I santi e la pratica eroica delle virtù

Se è alta la qualità teologica della canonizzazione, altrettanto esigente è l’invito all’adesione di fede del credente, il quale è tenuto a prestare il suo assenso fermo e saldo, fondato sulla fede nell’assistenza dello Spirito Santo al magistero della Chiesa e sulla dottrina cattolica dell’infallibilità del magistero in questo campo.
La canonizzazione, quindi, non è un semplice atto di devozione o di pietà popolare, ma l’attestazione formale e solenne della santità di alcuni fedeli, proposti come modelli a tutta Chiesa per l’esaltazione della fede cattolica e l’incremento della vita cristiana (…) Rispondendo ora al titolo della nostra relazione – sul significato cioè della santità nella vita della Chiesa oggi – si può affermare con il concilio Vaticano ii che tutti i fedeli sono chiamati alla santità.
La santità è la vocazione di ogni battezzato.
Di conseguenza ancora oggi la santità fa parte dell’identità della Chiesa, Una Sancta, e del battezzato.
Di qui la sua perenne attualità (…) La fonte originaria della santità della Chiesa e nella Chiesa è Dio Trinità:  “Siate dunque perfetti – dice Gesù – come è perfetto il vostro Padre celeste” (Matteo, 5, 48) (…) La pienezza della vita cristiana e la perfezione della carità sono il traguardo di tutti i cristiani, la cui santità non è solo un ornamento spirituale della Chiesa ma anche un dono alla promozione e all’affermazione di una società umana pacificata e giusta.
Affermando che “tale santità promuove nella stessa società terrena un tenore di vita più umano”, il concilio riconosce le implicanze sociali della santità cristiana.
Per questo spesso i santi sono anche chiamati benefattori dell’umanità, perché, come Gesù, anch’essi sono passati su questa terra “beneficando” (Atti degli apostoli, 10, 38), operando il bene.
Come nei primi secoli il sangue dei martiri fu la linfa della santità della Chiesa, così oggi non solo i santi martiri ma anche i santi confessori della fede, continuano a essere i testimoni straordinari del Vangelo di Cristo, illustrando la Chiesa, madre dei santi (…) È interessante notare che nell’apologetica post-tridentina alcuni teologi evidenziavano un significato non comune della santità della Chiesa.
La qualifica sancta deriverebbe – a loro dire – da “sancire”-“stabilire” ed etimologicamente indicherebbe stabilità, indefettibilità, inviolabilità.
La Chiesa è santa perché è la roccia sulla quale si infrangono le onde dei suoi nemici.
La sua santità indicherebbe la sua indefettibilità, la sua stabilità.
In tutto ciò in primo piano non è tanto la santità dei membri quanto la santità fontale della Chiesa, dal momento che essa è santa perché mediante i suoi sacramenti santifica continuamente i suoi figli, perdonandoli e fortificandoli con la grazia.
Insomma, la Chiesa è santa perché santificatrice.
E la santità dei suoi figli, in subordine a quella di Cristo, la difende dal nemico e la fa splendere di grazia.
Ma questa santità soggettiva è il riflesso della santità oggettiva, costitutiva della Chiesa; ne è espansione e visibilizzazione.
La Chiesa ieri come oggi è stata sempre edificata dalla presenza dei martiri e dei santi.
Nei processi di canonizzazione la domanda di fondo è la seguente:  il servo o la serva di Dio ha praticato in modo eroico le virtù teologali e cardinali? Il santo, infatti, non è un prodotto della cieca evoluzione cosmica, ma un dono della grazia divina (…) Ma cosa significa, in concreto, la pratica eroica della virtù? Sembra che sia stato Aristotele a parlare di virtù eroica, nella sua Etica Nicomachea.
Lo Stagirita cita un brano dell’Iliade in cui Priamo piange la morte di Ettore, suo figlio prediletto, che era stato “tanto virtuoso che non crederesti che egli sia stato generato da padre mortale, ma che sia stato piuttosto della stessa natura degli dei” (…) Nel suo Commentario all’Etica Nicomachea, san Tommaso d’Aquino considera la virtù eroica come la straordinaria perfezione della parte ragionevole dell’anima.
Lo stesso Tommaso, nella stesura della sua Summa, illustra il rapporto tra doni dello Spirito Santo e virtù.
I doni sono indispensabili perché il battezzato raggiunga il suo traguardo soprannaturale.
In questo contesto egli parla di abito eroico o divino, che indica una disposizione verso il bene più alta del comune.
La virtù eroica è l’esercizio in grado eminente della virtù.
Nella virtù eroica il livello morale in essa presente si eleva al di sopra del livello morale di quasi tutti gli uomini.
E ciò suscita ammirazione, che costituisce anche un elemento della definizione della virtù eroica.
Per il benedettino José Saenz de Aguirre (+ 1699) i segni distintivi della virtù eroica sono l’osservanza fedele dei comandamenti e l’adempimento dei consigli evangelici anche in circostanze avverse; l’ammirazione da parte degli altri uomini; qualche miracolo perpetrato da Dio per confermare l’eroismo delle virtù di una persona ritenuta santa.
Per il francescano Lorenzo Brancati la persona che possiede l’abito della virtù eroica deve agire e fare il bene expedite, prompte et delectabiliter, sotto l’influenza e la guida dei doni dello Spirito Santo.
La virtù eroica supera l’esercizio ordinario della virtù dal momento che suscita una più sublime maniera di fare il bene con frequenza, facilità e disinvoltura.
In ogni caso, essa è sempre un grado particolarmente elevato di ogni singola virtù sia teologica sia morale.
Alla domanda su come siano riconoscibili le virtù eroiche, si risponde che il grado eroico è riconoscibile, in primo luogo dalla frequenza, dalla grande prontezza e dal carattere gioioso dell’attività virtuosa; in secondo luogo dal fatto che anche ostacoli difficili, costituiti da circostanze esterne o da intralci interni, vengono superati in modo tale che l’eroe virtuoso può essere considerato capace di grandi sacrifici per il Vangelo nella totale abnegazione di se stesso.
Anche per Prospero Lambertini, poi Benedetto xiv, la virtù eroica implica speditezza, prontezza e letizia in un modo superiore al comune, nell’abnegazione e nel controllo delle passioni.
La virtù eroica è l’elevazione delle virtù fino all’apice della loro perfezione per l’influsso efficace dei doni dello Spirito Santo (…) Tuttavia, come non ogni terreno produce tutto, ma viene raccomandato soprattutto per un prodotto particolare, così i santi per lo più sono nobilitati dallo splendore singolare di una sola virtù. Nonostante la connessione di tutte le virtù, una sola è la virtù che in essi è eminente e prevalente.
Ed è proprio l’eroismo virtuoso che suscita stupore e meraviglia, ma anche sequela e imitazione.
Il Vaticano ii – Lumen gentium, n.
50 – insegna al riguardo:  “Il contemplare la vita di coloro che hanno seguito fedelmente Cristo, è un motivo in più per sentirsi spinti a ricercare la città futura (cfr.
Lettera agli Ebrei, 13, 14 e 11, 10); nello stesso tempo impariamo la via sicurissima per la quale, tra le mutevoli cose del mondo e secondo lo stato e la condizione propria di ciascuno, potremo arrivare alla perfetta unione con Cristo, cioè alla santità.
Nella vita di quelli che, sebbene partecipi della nostra natura umana, sono tuttavia più perfettamente trasformati nell’immagine di Cristo (cfr.
Seconda Lettera ai Corinzi, 3,18), Dio manifesta agli uomini in una viva luce la sua presenza e il suo volto.
In loro è egli stesso che ci parla e ci dà un segno del suo Regno verso il quale, avendo intorno a noi un tal nugolo di testimoni (cfr.
Lettera agli Ebrei, 12, 1) e una tale affermazione della verità del Vangelo, siamo potentemente attirati”.
Nella nota 155, il testo conciliare richiama un decreto di Benedetto xv il quale sottolinea che la virtù eroica può consistere anche nelle piccole cose e, più precisamente, nel fedele, continuo e costante adempimento dei compiti e degli uffici del proprio stato.
Dal canto suo, Pio XII, a chi affermava che i santi sono piuttosto da ammirare che da imitare, rispondeva che la perfezione della santità e la sua eroicità si potevano raggiungere anche nella quotidiana e costante osservanza della legge divina e nella intensissima carità verso Dio e il prossimo.
E ogni santo ha espresso la sua virtù in modo del tutto originale:  alcuni con l’ardore dell’apostolato, altri con la fortezza del martirio, altri con lo splendore della loro verginità o con la soavità della loro umiltà.
Nella virtù eroica Cristo si fa di nuovo visibile in mezzo a noi e il santo diventa lo specchio di Cristo (…) I santi, inoltre, sono i veri operatori dell’inculturazione del Vangelo, non mediante teorie elaborate a tavolino, ma vivendo e manifestando la sequela Christi nella propria cultura.
I santi mostrano la verità evangelica con la loro esistenza.
In essi si realizza la metamorfosi cristiana di una cultura, dal momento che rivelano come le beatitudini evangeliche tocchino e convertano al bene i cuori e le menti delle persone di ogni cultura.
Nei santi l’inculturazione non avviene principalmente ab externo, nello stile delle chiese, negli atteggiamenti del corpo, nel rivestimento linguistico, ma soprattutto, ab interno, nella loro persona.
Sono loro in persona il Vangelo vivente per quella cultura.
Come agli inizi della Chiesa furono i santi pastori, i santi teologi e i santi martiri a evangelizzare le culture della terra, così oggi la Chiesa ha bisogno dei santi per la riuscita di ogni inculturazione.
Il Vangelo infatti non è riservato a una cultura determinata, ma a tutte le culture:  “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura” (Marco, 16, 15).
Ieri come oggi, questo compito è affidato soprattutto ai santi (…) In ciò consiste anche la dimensione missionaria dei santi, che costituiscono un’incarnazione personale del Vangelo.
La loro esistenza è la più efficace opera di convinzione della bontà della Parola di Dio, della sua verità per l’esistenza gioiosa dell’umanità.
Solo così si spiegano le conversioni al Vangelo operate dai santi missionari a cominciare dagli apostoli, che si sparsero in tutto il mondo annunciando la buona notizia della salvezza in Cristo, convertendo e battezzando (…) In conclusione, i santi sono segni concreti di speranza per un futuro di fraternità, di gioia e di pace.
Talvolta ci si lamenta per il grande numero di santi che vengono canonizzati.
Ma la Chiesa santa non può non generare figli santi.
Sarebbe come se ci lamentassimo della grande quantità, varietà e bellezza dei fiori in primavera.
(©L’Osservatore Romano – 30 aprile 2009 Prima di rispondere alla domanda sull’attualità della santità nella Chiesa e nel mondo, conviene premettere alcune considerazioni sul significato e sul valore della santità riconosciuta come tale dalla Chiesa e proposta ai fedeli come esempio d’imitazione di Cristo.
Diciamo subito che la solenne proclamazione della santità dei fedeli mediante la canonizzazione è un atto del Magistero pontificio di altissima qualità teologica.
Infatti, se al primo grado della Professio Fidei appartengono quelle dottrine di fede divina e cattolica che la Chiesa propone come divinamente e formalmente rivelate e, come tali, irreformabili, al secondo grado appartengono tutte quelle dottrine che riguardano la fede o i costumi proposte dalla Chiesa in modo definitivo.
Si tratta di verità che sono infallibilmente insegnate dal magistero ordinario e universale della Chiesa con sententia definitive tenenda.
La canonizzazione appartiene a questo secondo grado di verità proposte in modo definitivo, in quanto fa parte di quelle dottrine necessarie per custodire ed esporre fedelmente il deposito della fede.
I santi, sono quindi, pagine viventi della santità della Chiesa nei secoli.  )

“Messa dei popoli”.

