Una Conferenza di tutte le Chiese europee

“Siamo convinti che una Conferenza di tutte le Chiese europee possa, concordemente, rispondere al meglio al comandamento sacro del ristabilimento della comunione ecclesiale e servire l’uomo contemporaneo posto di fronte a una moltitudine di problemi complessi”: è la proposta lanciata ieri, domenica, dal Patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo, all’assemblea della Conferenza delle Chiese europee (Kek) in corso di svolgimento a Lione dal 15 al 21 luglio.
Nel testo dell’allocuzione quel “tutte” appare in neretto, a sottolineare la volontà del Patriarca ortodosso di allargare, di “migliorare l’impegno ecumenico” già garantito dalla cooperazione tra la Kek e il Consiglio delle conferenze episcopali d’Europa (Ccee).
”Proponiamo – ha detto Bartolomeo – di porre in essere un modo di cooperare meglio organizzato e strutturato fra queste due istanze”.
Al riguardo, il Patriarca ecumenico ha ricordato che “la Chiesa di Costantinopoli aveva proposto, durante l’ottava assemblea della nostra conferenza”, tenuta all’Accademia ortodossa di Creta nel 1979, “che la Chiesa cattolica romana divenisse in futuro membro della Kek”.
Bartolomeo non nasconde che “questa sfida non è facile e che si mostrerebbero necessari dei lavori preparatori e degli emendamenti ai relativi regolamenti”.
Tuttavia, la creazione di una Conferenza di tutte le Chiese europee consentirebbe “di promuovere più efficacemente il dialogo delle Chiese d’Europa con le istituzioni europee e l’Unione europea”.
Questo dialogo, “instaurato da molto tempo dalla nostra Chiesa”, ha detto ancora Bartolomeo, è “prezioso e necessario non solo per le Chiese ma anche per le istanze politiche dell’Unione europea, e soprattutto per i popoli dell’Europa”.
La risposta da parte cattolica non si è fatta attendere.
Interpellato dai giornalisti a margine dell’assemblea della Kek, l’arcivescovo di Lione, cardinale Philippe Barbarin, ha detto – riferisce il Sir – che scriverà direttamente al Papa per informarlo dell’idea lanciata da Bartolomeo.
“Il Patriarca – ha dichiarato il porporato – ha espresso la speranza che si intensifichino i rapporti con la Chiesa cattolica ed è andato oltre questa affermazione”.
Barbarin, come del resto ricordato da Bartolomeo, ha spiegato che tale proposta non rappresenta una novità perché la questione è già stata posta dalle Chiese in passato, aggiungendo che ciò implicherebbe “modificazioni strutturali abbastanza importanti” e una certa correlazione con la non partecipazione della Chiesa cattolica al Consiglio ecumenico delle Chiese.
L’arcivescovo di Lione ha tenuto a distinguere due piani: da una parte “il terreno concreto della collaborazione che esiste e può essere sicuramente intensificato”, dall’altra “la questione dell’integrazione della struttura che presuppone una riflessione”.
L’appello, “forte, pieno di speranza e fraterno”, è stato tuttavia “ascoltato”.
Al riguardo, il presidente della Kek, Jean-Arnold de Clermont, ritiene “possibile avere un Consiglio di tutte le Chiese cristiane in Europa”, un luogo attorno al quale “si incontrano tutti i cristiani d’Europa per elaborare un messaggio comune da portare alle società europee”.
Tornando al discorso del Patriarca ecumenico, egli ha sottolineato “le nostre responsabilità e i nostri obblighi nei confronti della Kek” e quelli che “ci spettano riguardo al comandamento di nostro Signore”, il quale “ci impone di fare tutto il possibile per ristabilire la piena comunione fra le Chiese cristiane in Europa”.
Rifacendosi al tema dell’assemblea riunita a Lione – Chiamati a una sola speranza in Cristo – Bartolomeo ribadisce che “ciò costituisce la nostra speranza e la nostra incrollabile convinzione”.
La Conferenza delle Chiese europee festeggia quest’anno il cinquantesimo anniversario della fondazione.
Mezzo secolo caratterizzato, secondo il Patriarca di Costantinopoli, da tante luci ma anche da qualche ombra.
Durante questo periodo – ha detto – “sono stati elaborati innumerevoli documenti di tenore ecumenico, testi di grande profondità teologica, come la Charta oecumenica, che è il frutto degli sforzi congiunti di tutte le Chiese d’Europa, e cioè della Kek e della Ccee”.
Tuttavia, ricorda Bartolomeo, “come è stato sottolineato nel messaggio della iii Assemblea ecumenica europea, a Sibiu nel 2007, numerose proposizioni della Charta non sono state né assorbite dalla coscienza dei nostri fedeli né, a fortiori, applicate dalle nostre Chiese”.
Sono restate “lettera morta”, incapaci di produrre i risultati positivi sperati.
La conclusione è che “i nostri discorsi si dimostrano non essere coerenti con i nostri atti”, circostanza che “intacca la credibilità delle nostre Chiese e dà l’impressione, tanto all’interno che all’esterno, che esse sono incapaci di trovare delle soluzioni ai problemi esistenti”.
Un aspetto toccato anche da fratel Alois, priore della comunità ecumenica di Taizé, che nella meditazione tenuta sabato a Lione nel tempio della Chiesa riformata si è chiesto: “Come essere credibili, parlando di un Dio dell’amore, se i cristiani restano separati?”.
L’avvenire della nuova Europa in costruzione, senza i valori spirituali cristiani, “che toccano tutto ciò che concerne il sostegno e la protezione della persona umana e della sua dignità”, è “buio, perfino incerto”, ha concluso il Patriarca ecumenico di Costantinopoli.
(giovanni zavatta) (©L’Osservatore Romano – 20-21 luglio 2009)

La Chiesa in Italia Carità e verità

Carità e verità sull’uomo – è dunque ribadito dai vescovi italiani – sono i due aspetti di una medesima diaconia.
I presuli, in ottemperanza a tale servizio, osservano quindi come a seguito della crisi economica, in Italia il tessuto sociale si va “sfilacciando”, e le disuguaglianze “aumentano, invece di diminuire”.
Nessuno, si legge nel comunicato finale “ignora il pesante impatto della sfavorevole congiuntura economica internazionale, di cui non si riesce a cogliere ancora esattamente la portata, né si intende minimizzare l’impegno profuso da chi detiene l’autorità.
Resta però evidente che i costi del difficile momento presente ricadono in misura prevalente sulle fasce più deboli della popolazione”.
Il vero profilo di una compiuta evangelizzazione – spiegano i presuli – “richiede di saper servire la persona nella sua integralità, ponendo attenzione sia ai bisogni materiali sia alle aspirazioni spirituali, secondo l’insuperabile intuizione di Paolo VI, per il quale il destino della Chiesa è di “portare la Buona Novella in tutti gli strati dell’umanità e, col suo influsso, trasformare dal di dentro”, fino a “raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la Parola di Dio e col disegno della salvezza” (Evangelii nuntiandi, nn.
18-19)”.
Nel comunicato, i vescovi ricordano la grande emozione suscitata dall’incontro con Benedetto XVI, giovedì 28 maggio e sottolineano l’approvazione del Documento comune per un indirizzo pastorale dei matrimoni tra cattolici e battisti in Italia.
Ma ampio spazio, nel corso dell’assemblea generale, è stato dato alla trattazione della questione educativa, attraverso gruppi di lavoro che hanno fatto emergere un radicato consenso intorno alla scelta dell’educazione quale tema portante degli Orientamenti pastorali della Chiesa in Italia nel decennio 2010-2020.
Si è condivisa – è scritto nel comunicato finale – “la consapevolezza che l’urgenza della questione non nasce in primo luogo da una contingenza particolare, ma dalla necessità che ciascuna persona e ogni generazione ha di esercitare la propria libertà.
Si è dunque privilegiato un atteggiamento positivo e non allarmistico e si è precisato che questa scelta è in profonda continuità con il recente cammino della Chiesa in Italia, dal momento che comunicare il Vangelo è riproporre in modo essenziale Cristo come modello di umanità vera in un contesto culturale e sociale mutato”.
Su questo punto, è stata ribadita la necessità di “non sottovalutare l’impatto delle trasformazioni in atto, senza peraltro limitarsi semplicemente a recensirne le cause socio-culturali, indulgendo a diagnosi sconsolate e pessimiste.
Al contrario, si intende ribadire che l’educazione è una questione di esperienza:  è un’arte e non un insieme di tecniche e chiama in causa il soggetto, di cui va risvegliata la libertà”.
È questo, spiegano i vescovi, “il punto centrale su cui far leva per riscoprire la funzione originaria della Chiesa, a cui spetta connaturalmente generare alla fede e alla vita, attraverso una relazione interpersonale che metta al centro la persona.
La libertà, peraltro, prende forma soltanto a contatto con la verità del proprio essere, quando cioè è sollecitata a prendere posizione rispetto alle grandi domande della vita e, in primo luogo, rispetto alla questione di Dio.
Di qui la centralità del rapporto tra libertà e verità, che non può essere eluso e che è variamente declinato, tanto nel rapporto tra libertà e autorità quanto in quello tra libertà e disciplina”.
In tema di immigrazione, i vescovi affermano che di fronte a tale fenomeno una risposta dettata dalle “sole esigenze di ordine pubblico – che è comunque necessario garantire in un corretto rapporto tra diritti e doveri – risulta insufficiente, se non ci si interroga sulle cause profonde di un simile fenomeno.
Due azioni convergenti sembrano irrinunciabili.
La prima consiste nell’impedire che i figli di Paesi poveri siano costretti ad abbandonare la loro terra, a costo di pericoli gravissimi, pur di trovare una speranza di vita.
La seconda risposta sta nel favorire l’effettiva integrazione di quanti giungono dall’estero, evitando il formarsi di gruppi chiusi e preparando “patti di cittadinanza” che definiscano i rapporti e trasformino questa drammatica emergenza in un’opportunità per tutti.
Ciò è possibile se si tiene conto della tradizionale disponibilità degli italiani – memori del loro passato di emigranti – ad accogliere l’altro e a integrarlo nel tessuto sociale.
Suonerebbe infatti retorico l’elogio di una società multietnica, multiculturale e multireligiosa, se non si accompagnasse con la cura di educare a questa nuova condizione, che non è più di omogeneità e che richiede obiettivamente una maturità culturale e spirituale.
In questa logica è stato deciso di dotarsi di un osservatorio nazionale specializzato per monitorare e interpretare questo fenomeno, e si è chiesto alle parrocchie, all’interno del loro precipuo compito di evangelizzazione, di diventare luogo di integrazione sociale”.
(©L’Osservatore Romano – 10 giugno 2009)  La Chiesa non è “un’agenzia umanitaria” chiamata a “farsi carico delle patologie della società ma irrilevante rispetto alla fisiologia della convivenza sociale”.
Allo stesso tempo è da rigettare “un modello di Chiesa che si limiti a ribadire una fede disincarnata, priva di connessioni antropologiche e perciò incapace di offrire il proprio apporto specifico all’edificazione della città dell’uomo”.
È quanto si legge nel comunicato finale dell’assemblea generale della Conferenza episcopale italiana (Cei), tenutosi dal 25 al 29 maggio scorsi.

