilanci per l’istruzione non adeguati ai tempi; invecchiamento medio della categoria degli insegnanti; squilibrio tra maschi e femmine tra gli iscritti negli atenei.

Sono tre dei problemi rilevati da una indagine dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economici) resa nota oggi, che indaga la situazione scolastica nei 34 Paesi aderenti, 21 dei quali Ue.

Secondo la ricerca, oltre il 50% dei docenti di scuola secondaria superiore in Germania e in Italia ha superato i 50 anni di età; in altri cinque Paesi dell’Unione (Austria, Repubblica ceca, Estonia, Paesi Bassi, Svezia) il dato è oltre il 40%.

Ocse esprime preoccupazione anche per la “disparità tra i generi”: la relazione segnala che “quasi un terzo di donne in più rispetto agli uomini si iscrive all’istruzione universitaria nell’Ue”.

Permane poi la questione delle risorse finanziarie investite nell’educazione. Androulla Vassiliou, commissario europeo per l’istruzione, commenta: “Gli Stati membri dell’Ue riconoscono che l’investimento nell’istruzione è essenziale per il futuro d’Europa e per la sua prosperità nel lungo periodo. Dai dati emerge che il costo dell‘istruzione è di gran lunga controbilanciato dai vantaggi che se ne traggono. Non abbiamo però motivo di essere troppo soddisfatti: la relazione evoca anche la necessità di riforme per modernizzare l’istruzione e renderla più attraente sia agli occhi degli studenti che degli insegnanti”.

Giovani e scuola: risultati di un’indagine

La Scuola è tra le istituzioni che incontrano maggior grado di fiducia tra le giovani generazioni. Secondo il campione analizzato, la netta maggioranza (oltre il 55%) dà ad essa un voto positivo.

E’ quanto emerge dall’indagine “Rapporto Giovani” dell’Istituto di Studi Superiori Giuseppe Toniolo, realizzata dall’Ipsos, da un campione, rappresentativo su scala italiana, di 4500 giovani tra i 18 e i 29 anni.

Ancor più alto il gradimento (valore positivo per quasi due su tre) tra quelli ancor più giovani (20 anni o meno).

Rispetto alla ripartizione geografica, la fiducia tende ad essere maggiore dove scuola e Università offrono migliori strutture e maggiori livelli di preparazione. Il voto positivo supera infatti il 60% al Nord. I valori sono comunque positivi nella maggioranza dei casi anche nel Centro e nel Sud.

Valori sensibilmente più alti sono, inoltre, assegnati al sistema formativo dai giovani che vivono in una famiglia con genitori più istruiti, dove il valore dello studio tende ad essere maggiormente trasmesso. In particolare, se il padre è laureato la quota di voti positivi arriva vicina al 65%. La percentuale di consensi rimane comunque sopra il 50% anche per chi proviene da classe socio-culturale più bassa.

Sia studio che lavoro

Solleva molte preoccupazioni in Italia il fenomeno dei “Neet”, ovvero dei giovani che non studiano e nemmeno lavorano. Esiste,però, anche la categoria opposta, formata da giovani che studiano e nel contempo anche lavorano. Un gruppo di particolare interesse per vari motivi: perché con la crisi economica questi giovani pur avendo trovato un lavoro non rinunciano allo studio, in funzione di migliorare comunque le proprie prospettive future. Ovvero perché,  pur studiando, hanno deciso di iniziare già a confrontarsi con il mercato del lavoro. Una scelta meritoria, quella di cercare durante gli studi di mantenersi del tutto o parzialmente da soli, tanto più in un Paese come il nostro che presenta i più alti tassi di dipendenza economica dei giovani dai genitori nel mondo sviluppato.

Una scelta dettata non sempre e solo da necessità, ma spinta anche dal desiderio di autonomia e da un senso di responsabilità. Ma che si scontra anche con le difficoltà a conciliare tali due impegni.

Nel nostro ampio campione considerato (oltre 4500 giovani nella fascia 18-29 anni), tra coloro che studiano, la quota di chi svolge una qualche attività lavorativa è vicina a uno su cinque tra chi proviene da famiglie con classe sociale più bassa, ma è comunque su livelli di rilievo anche per chi proviene da famiglie più benestanti.

La possibilità di coniugare studio e lavoro è inoltre molto più elevata al Nord rispetto al Sud, sia per le maggiori opportunità di occupazione ma anche per la maggior presenza di studenti fuori sede che vivono lontani dalla famiglia di origine con i costi che questo comporta.

Come ci si può aspettare, la percentuale aumenta con l’età. Sale a circa un caso su tre attorno ai 25 anni, e si avvicina a un caso su due verso i 30 anni.

Riguardo al tipo di contratto, anche qui come ci si poteva aspettare, molto bassa è la quota di chi ha un contratto a tempo indeterminato, pari a poco più di uno su quattro tra coloro che hanno un lavoro alle dipendenze, mentre circa il 16% ha invece un lavoro autonomo.