L’uomo di ogni tempo e di ogni cultura ha sempre celebrato, anche con il canto, i momenti importanti della sua vita e della storia per rinnovare una gioia, soffrire per un dolore, affermare una fede, ribadire l’appartenenza ad un gruppo.
Scalamusic si inserisce in questo contesto culturale e musicale, portando la sua esperienza e originalità.
Vuole essere uno strumento in più, semplice e diretto, per la promozione del carisma scalabriniano, per la diffusione di ideali e messaggi di accoglienza e rispetto della dignità del migrante.
È per questo che Scalamusic, dopo le produzioni precedenti (Per terre lontane e Come in Cielo – 2005; Friendly Voice – 2007), ha realizzato una serie di canti liturgici multilingue.
La “Messa dei Popoli” (edita dalle Edizioni Paoline) è un’opera rivolta alle Parrocchie, sempre più ricche di immigrati cattolici che frequentano le celebrazioni, ai gruppi, ai movimenti, e a quanti sono impegnati in questa grande realtà di evangelizzazione.
Un contributo alle celebrazioni delle varie comunità etniche (anglofone, francofone e di lingua spagnola) presenti ormai da tempo in tante città e diocesi.
Tredici canti in cinque lingue, per animare i vari momenti della Celebrazione eucaristica.
Curati nella melodia e nel testo, sono stati composti pensando alle esigenze di ogni coro o comunità.
Può essere utilizzata per animare incontri come le Feste dei Popoli, particolari iniziative di festa e di preghiera, già tradizione di molte diocesi, volte a promuovere il valore dell’accoglienza, dell’unità della famiglia umana e della Chiesa; Giornate Mondiali delle Migrazioni; Giornate Missionarie e incontri di preghiera, frequentemente internazionali in queste occasioni.
Gli autori, missionari e giovani laici scalabriniani, sono: Fabio Baggio, Francesco Buttazzo, Gabriele Beltrami, Daniele Scarpa, Antonio Grasso, Enrico Selleri, Emma Maria Mannocchi.
Gli Autori e lo Staff di Scalamusic La “MESSA deiPOPOLI” una nuova proposta musicale da SCALAMUSIC Nata per sensibilizzare con la musica e lo spettacolo la società (in modo particolare il mondo giovanile) sulle questioni legate al fenomeno migratorio ed alle dinamiche interculturali contemporanee, l’Associazione Scalamusic presenta il suo ultimo cd: la “Messa dei Popoli”, una raccolta di canti per esprimere l’identità universale e missionaria della Chiesa.

Giobbe interroga il Creatore

Questo secondo contributo orienta la riflessione sulla figura di Giobbe.
– Il male, il dolore incombono sulla vita dell’uomo, magari innocente: – La fede nel Dio creatore può darvi un senso? Quale?                      Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono.
            – Quale l’atteggiamento del laico credente nel momento della prova?     Dalla potenza ordinatrice del cosmo alla signoria sull’esistenza: Giobbe   La fede di Israele sa che JHVH ha creato i cieli.
Man mano assume anche chiara coscienza che ha creato pure lo stesso Israele.
E di conseguenza,sia pure piuttosto tardi, la creazione si pone a garanzia della signoria di JHVH sulla storia.
I libri sapienziali ne danno luminosa conferma.
Il libro di Giobbe è importante perché misura la signoria di Dio nei confronti dell’aspetto più conturbante della creazione: il dolore e il male ch possono incombere sull’esistenza, magari innocente.
Di fatto nel caso di Giobbe la riflessione si fa sofferta e drammatica: non sono più i limiti e le resistenze del cosmo che fanno problema ma il dolore, il male che attanaglia l’esistenza e non sembra avere spiegazione.
La figura di Giobbe porta all’esasperazione l’interrogativo; rende conturbante la domanda su Dio stesso: quale signoria sulla creazione, quale garanzia di giustizia nel pesare la vita e l’agire dell’uomo davvero gli compete? La ribellione veemente e la vibrante requisitoria  dell’uomo Giobbe sembrano scalzare questa serena visione di uno sviluppo sicuro  che accompagna la vita nel suo imporsi sull’avversione tenace del caos.
Perciò l’intervento stesso di Dio parte proprio dall’appassionata difesa del suo mondo, in cui la vita incede trionfante a dispetto di tutte le resistenze e i limiti che ancora le si oppongono.
‘Dov’eri tu quand’io ponevo le fondamenta della terra? Dillo se ha i tanta intelligenza… chi ha posto la sua pietra angolare, mentre giocavano in coro le stelle del mattino e plaudivano tutti i figli di Dio?’ (Giobbe, 38, 4,6b,7) In fondo, Dio non risponde a Giobbe; lo inchioda sulla contemplazione di un universo magnifico e misterioso, di cui Lui solo conosce il segreto, perché l’ha fondato e lo governa.
Il riferimento alla creazione, la celebrazione della sua insondata grandezza, del suo irruente dinamismo; della sovrana autorità con cui Dio la muove inducono Giobbe a riconoscere una sapienza che aveva osato contestare.
Giobbe al pari dei suoi amici guardano il mondo in una fissità e organizzazione definite.
Dio spalanca loro la visione di una vitalità dinamica comandata da un principio irresistibile che va man mano integrando e organizzando gli aspetti difficilmente conciliabili e apparentemente caotici che lo fermentano.
L’appassionata difesa di Dio esprime una presenza straordinariamente avvertita e disponibile ad aprire il gioco imprevedibile della vita, a lasciarlo affermarsi fino allo scontro e all’apparente inconciliabilità, per guidarlo in realtà con superiore sapienza al fine che gli è assegnato.
Di fronte all’uomo Dio solleva il velo per far capire come dietro un enigma che l’uomo scorge se ne celano altri innumerevoli;  che il problema situato e parziale, di cui l’uomo si rende conto, suppone ulteriori interrogativi, che neppure avverte.
L’uomo e la sua tracotanza è dunque messa a tacere; ma soprattutto è ammaestrata a dare fiducia ad una sapienza ordinatrice che intesse in forma suggestiva e sovrano le fila dell’ universo progressivamente riportato all’ordine  e condotto a buon fine.
Giobbe si ricrede; la resa e il riconoscimento pieno al disegno sapiente di Dio sulla sua vita; un disegno profondo e arcano ma non perciò meno garantito e rasserenante.
“Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te.
… Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono.
Perciò mi ricredo e ne provo pentimento su polvere e cenere.” ( Giobbe, 42, 2, 8, 9 )   E’ una confessione umile, ma anche grande: piena di fiducia e di abbandono.
Celebra l’insondabile sapienza di Dio, ma anche la consapevole dignità dell’uomo.
Il dolore può non compromettere, ma rinsaldare l’intimità dell’uomo con Dio.
  ————————————————-                                                                                                                     Per la riflessione personale o di gruppo si può opportunamente riferirsi a: Giobbe, dal capitolo 38°: Le sfide del Signore   Per l’approfondimento personale e di gruppo:             Quale provocazione religiosa sottende il problema del male?             Quale risposta può dare il credente?             Per l’aggiornamento: LÖNING K.
– E.
ZENGLER, In principio Dio Creò.
Teologie bibliche della creazione, Brescia, Queriniana, 2007 RAD (Von) G., Teologia dell’Antico Testamento, 2 voll., Brescia, Paideia, 1974.
 TRENTI Z., La secolarità nell’orizzonte della creazione, Leumann, Ellenici, 2009

La testimonianza della povertà

L’ultima giornata umbra del Capitolo – che da mercoledì 15 ha portato ad Assisi circa duemila tra religiose e religiosi in rappresentanza della Famiglia francescana – è trascorsa nel segno del digiuno, della penitenza e del rinnovo della fedeltà al mandato di san Francesco.
Nella mattinata i partecipanti al Capitolo hanno letteralmente invaso Assisi per un silenzioso pellegrinaggio individuale nei diversi luoghi del santo.
Successivamente, nel pomeriggio, è partita dal piazzale della Porziuncola di Santa Maria degli Angeli la processione penitenziale che ha raggiunto la tomba di san Francesco, nella Basilica Inferiore.
Qui i ministri generali dei quattro ordini francescani – frati minori, minori conventuali, minori cappuccini, terz’Ordine regolare – hanno consegnato a tutti i frati una copia della Regola di san Francesco.
Il Capitolo internazionale delle stuoie è stato convocato infatti proprio a ricordo degli ottocento anni dell’approvazione “orale”, da parte di Papa Innocenzo iii, della prima regola del santo d’Assisi.
L’importanza e l’attualità della regola francescana sono state ribadite dal cardinale Hummes nel corso della messa celebrata nel piazzale della Basilica Inferiore.
Il porporato ha indicato e riassunto i punti essenziali del carisma francescano: “il rinnovamento, l’apostolica missionarietà, l’amore alla povertà e ai poveri, la fraternità francescana e la comunione con la Chiesa”.
Binari lungo i quali oggi, come ai tempi di Francesco, deve snodarsi la presenza francescana.
“Il Papa ripete sempre – ha osservato il cardinale – che bisogna riprendere con urgenza e determinazione il lavoro missionario, nel senso stretto della parola, non soltanto ad gentes, che continua a essere importantissimo, ma anche all’interno dello stesso gregge già costituito della Chiesa, ossia tra i battezzati che si sono allontanati per tanti motivi o mai sono stati veramente evangelizzati, perché nessuno li ha portati a fare un vero incontro con il Signore risorto”.
Hummes si è poi soffermato soprattutto sul valore della povertà.
“Vivere la povertà evangelica – ha affermato – in una società sempre più affascinata e schiavizzata dal denaro, e vivere l’amore e la solidarietà verso i poveri, verso ogni singolo povero, dev’essere una delle principali e più significative contribuzioni dei frati francescani alla testimonianza della Chiesa nel mondo attuale.
La povertà e l’esclusione sociale di centinaia di milioni di persone, di interi popoli, sono piaghe crescenti oggi e cresceranno ancora di più nell’attuale crisi economica, con la crescita angosciante della disoccupazione nel mondo del lavoro”.
Quello della testimonianza è stato il tema centrale anche degli interventi proposti nel corso del Capitolo da tre francescani che in passato hanno ricoperto l’incarico di ministro generale.
Per padre Giacomi Bini, dei frati minori, “è tempo di risvegliare una nuova coscienza missionaria ancorata in una fede più vissuta e una vocazione evangelica più autentica, più appassionata.
E più i valori sono chiari e forti più si creano e s’inventano nuove forme d’evangelizzazione e d’incontro”.
Per l’arcivescovo Agostino Gardin, ex ministro generale dei minori conventuali e oggi segretario della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, “probabilmente vi è ancora qualcosa da riscoprire e di cui riappropriarci nella nostra ricerca di come essere francescani oggi, proprio in relazione alla minorità.
Perché oggi, in particolare, ho l’impressione che uno stile mite, non arrogante, discreto, paziente, capace di ascolto e di riflessione, propositivo, privo di facili giudizi, remissivo farebbe bene non solo alla vita interna delle nostre comunità, ma alla stessa Chiesa e al suo porsi nel mondo”.
Il vescovo di Nelson, in Canada, monsignor John Corriveau, già ministro generale dei cappuccini, ha aggiunto che “il mondo secolarizzato nel quale viviamo crede che la propria tecnologia contenga in sé tutto ciò che è necessario per il progresso e la liberazione dell’umanità”, ma “la tecnologia fallisce di fronte all’avarizia e alla prepotenza dell’uomo”.
(©L’Osservatore Romano – 19 aprile 2009) La scelta della povertà resta uno dei principali contributi che il mondo francescano può offrire alla testimonianza della Chiesa nel mondo d’oggi.
Con questa sottolineatura del cardinale Cláudio Hummes, o.f.m., prefetto della Congregazione per il Clero, si sono concluse ieri le giornate umbre del Capitolo internazionale delle stuoie.
Raduno che ha vissuto nella mattina di sabato 18 il suo alto momento e conclusivo con il trasferimento nella capitale e l’udienza a Castel Gandolfo con Benedetto XVI (di cui riferiamo in altra parte del giornale, ndr).
Nel pomeriggio poi, a Castel Porziano, una delegazione di venticinque responsabili mondiali dei diversi ordini francescani ha incontrato il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, al quale è stata consegnata una copia della lettera che, otto secoli fa, Francesco d’Assisi, indirizzò ai “Reggitori dei popoli”.