Formazione al sacerdozio, tra secolarismo e modelli di Chiesa

Tra pochi giorni, venerdì 19, festa del Sacro Cuore di Gesù, avrà inizio lo speciale Anno Sacerdotale voluto da Benedetto XVI.
Le finalità sono state indicate da papa Joseph Ratzinger ai cardinali e vescovi che compongono la congregazione per il clero, riuniti lo scorso 16 marzo in assemblea plenaria.
La congregazione per il clero si chiamava fino al 1967 congregazione “del Concilio”.
Era stata costituita infatti dopo il Concilio di Trento per curare l’applicazione delle indicazioni conciliari da parte del clero in cura d’anime.
Il profilo di prete delineato dal Concilio di Trento ha caratterizzato la vita della Chiesa cattolica fino alla metà del Novecento.
Ne è stato un modello il santo Curato d’Ars, Giovanni Maria Vianney, di cui ricorre il 150.mo anniversario della morte.
Negli ultimi decenni, però, l’identità del prete cattolico si è in varia misura mutata, offuscata, sbriciolata, sotto i colpi della secolarizzazione, fuori e dentro la Chiesa.
L’intento dell’Anno Sacerdotale è appunto quello di ricostruire nel prete una forte identità spirituale, fedele alla sua missione originaria.
Ciò comporta anche un’energica opera di eliminazione della “sporcizia” che ha inquinato una parte del clero, quantitativamente limitata ma disastrosa sul piano della sua immagine globale.
A questo proposito va notata una coincidenza.
Con l’inizio dell’Anno Sacerdotale avrà inizio anche la visita apostolica ordinata dalle autorità vaticane dentro la congregazione dei Legionari di Cristo.
Questa congregazione si distingue per l’abbondanza delle vocazioni e il gran numero di nuovi preti.
Nello stesso tempo, però, rischia di crollare così come è già crollata la figura del suo carismatico fondatore, il sacerdote Marcial Maciel, la cui doppia vita gravemente immorale – venuta definitivamente allo scoperto – è diventata oggi un terribile scandalo prima di tutto per quelli che furono i suoi più ferventi discepoli.
Ricostruire l’identità spirituale del clero implica quindi anche una speciale cura della sua formazione.
Come i seminari sono stati una pietra miliare della riforma della Chiesa voluta dal Concilio di Trento, così oggi è nei seminari che si forgia l’identità dei nuovi preti.
La congregazione del clero non si occupa dei seminari.
Prende cura di essi la congregazione per l’educazione cattolica.
Anche quest’ultima, quindi, dovrà operare perché l’Anno Sacerdotale porti frutto.
Qualcosa, anzi, ha già fatto, a giudicare dal discorso tenuto dal suo segretario, Jean-Louis Bruguès, ai rettori dei seminari pontifici convenuti a Roma nei giorni scorsi.
Monsignor Bruguès, 66 anni, domenicano, era fino al 2007 vescovo di Angers.
Oltre che segretario della congregazione per l’educazione cattolica è vicepresidente della pontificia opera delle vocazioni sacerdotali e membro della commissione per la formazione dei candidati al sacerdozio.
È inoltre accademico della pontificia accademia San Tommaso d’Aquino.
Il discorso che ha rivolto ai rettori di seminario non ha nulla del linguaggio curiale.
È di una franchezza non comune.
Descrive e denuncia senza mezzi termini i guasti del dopoconcilio, in particolare in Europa, compresa l’impressionante ignoranza sui punti elementari della dottrina che oggi si riscontra nei giovani che entrano in seminario.
Questa ignoranza è a tal punto che, tra i rimedi, monsignor Bruguès auspica che si dedichi un anno intero di seminario a far apprendere il Catechismo della Chiesa cattolica.
Il Catechismo “ad parochos” fu un’altra delle pietre miliari della riforma tridentina.
Quattro secoli dopo, si è di nuovo lì.
È sempre rischioso spiegare una situazione sociale a partire da una sola interpretazione.
Tuttavia, alcune chiavi aprono più porte di altre.
Da molto tempo sono convinto del fatto che la secolarizzazione sia diventata una parola-chiave per pensare oggi le nostre società, ma anche la nostra Chiesa.
La secolarizzazione rappresenta un processo storico molto antico, poiché è nato in Francia a metà del XVIII secolo, prima di estendersi all’insieme delle società moderne.
Tuttavia, la secolarizzazione della società varia molto da un paese all’altro.
In Francia e in Belgio, per esempio, essa tende a bandire i segni dell’appartenenza religiosa dalla sfera pubblica e a riportare la fede nella sfera privata.
Si osserva la stessa tendenza, ma meno forte, in Spagna, in Portogallo e in Gran Bretagna.
Negli Stati Uniti, invece, la secolarizzazione si armonizza facilmente con l’espressione pubblica delle convinzioni religiose: l’abbiamo visto anche in occasione delle ultime elezioni presidenziali.
Da una decina d’anni a questa parte è emerso tra gli specialisti un dibattito molto interessante.
Sembrava, fino ad allora, che si dovesse dare per scontato che la secolarizzazione all’europea costituisse la regola e il modello, mentre quella di tipo americano costituisse l’eccezione.
Ora invece sono numerosi coloro i quali – Jürgen Habermas per esempio – pensano che è vero l’opposto e che anche nell’Europa post-moderna le religioni svolgeranno un nuovo ruolo sociale.
RICOMINCIARE DAL CATECHISMO Qualunque sia la forma che ha assunto, la secolarizzazione ha provocato nei nostri paesi un crollo della cultura cristiana.
I giovani che si presentano nei nostri seminari non conoscono più niente o quasi della dottrina cattolica, della storia della Chiesa e dei suoi costumi.
Questa incultura generalizzata ci obbliga a effettuare delle revisioni importanti nella pratica seguita fino ad ora.
Ne menzionerò due.
Per prima cosa, mi sembra indispensabile prevedere per questi giovani un periodo – un anno o più – di formazione iniziale, di “ricupero”, di tipo catechetico e culturale al tempo stesso.
I programmi possono essere concepiti in modo diverso, in funzione dei bisogni specifici di ciascun paese.
Personalmente, penso a un intero anno dedicato all’assimilazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, che si presenta come un compendio molto completo.
In secondo luogo occorrerebbe rivedere i nostri programmi di formazione.
I giovani che entrano in seminario sanno di non sapere.
Sono umili e desiderosi di assimilare il messaggio della Chiesa.
Si può lavorare con loro veramente bene.
La loro mancanza di cultura ha questo di positivo: non si portano più dietro i pregiudizi negativi dei loro fratelli maggiori.
È una fortuna.
Ci troviamo quindi a costruire su una “tabula rasa”.
Ecco perché sono a favore di una formazione teologica sintetica, organica e che punta all’essenziale.
Questo implica, da parte degli insegnanti e dei formatori, la rinuncia a una formazione iniziale contrassegnata da uno spirito critico – come era stato il caso della mia generazione, per la quale la scoperta della Bibbia e della dottrina è stata contaminata da uno spirito di critica sistematico – e alla tentazione di una specializzazione troppo precoce: precisamente perché manca a questi giovani il background culturale necessario.
Permettetemi di confidarvi alcune domande che mi sorgono in questo momento.
Si ha mille volte ragione di voler dare ai futuri sacerdoti una formazione completa e d’alto livello.
Come una madre attenta, la Chiesa desidera il meglio per i suoi futuri sacerdoti.
Per questo i corsi si sono moltiplicati, ma al punto di appesantire i programmi in un modo a mio parere esagerato.
Avete probabilmente percepito il rischio dello scoraggiamento in molti dei vostri seminaristi.
Chiedo: una prospettiva enciclopedica è forse adatta per questi giovani che non hanno ricevuto alcuna formazione cristiana di base? Questa prospettiva non ha forse provocato una frammentazione della formazione, un’accumulazione dei corsi e un’impostazione eccessivamente storicizzante? È davvero necessario, per esempio, dare a dei giovani che non hanno mai imparato il catechismo una formazione approfondita nelle scienze umane, o nelle tecniche di comunicazione? Consiglierei di scegliere la profondità piuttosto che l’estensione, la sintesi piuttosto che la dispersione nei dettagli, l’architettura piuttosto che la decorazione.
Altrettante ragioni mi portano a credere che l’apprendimento della metafisica, per quanto impegnativo, rappresenti la fase preliminare assolutamente indispensabile allo studio della teologia.
Quelli che vengono da noi hanno spesso ricevuto una solida formazione scientifica e tecnica – il che è una fortuna – ma la loro mancanza di cultura generale non permette ad essi di entrare con passo deciso nella teologia.
DUE GENERAZIONI, DUE MODELLI DI CHIESA In numerose occasioni ho parlato delle generazioni: della mia, di quella che mi ha preceduto, delle generazioni future.