L’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice compie 140 anni

Il 5 AGOSTO 2012 l’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice compie 140 anni. Il 5 agosto 1872 a Mornese, un piccolo centro in provincia di Alessandria, 11 giovani si consacrano al Signore dando vita a quello che poi sarebbe diventato un Istituto internazionale presente in 94 Nazioni…

Il 5 agosto 1872 a Mornese, un piccolo centro in provincia di Alessandria, 11 giovani si consacrano al Signore dando vita a quello che poi sarebbe diventato un Istituto internazionale presente in 94 Nazioni. In occasione del 5 agosto proponiamo una intervista alla Superiora generale, Madre Yvonne Reungoat.

 

Ha da poco concluso le Verifiche, quale il volto e lo stato di salute dell’Istituto FMA? Quali le sfide che si pongono per il futuro?

Al momento ci sono ancora due gruppi di Conferenze interispettoriali che devono attuare la Verifica del CG XXII, dove confluirà il vissuto e la riflessione delle Ispettorie. Credo però di poter dire – anche grazie alla conoscenza acquisita attraverso le visite – che l’Istituto goda di buona salute. È vivo in tutte le consorelle il desiderio e l’impegno di ravvivare il carisma. Si sente il bisogno di dare più profondità spirituale alla propria vita e di rafforzare la profezia fondandola nella sua radice mistica. Si avverte anche l’esigenza di puntare sulla qualità evangelica delle relazioni come comunità FMA e come Comunità educanti. Emerge il cammino realizzato con i laici non solo a livello di collaborazione, ma anche di corresponsabilità nella missione educativa. Si è consolidata la convinzione di una rinnovata opzione per i poveri, in un mondo che si è progressivamente impoverito, e si riconosce l’importanza di dare vita a comunità autenticamente vocazionali, dove i giovani si sentano accolti e ascoltati e dove possano percepire la bellezza e il dinamismo del carisma.

In sintesi: il cammino dell’Istituto si colloca tra il già e non-ancora. Credo però che la sfida più grande che ingloba le altre sia la speranza.

 L’Istituto FMA celebra 140 anni di vita. Com’è cambiata la sua identità e la missione?

140 anni di vita dell’Istituto rappresentano per tutta la Famiglia salesiana una ricorrenza importante. Per noi FMA costituiscono la celebrazione della fedeltà di Dio e della nostra risposta al suo amore, e sono motivo di gioia e di gratitudine. L’intuizione di Don Bosco di dare anche alle ragazze le stesse opportunità che egli offriva ai suoi ragazzi si è concretizzato grazie alla risposta di alcune giovani donne dell’Associazione dell’Immacolata in Mornese, che hanno aderito alla sua proposta di consacrarsi al Signore come religiose secondo lo spirito salesiano.

In quel piccolo centro del Monferrato, come da un seme coltivato in terra buona e fertile, ha avuto inizio l’Istituto: era il 5 agosto 1872. L’identità delle FMA è stata chiara fin dall’inizio: donne consacrate per la missione di evangelizzare attraverso l’educazione, con una forte identità mariana. Don Bosco ne dava piena testimonianza e Maria Domenica Mazzarello si sentiva totalmente in sintonia con il suo progetto di vita e il suo metodo di educazione: il Sistema preventivo. L’Istituto è cresciuto in modo sorprendente e si è dilatato con una presenza che oggi raggiunge 94 nazioni del mondo e conta circa 14.000 membri, che vivono e operano nei cinque continenti.

Il segreto è nel dinamismo dello Spirito che ha impresso alla nostra Famiglia religiosa una dimensione missionaria e un volto universale. L’identità si è approfondita nel tempo e la missione educativa oggi abbraccia anche le nuove frontiere, i nuovi areopaghi in cui è possibile incontrare i giovani e risvegliare in loro la domanda di senso, educandoli ad essere e buoni cristiani e onesti cittadini, come li voleva Don Bosco. Questo programma è stato assunto in pieno dalle FMA fin dalle origini e attualmente si coniuga sempre più con la promozione dei loro diritti fondamentali e con l’impegno di evangelizzarli.

 Quali sono le attese e le sfide dei giovani di oggi? Si può tracciare ancora una geografia del mondo giovanile o la globalizzazione ha unificato tutto?

Ci sono sicuramente sfide specifiche per i giovani a seconda dei contesti socio-culturali. In quelli di maggiore povertà economica o impoveriti, i giovani sono più motivati ad impegnarsi per elevare il loro stato sociale e sanno approfittare delle opportunità che si offrono loro; quelli dei Paesi definiti ricchi, sono meno motivati e hanno un tempo più lungo di maturazione umana. Ma sono solo generalizzazioni.

La globalizzazione ha un po’ uniformato i bisogni e ne ha indotti degli altri, così che sono molti di più gli aspetti che accomunano i giovani di oggi a livello mondiale rispetto a quelli che li differenziano. Si sono globalizzati i linguaggi, il consumo, le attese di realizzazione, i news media e le nuove tecnologie.