Credere in… Giuda e Pietro

Il credente non ha gli occhi bendati.
I suoi sono solo occhi più penetranti, profondi.
Il cumulo delle cose che vede, dei gesti, delle vicende sono un groviglio che va dipanato.
Alcune tracce si intravedono e si possono perseguire.
E lui le persegue con tenacia.
Portano ad una conclusione: il mondo che fermenta dentro di me, che si muove attorno a me, la ridda concitata degli avvenimenti che segnano la storia è indecifrabile.
Ma c’è; e offre straordinari richiami di umana dignità, di superba razionalità, di cui il caos o il caso non sono spiegazione.
La tradizione occidentale vi ha presagito e argomentato il riferimento a Dio, vi ha percepito un’eco persuasiva; vi ha scorto tracce profonde e visibili della sua presenza, che pure resta avvolta di mistero.
Ha legittimato la fede in lui e la vive nella trepidazione.
Sa che Dio non intende uscire allo scoperto perché gli si battano le mani, e tuttavia non cessa di bussare con tocco leggero al cuore di ciascuno; non scende a patti con nessuno, e tuttavia parla con voce persuasiva a chi sta in ascolto, veglia in attesa, attende con amore.
La fiducia ha una gamma vasta di gradualità.
La fiducia religiosa può pervenire al vertice; si porta dal fidarsi di, dal credere a …
al credere in…
rilevato già nell’analisi di Agostino.
Un rapido confronto fra la figura di Pietro e di Giuda può illuminare aspetti apparentemente sottili; in realtà profondi e decisivi.
Giuda è colui che crede a…
perde la fede, tradisce.
Come interpretarlo? coltivava un’utopia; contava sul ‘regno di Israele’ e vedeva in Gesù il banditore dal fascino singolare e appassionante.
Gesù che instaura il Regno, interpreta la sua utopia.
Giuda crede in se stesso; Gesù è l’occasione per dare realizzazione al proprio sogno.
Pietro è colui che crede in…
Anche Pietro tradisce, ma non perde la sua fede in Gesù Forse pure Pietro e gli altri hanno seguito Gesù perché rispondeva ad una loro segreta aspirazione, come banditore del Regno, di una causa che li appassionava.
Ma progressivamente sono passati dalla passione per la causa che egli impersonava all’amore per lui.
Perciò il caso di Pietro è diverso: tradisce – rinnega, ma crede in Gesù.
Sa che potrà ricuperarlo, accoglierlo , perdonarlo.
Ha capito chi era – “Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente!” (Matteo 16, 16) Nella passione e nel rinnegamento non ha perduta un’utopia: ha perduto Lui, il Maestro.
Però non ha cessato di amarlo, di sentire che la sua vita era centrata su di lui.
Non anela che a ritrovarlo; a sentirsi perdonato; a mostragli che un momento di debolezza non aveva scosso la fiducia; che la sua dichiarazione di amore era vera: darei la mia vita per Te…
Pietro a differenza di Giuda è passato da una fede data a Gesù per una speranza ambita, ad una fede in Gesù come colui di cui fidarsi, anzi a cui affidarsi, fino all’abbandono e alla dedizione incondizionata! Resta una fiducia esemplare; esposta alla provocazione e al tradimento, mai dimentica di un’incontro che ha cambiato la vita, l’ha affidata all’unico in grado di accoglierla e di celebrarla.
Allora le due figure si differenziano.
Pietro crede in Gesù oltre la proposta di Gesù.
L’esito della proposta lo sconcerta, la figura di Gesù lo appassiona: quella passione lo salva.
Giuda crede a Gesù ma resta attaccato alla propria ambizione, segue Gesù per realizzarla, lo abbandona quando si ritrova deluso, forse ‘tradito’.
Non ama Gesù, ama se stesso.
L’esito della straordinaria avventura nell’abbandono e nella passione segna il fallimento della sua utopia, rende ragione dei gesti che spiegano la sua rovina.
Qual è allora il salto, il rischio della fede? La prova di cui la fede si avvale risulta in definiva poca cosa: riguarda fatti e situazioni, segni talora evidenti, magari riconosciuti: anche i rappresentanti del Sinedrio ammettono: “un miracolo evidente, non possiamo negarlo…”( Atti 4) e tuttavia la constatazione non li porta alla fede in Gesù.
La fede si gioca sulla fiducia, che interpreta i fatti e la stessa proposta, li oltrepassa per attingere la persona e decidere l’adesione, l’amore, l’abbandono.
La fede non si gioca sull’efficienza, si gioca sull’adesione: solo quando questa diventa piena e totalizzante realizza le condizioni che la possono spiegare; dà la misura della gratuità insita nella risposta.
II credere raccoglie dunque in un singolare evento l’iniziativa gratuita di Dio, la risposta gratuita dell’uomo.
Interpreta la verità e la vocazione dell’uomo: è invocazione.
Da: TRENTI Z., La secolarità nell’orizzonte della creazione, Leumann, Elledici 2009, pp.
53-55.
Un rapido confronto fra la figura di Pietro e di Giuda può illuminare aspetti apparentemente sottili; in realtà profondi e decisivi.
Giuda è colui che crede a…
perde la fede, tradisce.
Come interpretarlo? coltivava un’utopia; contava sul ‘regno di Israele’ e vedeva in Gesù il banditore dal fascino singolare e appassionante.
Gesù che instaura il Regno, interpreta la sua utopia.
Giuda crede in se stesso; Gesù è l’occasione per dare realizzazione al proprio sogno.
Pietro è colui che crede in…
Anche Pietro tradisce, ma non perde la sua fede in Gesù Forse pure Pietro e gli altri hanno seguito Gesù perché rispondeva ad una loro segreta aspirazione, come banditore del Regno, di una causa che li appassionava.
Ma progressivamente sono passati dalla passione per la causa che egli impersonava all’amore per lui.
Perciò il caso di Pietro è diverso: tradisce – rinnega, ma crede in Gesù.
Sa che potrà ricuperarlo, accoglierlo , perdonarlo.
Ha capito chi era – “Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente!” (Matteo 16, 16) Nella passione e nel rinnegamento non ha perduta un’utopia: ha perduto Lui, il Maestro.
Però non ha cessato di amarlo, di sentire che la sua vita era centrata su di lui.
Non anela che a ritrovarlo; a sentirsi perdonato; a mostragli che un momento di debolezza non aveva scosso la fiducia; che la sua dichiarazione di amore era vera: darei la mia vita per Te…
Pietro a differenza di Giuda è passato da una fede data a Gesù per una speranza ambita, ad una fede in Gesù come colui di cui fidarsi, anzi a cui affidarsi, fino all’abbandono e alla dedizione incondizionata! Resta una fiducia esemplare; esposta alla provocazione e al tradimento, mai dimentica di un’incontro che ha cambiato la vita, l’ha affidata all’unico in grado di accoglierla e di celebrarla.
Allora le due figure si differenziano.
Pietro crede in Gesù oltre la proposta di Gesù.
L’esito della proposta lo sconcerta, la figura di Gesù lo appassiona: quella passione lo salva.
Giuda crede a Gesù ma resta attaccato alla propria ambizione, segue Gesù per realizzarla, lo abbandona quando si ritrova deluso, forse ‘tradito’.
Non ama Gesù, ama se stesso.
L’esito della straordinaria avventura nell’abbandono e nella passione segna il fallimento della sua utopia, rende ragione dei gesti che spiegano la sua rovina.
Qual è allora il salto, il rischio della fede? La prova di cui la fede si avvale risulta in definiva poca cosa: riguarda fatti e situazioni, segni talora evidenti, magari riconosciuti: anche i rappresentanti del Sinedrio ammettono: “un miracolo evidente, non possiamo negarlo…”( Atti 4) e tuttavia la constatazione non li porta alla fede in Gesù.
La fede si gioca sulla fiducia, che interpreta i fatti e la stessa proposta, li oltrepassa per attingere la persona e decidere l’adesione, l’amore, l’abbandono.
La fede non si gioca sull’efficienza, si gioca sull’adesione: solo quando questa diventa piena e totalizzante realizza le condizioni che la possono spiegare; dà la misura della gratuità insita nella risposta.
II credere raccoglie dunque in un singolare evento l’iniziativa gratuita di Dio, la risposta gratuita dell’uomo.
Interpreta la verità e la vocazione dell’uomo: è invocazione.
Da: TRENTI Z., La secolarità nell’orizzonte della creazione, Leumann, Elledici 2009, pp.
53-55.
La Pasqua è occasione propizia per rivisitare anche l’atteggiamento di alcuni protagonisti.
Offrono l’occasione di riflettere su una fondamentale esperienza di fede che ha accompagnato la vicenda unica di Gesù.
Credere è fidarsi…
Alla cieca? Da un certo punto di vista, sì, alla cieca! Questo significa fidarsi.
È il dono incomparabile dell’amicizia.
So che mi posso fidare, ed è naturale che mi fidi.
Ma la fiducia non è infondata; ha percorso una lunga strada, spesso accidentata; è approdata ad una considerazione conclusiva: mi posso fidare, mi fido! Dunque alla cieca relativamente, sulla base di una lunga e assodata esperienza…