È questo, per me, il nodo cruciale della presente situazione.
Certo, il passaggio da una generazione all’altra ha sempre posto dei problemi d’adattamento, ma quello che viviamo oggi è assolutamente particolare.
Il tema della secolarizzazione dovrebbe aiutarci, anche qui, a comprendere meglio.
Essa ha conosciuto un’accelerazione senza precedenti durante gli anni Sessanta.
Per gli uomini della mia generazione, e ancor di più per coloro che mi hanno preceduto, spesso nati e cresciuti in un ambiente cristiano, essa ha costituito una scoperta essenziale, la grande avventura della loro esistenza.
Sono dunque arrivati a interpretare l'”apertura al mondo” invocata dal Concilio Vaticano II come una conversione alla secolarizzazione.
Così di fatto abbiamo vissuto, o persino favorito, un’autosecolarizzazione estremamente potente nella maggior parte delle Chiese occidentali.
Gli esempi abbondano.
I credenti sono pronti a impegnarsi al servizio della pace, della giustizia e delle cause umanitarie, ma credono alla vita eterna? Le nostre Chiese hanno compiuto un immenso sforzo per rinnovare la catechesi, ma questa stessa catechesi non tende a trascurare le realtà ultime? Le nostre Chiese si sono imbarcate nella maggior parte dei dibattiti etici del momento, sollecitate dall’opinione pubblica, ma quanto parlano del peccato, della grazia e della vita teologale? Le nostre Chiese hanno dispiegato felicemente dei tesori d’ingegno per far meglio partecipare i fedeli alla liturgia, ma quest’ultima non ha perso in gran parte il senso del sacro? Qualcuno può negare che la nostra generazione, forse senza rendersene conto, ha sognato una “Chiesa di puri”, una fede purificata da ogni manifestazione religiosa, mettendo in guardia contro ogni manifestazione di devozione popolare come processioni, pellegrinaggi, eccetera? L’impatto con la secolarizzazione delle nostre società ha trasformato profondamente le nostre Chiese.
Potremmo avanzare l’ipotesi che siamo passati da una Chiesa di “appartenenza”, nella quale la fede era data dal gruppo di nascita, a una Chiesa di “convinzione”, in cui la fede si definisce come una scelta personale e coraggiosa, spesso in opposizione al gruppo di origine.
Questo passaggio è stato accompagnato da variazioni numeriche impressionanti.
Le presenze sono diminuite a vista d’occhio nelle chiese, nei corsi di catechesi, ma anche nei seminari.
Anni fa il cardinale Lustiger aveva tuttavia dimostrato, cifre alla mano, che in Francia il rapporto fra il numero dei sacerdoti e quello dei praticanti effettivi era restato sempre lo stesso.
I nostri seminaristi, così come i nostri giovani sacerdoti, appartengono anch’essi a questa Chiesa di “convinzione”.
Non vengono più tanto dalle campagne, quanto piuttosto dalle città, soprattutto delle città universitarie.
Sono cresciuti spesso in famiglie divise o “scoppiate”, il che lascia in loro tracce di ferite e, talvolta, una sorta d’immaturità affettiva.
L’ambiente sociale di appartenenza non li sostiene più: hanno scelto di essere sacerdoti per convinzione e hanno rinunciato, per questo fatto, ad ogni ambizione sociale (quello che dico non vale dovunque; conosco delle comunità africane in cui la famiglia o il villaggio portano ancora delle vocazioni sbocciate nel loro seno).
Per questo essi offrono un profilo più determinato, individualità più forti e temperamenti più coraggiosi.
A questo titolo, hanno diritto a tutta la nostra stima.
La difficoltà sulla quale vorrei attirare la vostra attenzione supera dunque la cornice di un semplice conflitto generazionale.
La mia generazione, insisto, ha identificato l’apertura al mondo col convertirsi alla secolarizzazione, nei confronti della quale ha sperimentato un certo fascino.
I più giovani, invece, sono sì nati nella secolarizzazione, che rappresenta il loro ambiente naturale, e l’hanno assimilata col latte della nutrice: ma cercano innanzitutto di prendere le distanze da essa, e rivendicano la loro identità e le loro differenze.
ACCOMODAMENTO COL MONDO O CONTESTAZIONE? Esiste ormai nelle Chiese europee, e forse anche nella Chiesa americana, una linea di divisione, talora di frattura, tra una corrente di “composizione” e una corrente di “contestazione”.
La prima ci porta a osservare che esistono nella secolarizzazione dei valori a forte matrice cristiana, come l’uguaglianza, la libertà, la solidarietà, la responsabilità, e che deve essere possibile venire a patti con tale corrente e individuare dei campi di cooperazione.
La seconda corrente, al contrario, invita a prendere le distanze.
Ritiene che le differenze o le opposizioni, soprattutto nel campo etico, diventeranno sempre più marcate.
Propone dunque un modello alternativo al modello dominante, e accetta di sostenere il ruolo di una minoranza contestatrice.
La prima corrente è risultata predominante nel dopoconcilio; ha fornito la matrice ideologica delle interpretazioni del Vaticano II che si sono imposte alla fine degli anni Sessanta e nel decennio successivo.
Le cose si sono invertite a partire dagli anni Ottanta, soprattutto – ma non esclusivamente – sotto l’influenza di Giovanni Paolo II.
La corrente della “composizione” è invecchiata, ma i suoi adepti detengono ancora delle posizioni chiave nella Chiesa.
La corrente del modello alternativo si è rinforzata considerevolmente, ma non è ancora diventata dominante.
Così si spiegherebbero le tensioni del momento in numerose Chiese del nostro continente.
Non mi sarebbe difficile illustrare con degli esempi la contrapposizione che ho appena descritto.
Le università cattoliche si distribuiscono oggi secondo questa linea di divisione.
Alcune giocano la carta dell’adattamento e della cooperazione con la società secolarizzata, a costo di trovarsi costrette a prendere le distanze in senso critico nei confronti di questo o quell’aspetto della dottrina o della morale cattolica.
Altre, d’ispirazione più recente, mettono l’accento sulla confessione della fede e la partecipazione attiva all’evangelizzazione.
Lo stesso vale per le scuole cattoliche.
E lo stesso si potrebbe affermare, per ritornare al tema di questo incontro, nei riguardi della fisionomia tipica di coloro che bussano alla porta dei nostri seminari o delle nostre case religiose.
I candidati della prima tendenza sono diventati sempre più rari, con grande dispiacere dei sacerdoti delle generazioni più anziane.
I candidati della seconda tendenza sono diventati oggi più numerosi dei primi, ma esitano a varcare la soglia dei nostri seminari, perché spesso non vi trovano ciò che cercano.
Essi sono portatori d’una preoccupazione d’identità  (con un certo disprezzo vengono qualificati talvolta come “identitari”): identità cristiana – in che cosa ci dobbiamo distinguere da coloro che non condividono la nostra fede? – e identità del sacerdote, mentre l’identità del monaco e del religioso è più facilmente percepibile.
Come favorire un’armonia tra gli educatori, che appartengono spesso alla prima corrente, e i giovani che si identificano con la seconda? Gli educatori continueranno ad aggrapparsi a criteri d’ammissione e di selezione che risalgono ai loro tempi, ma non corrispondono più alle aspirazioni dei più giovani? Mi è stato raccontato il caso di un seminario francese nel quale le adorazioni del Santissimo Sacramento erano state bandite da una buona ventina d’anni, perché giudicate troppo devozionali: i nuovi seminaristi hanno dovuto battersi per parecchi anni perché fossero ripristinate, mentre alcuni docenti hanno preferito dare le dimissioni davanti a ciò che giudicavano come un “ritorno al passato”; cedendo alle richieste dei più giovani, avevano l’impressione di rinnegare ciò per cui si erano battuti per tutta la vita.
Nella diocesi di cui ero vescovo ho conosciuto difficoltà simili quando dei sacerdoti più anziani – oppure intere comunità parrocchiali – provavano una grande difficoltà a rispondere alle aspirazioni dei giovani sacerdoti che erano stati loro mandati.
Comprendo le difficoltà che incontrate nel vostro ministero di rettori di seminari.
Più che il passaggio da una generazione ad un’altra, dovete assicurare armoniosamente il passaggio da un’interpretazione del Concilio Vaticano II ad un’altra, e forse da un modello ecclesiale a un altro.
La vostra posizione è delicata, ma è assolutamente essenziale per la Chiesa.
 Il discorso del 15 marzo 2009 nel quale Benedetto XVI ha annunciato l’Anno Sacerdotale con inizio il 19 giugno: > Alla plenaria della congregazione per il clero __________ Altra documentazione sull’Anno Sacerdotale: > Congregazione per il clero __________ Sul caso dei Legionari di Cristo: > La Legione è allo sbando.
Tradita dal suo fondatore
(16.2.2009)