Non mi riferisco alle sfide della globalizzazione solo nella loro dimensione negativa – secolarizzazione, relativismo, consumismo – ma anche in quella positiva. Si è globalizzata ad esempio la solidarietà, il volontariato è cresciuto, c’è una nuova sensibilità riguardo ai diritti umani e alla dignità di ogni persona. I bisogni profondi dei giovani sono quelli di sempre: amare ed essere amati, cercare il senso della vita e la felicità, impegnarsi per l’utilità comune, rendere il mondo una casa abitabile per tutti.

Oggi i giovani vogliono esserci: non solo facendo sentire la loro voce come indignati, ma mettendo a disposizione le loro risorse come giovani impegnati. Credo che ci prepariamo a vivere una nuova stagione, a patto che sappiamo ascoltarli e accompagnarli nel loro percorso di crescita umana e cristiana.

Non c’è solo un linguaggio giovanile criptato, ma anche uno fatto di semplicità, di concretezza, di gratuità e di dono. Esiste una domanda spesso implicita di senso che esige di essere portata alla luce e c’è una richiesta latente dei giovani di essere accompagnati da adulti significativi in un mondo divenuto sempre più multietnico, multiculturale, multireligioso e che non ha punti di riferimento. Per noi la sfida è accompagnarli ad aprirsi agli altri e all’Altro, fino all’annuncio esplicito di Gesù.

 Il termine “crisi” caratterizza diversi ambiti, da quello economico, a quello sociale, dai valori alla realtà giovanile. Quali speranze le FMA offrono?

Le speranze che possiamo offrire dipendono da quelle che animano la nostra stessa vita. Il primo segno di speranza per i giovani è trovare adulti capaci di sperare. La crisi, presente soprattutto in occidente, è crisi economica e sociale, dei valori, culturale ed educativa. L’emergenza educativa può essere interpretata come emergenza di padri e di madri, di casa e di famiglia, di formazione.

Educare in una società che fa troppo spesso del relativismo il proprio credo e che colma le nuove generazioni di gratificazioni emotive ed esalta la cultura dell’effimero, può rendere più difficile il nostro compito e frenare i nostri slanci. Sono convinta, tuttavia, che potremo offrire speranza ai giovani solo se supereremo la crisi di autorevolezza in cui molti adulti sono precipitati abdicando spesso alle loro responsabilità.

Se, come FMA, testimonieremo la bellezza e la gioia della nostra vocazione, sarà più facile costituire una grande rete di comunione e di dialogo con tutti quelli cui sta a cuore l’educazione dei giovani e con i giovani stessi.

A nome di tutte le FMA, esprimo il desiderio che molte giovani donne possano scoprire la chiamata a seguire Gesù nel nostro Istituto. Il campo dei bisogni educativi è immenso. Dalla crisi, che è anche vocazionale, si esce se si è capaci di consegnare alle giovani generazioni il carisma salesiano perché lo sviluppino e lo arricchiscano. A 140 anni dalla fondazione, scorgo un orizzonte grande e aperto in cui la nostra Famiglia religiosa può continuare a scrivere pagine di fedeltà gioiosa, anche con l’apporto di giovani donne che non hanno paura di impegnarsi a seguire Gesù.

 

Ci può raccontare brevemente la sua storia vocazionale?

In famiglia avevo uno zio salesiano missionario in Canada e si riceveva regolarmente il Bollettino Salesiano. Fu così che i miei genitori scoprirono l’esistenza di una scuola delle FMA presso la città di Dinan, in Bretagna (Francia), dove potei frequentare gli studi. Rimasi colpita dal clima di famiglia che regnava in comunità. Un giorno la direttrice mi chiese: “Hai mai pensato alla vita religiosa?”. Questa domanda diretta rievocò in me il desiderio di farmi religiosa che coltivavo in cuore già prima di conoscere le suore e che avevo lasciato cadere pensando all’impossibilità della risposta. Devo riconoscere che la direttrice di Dinan è stata una vera accompagnatrice e che il clima educativo della comunità ha sostenuto il mio cammino. Le FMA avevano l’arte di renderci protagoniste; ci affidavano piccole responsabilità adeguate alle nostre possibilità, così da educarci al servizio verso gli altri. L’accompagnamento mi ha aiutata a maturare la risposta vocazionale. Mi sono sentita afferrata da Dio, ma senza quella domanda, forse, non sarei stata una Figlia di Maria Ausiliatrice.

L’essere stata missionaria in Africa ha arricchito la mia vocazione, che ha poi avuto svolte sorprendenti con la mia elezione a Consigliera Visitatrice, Vicaria generale e, infine, a Superiora Generale. Ho pensato fin dall’inizio che questa missione mi superava totalmente e che avrei potuto adempierla soltanto potendo contare sull’aiuto del Signore e di Maria Ausiliatrice.

Essere la nona Successora di Madre Mazzarello è un compito che può essere svolto solo con la grazia di Dio, con l’affidamento a Maria Ausiliatrice, Colei che ha fatto tutto anche nella mia vita. Sono persuasa che il Signore ci chiede solo la disponibilità per agire in noi con libertà e farci strumenti del suo amore preveniente.