Una nuova teologia della fraternità per superare conflitti etnici ed egoismi

L’incontro di Benedetto XVI con i membri del Consiglio speciale per l’Africa del Sinodo dei vescovi, svoltosi giovedì pomeriggio 19 marzo nella nunziatura di Yaoundé, ha come segnato l’inizio della ii seconda assemblea sinodale speciale, che si terrà in Vaticano dal 4 al 25 ottobre.
Dopo il saluto dell’arcivescovo Nikola Eterovic, segretario generale del Sinodo dei vescovi, il Papa ha pronunciato il seguente discorso.
Signori Cardinali, cari Fratelli nell’Episcopato! È con profonda gioia che saluto tutti voi, in questa terra d’Africa.
Per essa, nel 1994, una Prima Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi è stata convocata dal mio venerato Predecessore, il Servo di Dio Giovanni Paolo ii, in segno di sollecitudine pastorale per questo continente ricco sia di promesse, sia di pressanti necessità umane, culturali e spirituali.
L’ho chiamato questa mattina “il continente della speranza”.
Ricordo con gratitudine la firma dell’Esortazione apostolica post-sinodale Ecclesia in Africa, che ebbe luogo proprio qui 14 anni or sono, nella Festa dell’Esaltazione della Croce, il 14 settembre 1995.
La mia riconoscenza va a Mons.
Nikola Eterovic, Segretario Generale del Sinodo dei Vescovi, per le parole che mi ha indirizzato a nome vostro, introducendo questo incontro in terra africana con voi, e sono molto riconoscente per ciò che mi avete detto; questo mi da un’idea più realistica della situazione su cui dobbiamo parlare e pregare soprattutto in questo Sinodo, cari membri del Consiglio Speciale per l’Africa.
Tutta la Chiesa guarda con attenzione a questo incontro in vista della Seconda Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi, che, a Dio piacendo, sarà celebrata nel prossimo ottobre.
Il tema è: “La Chiesa in Africa al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace.
“Voi siete il sale della terra …
Voi siete la luce del mondo” (Mt 5, 13.14)”.
Ringrazio vivamente i Cardinali, gli Arcivescovi e i Vescovi membri del Consiglio Speciale per l’Africa, per la loro esperta collaborazione alla redazione dei Lineamenta e dell’Instrumentum laboris.
Vi sono riconoscente, cari Confratelli nell’Episcopato, per avere anche presentato nei vostri contributi aspetti importanti della situazione ecclesiale e sociale attuale dei vostri Paesi d’origine e della regione.
Avete così sottolineato il grande dinamismo della Chiesa in Africa, ma al tempo stesso avete evocato le sfide, i grandi problemi dell’Africa che il Sinodo dovrà esaminare, affinché nella Chiesa in Africa la crescita non sia soltanto quantitativa ma anche qualitativa.
Cari Fratelli, in apertura della mia riflessione, mi sembra importante sottolineare che il vostro continente è stato santificato dallo stesso Signore nostro Gesù Cristo.
All’alba della sua vita terrena, alcune tristi circostanze gli hanno fatto calcare il suolo africano.
Dio ha scelto il vostro continente perché diventasse dimora del suo Figlio.
Mediante Gesù, Dio è venuto incontro ad ogni uomo, certamente, ma in modo particolare, incontro all’uomo africano.
L’Africa ha offerto al Figlio di Dio una terra che lo ha nutrito e una protezione efficace.
Mediante Gesù, duemila anni fa, Dio stesso ha portato il sale e la luce all’Africa.
Da allora, il seme della sua presenza è sepolto nelle profondità del cuore di questo amato continente ed esso germoglia a poco a poco al di là e attraverso le vicissitudini della sua storia umana.
In conseguenza della venuta di Cristo che l’ha santificata con la sua presenza fisica, l’Africa ha ricevuto una chiamata particolare a conoscere Cristo.
Che gli Africani ne siano fieri! Meditando e approfondendo spiritualmente e teologicamente questa prima tappa della kénosi, l’Africano potrà trovare le forze sufficienti per affrontare il suo quotidiano talvolta molto duro, e potrà allora scoprire immensi spazi di fede e di speranza che l’aiuteranno a crescere in Dio.
Alcuni momenti significativi della storia cristiana di questo Continente possono ricordarci il legame profondo che esiste tra l’Africa e il cristianesimo a partire dalle sue origini.
Secondo la venerabile tradizione patristica, l’evangelista san Marco, che ha “trasmesso per iscritto ciò che era stato predicato da Pietro” (Ireneo, Adversus haereses iii, i, 1), venne ad Alessandria a rianimare la semente sparsa dal Signore.
Questo Evangelista ha reso testimonianza in Africa della morte in croce del Figlio di Dio – ultimo momento della kénosi – e della sua elevazione sovrana, perché “ogni lingua proclami: Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre” (Fil 2, 11).
La Buona Novella della venuta del Regno di Dio si è diffusa rapidamente nel nord del vostro Continente, dove ha avuto illustri martiri e santi e ha generato insigni teologi.
Dopo essere stato messo alla prova da vicissitudini storiche, il cristianesimo, durante quasi un millennio, non è rimasto che nella parte nord-orientale del Continente.
Con l’arrivo degli Europei che cercavano la via delle Indie, nei secoli xv e XVI, le popolazioni sub-sahariane hanno incontrato Cristo.
Furono le popolazioni costiere a ricevere per prime il battesimo.
Nei secoli xix e xx, l’Africa sub-sahariana ha visto arrivare missionari, uomini e donne, provenienti da tutto l’Occidente, dall’America Latina e anche dall’Asia.
Desidero rendere omaggio alla generosità della loro risposta incondizionata alla chiamata del Signore e al loro ardente zelo apostolico.
Qui vorrei andare oltre e parlare dei catechisti africani, compagni inseparabili dei missionari nell’evangelizzazione.
Dio aveva preparato il cuore di un certo numero di laici africani, uomini e donne, persone giovani e più avanti negli anni, a ricevere i suoi doni e portare la luce della sua Parola ai loro fratelli e sorelle.
Laici con i laici, hanno saputo trovare nella lingua dei loro padri le parole di Dio che hanno toccato il cuore dei loro fratelli e sorelle.
Hanno saputo condividere il sapore del sale della Parola e far risplendere la luce dei Sacramenti che annunciavano.
Hanno accompagnato le famiglie nella loro crescita spirituale, hanno incoraggiato le vocazioni sacerdotali e religiose e sono stati il legame tra le loro comunità e i sacerdoti e i vescovi.
Con naturalezza, hanno operato un’efficace inculturazione che ha portato meravigliosi frutti (cfr Mc 4, 20).
Sono stati i catechisti a permettere che “la luce risplendesse davanti agli uomini” (Mt 5, 16), perché vedendo il bene che facevano, intere popolazioni hanno potuto rendere gloria al nostro Padre che è nei cieli.
Sono Africani che hanno evangelizzato Africani.
Evocando il loro glorioso ricordo, saluto e incoraggio i loro degni successori che lavorano oggi con la stessa abnegazione, lo stesso coraggio apostolico e la stessa fede dei loro predecessori.
Che Dio li benedica generosamente! Durante questo periodo, la terra africana è stata anche benedetta da numerosi santi.
Mi limito a nominare i gloriosi Martiri dell’Uganda, i grandi missionari Anna Maria Javouhey e Daniele Comboni, come pure Suor Anuarite Nengapeta e il catechista Isidoro Bakanja, senza dimenticare l’umile Giuseppina Bakhita.
Ci troviamo attualmente in un momento storico che coincide, dal punto di vista civile, con l’indipendenza ritrovata e, dal punto di vista ecclesiale, con l’evento del Concilio Vaticano ii.
La Chiesa in Africa ha preparato e accompagnato durante questo periodo la costruzione delle nuove identità nazionali e, parallelamente, ha cercato di tradurre l’identità di Cristo secondo vie proprie.
Mentre la Gerarchia si era a poco a poco africanizzata, a partire dall’ordinazione da parte del Papa Pio xii di Vescovi del vostro continente, la riflessione teologica cominciò a svilupparsi.
Sarebbe bene che i vostri teologi continuassero oggi ad esplorare la profondità del mistero trinitario e il suo significato per la vita quotidiana africana.
Questo secolo permetterà forse, con la grazia di Dio, la rinascita, nel vostro continente, ma certamente sotto una forma diversa e nuova, della prestigiosa Scuola di Alessandria.
Perché non sperare che essa possa fornire agli Africani di oggi e alla Chiesa universale grandi teologi e maestri spirituali che potrebbero contribuire alla santificazione degli abitanti di questo continente e della Chiesa intera? La Prima Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi ha permesso di indicare le direzioni da prendere e ha messo in evidenza, tra l’altro, la necessità di approfondire e di incarnare il mistero di una Chiesa-Famiglia.
Vorrei ora suggerire qualche riflessione sul tema specifico della Seconda Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi, relativo alla riconciliazione, alla giustizia e alla pace.
Secondo il Concilio Ecumenico Vaticano ii, “la Chiesa è in Cristo come sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (Lumen gentium, 1).
Per adempiere bene la propria missione, la Chiesa dev’essere una comunità di persone riconciliate con Dio e tra di loro.
In questo modo, essa può annunciare la Buona Novella della riconciliazione alla società attuale, che conosce purtroppo in molti luoghi conflitti, violenze, guerre e odio.
Il vostro continente non ne è stato risparmiato ed è stato ed è ancora triste teatro di gravi tragedie, che fanno appello ad una vera riconciliazione tra i popoli, le etnie, gli uomini.
Per noi cristiani, questa riconciliazione si radica nell’amore misericordioso di Dio Padre e si realizza mediante la persona di Gesù Cristo che, nello Spirito Santo, ha offerto a tutti la grazia della riconciliazione.
Le conseguenze si manifesteranno allora con la giustizia e la pace, indispensabili per costruire un mondo migliore.
In realtà, nel contesto sociopolitico ed economico attuale del continente africano, che cosa c’è di più drammatico della lotta spesso cruenta tra gruppi etnici o popoli fratelli? E se il Sinodo del 1994 ha insistito sulla Chiesa-Famiglia di Dio, quale può essere l’apporto di quello di quest’anno, alla costruzione dell’Africa, assetata di riconciliazione e alla ricerca della giustizia e della pace? I conflitti locali o regionali, i massacri e i genocidi che si sviluppano nel Continente devono interpellarci in modo tutto particolare: se è vero che in Gesù Cristo noi apparteniamo alla stessa famiglia e condividiamo la stessa vita, poiché nelle nostre vene circola lo stesso Sangue di Cristo, che fa di noi figli di Dio, membri della Famiglia di Dio, non dovrebbero dunque più esserci odio, ingiustizie, guerre tra fratelli.
Constatando lo sviluppo della violenza e l’emergere dell’egoismo in Africa, il Cardinale Bernardin Gantin, di venerata memoria, faceva appello, fin dal 1988, a una Teologia della Fraternità, come risposta al richiamo pressante dei poveri e dei più piccoli (cfr.
L’Osservatore Romano, ed.
francese, 12 aprile 1988, pp.
4-5).
Gli tornava forse alla memoria ciò che scriveva l’africano Lattanzio all’alba del iv secolo: “Il primo dovere della giustizia è riconoscere l’uomo come un fratello.
Infatti, se lo stesso Dio ci ha fatti e ci ha generati tutti nella stessa condizione, in vista della giustizia e della vita eterna, noi siamo sicuramente uniti da legami di fraternità: chi non li riconosce è ingiusto” (Epitomé des Institutions Divines, 54, 4-5: SC 335, p.
210).
La Chiesa-Famiglia di Dio che è in Africa, già dalla Prima Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi ha realizzato un’opzione preferenziale per i poveri.
Essa manifesta così che la situazione di disumanizzazione e di oppressione che affligge i popoli africani non è irreversibile; al contrario, essa pone ciascuno di fronte ad una sfida, quella della conversione, della santità e dell’integrità.
Il Figlio, mediante il quale Dio ci parla, è Lui stesso Parola fatta carne.
Ciò è stato l’oggetto delle riflessioni della recente xii Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi.
Diventata carne, questa Parola è all’origine di ciò che noi siamo e facciamo; è il fondamento di ogni vita.
È dunque a partire da questa Parola che bisogna valorizzare le tradizioni africane, correggere e perfezionare la loro concezione della vita, dell’uomo e della famiglia.
Gesù Cristo, Parola di vita, è sorgente e compimento di tutte le nostre vite, perché il Signore Gesù è l’unico mediatore e redentore.
È urgente che le comunità cristiane diventino sempre più luoghi di ascolto profondo della Parola di Dio e di lettura meditativa della Sacra Scrittura.
È attraverso questa lettura meditativa e comunitaria nella Chiesa che il cristiano incontra Cristo risorto che gli parla e gli ridona speranza nella pienezza di vita che Egli offre al mondo.
Quanto all’Eucaristia, essa rende il Signore realmente presente nella storia.
Mediante la realtà del suo Corpo e del suo Sangue, il Cristo tutto intero si rende sostanzialmente presente nelle nostre vite.
È con noi tutti i giorni fino alla fine dei tempi (cfr.
Mt 28, 20) e ci rimanda alle nostre realtà quotidiane affinché possiamo riempirle della sua presenza.
Nell’Eucaristia, è messo chiaramente in evidenza che la vita è una relazione di comunione con Dio, con i nostri fratelli e le nostre sorelle, e con l’intera creazione.
L’Eucaristia è sorgente di unità riconciliata nella pace.
La Parola e il Pane di vita offrono luce e nutrimento, come antidoto e viatico nella fedeltà al Maestro e Pastore delle nostre anime, perché la Chiesa in Africa realizzi il servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace, secondo il programma di vita dato dal Signore stesso: “Voi siete il sale della terra…
Voi siete la luce del mondo” (Mt 5, 13.14).
Per esserlo veramente, i fedeli devono convertirsi e seguire Gesù Cristo, diventare suoi discepoli, per essere testimoni del suo potere salvifico.
Durante la sua vita terrena, Gesù era “potente in opere e parole” (Lc 24, 19).
Con la sua risurrezione ha sottomesso ogni autorità e potere (cfr Col 2, 15), ogni potenza del male per rendere liberi quanti sono stati battezzati nel suo nome.
“Cristo ci ha liberati per la libertà!” (Gal 5, 1).
La vocazione cristiana consiste nel lasciarsi liberare da Gesù Cristo.
Egli ha vinto il peccato e la morte e offre a tutti la pienezza della sua vita.
Nel Signore Gesù non c’è più né giudeo né pagano, né uomo né donna (cfr Gal 3, 28).
Nella sua carne Egli ha riconciliato tutti i popoli.
Con la forza dello Spirito Santo rivolgo a tutti questo appello: “Lasciatevi riconciliare!” (2 Cor 5, 20).
Nessuna differenza etnica o culturale, di razza, di sesso o di religione deve divenire tra voi motivo di contesa.
Voi siete tutti figli dell’unico Dio, nostro Padre, che è nei cieli.
Con questa convinzione sarà finalmente possibile costruire un’Africa più giusta e pacifica, all’altezza delle legittime attese di tutti i suoi figli.
Infine, vi invito a incoraggiare la preparazione dell’evento sinodale recitando anche con i fedeli la preghiera che conclude l’Instrumentum laboris che ho consegnato stamani, e ciò per la buona riuscita dell’Assemblea Sinodale.
Preghiamo ora insieme, cari Fratelli: “Santa Maria, Madre di Dio, Protettrice dell’Africa, tu hai dato al mondo la luce vera, Gesù Cristo.
Con la tua obbedienza al Padre e con la grazia dello Spirito Santo ci hai donato la sorgente della nostra riconciliazione e della nostra giustizia, Gesù Cristo, nostra pace e nostra gioia.
Madre di tenerezza e di sapienza, mostraci Gesù, Figlio tuo e Figlio di Dio, sostieni il nostro cammino di conversione, affinché Gesù faccia brillare su di noi la sua Gloria in ogni ambito della nostra vita personale, familiare e sociale.
Madre piena di Misericordia e di Giustizia, per la tua docilità allo Spirito Consolatore, ottienici la grazia di essere testimoni del Signore Risorto, perché diventiamo sempre più il sale della terra e la luce del mondo.
Madre del Perpetuo Soccorso, alla tua materna intercessione affidiamo la preparazione e i frutti del Secondo Sinodo per l’Africa.
Regina della Pace, prega per noi! Nostra Signora dell’Africa, prega per noi!”.
(©L’Osservatore Romano – 20-21 marzo 2009)