I vescovi degli Stati Uniti su ricerca e obiezione di coscienza

Il cardinale George, in una dichiarazione resa pubblica dalla Conferenza episcopale, ha espresso gratitudine per le affermazioni fatte da Obama sulla necessità di “onorare la coscienza di quanti non sono d’accordo con l’aborto” anche attraverso le clausole di coscienza riconosciute agli operatori sanitari.
“Dal 1973 – si legge nella dichiarazione – le leggi federali a protezione del diritto all’obiezione di coscienza degli operatori sanitari hanno costituito una parte importante della tradizione dei diritti civili in America.
Tali leggi dovrebbero essere pienamente applicate e rinforzate.
Gli operatori e le istituzioni sanitarie cattoliche dovrebbero poter sapere che le loro più profonde convinzioni religiose e morali saranno rispettate nel momento in cui esercitano il loro diritto a servire i pazienti che hanno bisogno di aiuto.
Gli operatori cattolici, in particolare, rendono un grande ed essenziale contributo all’assistenza sanitaria nella nostra società.
Passi essenziali per proteggere i diritti di coscienza rafforzeranno il nostro sistema sanitario e la possibilità per molti pazienti di accedere a un’assistenza orientata alla difesa della vita.
Un Governo – ha aggiunto il cardinale – che vuole ridurre il tragico numero di aborti nella nostra società lavorerà anche per assicurare che nessuno sia costretto a supportare l’aborto o a prendervi parte, attraverso prestazioni dirette o fornendo informazioni sull’aborto o finanziandolo con i dollari delle sue tasse.
Mentre il dibattito continua, attendiamo di poter lavorare con l’amministrazione e i legislatori per raggiungere questo obbiettivo”.
I vescovi degli Stati Uniti, dunque, attraverso il cardinale George, rispondono a quanti hanno visto dietro alle posizioni assunte dai presuli sui temi etici un’opposizione politica alla nuova amministrazione.
Raccogliendo l’invito espresso dal presidente Obama nel suo discorso all’università di Notre Dame, la Conferenza episcopale ha invece ricordato quali sono i termini inderogabili all’interno dei quali, dal punto di vista cattolico, il dialogo, quale che sia il colore dell’amministrazione, può avvenire.
Il contributo a un lavoro comune con l’amministrazione è dimostrato anche dalla raccolta di pareri, avviata dalla stessa Conferenza episcopale, riguardo alle linee guida elaborate dai National Institutes of Health (Nih) per la ricerca sulle cellule staminali embrionali.
Secondo monsignor David Malloy, segretario generale della Conferenza episcopale degli Stati Uniti, i Nih hanno perso “un’enorme opportunità per mostrare come la scienza e l’etica possano non solo coesistere ma aiutarsi e arricchirsi l’una con l’altra”.
Monsignor Malloy ha citato anche la dignità della vita umana in ogni stadio dell’esistenza e l’innato diritto di ogni uomo a non essere soggetto a sperimentazioni senza il proprio consenso informato ed esplicito.
Leggi che manchino di riconoscere tale diritto – ha aggiunto – finiscono per chiamare in causa “la loro stessa legittimità morale”.
Il segretario generale della conferenza ha messo in evidenza “un fatto scientifico centrale” nella questione della ricerca sulle cellule staminali embrionali: l’embrione che verrà distrutto per ottenere cellule staminali “è un essere umano nelle primissime fasi del suo sviluppo”.
Non si tratta – ha spiegato monsignor Malloy – di un argomento religioso ma di un fatto riconosciuto da molti organismi, compresa la National Bioethics Advisory Commission nominata dal presidente Clinton.
Tale organismo arrivò alla conclusione che dal momento che gli embrioni umani meritano rispetto in quanto forme di vita umana, distruggerli per ottenere cellule staminali è “giustificabile solo se alternative meno problematiche dal punto di vista etico non siano disponibili”.
Tali alternative esistono, ha ricordato monsignor Malloy riferendosi per esempio alla riprogrammazione delle cellule staminali adulte in modo che diventino cellule staminali pluripotenziali senza danno alla vita umana.
Le politiche federali che vietavano la distruzione di embrioni avevano consentito il grande avanzamento di questo tipo di ricerche.
Ora, l’executive order del 9 marzo, presentato dal presidente Obama – ha detto ancora il segretario generale della Conferenza episcopale – non ha solo rimosso tale politica ma anche un analogo provvedimento del 2007 che dava istruzioni ai Nih per poter praticare nuove strade al fine di ottenere la riprogrammazione delle cellule staminali adulte senza distruggere embrioni umani: “Con tale decisione – ha concluso monsignor Malloy – sia la scienza sia l’etica sono state ignorate”.
Il presidente della Conferenza episcopale degli Stati Uniti, il cardinale Francis Eugene George, arcivescovo di Chicago, esorta il presidente Barack Obama a tradurre in pratica quanto ha affermato recentemente riguardo alla difesa del diritto all’obiezione di coscienza per gli operatori sanitari.
Obiezione – ricorda il cardinale – nella quale rientra anche il diritto a non finanziare l’aborto con le tasse pagate allo Stato.
Obama, intervenendo presso la University of Notre Dame di South Bend, in Indiana, ha assicurato che il diritto all’obiezione, finora previsto dalla legge, continuerà a essere riconosciuto.
La questione è rilevante, in quanto alla luce dei provvedimenti presi dalla nuova amministrazione in materia etica, molti operatori sanitari si potrebbero trovare di fronte alla necessità di dover prestare servizi moralmente non condivisi.