il digiuno quaresimale

Il digiuno – come il nutrimento – ha una grande importanza nella Bibbia e nelle tradizioni ebraica, cristiana e musulmana, in quanto esprime in modo straordinario la relazione fra corporeità e spiritualità, il rapporto di fede tra la creatura e la bontà e la misericordia di Dio.
Il Creatore onnipotente, che dà il cibo a ogni vivente, chiede all’uomo e alla donna una risposta consapevole, in quanto creati a sua immagine; perciò anche l’assunzione del cibo – come l’astinenza da esso – non sono privi di un profondo senso simbolico e spirituale.
Una veglia in attesa della risurrezione di Nicola Gori Una veglia prolungata nell’attesa della risurrezione: è l’immagine che le comunità cristiane d’Oriente usano per spiegare il significato del digiuno.
Come nella tradizione orientale i monaci vegliavano per tre giorni la salma di un loro confratello defunto, allo stesso modo i fedeli devono praticare il digiuno come attesa della risurrezione della carne.
Ne abbiamo parlato in questa intervista con il gesuita Robert Taft, professore emerito di liturgia orientale al Pontificio Istituto Orientale.
Vi sono caratteristiche comuni tra la tradizione del digiuno nelle diverse Chiese orientali cattoliche e ortodosse? La tradizione del digiuno è la stessa sia nelle Chiese orientali cattoliche sia in quelle ortodosse.
La tradizione ortodossa prescrive che in modo progressivo, cominciando due settimane prima dell’inizio della quaresima, ci si prepari al digiuno.
La prima settimana è chiamata la settimana del digiuno dalla carne: alla fine di essa non si mangia più carne per tutta la quaresima.
La seconda settimana che precede la quaresima è detta dei latticini, perché alla fine della settimana ci si deve astenere dai latticini.
Durante i primi sette giorni della quaresima – detti del grande digiuno – si dovrebbe osservare un’astinenza molto severa.
Bisogna però distinguere un po’ l’usanza monastica da quella dei laici.
Nei monasteri si mangia solo un pasto al giorno, nel pomeriggio, osservando l’astinenza da tutti i cibi proibiti.
Per i laici il digiuno è più vicino a quella che in Occidente si chiama astinenza.
Ci sono indicazioni particolari riguardo alla quantità di cibo consentita? Non c’è una prescrizione specifica per la quantità di quello che si mangia.
Non si possono bere alcolici o mangiare carne o latticini, ma si possono mangiare i cibi permessi in quantità necessaria per nutrirsi.
Questa antica pratica adesso è osservata soprattutto nei monasteri.
È importante ricordare che la liturgia celebrata nei mercoledì e nei venerdì di quaresima è una liturgia pomeridiana, perché nell’antichità anche ricevere la Comunione significava rompere il digiuno.
Digiunare voleva dire non mangiare nulla.
Era un’astinenza totale fino a sera, quando era permesso un pasto.
Come praticavano il digiuno i Padri del deserto? Nelle diverse tradizioni locali dell’ortodossia e delle Chiese cattoliche orientali ci sono usanze differenti.
Lo stesso vale per i Padri del deserto.
In genere, mangiavano soltanto una quantità minima di pane e di acqua.
Era un digiuno quasi permanente.
Siamo peccatori, per questo occorre digiunare per fare penitenza.
Il Vangelo dice metanoèite, che normalmente viene tradotto in “fate penitenza”: non nel senso di fare qualcosa che ci costa sacrificio, perché metanoia vuole dire cambiare mentalità, convertirsi.
Allora questa conversione è sempre in senso escatologico.
Il digiuno, soprattutto in questo periodo, è un tipo di veglia prolungata nell’attesa della venuta del Signore, proprio come nell’antichità si vegliava la salma di un monaco o di una monaca, perché questa era un’espressione liturgica della fede nella risurrezione dei morti.
Questo vuol dire veglia: una vigilia in attesa, nella speranza della risurrezione dei morti.
Tra i fedeli delle comunità orientali la pratica del digiuno è sufficientemente seguita? Normalmente, durante la prima settimana della quaresima e anche la grande settimana – quella che in occidente si chiama la settimana santa – il digiuno più severo è seguito da quasi tutti i fedeli, almeno nell’ortodossia.
Nel cattolicesimo c’è stata una moderazione nella pratica del digiuno nel periodo del dopo Vaticano II.
Nel rito latino la gente non ha sempre compreso a fondo che, nell’intenzione delle riforma post-conciliare, l’idea della moderazione era legata all’invito a fare altre cose importanti nella vita cristiana, cioè dare l’elemosina ai poveri, fare del bene al prossimo, chiedere perdono per le offese.
(©L’Osservatore Romano – 7 marzo 2009) [Index] [Top] [Home] ”Ciò è particolarmente evidente in alcuni momenti fondanti dell’esperienza d’Israele, come è per il digiuno dei quaranta giorni che Mosè compie sul Sinai, prima di ricevere la santa Torah, e con essa l’alleanza di salvezza per il popolo ebraico” ci spiega monsignor Pier Francesco Fumagalli, dottore della Biblioteca Ambrosiana e profondo conoscitore dell’ebraismo (dal 1986 al 1993 è stato segretario della Commissione vaticana per i rapporti religiosi con l’ebraismo, di cui oggi è consultore).
“Anche la regina Ester, nel momento del massimo pericolo per il popolo minacciato di sterminio – aggiunge – digiuna e prega prima di presentarsi a intercedere presso il re Assuero suo sposo.
Nel libro di Giona gli abitanti di Ninive e persino gli animali indicono un digiuno e si coprono di sacco e cenere, per implorare il perdono e allontanare i castighi divini minacciati dal profeta”.
Questo costante collegamento tra misericordia, peccato e salvezza, si è mantenuto e approfondito lungo i millenni nella tradizione ebraica, il cui calendario tuttora comprende il digiuno di Ester (13 di Adar), quello dei primogeniti prima di Pasqua (14 di Nisan) e il solenne digiuno dell’Espiazione o Kippùr (10 di Tishri).
Nella tradizione cristiana il digiuno recepisce sostanzialmente questi medesimi valori dell’ebraismo, anche se lungo i due millenni del cristianesimo – ammette Fumagalli – “dolorose polemiche hanno spesso offuscato la coscienza di questo debito spirituale”.
“Gesù stesso – ricorda in proposito – prima dell’inizio della sua vita pubblica segue un digiuno di quaranta giorni nel deserto, e i cristiani ne seguono l’esempio, secondo la dottrina della imitatio Christi, orientandosi a ricevere il dono della salvezza nella Pasqua di risurrezione, dopo un periodo di quaranta giorni o quaresima”.
La principale differenza – al di là delle varianti normative specifiche – consiste “nel riferimento cristocentrico tipico della fede cristiana, che però paradossalmente diventa anche la radice di ciò che i cristiani possono imparare dalla tradizione religiosa del popolo ebraico di ieri e di oggi”.
In questo rapporto unico che in Cristo lega l’innesto cristiano sulla “santa radice” di Israele “sta tutta la forza e la necessità di riferirsi costantemente all’eredità dei padri e delle madri della fede, da Abramo e Sara fino all’epoca contemporanea”.
Ci sarebbe da chiedersi cosa possono i cristiani imparare dagli ebrei nella pratica del digiuno.
“Innanzitutto – secondo Fumagalli – la fortissima tensione di speranza escatologica e di purificazione dal peccato in vista del dono divino di piena redenzione sostengono la comunità ebraica unita nel digiuno e nella preghiera, come si vede in modo particolarmente solenne e pubblico nel Kippùr”.
Per il cristiano, perciò, “che rischia talora di limitare il proprio orizzonte escatologico a una speranza già totalmente realizzata nella Pasqua di Cristo, con il conseguente impoverimento dell’attesa messianica e dell’impegno verso il futuro salvifico divino, forse il dono maggiore che l’ebreo può offrire in questo campo è l’esempio di un’ardente, inestinguibile sete di perdono e di comunione fraterna”.
(mario ponzi) (©L’Osservatore Romano – 7 marzo 2009) [Index] [Top] [Home]

Lo Stato non deve educare la coscienza morale

La sentenza del Tribunale supremo spagnolo sui ricorsi presentati dai genitori contro la materia scolastica “Educazione alla cittadinanza” è stato uno dei principali argomenti affrontati dalla ccxii riunione della Commissione permanente della Conferenza episcopale spagnola (Cee) svoltasi a Madrid.
I vescovi hanno anche cercato di individuare la strategia adeguata per impedire che un viaggio della speranza si trasformi in tragedia.
Come è avvenuto martedì scorso a largo della costa di Lanzarote, nelle Canarie, dove hanno perso la vita venticinque immigrati.
Inoltre, si è discusso del cinquantesimo anniversario di Mani Unite (Manos Unidas), della protezione della domenica come giorno di riposo settimanale, nonché della preparazione e dell’approvazione del programma della xciii assemblea plenaria che si celebrerà dal 20 al 24 aprile prossimo, durante la quale si offrirà un tributo a “Mani Unite”.
L’organizzazione non governativa, in seno alla Chiesa cattolica, formata da volontari, ha come principale finalità la lotta contro la fame, la povertà e il sottosviluppo nonché la comprensione delle cause che li provocano.
) Sulle sentenze riguardanti l'”Educazione alla cittadinanza” l’episcopato spagnolo, oltre a volerle approfondire per un’eventuale dichiarazione, ha ricordato che i criteri fondamentali stabiliti nelle dichiarazioni della Commissione permanente nel febbraio e nel giugno del 2007 sulla questione sono assolutamente attuali.
In particolare, richiamando la dichiarazione del giugno 2007, i vescovi hanno sottolineato che: “lo Stato non può soppiantare la società come educatore della coscienza morale, ma è suo compito promuovere e garantire l’esercizio del diritto all’educazione a quei soggetti a cui spettano tali funzioni, nell’ambito di un ordinamento democratico rispettoso della libertà di coscienza e del pluralismo sociale.
Al contrario, con l’Educazione alla cittadinanza lo Stato si arroga un ruolo di educatore morale che non è proprio di un Stato democratico di diritto.
La materia sarebbe stata accettabile, perfino auspicabile – hanno proseguito i presuli – se il Governo si fosse limitato a spiegare l’ordinamento costituzionale e la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
Invece introduce riferimenti all’omosessualità e nuove definizioni – come la nozione di “genere” al posto di uomo o donna – non accettabili dalla morale cattolica e dal diritto naturale”.
In merito alle sentenze del Tribunale supremo che hanno negato la possibilità di fare l’obiezione di coscienza è intervenuto anche il presidente del gruppo laico “Professionisti per l’etica”, Jaime Urcelay, il quale ha dichiarato che: “la battaglia giuridica a favore della libertà educativa non è finita perché l’obiezione di coscienza non è un fine ma un mezzo.
Infatti – ha precisato – le sentenze lasciano aperta la possibilità di sollecitare l’annullamento delle norme che regolano una materia obbligatoria se questa invadesse il diritto dei genitori a decidere l’insegnamento che devono ricevere i figli in materia religiosa o morale.
Non solo: se si dimostrasse che attraverso il progetto educativo e i testi si realizza un indottrinamento si può chiedere al Tribunale amministrativo la sospensione immediata dell’attività, inoltre le amministrazioni educative, i centri scolastici e i professori non sono autorizzati a inculcare punti di vista determinanti su questioni morali che sono controverse nella società spagnola.
I Professionisti per l’etica – ha concluso Urcelay – continueranno ad essere a fianco dei genitori che vogliano proseguire la battaglia “in difesa dei loro diritti fondamentali”.
Secondo il Forum spagnolo della famiglia, le sentenze del Tribunale supremo confermano l’obbligo di neutralità dello Stato per ciò che concerne la formazione morale.
Insomma, “lo Stato e le amministrazioni educative devono limitarsi a istruire gli alunni senza pretendere che condividano i loro punti di vista su questioni controverse nella società o che debbano esporre le loro convinzioni”.
Anche il Centro giuridico “Tommaso Moro”, intervenendo sulla questione, ha evidenziato come le stesse sentenze del Tribunale supremo mettano in luce come l’Educazione alla cittadinanza abbia creato divisioni nella società spagnola.
Inoltre, “l’interpretazione restrittiva dell’obiezione di coscienza pone un pericolo per la democrazia spagnola perché di fronte agli arbitrii dei poteri pubblici, il Tribunale supremo lascia indifesa la cittadinanza, mentre la sua missione principale è la tutela dei diritti dei cittadini”.
Perciò, il Centro “Tommaso Moro” considera “un dovere morale e civile continuare a sostenere, incoraggiare e incentivare l’obiezione di coscienza alla materia Educazione alla cittadinanza e ad approfondire nuovi modi di libertà per i genitori che si rifiutino di fronte alla manipolazione ideologica dei figli”.
Per quanto riguarda, invece, il cinquantesimo anniversario di “Mani Unite” fervono in Spagna i preparativi per celebrare questo importante evento.
Proprio nei giorni scorsi, l’Ong ha presentato la sua ultima campagna, dal titolo: “Combattere la fame, progetto di tutti”.
L’iniziativa si adopererà per il conseguimento del primo degli obiettivi di sviluppo del millennio: “Sradicare la povertà estrema e la fame” in un mondo nel quale circa un miliardo di persone patiscono la fame cronica e quasi un miliardo e mezzo non ha i mezzi per far fronte alle necessità più elementari.
Rispetto all’iniziativa presentata al Parlamento europeo per la protezione della domenica come giorno non lavorativo, la commissione permanente spagnola ha appoggiato, come ha già fatto in precedenza la Commissione degli episcopati della Comunità europea (Comece), la petizione agli Stati membri e alle istituzioni dell’Unione europea perché “le domeniche non lavorative costituiscono un pilastro fondamentale del modello sociale europeo e fanno parte del patrimonio culturale comune”.
Negli ultimi anni la tutela della domenica è stata erosa in molti Stati membri dell’Unione europea con lo scopo di aumentare la produzione e il consumo.
I lavoratori hanno sperimentato la frammentazione della loro vita privata, mentre le piccole e medie imprese, che non possono permettersi orari di apertura ininterrotta, hanno perso terreno nel mercato.
Infine, sulla tragedia dell’immigrazione in Spagna avvenuta martedì scorso al largo delle Canarie, i vescovi hanno espresso il desiderio che si realizzi “un aiuto più efficace” allo sviluppo nei loro Paesi di origine per evitare questi viaggi disperati.
L’arcipelago delle Canarie è diventato un punto di passaggio per chi, lasciatosi alle spalle un Paese dell’Africa subsahariana o equatoriale, intende raggiungere l’Europa.
Nel 2008, il numero di migranti che sono transitati nelle Canarie si è ridotto sensibilmente rispetto all’anno precedente.
(©L’Osservatore Romano – 21 febbraio 2009