Cristianesimo & Islam. La necessità del dialogo in Europa

L´incontro è iniziato con una presentazione del Card.
Tauran sullo status quaestionis del dialogo con i musulmani.
Momento importante del dialogo interreligioso è stato la pubblicazione della “Lettera dei 138”.
Da ciò è nata l’idea del primo incontro del Forum cattolico-musulmano che si è riunito nel mese di novembre 2008 a Roma.
In questi mesi il dicastero presieduto dal cardinale Tauran ha lavorato su degli Orientamenti pastorali la cui pubblicazione è prevista dopo la pausa estiva.
Altri punti significativi della presentazione del cardinale è stata l´importanza ma anche la complessità che la questione del dialogo con i musulmani riveste per la Chiesa, anche se a differenza di altri tempi, oggi la presenza musulmana è sostanzialmente pacifica.
Questo dialogo ci offre l´opportunità di approfondire la nostra fede, così da testimoniarla e darne ragioni, solo e vero modo di avere un dialogo sincero, senza cadere nel relativismo.
La riunione è proseguita con la presentazione di rapporti che i delegati hanno preparato circa la situazione del dialogo nei loro paesi.
In sostanza, quanto emerge è la domanda, sempre attuale, di come rapportarci ai musulmani oggi in Europa.
Si nota chiaramente come, nonostante la grande diversità di approcci, la connessione della presenza musulmana in Europa non può più solo essere collegata e affrontata alla stregua della questione del fenomeno migratorio.
Se ci sono ancora alcuni paesi in cui questo è vero, nella maggior parte dei paesi europei, i musulmani appartengono alla seconda, terza, quarta e addirittura quinta generazione, quindi persone nate ed educate in Europa, che sono e si riconoscono pienamente cittadini europei.
Tra le sfide che il dialogo interreligioso mostra vi sono questioni legate al tema dei matrimoni misti, dell´istruzione e dell´integrazione nelle scuole e nei movimenti giovanili cattolici dei giovani musulmani, la questione di tensioni in alcune città europee circa la costruzione di moschee e minareti.
Dall’altra parte si riscontra una certa sintonia su alcuni temi che indicano come questo dialogo può aiutare a elaborare posizioni in comune circa le questioni legate al tema della bioetica o della presenza della religione nello spazio pubblico.
La presentazione di don Andrea Pacini sui giovani musulmani europei ha permesso di evidenziare come, per capire l´identità dei musulmani, si dovrebbe vedere l´intersezione di tre fattori: il rapporto con l´Islam “etnico” delle prime generazioni di immigrati, il rapporto con la società europea e, infine, l´influenza dei flussi transnazionali dei musulmani in Europa.
Inoltre si assiste sempre più ad una differenziazione tra un tipo più tradizionale di esperienze legate all’islam dei paesi di provenienza da altre forme più personalizzate segnate dalla cultura europea, di tendenza a volte più liberale e in altri casi di corrente “neo-ortodossa”.
Si tratta d’altra parte di un nuovo tipo di organizzazione, di tipo associativo, con obbiettivi non esclusivamente religiosi, in dialogo con la cultura europea.
In ogni caso è chiaro che il musulmano si riconosce a livello personale e comunitario come appartenente all´Islam a prescindere della grande varietà di tradizioni.
Dal canto suo Martino Diez ha presentato il progetto Oasis promosso nel 2004 dal cardinale Angelo Scola di Venezia per sostenere il dialogo con i musulmani e con i cristiani che vivono in Paesi a maggioranza musulmana.
Oasis è una Fondazione Internazionale che pubblica una rivista mensile in varie lingue, compreso l´arabo.
Produce anche una newsletter inviata gratuitamente per e-mail e ha due collane di libri.
La sua presentazione è stata incentrata sulla questione della identità dell’interlocutore.
Si è visto come questa sia una questione molto delicata e come sia facile cadere in forme stereotipate non corrispondente alla realtà.
Un punto importante da lui riferito è stato il tema del métissage (incontro fra culture diverse).
Alle volte sembra un problema ma non deve essere visto come una tragedia, ma come un´opportunità per aumentare le possibilità di convivenza di persone con culture diverse.
In una società in cui tutti siano sempre più in grado di riconoscere l’altro e di essere riconosciuti, senza questo riconoscimento reciproco, un vero dialogo sarà impossibile.
Il padre bianco Hans Vöcking, esperto di Islam per il CCEE, ha raccontato la già lunga storia del lavoro che il CCEE insieme alle altre chiese cristiane membri della KEK (Conferenza delle Chiese europee) hanno svolto nell’ambito del dialogo con l’Islam.
Per lui anche la chiesa è chiamata a ripensare il suo approccio.
“Solo fino a 30 anni fa, la presenza dei musulmani in Europa rientrava per le Chiese nella categoria degli aiuti agli immigrati.
Oggi c’è la constatazione che i musulmani fanno parte integrante delle società europee e questa presenza necessita di una riflessione diversa che è al tempo stesso pastorale, sociale, caritativa e religiosa”.
Alla fine della riunione è stato espresso da molti partecipanti il desiderio di continuare questi incontri, perché possano essere occasioni per affrontare una serie di temi comuni e far conoscere ciò che i vari paesi stanno facendo per affrontare le diverse situazioni che, nonostante le caratteristiche specifiche di ciascun paese, sono simili.
P.
Duarte da Cunha Segretario generale CCEE San Gallo, il 29 aprile 2009 ***************** Al Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE) appartengono quali membri le attuali 33 Conferenze episcopali presenti in Europa, rappresentate di diritto dal loro Presidenti, gli Arcivescovi del Lussemburgo e del Principato di Monaco e il vescovo di Chişinău (Moldavia).
Lo presiede il Cardinale Péter Erdő, Arcivescovo di Esztergom-Budapest, Primate d’Ungheria; i Vicepresidenti sono il Cardinale Josip Bozanić, Arcivescovo di Zagabria e il Cardinale Jean-Pierre Ricard, Arcivescovo di Bordeaux.
Segretario generale del CCEE è P.
Duarte da Cunha.
La sede del segretariato è a St.
Gallen (Svizzera).
Per ulteriori informazioni: Thierry Bonaventura, CCEE Media Officer Tel: +41/ 71/227 6040 – Fax: +41/71/227 6041 Mobile: +41/ 78/ 851 6040 thierry.bonaventuraccee.ch Primo Incontro europeo dei delegati delle Conferenze episcopali responsabili per i rapporti con i musulmani in Europa – Bordeaux, Francia, 27-28 aprile 2009 Per 2 giorni delegati delle Conferenze episcopali per i rapporti con i musulmani del Portogallo, Spagna, Francia, Inghilterra, Belgio, Germania, Svizzera, Bosnia ed Erzegovina, Slovenia, Polonia, Italia, Malta, Scandinavia, Austria e Turchia, insieme al Cardinale Jean Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, si sono incontrati a Bordeaux per condividere quanto ciascun paese sta facendo nel campo del dialogo con i musulmani.
La riunione è stata ulteriormente arricchita dalla presenza di don Andrea Pacini, esperto rinomato del dialogo con il mondo musulmano e che nel 2005 ha pubblicato un volume sulla realtà dei giovani musulmani in Europa, da Martino Diez, presidente della Fondazione Oasis di Venezia, da P.
Hans Vöcking dei padri missionari africani e da contributi pervenuti dalle Conferenze episcopali dei Paesi Bassi, dell´Albania e della Conferenza Episcopale SS.
Cirillo e Metodio.

I santi e la pratica eroica delle virtù

Se è alta la qualità teologica della canonizzazione, altrettanto esigente è l’invito all’adesione di fede del credente, il quale è tenuto a prestare il suo assenso fermo e saldo, fondato sulla fede nell’assistenza dello Spirito Santo al magistero della Chiesa e sulla dottrina cattolica dell’infallibilità del magistero in questo campo.
La canonizzazione, quindi, non è un semplice atto di devozione o di pietà popolare, ma l’attestazione formale e solenne della santità di alcuni fedeli, proposti come modelli a tutta Chiesa per l’esaltazione della fede cattolica e l’incremento della vita cristiana (…) Rispondendo ora al titolo della nostra relazione – sul significato cioè della santità nella vita della Chiesa oggi – si può affermare con il concilio Vaticano ii che tutti i fedeli sono chiamati alla santità.
La santità è la vocazione di ogni battezzato.
Di conseguenza ancora oggi la santità fa parte dell’identità della Chiesa, Una Sancta, e del battezzato.
Di qui la sua perenne attualità (…) La fonte originaria della santità della Chiesa e nella Chiesa è Dio Trinità:  “Siate dunque perfetti – dice Gesù – come è perfetto il vostro Padre celeste” (Matteo, 5, 48) (…) La pienezza della vita cristiana e la perfezione della carità sono il traguardo di tutti i cristiani, la cui santità non è solo un ornamento spirituale della Chiesa ma anche un dono alla promozione e all’affermazione di una società umana pacificata e giusta.
Affermando che “tale santità promuove nella stessa società terrena un tenore di vita più umano”, il concilio riconosce le implicanze sociali della santità cristiana.
Per questo spesso i santi sono anche chiamati benefattori dell’umanità, perché, come Gesù, anch’essi sono passati su questa terra “beneficando” (Atti degli apostoli, 10, 38), operando il bene.
Come nei primi secoli il sangue dei martiri fu la linfa della santità della Chiesa, così oggi non solo i santi martiri ma anche i santi confessori della fede, continuano a essere i testimoni straordinari del Vangelo di Cristo, illustrando la Chiesa, madre dei santi (…) È interessante notare che nell’apologetica post-tridentina alcuni teologi evidenziavano un significato non comune della santità della Chiesa.
La qualifica sancta deriverebbe – a loro dire – da “sancire”-“stabilire” ed etimologicamente indicherebbe stabilità, indefettibilità, inviolabilità.
La Chiesa è santa perché è la roccia sulla quale si infrangono le onde dei suoi nemici.
La sua santità indicherebbe la sua indefettibilità, la sua stabilità.
In tutto ciò in primo piano non è tanto la santità dei membri quanto la santità fontale della Chiesa, dal momento che essa è santa perché mediante i suoi sacramenti santifica continuamente i suoi figli, perdonandoli e fortificandoli con la grazia.
Insomma, la Chiesa è santa perché santificatrice.
E la santità dei suoi figli, in subordine a quella di Cristo, la difende dal nemico e la fa splendere di grazia.
Ma questa santità soggettiva è il riflesso della santità oggettiva, costitutiva della Chiesa; ne è espansione e visibilizzazione.
La Chiesa ieri come oggi è stata sempre edificata dalla presenza dei martiri e dei santi.
Nei processi di canonizzazione la domanda di fondo è la seguente:  il servo o la serva di Dio ha praticato in modo eroico le virtù teologali e cardinali? Il santo, infatti, non è un prodotto della cieca evoluzione cosmica, ma un dono della grazia divina (…) Ma cosa significa, in concreto, la pratica eroica della virtù? Sembra che sia stato Aristotele a parlare di virtù eroica, nella sua Etica Nicomachea.
Lo Stagirita cita un brano dell’Iliade in cui Priamo piange la morte di Ettore, suo figlio prediletto, che era stato “tanto virtuoso che non crederesti che egli sia stato generato da padre mortale, ma che sia stato piuttosto della stessa natura degli dei” (…) Nel suo Commentario all’Etica Nicomachea, san Tommaso d’Aquino considera la virtù eroica come la straordinaria perfezione della parte ragionevole dell’anima.
Lo stesso Tommaso, nella stesura della sua Summa, illustra il rapporto tra doni dello Spirito Santo e virtù.
I doni sono indispensabili perché il battezzato raggiunga il suo traguardo soprannaturale.
In questo contesto egli parla di abito eroico o divino, che indica una disposizione verso il bene più alta del comune.
La virtù eroica è l’esercizio in grado eminente della virtù.
Nella virtù eroica il livello morale in essa presente si eleva al di sopra del livello morale di quasi tutti gli uomini.
E ciò suscita ammirazione, che costituisce anche un elemento della definizione della virtù eroica.
Per il benedettino José Saenz de Aguirre (+ 1699) i segni distintivi della virtù eroica sono l’osservanza fedele dei comandamenti e l’adempimento dei consigli evangelici anche in circostanze avverse; l’ammirazione da parte degli altri uomini; qualche miracolo perpetrato da Dio per confermare l’eroismo delle virtù di una persona ritenuta santa.
Per il francescano Lorenzo Brancati la persona che possiede l’abito della virtù eroica deve agire e fare il bene expedite, prompte et delectabiliter, sotto l’influenza e la guida dei doni dello Spirito Santo.
La virtù eroica supera l’esercizio ordinario della virtù dal momento che suscita una più sublime maniera di fare il bene con frequenza, facilità e disinvoltura.
In ogni caso, essa è sempre un grado particolarmente elevato di ogni singola virtù sia teologica sia morale.
Alla domanda su come siano riconoscibili le virtù eroiche, si risponde che il grado eroico è riconoscibile, in primo luogo dalla frequenza, dalla grande prontezza e dal carattere gioioso dell’attività virtuosa; in secondo luogo dal fatto che anche ostacoli difficili, costituiti da circostanze esterne o da intralci interni, vengono superati in modo tale che l’eroe virtuoso può essere considerato capace di grandi sacrifici per il Vangelo nella totale abnegazione di se stesso.
Anche per Prospero Lambertini, poi Benedetto xiv, la virtù eroica implica speditezza, prontezza e letizia in un modo superiore al comune, nell’abnegazione e nel controllo delle passioni.
La virtù eroica è l’elevazione delle virtù fino all’apice della loro perfezione per l’influsso efficace dei doni dello Spirito Santo (…) Tuttavia, come non ogni terreno produce tutto, ma viene raccomandato soprattutto per un prodotto particolare, così i santi per lo più sono nobilitati dallo splendore singolare di una sola virtù. Nonostante la connessione di tutte le virtù, una sola è la virtù che in essi è eminente e prevalente.
Ed è proprio l’eroismo virtuoso che suscita stupore e meraviglia, ma anche sequela e imitazione.
Il Vaticano ii – Lumen gentium, n.
50 – insegna al riguardo:  “Il contemplare la vita di coloro che hanno seguito fedelmente Cristo, è un motivo in più per sentirsi spinti a ricercare la città futura (cfr.
Lettera agli Ebrei, 13, 14 e 11, 10); nello stesso tempo impariamo la via sicurissima per la quale, tra le mutevoli cose del mondo e secondo lo stato e la condizione propria di ciascuno, potremo arrivare alla perfetta unione con Cristo, cioè alla santità.
Nella vita di quelli che, sebbene partecipi della nostra natura umana, sono tuttavia più perfettamente trasformati nell’immagine di Cristo (cfr.
Seconda Lettera ai Corinzi, 3,18), Dio manifesta agli uomini in una viva luce la sua presenza e il suo volto.
In loro è egli stesso che ci parla e ci dà un segno del suo Regno verso il quale, avendo intorno a noi un tal nugolo di testimoni (cfr.
Lettera agli Ebrei, 12, 1) e una tale affermazione della verità del Vangelo, siamo potentemente attirati”.
Nella nota 155, il testo conciliare richiama un decreto di Benedetto xv il quale sottolinea che la virtù eroica può consistere anche nelle piccole cose e, più precisamente, nel fedele, continuo e costante adempimento dei compiti e degli uffici del proprio stato.
Dal canto suo, Pio XII, a chi affermava che i santi sono piuttosto da ammirare che da imitare, rispondeva che la perfezione della santità e la sua eroicità si potevano raggiungere anche nella quotidiana e costante osservanza della legge divina e nella intensissima carità verso Dio e il prossimo.
E ogni santo ha espresso la sua virtù in modo del tutto originale:  alcuni con l’ardore dell’apostolato, altri con la fortezza del martirio, altri con lo splendore della loro verginità o con la soavità della loro umiltà.
Nella virtù eroica Cristo si fa di nuovo visibile in mezzo a noi e il santo diventa lo specchio di Cristo (…) I santi, inoltre, sono i veri operatori dell’inculturazione del Vangelo, non mediante teorie elaborate a tavolino, ma vivendo e manifestando la sequela Christi nella propria cultura.
I santi mostrano la verità evangelica con la loro esistenza.
In essi si realizza la metamorfosi cristiana di una cultura, dal momento che rivelano come le beatitudini evangeliche tocchino e convertano al bene i cuori e le menti delle persone di ogni cultura.
Nei santi l’inculturazione non avviene principalmente ab externo, nello stile delle chiese, negli atteggiamenti del corpo, nel rivestimento linguistico, ma soprattutto, ab interno, nella loro persona.
Sono loro in persona il Vangelo vivente per quella cultura.
Come agli inizi della Chiesa furono i santi pastori, i santi teologi e i santi martiri a evangelizzare le culture della terra, così oggi la Chiesa ha bisogno dei santi per la riuscita di ogni inculturazione.
Il Vangelo infatti non è riservato a una cultura determinata, ma a tutte le culture:  “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura” (Marco, 16, 15).
Ieri come oggi, questo compito è affidato soprattutto ai santi (…) In ciò consiste anche la dimensione missionaria dei santi, che costituiscono un’incarnazione personale del Vangelo.
La loro esistenza è la più efficace opera di convinzione della bontà della Parola di Dio, della sua verità per l’esistenza gioiosa dell’umanità.
Solo così si spiegano le conversioni al Vangelo operate dai santi missionari a cominciare dagli apostoli, che si sparsero in tutto il mondo annunciando la buona notizia della salvezza in Cristo, convertendo e battezzando (…) In conclusione, i santi sono segni concreti di speranza per un futuro di fraternità, di gioia e di pace.
Talvolta ci si lamenta per il grande numero di santi che vengono canonizzati.
Ma la Chiesa santa non può non generare figli santi.
Sarebbe come se ci lamentassimo della grande quantità, varietà e bellezza dei fiori in primavera.
(©L’Osservatore Romano – 30 aprile 2009 Prima di rispondere alla domanda sull’attualità della santità nella Chiesa e nel mondo, conviene premettere alcune considerazioni sul significato e sul valore della santità riconosciuta come tale dalla Chiesa e proposta ai fedeli come esempio d’imitazione di Cristo.
Diciamo subito che la solenne proclamazione della santità dei fedeli mediante la canonizzazione è un atto del Magistero pontificio di altissima qualità teologica.
Infatti, se al primo grado della Professio Fidei appartengono quelle dottrine di fede divina e cattolica che la Chiesa propone come divinamente e formalmente rivelate e, come tali, irreformabili, al secondo grado appartengono tutte quelle dottrine che riguardano la fede o i costumi proposte dalla Chiesa in modo definitivo.
Si tratta di verità che sono infallibilmente insegnate dal magistero ordinario e universale della Chiesa con sententia definitive tenenda.
La canonizzazione appartiene a questo secondo grado di verità proposte in modo definitivo, in quanto fa parte di quelle dottrine necessarie per custodire ed esporre fedelmente il deposito della fede.
I santi, sono quindi, pagine viventi della santità della Chiesa nei secoli.  )

“Messa dei popoli”.

L’uomo di ogni tempo e di ogni cultura ha sempre celebrato, anche con il canto, i momenti importanti della sua vita e della storia per rinnovare una gioia, soffrire per un dolore, affermare una fede, ribadire l’appartenenza ad un gruppo.
Scalamusic si inserisce in questo contesto culturale e musicale, portando la sua esperienza e originalità.
Vuole essere uno strumento in più, semplice e diretto, per la promozione del carisma scalabriniano, per la diffusione di ideali e messaggi di accoglienza e rispetto della dignità del migrante.
È per questo che Scalamusic, dopo le produzioni precedenti (Per terre lontane e Come in Cielo – 2005; Friendly Voice – 2007), ha realizzato una serie di canti liturgici multilingue.
La “Messa dei Popoli” (edita dalle Edizioni Paoline) è un’opera rivolta alle Parrocchie, sempre più ricche di immigrati cattolici che frequentano le celebrazioni, ai gruppi, ai movimenti, e a quanti sono impegnati in questa grande realtà di evangelizzazione.
Un contributo alle celebrazioni delle varie comunità etniche (anglofone, francofone e di lingua spagnola) presenti ormai da tempo in tante città e diocesi.
Tredici canti in cinque lingue, per animare i vari momenti della Celebrazione eucaristica.
Curati nella melodia e nel testo, sono stati composti pensando alle esigenze di ogni coro o comunità.
Può essere utilizzata per animare incontri come le Feste dei Popoli, particolari iniziative di festa e di preghiera, già tradizione di molte diocesi, volte a promuovere il valore dell’accoglienza, dell’unità della famiglia umana e della Chiesa; Giornate Mondiali delle Migrazioni; Giornate Missionarie e incontri di preghiera, frequentemente internazionali in queste occasioni.
Gli autori, missionari e giovani laici scalabriniani, sono: Fabio Baggio, Francesco Buttazzo, Gabriele Beltrami, Daniele Scarpa, Antonio Grasso, Enrico Selleri, Emma Maria Mannocchi.
Gli Autori e lo Staff di Scalamusic La “MESSA deiPOPOLI” una nuova proposta musicale da SCALAMUSIC Nata per sensibilizzare con la musica e lo spettacolo la società (in modo particolare il mondo giovanile) sulle questioni legate al fenomeno migratorio ed alle dinamiche interculturali contemporanee, l’Associazione Scalamusic presenta il suo ultimo cd: la “Messa dei Popoli”, una raccolta di canti per esprimere l’identità universale e missionaria della Chiesa.