Spiritualità Secolare/ 1: La quotidianità e il suo spessore

Il ritorno su di sé è ritorno all’interiorità, popolata di presenze e sollecitazioni.
Coglie l’attimo che si vive, ma raccoglie anche lo spessore dell’esperienza passata e gli stimoli della progettualità futura, cui l’orizzonte terreno risulta insufficiente.
Il raccoglimento consente di rendersene conto; di avvertire la ricchezza di relazionalità e di stimoli di cui si vive.
E dunque di misurare lo spessore dell’esistenza che vi fluisce incessantemente.
La novità sta nel prendere coscienza di sé attraverso e oltre le sollecitazioni di cui la vita è intessuta: mirare al cuore dell’esistenza oltre le indicazioni che vengono dalla periferia, dalle situazioni… E anche prendere atto che l’esperienza concreta è intessuta di tutte quelle relazionalità, vive di queste, a queste si appassiona; con ciò imprime intensità e qualità al vivere quotidiano.
E proprio al cuore dell’esperienza, avvertita in tutto il suo spessore, s’innesta la domanda religiosa, come progressiva consapevolezza di fondamentale aspirazione alla trascendenza, al dialogo con Dio.
Il dialogo che si instaura nella fede offre una traccia diversa, straordinariamente illuminante al vivere quotidiano: legge la realtà sotto lo stimolo e alla luce chiarificatrice della Parola di Dio.
Recentemente l’attenzione alla situazione consueta di vita ha suscitato nella Chiesa una vocazione singolare – la consacrazione negli Istituti secolari -: una dedizione piena al saeculum appunto per leggerlo alla luce di Dio.
O meglio per esplorare i segni della sua presenza nella consuetudine quotidiana.
Interpreta il presagio per rivelare il volto che si cela dietro il presagio.
Parte dunque dal mondo per leggere la propria esperienza interiore: constatarvi e far emergere le tracce della sua arcana presenza nella trama sottile della quotidianità.
Sul far della sera, sulla panchina al margine della strada che circonda la Casa, di fronte alla distesa della campagna, al rumore vasto e sordo del Raccordo Anulare, al trepidare indefinito della natura, la brezza sottile di aria tiepida mi risveglia al richiamo dell’ora che trascorre e vorrei fermare, per fissare l’attimo che vivo nella suggestione della sera, del giorno e della… vita.
Il ritorno calmo sulla propria vita, sull’attimo e la sua pienezza, sulla brezza che mi sfiora sono un dono; sottendono un indefinito senso di benessere che avvolge, quasi rechi il sorriso di una presenza amica e arcana.
Piccola cosa la brezza ma la sua percezione sottile e vibrante diventa sensazione che attraversa la persona, la risveglia a consapevolezza dell’esistenza che fluisce, pur scandita da piccole situazioni, per lo più inavvertite.
La brezza mi sfiora, mi consente di percepirmi vivo, situato in un mondo in cui sono immerso, che è il mio mondo, di cui posso godere e di cui di fatto godo: mi appartiene.
Le cose di cui è popolato, le persone che lo animano entrano come componenti preziose e sempre nuove in un orizzonte che mi identifica: posso portare l’attenzione su qualcuna di loro, dare accesso privilegiato a chi voglio, godere della sua presenza o sottrarmi al suo richiamo.
Il momento che vivo ha uno spessore singolare, di cui per lo più non mi accorgo.
Cosa significa viverlo in pienezza? Raccogliere le fila complesse che si intersecano, privilegiando una certa configurazione che liberamente elaboro…?

Il concordato e i cattolici

Aspettative nell’imminenza dei Trattati e commenti subito dopo la firma colti da alcuni celebri epistolari dell’epoca.
[lettera di Giovanni Battista Montini ai familiari, 19 gennaio 1929] Si fa sempre un gan discorrere su una cosiddetta imminente soluzione della questione romana; e la soluzione, per attesa e lusinghiera che sia alle due parti, sembra non essere priva d’un certo aspetto ridicolo per entrambi: valeva la pena di protestare sessant’anni a quel modo per così (così? almeno come si dice nella chiacchera) esiguo risultato? E valeva la pena di far tanta professione d’indipendenza per poi cedere sul principio territoriale? Certo non è tutto qui: la cosa può essere tra le più grandi della storia nostra e anche tra le più belle.
Ma è strano che chi più ha atteso questo momento, fra la gente perbene, sia ora meno disposto a goderne; non per una sopravvivenza di consuetudinaria protesta, ma per il sospetto di peggiori eventuali condizioni.
Se la libertà del Papa non è garantita dalla forte e libera fede del popolo, e specialmente di quello italiano, quale territorio e quale trattato lo potrà? Ora sembra che i tempi che corrono e gli uomini che comandano siano tutt’altro che ben intenzionati per il rispetto di quella forza morale e spirituale del popolo.
Proprio in questi giorni, per dirne una, la nostra Fuci sta subendo nuove e – ahimé! – assai legali vessazioni che sono indici di propositi tutt’altro che rassicuranti per il bene della Chiesa.
Io spero e prego che le trattative, se vi sono realmente, tengano conto di questo; e dovrei anche crederlo, se con ciò ha connessione un’accentuata vigilanza sui nostri poveri casi.
Bisogna indubbiamente pregare molto perché il Signore assista la Chiesa di Roma in questi frangenti e non permetta al Suo Capo di acquistare una terrena libertà con la perdita di quella spirituale, sua e dei suoi figli.
Ma questi sono commenti sulle rime obbligate dei discorsi romani e delle mie piccole preoccupazioni.
Lasciamoli stare.
[risposta del padre, Giorgio Montini, 26 gennaio 1929] Per quanto scrivi, vedo le cose precisamente come le vedi tu; cogli stessi dubbi, gli stessi desideri, le medesime preoccupazioni: e se dovessi dir io una parola in argomento avrei sul cuore un bel peso.
Ma c’è chi deve pensare e provvedere, e noi dobbiamo attendere con fiducia piena, e partecipare frattanto con una intensificazione di preghiere.
Vecchio come sono, ho avuto agio di assistere a tanti e tali avvenimenti che si svolgevano tempestosamente e confluivano per vie inattese a bene e gloria della Chiesa e a profitto dei suoi fedeli, che anche dai tetti in giù non so essere pessimista.
Ciascuno di noi faccia giorno per giorno tutto il bene che può, umilmente e fervidamente: stiamo tutti indefettibilmente congiunti alla Pietra che non crolla.
E poi basta.
Vi saranno lotte, sempre; ma la vittoria sarà dei buoni, sempre.
Seguo il tuo lavoro, e prego il Signore che ti dia lume e forza e conforto.
(©L’Osservatore Romano – 11 febbraio 2009) [Index] [Top] [Home] Paolo VI:«Un felice epilogo morale e spirituale» Parve un crollo; e per il dominio territoriale pontificio lo fu; e parve allora, e per tanti anni successivi, a molti ecclesiastici ed a molti cattolici non potere la Chiesa romana rinunciarci, e accumulando la rivendicazione storica della legittimità della sua origine con l’indispensabilità della sua funzione, si pensò doversi quel potere temporale ricuperare, ricostituire.
E sappiamo che ad avvalorare questa opinione per cui fu così travagliata e priva delle più cospicue sue forze, quelle cattoliche, la vita politica italiana, fu l’antagonismo sorto tra lo Stato e la Chiesa.
Parole concilianti, ma seguite da contrari fatti severi, non valsero a rassicurare il papato che privato, anzi sollevato, dal potere temporale, avrebbe potuto esplicare egualmente nel mondo la sua missione; tanto più che nell’opinione pubblica a lui avversa era diffusa la convinzione, anzi la triste speranza, che la secolare istituzione pontificia sarebbe caduta, come ogni altra istituzione puramente umana, col cadere dello sgabello terreno sul quale appoggiava da tanti secoli i suoi piedi, voglio dire la sua presenza politica nel mondo e la sua sempre mal difesa indipendenza.
Ma la Provvidenza, ora lo vediamo bene, aveva diversamente disposto le cose, quasi drammaticamente giocando negli avvenimenti.
Il Concilio Vaticano I aveva infatti da pochi giorni proclamato somma ed infallibile l’autorità spirituale di quel papa che praticamente perdeva in quel fatale momento la sua autorità temporale.
Il papa usciva glorioso dal Concilio Vaticano I per la definizione dogmatica delle sue supreme potestà nella Chiesa di Dio, e usciva umiliato per la perdita delle sue potestà temporali nella stessa sua Roma, ma, com’è noto, fu allora che il papato riprese con inusitato vigore le sue funzioni di maestro di vita e di testimonio del Vangelo, così da salire a tanta altezza nel governo spirituale della Chiesa e nell’irradiazione morale sul mondo, come prima non mai.
Oggi ci è difficile e quasi molesto comprendere le passioni che tanto commossero e amareggiarono le vicende di quel tempo e degli anni successivi.
Qualche cosa mancò alla vita italiana nella sua prima formazione, non foss’altro la sua interiore unità, la sua consistenza spirituale, la sua umanità patriottica, e di conseguenza la sua piena capacità a risolvere i problemi della sua società disuguale, tanto bisognosa di nuovi ordinamenti, e già fin d’allora attraversata da fiere correnti agitatrici e sovversive.
Per nostra fortuna abbiamo raggiunto una soddisfacente composizione con la famosa conciliazione del 1929 e con l’affermazione della libertà e della democrazia nel nostro Paese.
[il cardinale Giovanni Battista Montini, arcivescovo di Milano, in un discorso in Campidoglio, 10 ottobre 1962] Solo solleciti di quella libertà e di quella indipendenza, che consentano alle Nostre spirituali funzioni, nell’Urbe e nel mondo, il loro normale esercizio, sempre convinti, anzi curanti, che questa Nostra dimora romana per nulla contrasti alla sovranità e alla libera espansione della vita civile italiana; Noi vogliamo anzi credere che la Nostra presenza sulla sponda del Tevere non poco conferisca all’amore e all’onore di Roma in tutta la terra.
Esiste oggi una onorata e pacifica condizione di rapporti fra l’Italia e la Sede Apostolica; un delicato e prezioso equilibrio fra Stato e Chiesa è stato raggiunto, com’è ben noto, mediante quei Patti Lateranensi, dei quali la Costituzione Italiana, con sagace e lungimirante visione, ha voluto, mediante particolare, solenne garanzia, assicurare la validità.
A noi pare che questi Patti, il Trattato, cioè, così come il Concordato […] possano essere ricordati con gratitudine a Dio e ad onore del Popolo Italiano nella menzionata ricorrenza centenaria di quel contrastato avvenimento come suo provvido coronamento giuridico e come suo felice epilogo morale e spirituale, non solo locale e temporaneo, ma generale e perpetuo.
[lettera di Paolo VI al Presidente della Repubblica Italiana nel centenario della presa di Roma, 18 settembre 1970] (©L’Osservatore Romano – 11 febbraio 2009) De Gasperi: «Fosse stato Papa avrebbe firmato anche don Sturzo» Credo che anche oggi, di fronte a Mussolini che picchiava forte alla porta di bronzo, il Papa non poteva non aprire e, una volta avviata la conversazione e trovato il terreno d’accordo, il suo alto senso di responsabilità, l’entità stessa della questione, lo portavano a conchiudere.
La conclusione è, vista oggi in Italia, un successo del regime, ma vista nella storia e nel mondo è una liberazione per la Chiesa e una fortuna per la Nazione Italiana.
Non si poteva esitare e credo che avrebbe firmato, fosse stato Papa, anche D.
Sturzo.
Per me l’essenza è che la S.
Sede è uscita dal vicolo chiuso delle proteste (vicolo che per sua natura non può essere eterno) ed ha liquidato la questione temporale senza i pericoli e gli aggravi del territorio e le compicazioni di formule internazionali.
[…] Certo ne guadagna il regime, si rinforza cioè la dittatura che dovrebbe pur essere un sistema transitorio, ma questa considerazione non poteva essere decisiva né per la conclusione né a noi per giudicare.
[…] Ma la realtà del sec.
xx non tarderà a farsi sentire, le grandi masse ricompariranno dietro allo scenario.
Auguriamoci che gli uomini di Chiesa non le perdano mai di vista, perché esse sono la realtà di oggi e di domani.
Io lo credo e lo spero, e per questo lieto che la Chiesa si sia liberata – trionfando su altri e su sé stessa – della questione romana, non ho paura di riconoscere anche il valore della politica mussoliniana, valore oggettivo; per il resto è giudice Iddio.
[lettera di Alcide De Gasperi a don Simone Weber, 12 febbraio 1929] (©L’Osservatore Romano – 11 febbraio 2009) [Index] [Top] [Home] Pubblichiamo alcuni stralci del lungo discorso che Pio XI tenne l’11 febbraio 1929 ai parroci e ai predicatori del periodo quaresimale.
E ora accenniamo a quell’altra circostanza che Ci fa tanto più cara ed opportuna la vostra assistenza e che rende questa adunanza ben altrimenti memorabile e storica che non per le circostanze pur belle e solenni del settimo anniversario dell’incoronazione e dell’anno giubilare.
Proprio in questo giorno, anzi in questa stessa ora, e forse in questo preciso momento, lassù nel Nostro Palazzo del Laterano (stavamo per dire, parlando a parroci, nella Nostra casa parrocchiale) da parte dell’Eminentissimo Cardinale Segretario di Stato come Nostro Plenipotenziario e da parte del Cavaliere Mussolini come Plenipotenziario di Sua Maestà il Re d’Italia, si sottoscrivono un Trattato ed un Concordato.
(…) Non vi aspetterete ora da Noi i particolari degli accordi oggi firmati: oltre che il tempo, non lo permetterebbero i delicati riguardi protocollari, non potendosi chiamare quegli accordi perfetti e finiti, finché alle firme dei Plenipotenziari, dopo gli alti suffragi e colle formalità d’uso, non seguano le firme, come suol dirsi, sovrane: riguardi che evidentemente ignorano o dimenticano coloro che attendono per domani la Nostra benedizione solenne “Urbi et orbi” dalla loggia esterna della Basilica di San Pietro.
Vogliamo invece solo premunirvi contro alcuni dubbi e alcune critiche che già si sono affacciati e che probabilmente avranno più largo sviluppo a misura che si diffonderà la notizia dell’odierno avvenimento, affinché voi, a vostra volta, abbiate a premunire gli altri.
Non conviene che portiate queste cose, come suol dirsi, in pulpito; anzi, non dovete portarvele per non turbare l’ordine prestabilito alla vostra predicazione; ma anche all’infuori di questa, molti verranno a voi, sia per trarre particolare profitto dalla vostra eloquenza, con conferenze e simili, sia per avere anche sull’attuale argomento pareri tanto più autorevoli ed imparziali quanto più illuminati.
Dubbi e critiche, abbiamo detto; e Ci affrettiamo a soggiungere che, per quel che Ci riguarda personalmente, Ci lasciano e lasceranno sempre molto tranquilli, benché, a dir vero, quei dubbi e quelle critiche si riferiscano principalmente, per non dire unicamente, a Noi, perché principalmente, per non dire unicamente e totalmente, Nostra è la responsabilità, grave e formidabile invero, di quanto è avvenuto e potrà avvenire in conseguenza.
(…) Le critiche si divideranno in due grandi categorie.
Gli uni diranno che abbiamo chiesto troppo, gli altri troppo poco.
Forse alcuni troveranno troppo poco di territorio, di temporale.
Possiamo dire, senza entrare in particolari e precisioni intempestive, che è veramente poco, pochissimo, il meno possibile, quello che abbiamo chiesto in questo campo: e deliberatamente, dopo aver molto riflettuto, meditato e pregato.
(…) Volevamo mostrare in un modo perentorio che nessuna cupidità terrena muove il Vicario di Gesù Cristo, ma soltanto la coscienza di ciò che non è possibile non chiedere; perché una qualche sovranità territoriale è condizione universalmente riconosciuta indispensabile ad ogni vera sovranità giurisdizionale: dunque almeno quel tanto di territorio che basti come supporto della sovranità stessa; quel tanto di territorio, senza del quale questa non potrebbe sussistere, perché non avrebbe dove poggiare.
Ci pare insomma di vedere le cose al punto in cui erano in san Francesco benedetto: quel tanto di corpo che bastava per tenersi unita l’anima.
Così per altri Santi: il corpo ridotto al puro necessario per servire all’anima e per continuare la vita umana, e colla vita l’azione benefica.
Sarà chiaro, speriamo, a tutti, che il Sommo Pontefice proprio non ha se non quel tanto di territorio materiale che è indispensabile per l’esercizio di un potere spirituale affidato ad uomini in beneficio di uomini; non esitiamo a dire che Ci compiacciamo che le cose stiano così; Ci compiacciamo di vedere il materiale terreno ridotto a così minimi termini da potersi e doversi anche esso considerare spiritualizzato dall’immensa, sublime e veramente divina spiritualità che è destinato a sorreggere ed a servire.
Vero è che Ci sentiamo pure in diritto di dire che quel territorio che Ci siamo riservati e che Ci fu riconosciuto è bensì materialmente piccolo, ma insieme è grande, il più grande del mondo, da qualunque altro punto di vista lo si contempli.
Quando un territorio può vantare il colonnato del Bernini, la cupola di Michelangelo, i tesori di scienza e di arte contenuti negli archivi e nelle biblioteche, nei musei e nelle gallerie del Vaticano; quando un territorio copre e custodisce la tomba del Principe degli Apostoli, si ha pure il diritto di affermare che non c’è al mondo territorio più grande e più prezioso (…) Altri invece diranno, anzi hanno già detto od accennato, che abbiamo chiesto troppo in altro campo: si capisce, e vogliamo dire nel campo finanziario.
Forse si direbbe meglio nel campo economico, perché non si tratta qui di grandi finanze statali, ma piuttosto di modesta economia domestica.
A costoro vorremmo rispondere con un primo riflesso: se si computasse, capitalizzando, tutto quello di cui fu spogliata la Chiesa in Italia, arrivando fino al Patrimonio di San Pietro, che massa immane, opprimente, che somma strabocchevole si avrebbe? Potrebbe il Sommo Pontefice lasciar credere al mondo cattolico di ignorare tutto questo? Non ha egli il dovere preciso di provvedere, per il presente e per l’avvenire, a tutti quei bisogni che da tutto il mondo a lui si volgono e che, per quanto spirituali, non si possono altrimenti soddisfare che col concorso di mezzi anche materiali, bisogni di uomini e di opere umane come sono? Un altro riflesso non sembrano fare quei critici: la Santa Sede ha pure il diritto di provvedere alla propria indipendenza economica, senza la quale non sarebbe provveduto né alla sua dignità, né alla sua effettiva libertà.
Abbiamo fede illimitata nella carità dei fedeli, in quella meravigliosa opera di provvidenza divina che ne è l’espressione pratica, l’Obolo di San Pietro, la mano stessa di Dio che vediamo operare veri miracoli da sette anni in qua.
Ma la Provvidenza divina non Ci dispensa dalla virtù di prudenza né dalle provvidenze umane che sono in Nostro potere.
E troppo facilmente si dimentica che qualunque risarcimento dato alla Santa Sede evidentemente non basterà mai a provvedere se non in piccola parte a bisogni vasti come il mondo intero, come al mondo intero si estende la Chiesa cattolica: bisogni sempre crescenti, come sempre crescono con gigantesco sviluppo le opere missionarie raggiungendo i più lontani paesi; senza dire che anche nei paesi civili, in Europa, in Italia, – qui specialmente, dopo le spoliazioni sofferte – sono incredibilmente numerosi e non meno incredibilmente gravi, e tali bene spesso da muovere al pianto, i bisogni delle persone, delle opere e delle istituzioni ecclesiastiche, anche le più vitali, che ricorrono, Noi lo sappiamo, per aiuto alla Santa Sede, al Padre di tutti i fedeli.
(©L’Osservatore Romano – 11 febbraio 2009) [Index] [Top] [Home] Roncalli dalla Bulgaria: «Ciò che è avvenuto ha del prodigio e può portare un bene incalcolabile» Potete ben immaginare come io segua l’esultanza di tutta l’Italia in seguito alla pace fatta fra Vaticano e Quirinale.
Pensate che gioia per i nostri vecchi se fossero ancora vivi!…
Benediciamo il Signore! Tutto ciò che la massoneria cioè il diavolo, aveva fatto in 60 e più anni contro la Chiesa e contro il Papa in Italia, tutto è stato rovesciato.
Si vive in mezzo agli uomini con mille difetti.
Inconvenienti ce ne saranno anche in avvenire.
Non mancheranno altre pene.
Ma intanto bisogna avere il coraggio della lealtà e riconoscere che ciò che è avvenuto ha del prodigio e può portare un bene incalcolabile all’Italia e a tutto il mondo.
Ora chi aveva un po’ studiato e non andava in chiesa, e non era praticante in nome del patriottismo, ha perduto ogni scusa.
Ogni difficoltà è caduta.
Ancora una volta benediciamo il Signore.
[lettera di Roncalli al segretario di Stato Pietro Gasparri sulle reazioni in Bulgaria ai Patti Lateranensi, 31 marzo 1929] Fra i cattolici, naturalmente, esultanza completa e senza restrizioni.
Negli ambienti governativi – non avendo ricevuto nessuna notizia da trasmettere in una forma o nell’altra – ho creduto bene di non farmi vivo per la circostanza.
Seppi però qualche tempo dopo, dalle labbra stesse di Re Boris, che sul ministro Presidente Liaptceff gli avvenimenti Romani avevano fatto grande impressione, come esaltazione della dignità ed influenza morale del Papato presso tutte le nazioni del mondo.