Giobbe interroga il Creatore

Questo secondo contributo orienta la riflessione sulla figura di Giobbe.
– Il male, il dolore incombono sulla vita dell’uomo, magari innocente: – La fede nel Dio creatore può darvi un senso? Quale?                      Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono.
            – Quale l’atteggiamento del laico credente nel momento della prova?     Dalla potenza ordinatrice del cosmo alla signoria sull’esistenza: Giobbe   La fede di Israele sa che JHVH ha creato i cieli.
Man mano assume anche chiara coscienza che ha creato pure lo stesso Israele.
E di conseguenza,sia pure piuttosto tardi, la creazione si pone a garanzia della signoria di JHVH sulla storia.
I libri sapienziali ne danno luminosa conferma.
Il libro di Giobbe è importante perché misura la signoria di Dio nei confronti dell’aspetto più conturbante della creazione: il dolore e il male ch possono incombere sull’esistenza, magari innocente.
Di fatto nel caso di Giobbe la riflessione si fa sofferta e drammatica: non sono più i limiti e le resistenze del cosmo che fanno problema ma il dolore, il male che attanaglia l’esistenza e non sembra avere spiegazione.
La figura di Giobbe porta all’esasperazione l’interrogativo; rende conturbante la domanda su Dio stesso: quale signoria sulla creazione, quale garanzia di giustizia nel pesare la vita e l’agire dell’uomo davvero gli compete? La ribellione veemente e la vibrante requisitoria  dell’uomo Giobbe sembrano scalzare questa serena visione di uno sviluppo sicuro  che accompagna la vita nel suo imporsi sull’avversione tenace del caos.
Perciò l’intervento stesso di Dio parte proprio dall’appassionata difesa del suo mondo, in cui la vita incede trionfante a dispetto di tutte le resistenze e i limiti che ancora le si oppongono.
‘Dov’eri tu quand’io ponevo le fondamenta della terra? Dillo se ha i tanta intelligenza… chi ha posto la sua pietra angolare, mentre giocavano in coro le stelle del mattino e plaudivano tutti i figli di Dio?’ (Giobbe, 38, 4,6b,7) In fondo, Dio non risponde a Giobbe; lo inchioda sulla contemplazione di un universo magnifico e misterioso, di cui Lui solo conosce il segreto, perché l’ha fondato e lo governa.
Il riferimento alla creazione, la celebrazione della sua insondata grandezza, del suo irruente dinamismo; della sovrana autorità con cui Dio la muove inducono Giobbe a riconoscere una sapienza che aveva osato contestare.
Giobbe al pari dei suoi amici guardano il mondo in una fissità e organizzazione definite.
Dio spalanca loro la visione di una vitalità dinamica comandata da un principio irresistibile che va man mano integrando e organizzando gli aspetti difficilmente conciliabili e apparentemente caotici che lo fermentano.
L’appassionata difesa di Dio esprime una presenza straordinariamente avvertita e disponibile ad aprire il gioco imprevedibile della vita, a lasciarlo affermarsi fino allo scontro e all’apparente inconciliabilità, per guidarlo in realtà con superiore sapienza al fine che gli è assegnato.
Di fronte all’uomo Dio solleva il velo per far capire come dietro un enigma che l’uomo scorge se ne celano altri innumerevoli;  che il problema situato e parziale, di cui l’uomo si rende conto, suppone ulteriori interrogativi, che neppure avverte.
L’uomo e la sua tracotanza è dunque messa a tacere; ma soprattutto è ammaestrata a dare fiducia ad una sapienza ordinatrice che intesse in forma suggestiva e sovrano le fila dell’ universo progressivamente riportato all’ordine  e condotto a buon fine.
Giobbe si ricrede; la resa e il riconoscimento pieno al disegno sapiente di Dio sulla sua vita; un disegno profondo e arcano ma non perciò meno garantito e rasserenante.
“Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te.
… Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono.
Perciò mi ricredo e ne provo pentimento su polvere e cenere.” ( Giobbe, 42, 2, 8, 9 )   E’ una confessione umile, ma anche grande: piena di fiducia e di abbandono.
Celebra l’insondabile sapienza di Dio, ma anche la consapevole dignità dell’uomo.
Il dolore può non compromettere, ma rinsaldare l’intimità dell’uomo con Dio.
  ————————————————-                                                                                                                     Per la riflessione personale o di gruppo si può opportunamente riferirsi a: Giobbe, dal capitolo 38°: Le sfide del Signore   Per l’approfondimento personale e di gruppo:             Quale provocazione religiosa sottende il problema del male?             Quale risposta può dare il credente?             Per l’aggiornamento: LÖNING K.
– E.
ZENGLER, In principio Dio Creò.
Teologie bibliche della creazione, Brescia, Queriniana, 2007 RAD (Von) G., Teologia dell’Antico Testamento, 2 voll., Brescia, Paideia, 1974.
 TRENTI Z., La secolarità nell’orizzonte della creazione, Leumann, Ellenici, 2009

La testimonianza della povertà

L’ultima giornata umbra del Capitolo – che da mercoledì 15 ha portato ad Assisi circa duemila tra religiose e religiosi in rappresentanza della Famiglia francescana – è trascorsa nel segno del digiuno, della penitenza e del rinnovo della fedeltà al mandato di san Francesco.
Nella mattinata i partecipanti al Capitolo hanno letteralmente invaso Assisi per un silenzioso pellegrinaggio individuale nei diversi luoghi del santo.
Successivamente, nel pomeriggio, è partita dal piazzale della Porziuncola di Santa Maria degli Angeli la processione penitenziale che ha raggiunto la tomba di san Francesco, nella Basilica Inferiore.
Qui i ministri generali dei quattro ordini francescani – frati minori, minori conventuali, minori cappuccini, terz’Ordine regolare – hanno consegnato a tutti i frati una copia della Regola di san Francesco.
Il Capitolo internazionale delle stuoie è stato convocato infatti proprio a ricordo degli ottocento anni dell’approvazione “orale”, da parte di Papa Innocenzo iii, della prima regola del santo d’Assisi.
L’importanza e l’attualità della regola francescana sono state ribadite dal cardinale Hummes nel corso della messa celebrata nel piazzale della Basilica Inferiore.
Il porporato ha indicato e riassunto i punti essenziali del carisma francescano: “il rinnovamento, l’apostolica missionarietà, l’amore alla povertà e ai poveri, la fraternità francescana e la comunione con la Chiesa”.
Binari lungo i quali oggi, come ai tempi di Francesco, deve snodarsi la presenza francescana.
“Il Papa ripete sempre – ha osservato il cardinale – che bisogna riprendere con urgenza e determinazione il lavoro missionario, nel senso stretto della parola, non soltanto ad gentes, che continua a essere importantissimo, ma anche all’interno dello stesso gregge già costituito della Chiesa, ossia tra i battezzati che si sono allontanati per tanti motivi o mai sono stati veramente evangelizzati, perché nessuno li ha portati a fare un vero incontro con il Signore risorto”.
Hummes si è poi soffermato soprattutto sul valore della povertà.
“Vivere la povertà evangelica – ha affermato – in una società sempre più affascinata e schiavizzata dal denaro, e vivere l’amore e la solidarietà verso i poveri, verso ogni singolo povero, dev’essere una delle principali e più significative contribuzioni dei frati francescani alla testimonianza della Chiesa nel mondo attuale.
La povertà e l’esclusione sociale di centinaia di milioni di persone, di interi popoli, sono piaghe crescenti oggi e cresceranno ancora di più nell’attuale crisi economica, con la crescita angosciante della disoccupazione nel mondo del lavoro”.
Quello della testimonianza è stato il tema centrale anche degli interventi proposti nel corso del Capitolo da tre francescani che in passato hanno ricoperto l’incarico di ministro generale.
Per padre Giacomi Bini, dei frati minori, “è tempo di risvegliare una nuova coscienza missionaria ancorata in una fede più vissuta e una vocazione evangelica più autentica, più appassionata.
E più i valori sono chiari e forti più si creano e s’inventano nuove forme d’evangelizzazione e d’incontro”.
Per l’arcivescovo Agostino Gardin, ex ministro generale dei minori conventuali e oggi segretario della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, “probabilmente vi è ancora qualcosa da riscoprire e di cui riappropriarci nella nostra ricerca di come essere francescani oggi, proprio in relazione alla minorità.
Perché oggi, in particolare, ho l’impressione che uno stile mite, non arrogante, discreto, paziente, capace di ascolto e di riflessione, propositivo, privo di facili giudizi, remissivo farebbe bene non solo alla vita interna delle nostre comunità, ma alla stessa Chiesa e al suo porsi nel mondo”.
Il vescovo di Nelson, in Canada, monsignor John Corriveau, già ministro generale dei cappuccini, ha aggiunto che “il mondo secolarizzato nel quale viviamo crede che la propria tecnologia contenga in sé tutto ciò che è necessario per il progresso e la liberazione dell’umanità”, ma “la tecnologia fallisce di fronte all’avarizia e alla prepotenza dell’uomo”.
(©L’Osservatore Romano – 19 aprile 2009) La scelta della povertà resta uno dei principali contributi che il mondo francescano può offrire alla testimonianza della Chiesa nel mondo d’oggi.
Con questa sottolineatura del cardinale Cláudio Hummes, o.f.m., prefetto della Congregazione per il Clero, si sono concluse ieri le giornate umbre del Capitolo internazionale delle stuoie.
Raduno che ha vissuto nella mattina di sabato 18 il suo alto momento e conclusivo con il trasferimento nella capitale e l’udienza a Castel Gandolfo con Benedetto XVI (di cui riferiamo in altra parte del giornale, ndr).
Nel pomeriggio poi, a Castel Porziano, una delegazione di venticinque responsabili mondiali dei diversi ordini francescani ha incontrato il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, al quale è stata consegnata una copia della lettera che, otto secoli fa, Francesco d’Assisi, indirizzò ai “Reggitori dei popoli”.