[il patriarca di Venezia, nella basilica di San Marco, per i 25 anni della firma dei Patti Lateranensi, 11 febbraio 1954] Ecco quell’uomo [Mussolini] che la Provvidenza fece incontrare a Pio XI, e in cui l’assenza di preoccupazioni circa sistemi sorpassati era disposizione a veder più chiaro e con maggior profondità di intuizione nel grande problema della Conciliazione, è divenuto motivo di grande tristezza per il popolo italiano […] È però umano, è cristiano non contestargli almeno questo titolo di onore che, fra l’immensa sciagura, gli resta, cioè la sua valida e decisa cooperazione allo studio e alla conclusione dei Patti lateranensi; ed affidarne l’anima umiliata al mistero della misericordia del Signore, che nella realizzazione dei suoi disegni suole scegliere i vasi più acconci all’uopo, e ad opera compiuta li spezza, come se non fossero stati preparati che per questo.
[lettera dell’arcivescovo Angelo Giuseppe Roncalli – visitatore apostolico in Bulgaria – alle sorelle, 24 febbraio 1929] (©L’Osservatore Romano – 11 febbraio 2009) [Index] [Top] [Home] Una firma per l’Italia pensando al mondo di Romeo Astorri Università Cattolica del Sacro Cuore La ricorrenza dell’ottantesimo anniversario della firma dei Patti Lateranensi, che quest’anno coincide con il venticinquesimo anniversario degli accordi di Villa Madama, rappresenta, almeno a mio avviso, un’occasione per una riflessione che, uscendo dalla logica della mera celebrazione, possa essere uno spunto per una qualche osservazione su ciò che essi sono stati a livello dei rapporti tra Stato e Chiesa nell’Italia che si avvia a festeggiare i centocinquanta anni della sua unità, ma anche per cogliere il contesto, che non può essere meramente italiano, nel quale sono stati firmati.
Gli accordi del 1929 hanno rappresentato per molti anni un segno di contraddizione per la storiografia e per la dottrina giuridica italiana.
La cultura italiana, storica e giuridica, o almeno larga parte di essa, ha considerato i Patti come la cifra interpretativa del pontificato di Pio XI, e li ha visti come il momento culminante della liquidazione, in nome del rapporto col governo Mussolini, dell’esperienza del cattolicesimo politico italiano.
Ricordo ancora la sensazione provata, partecipando ad un convegno su Pio XI, organizzato dall’École française di Roma, a cavallo degli anni Novanta nel quale, per i relatori italiani, Papa Ratti era il Papa dei Patti, e quindi un Pontefice definito storicamente dal rapporto privilegiato con un regime autoritario; per quelli francesi, al contrario, era il Pontefice della condanna dell’Action Française, e quindi della ferma denuncia di possibili derive autoritarie e integriste del cattolicesimo.
Credo che l’acquisizione di nuova documentazione storiografica e la riflessione della dottrina in tema di rapporti della Chiesa con gli Stati permettano di uscire da quella aporia e offrire la base di una lettura più convincente, ma soprattutto meno italiana dei Patti stessi.
Credo che una tale lettura si possa costruire lungo tre linee di riflessione, la prima riguarda la Questione romana, la seconda, il contesto di politica ecclesiastica più generale nella quale va collocato anche il Concordato lateranense, la terza, la loro connotazione più tipicamente italiana cercando di dar ragione del giudizio secondo il quale i Patti sono uno degli eventi che segna la storia dell’Italia post-unitaria e non un fatto legato alle contingenze storiche del momento.
Secondo alcuni osservatori la Questione romana aveva già trovato una sua prospettiva di soluzione durante la prima guerra mondiale.
Alcuni documenti conosciuti solo recentemente rafforzano la tesi di chi ha qualificato il periodo tra la guerra di Libia e la firma dei Patti come gli anni della conciliazione silenziosa.
Il primo è costituito dall’elaborazione da parte della Segreteria di Stato di una bozza di Trattato tra Italia e Santa Sede riguardante la creazione di uno Stato vaticano, discusso in una Plenaria della Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari il 17 marzo 1917, nel pieno del conflitto mondiale; l’altro è dato dalle due annotazioni presenti nel diario del barone Carlo Monti, direttore generale degli Affari del culto, che fu negli anni del pontificato di Benedetto xv “nunzio e ministro nello stesso tempo” per i rapporti tra la Santa Sede e il Governo italiano.
Il 7 dicembre 1918 egli riferisce di una conversazione con il cardinal Pietro Gasparri, il quale avrebbe osservato che “il Vaticano (…) noi non facciamo questione di un po’ di territorio, più o meno, purché la Santa Sede sia libera, non solo nella sostanza, ma anche nell’apparenza”.
E, annotando nello stesso diario le parole di Vittorio Emanuele Orlando, quando gli riferì della conversazione con il segretario di Stato, annota non solo che questi si era dichiarato disponibile a trovare una soluzione dopo l’avvio delle trattative di pace a Parigi, ma anche che, a suo avviso, sarebbe stato “un accordo che sarà il più grande avvenimento del secolo, per quanto esso non faccia che sanzionare una intesa che in questi quattro anni ha dato risultati soddisfacenti”.
Anche se i colloqui svoltisi a Parigi tra monsignor Bonaventura Cerretti e lo stesso Orlando non ebbero seguito, le sintetiche opinioni annotate dal Monti mostrano quanto la vicenda della guerra abbia influito sul mutamento del clima, se non della natura dei rapporti tra Italia e Santa Sede e abbia accelerato la soluzione della questione.
Il Trattato del Laterano rappresenta dunque il riconoscimento formale di una situazione che era andata maturando già durante il pontificato di Benedetto xv, di cui l’iniziativa di Pio XI e Mussolini rappresentò solo il momento finale.
A questo proposito credo debbano essere avanzate due altre osservazioni, la prima è che, sul piano dottrinale, la scuola canonistica romana, già sul finire del secolo XIC, aveva prospettato l’ipotesi, e tra i sostenitori ci fu anche il futuro cardinal Pietro Gasparri nelle sue Institutiones iuris publici, che il potere temporale appartenesse non all’esse ma al bene esse della Chiesa stessa; la seconda è il fatto che, malgrado qualche incomprensione e malinteso anche grave, la legge delle Guarentigie aveva permesso alla Santa Sede di mantenere, durante gli anni della guerra, la sua attività soprattutto di legazione attiva e che, sul piano internazionale, salvo qualche impuntatura dell’Italia che, come fece nel Patto di Londra, chiedeva l’introduzione di una clausola secondo la quale la Santa Sede non potesse partecipare ai congressi internazionali, nessuno, e lo confermava la vicenda stessa della guerra mondiale, metteva in discussione la soggettività giuridica a livello internazionale della Santa Sede stessa.
Alla luce di quanto si è osservato risulta comprensibile il motivo per cui, in questi ottanta anni, nessuno abbia mai posto seriamente in discussione il Trattato, nemmeno nel delicato passaggio intervenuto alla fine del secondo conflitto mondiale.
La questione dell’internazionalizzazione dei Patti, emersa al momento della firma ed evocata da monsignor Giovanni Battista Montini alla fine del secondo conflitto mondiale, come possibile richiesta della Santa Sede, la sopravvivenza dell’articolo 1 e dell’articolo 23 e le difficoltà derivanti dalla loro potenziale incoerenza con il nuovo assetto democratico dello Stato non hanno mai posto realmente in discussione l’esistenza del Trattato.
E le questioni legate ai due articoli sopra citati sono state risolte in sede di revisione del Concordato.
Anche l’articolo 24 sulla neutralità della Santa Sede nelle questioni temporali fra gli altri Stati ha superato le temperie derivanti dal maggiore interventismo della Santa Sede nelle vicende internazionali e in particolare con il ruolo assunto alla Conferenza di Helsinki sulla sicurezza e la cooperazione in Europa e con la sua attività in ordine alla elaborazione del testo del vii principio relativo ai diritti umani e alla libertà religiosa.
Il secondo ordine di riflessioni prende in esame direttamente la questione concordataria.
Va da subito precisato che fu la Santa Sede a chiedere al governo italiano di concludere, assieme al Trattato che avrebbe posto fine alla Questione romana, un Concordato, rompendo così con la scelta separatista fatta dall’Italia liberale.
A mio giudizio, il Concordato del 1929 va perciò collocato nel contesto della politica concordataria del primo dopoguerra che, avviata durante il pontificato di Benedetto XV, trovò la sua attuazione durante il papato del suo successore.
Le scelte vaticane degli anni immediatamente successivi alla fine della prima guerra mondiale non furono lineari.
Ci fu un primissimo periodo nel quale la politica vaticana sembra inizialmente orientata verso l’accettazione di una “buona separazione”.
E questo sulla scia delle riflessioni del canonista Gasparri, che, secondo Carlo Fantappié, aveva proposto nelle Institutiones già citate due aspetti innovativi, un concetto di diritto canonico funzionale all’azione pastorale della Chiesa e un cambiamento di tono nelle relazioni tra Stato e Chiesa che sarà alla base del riconoscimento dell’autonomia dell’ordinamento degli Stati e che porterà ad una revisione del giudizio negativo sulla separazione in quanto tale, ma anche sulla base delle riflessioni dell’allora monsignor Eugenio Pacelli sulla natura dei concordati.
In questa direzione va il giudizio positivo, o comunque non negativo, espresso dal nunzio a Monaco, monsignor Pacelli, sugli articoli riguardanti la religione presenti nella costituzione di Weimar, che poneva fine al principio della religione di Stato e adottava quello che Ulrich Stutz, il maggior canonista tedesco del tempo, definirà separatismo non completo o zoppicante.
Una scelta che fu condivisa dal Gasparri, ma alla quale si opposero alcuni canonisti curiali, come il gesuita Benedetto Ojetti, e che fu fortemente contestata anche da alcuni canonisti tedeschi, come Joseph Hollweck, il quale scrisse a Pacelli che i numerosi canonici che sedevano in Parlamento avevano venduto la Chiesa in cambio di ben remunerate cattedre di teologia nelle università.
I mutamenti che intervennero in quel biennio portarono a verificare la possibilità concreta di aprire trattative concordatarie con vari Stati, la maggior parte delle quali si concluderanno, come si è detto, negli anni di Pio XI.
Una scelta che riprendeva una storia, che sembrava definitivamente conclusa con la denuncia da parte della Francia del concordato napoleonico.
Il modello assunto dai concordati tra le due guerre, che rimarrà immutato sino agli accordi spagnoli del 1976-79 e all’accordo di Villa Madama del 1984 è quello del Concordato completo, vale a dire di un accordo che, almeno nelle intenzioni deve regolare tutte le res mixtae, superando il modello del secolo precedente che si limitava a disciplinare alcune questioni specifiche, soprattutto le nomine.
Il Concordato lateranense, a differenza del Trattato, non si presenta quindi come una scelta collegata unicamente alle vicende italiane, ma deve essere visto, pur senza annullarne la specificità, nel contesto della politica vaticana nel dopoguerra.
Sotto questo profilo vanno quindi considerate le materie contenute nel Concordato lateranense.
La nuova regolazione delle nomine agli uffici, ricondotte tutte al principio codiciale della libera nomina dell’autorità ecclesiastica pontificia o episcopale che fosse, la fine della placitazione regia sostituita dalla clausola politica, la disciplina concordataria della materia dell’insegnamento religioso, la regolazione concordataria dell’insegnamento universitario della teologia o delle università cattoliche, la disciplina del finanziamento alla Chiesa cattolica e dei criteri per la definizione delle circoscrizioni diocesane, il riconoscimento degli effetti civili al matrimonio religioso si ritrovano in molti dei concordati firmati tra le due guerre, sia precedenti il 1929 sia successivi.
Certamente la regolazione dei vari istituti è funzionale alla situazione della Chiesa nei vari Stati, ma credo si possa constatare l’esistenza di un intento comune del legislatore canonico, quello di definire una legislazione canonica particolare che riguardasse l’intero Stato, o meglio tutta la Chiesa del Paese con il quale si era arrivati a firmare il Concordato.
E questo vale nel caso dei concordati con i Paesi dell’Europa centrale dove certamente prevale l’idea del superamento del particolarismo giuridico e di determinare un nuovo diritto particolare più coerente con la nuova codificazione del 1917.
Nel caso del Concordato lateranense va però rimarcato il fatto che esso segna la nascita della Chiesa italiana; si tratta infatti della prima legge canonica particolare che concerne la Chiesa italiana, visto che, durante il pontificato di Leone xiii, proprio per evitare la possibilità di una riunione dell’episcopato a livello nazionale, le varie diocesi erano state suddivise in regioni ecclesiastiche ed erano state create le conferenze episcopali regionali, paradossalmente.
Il ritardo, rispetto ad altre Nazioni, della nascita della conferenza episcopale deriva certamente, oltre che dalle difficoltà connesse al numero dei vescovi, anche dalla scelta operata da Leone xiii.
Un’ultima serie di brevi osservazioni va fatta in ordine alle condizioni politiche nel quale fu condotta la trattativa.
La dottrina ecclesiasticistica, ma di questo troviamo scarse tracce negli autori tedeschi che hanno studiato il fenomeno concordatario, ha visto nell’accordo italiano, il modello di un concordato con i Paesi autoritari, nel quale si realizzava uno scambio tra confessionalizzazione offerta dallo Stato (oltre all’Italia, Portogallo e Spagna) e legittimazione politica data dalla Chiesa.
Qualcuno ha anche individuato esaminando le bozze di due trattative concordatarie con la Francia e con la Spagna repubblicana, due tipologie di accordi concordatari, una alla quale appartiene il Concordato del Laterano, con i regimi autoritari, l’altra con i Paesi democratici.
Senza entrare nel merito degli istituti che giustificano questa analisi, e pur ritenendo che certamente, nel caso dell’Italia, il Concordato ha portato ad un’accelerazione del processo di confessionalizzazione già in atto dal primo dopoguerra, credo che questo fenomeno non possa, se non per taluni elementi specifici, essere collegato al carattere autoritario del regime fascista.
Credo piuttosto che dipenda, soprattutto per i Paesi belligeranti, dal fenomeno che porta, immediatamente dopo la guerra, i cattolici intransigenti, ad uscire, secondo l’espressione suggestiva, anche se discutibile di Altermatt, dal ghetto nel quale erano stati confinati (o si erano, secondo alcuni, confinati) durante l’età del liberalismo.
La Conciliazione, sotto tale profilo, non è soltanto un fenomeno italiano.
La consapevolezza di essere parte di una Nazione, e non un corpo estraneo, in quanto legati ad un potere sopranazionale, maturata nelle esperienze dei movimenti del cattolicesimo sociale e acquisita nelle trincee della prima guerra mondiale, porta a rafforzare la volontà degli uni di “ridare Dio alla patria” e determina il consenso di una classe politica, conscia della nuova situazione di uno Stato nel quale sono diventati protagonisti i partiti di massa.
Certamente gli anni tra il 1926 e il 1929 nei quali fu condotta la trattativa furono anche quelli del definitivo affermarsi del regime fascista e la conclusione dei Patti non poté che consolidare tale processo.
Va anche rilevato che la componente antimoderna presente nella cultura cattolica e in quella fascista hanno dato un’interpretazione dell’accordo nella quale sono stati sottolineati in modo particolare gli aspetti di rottura rispetto alla tradizione politica liberale.
Aldilà della contingenza di alcune delle scelte normative contenute nelle disposizioni concordatarie del 1929, va rilevato, a conferma di quanto osservato, come un giurista liberale come Arturo Carlo Jemolo nell’Italia repubblicana, e siamo già alla fine degli anni Sessanta, abbia pensato, al processo di revisione del Concordato lateranense come l’eliminazione delle “foglie secche”.
A mio avviso, la continuità dello strumento concordatario poggia su questa conciliazione, che non viene meno anche oggi, quando esso non è più prevalentemente guardato come un collegamento tra due ordinamenti secondo la lettura univoca della dottrina di quegli anni, ma, anche attraverso il riconoscimento del ruolo delle religioni nello spazio pubblico, in quanto momento di espressione della libertà religiosa di tutti, come dimostrano i testi non solo dell’accordo di Villa Madama, ma di tutti i concordati più recenti.
E l’augurio è che, anche questa presenza possa scongiurare il ripetersi di ciò che ha portato al pesante giudizio di Jemolo sull’età giolittiana, nella quale, sostiene lo studioso, la crisi di ideali portava a constatare la presenza di uno smarrimento che “con tratti ancora più confusi, con espressioni più volgari lo ritroveremmo, se potessimo indagarlo, in tutta la classe colta dell’Italia del tempo; tra coloro che sono rimasti fermi alla fede tradizionale, e gli altri che non hanno più alcun assillo religioso, e come hanno abbandonato le pratiche della religione, così hanno espulso dalla loro mente, con i problemi del divino, tutti quelli che non abbiano un contenuto pratico immediato”.
(©L’Osservatore Romano – 11 febbraio 2009) [Index] [Top] [Home]