Credere in… Giuda e Pietro

Il credente non ha gli occhi bendati.
I suoi sono solo occhi più penetranti, profondi.
Il cumulo delle cose che vede, dei gesti, delle vicende sono un groviglio che va dipanato.
Alcune tracce si intravedono e si possono perseguire.
E lui le persegue con tenacia.
Portano ad una conclusione: il mondo che fermenta dentro di me, che si muove attorno a me, la ridda concitata degli avvenimenti che segnano la storia è indecifrabile.
Ma c’è; e offre straordinari richiami di umana dignità, di superba razionalità, di cui il caos o il caso non sono spiegazione.
La tradizione occidentale vi ha presagito e argomentato il riferimento a Dio, vi ha percepito un’eco persuasiva; vi ha scorto tracce profonde e visibili della sua presenza, che pure resta avvolta di mistero.
Ha legittimato la fede in lui e la vive nella trepidazione.
Sa che Dio non intende uscire allo scoperto perché gli si battano le mani, e tuttavia non cessa di bussare con tocco leggero al cuore di ciascuno; non scende a patti con nessuno, e tuttavia parla con voce persuasiva a chi sta in ascolto, veglia in attesa, attende con amore.
La fiducia ha una gamma vasta di gradualità.
La fiducia religiosa può pervenire al vertice; si porta dal fidarsi di, dal credere a …
al credere in…
rilevato già nell’analisi di Agostino.
Un rapido confronto fra la figura di Pietro e di Giuda può illuminare aspetti apparentemente sottili; in realtà profondi e decisivi.
Giuda è colui che crede a…
perde la fede, tradisce.
Come interpretarlo? coltivava un’utopia; contava sul ‘regno di Israele’ e vedeva in Gesù il banditore dal fascino singolare e appassionante.
Gesù che instaura il Regno, interpreta la sua utopia.
Giuda crede in se stesso; Gesù è l’occasione per dare realizzazione al proprio sogno.
Pietro è colui che crede in…
Anche Pietro tradisce, ma non perde la sua fede in Gesù Forse pure Pietro e gli altri hanno seguito Gesù perché rispondeva ad una loro segreta aspirazione, come banditore del Regno, di una causa che li appassionava.
Ma progressivamente sono passati dalla passione per la causa che egli impersonava all’amore per lui.
Perciò il caso di Pietro è diverso: tradisce – rinnega, ma crede in Gesù.
Sa che potrà ricuperarlo, accoglierlo , perdonarlo.
Ha capito chi era – “Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente!” (Matteo 16, 16) Nella passione e nel rinnegamento non ha perduta un’utopia: ha perduto Lui, il Maestro.
Però non ha cessato di amarlo, di sentire che la sua vita era centrata su di lui.
Non anela che a ritrovarlo; a sentirsi perdonato; a mostragli che un momento di debolezza non aveva scosso la fiducia; che la sua dichiarazione di amore era vera: darei la mia vita per Te…
Pietro a differenza di Giuda è passato da una fede data a Gesù per una speranza ambita, ad una fede in Gesù come colui di cui fidarsi, anzi a cui affidarsi, fino all’abbandono e alla dedizione incondizionata! Resta una fiducia esemplare; esposta alla provocazione e al tradimento, mai dimentica di un’incontro che ha cambiato la vita, l’ha affidata all’unico in grado di accoglierla e di celebrarla.
Allora le due figure si differenziano.
Pietro crede in Gesù oltre la proposta di Gesù.
L’esito della proposta lo sconcerta, la figura di Gesù lo appassiona: quella passione lo salva.
Giuda crede a Gesù ma resta attaccato alla propria ambizione, segue Gesù per realizzarla, lo abbandona quando si ritrova deluso, forse ‘tradito’.
Non ama Gesù, ama se stesso.
L’esito della straordinaria avventura nell’abbandono e nella passione segna il fallimento della sua utopia, rende ragione dei gesti che spiegano la sua rovina.
Qual è allora il salto, il rischio della fede? La prova di cui la fede si avvale risulta in definiva poca cosa: riguarda fatti e situazioni, segni talora evidenti, magari riconosciuti: anche i rappresentanti del Sinedrio ammettono: “un miracolo evidente, non possiamo negarlo…”( Atti 4) e tuttavia la constatazione non li porta alla fede in Gesù.
La fede si gioca sulla fiducia, che interpreta i fatti e la stessa proposta, li oltrepassa per attingere la persona e decidere l’adesione, l’amore, l’abbandono.
La fede non si gioca sull’efficienza, si gioca sull’adesione: solo quando questa diventa piena e totalizzante realizza le condizioni che la possono spiegare; dà la misura della gratuità insita nella risposta.
II credere raccoglie dunque in un singolare evento l’iniziativa gratuita di Dio, la risposta gratuita dell’uomo.
Interpreta la verità e la vocazione dell’uomo: è invocazione.
Da: TRENTI Z., La secolarità nell’orizzonte della creazione, Leumann, Elledici 2009, pp.
53-55.
Un rapido confronto fra la figura di Pietro e di Giuda può illuminare aspetti apparentemente sottili; in realtà profondi e decisivi.
Giuda è colui che crede a…
perde la fede, tradisce.
Come interpretarlo? coltivava un’utopia; contava sul ‘regno di Israele’ e vedeva in Gesù il banditore dal fascino singolare e appassionante.
Gesù che instaura il Regno, interpreta la sua utopia.
Giuda crede in se stesso; Gesù è l’occasione per dare realizzazione al proprio sogno.
Pietro è colui che crede in…
Anche Pietro tradisce, ma non perde la sua fede in Gesù Forse pure Pietro e gli altri hanno seguito Gesù perché rispondeva ad una loro segreta aspirazione, come banditore del Regno, di una causa che li appassionava.
Ma progressivamente sono passati dalla passione per la causa che egli impersonava all’amore per lui.
Perciò il caso di Pietro è diverso: tradisce – rinnega, ma crede in Gesù.
Sa che potrà ricuperarlo, accoglierlo , perdonarlo.
Ha capito chi era – “Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente!” (Matteo 16, 16) Nella passione e nel rinnegamento non ha perduta un’utopia: ha perduto Lui, il Maestro.
Però non ha cessato di amarlo, di sentire che la sua vita era centrata su di lui.
Non anela che a ritrovarlo; a sentirsi perdonato; a mostragli che un momento di debolezza non aveva scosso la fiducia; che la sua dichiarazione di amore era vera: darei la mia vita per Te…
Pietro a differenza di Giuda è passato da una fede data a Gesù per una speranza ambita, ad una fede in Gesù come colui di cui fidarsi, anzi a cui affidarsi, fino all’abbandono e alla dedizione incondizionata! Resta una fiducia esemplare; esposta alla provocazione e al tradimento, mai dimentica di un’incontro che ha cambiato la vita, l’ha affidata all’unico in grado di accoglierla e di celebrarla.
Allora le due figure si differenziano.
Pietro crede in Gesù oltre la proposta di Gesù.
L’esito della proposta lo sconcerta, la figura di Gesù lo appassiona: quella passione lo salva.
Giuda crede a Gesù ma resta attaccato alla propria ambizione, segue Gesù per realizzarla, lo abbandona quando si ritrova deluso, forse ‘tradito’.
Non ama Gesù, ama se stesso.
L’esito della straordinaria avventura nell’abbandono e nella passione segna il fallimento della sua utopia, rende ragione dei gesti che spiegano la sua rovina.
Qual è allora il salto, il rischio della fede? La prova di cui la fede si avvale risulta in definiva poca cosa: riguarda fatti e situazioni, segni talora evidenti, magari riconosciuti: anche i rappresentanti del Sinedrio ammettono: “un miracolo evidente, non possiamo negarlo…”( Atti 4) e tuttavia la constatazione non li porta alla fede in Gesù.
La fede si gioca sulla fiducia, che interpreta i fatti e la stessa proposta, li oltrepassa per attingere la persona e decidere l’adesione, l’amore, l’abbandono.
La fede non si gioca sull’efficienza, si gioca sull’adesione: solo quando questa diventa piena e totalizzante realizza le condizioni che la possono spiegare; dà la misura della gratuità insita nella risposta.
II credere raccoglie dunque in un singolare evento l’iniziativa gratuita di Dio, la risposta gratuita dell’uomo.
Interpreta la verità e la vocazione dell’uomo: è invocazione.
Da: TRENTI Z., La secolarità nell’orizzonte della creazione, Leumann, Elledici 2009, pp.
53-55.
La Pasqua è occasione propizia per rivisitare anche l’atteggiamento di alcuni protagonisti.
Offrono l’occasione di riflettere su una fondamentale esperienza di fede che ha accompagnato la vicenda unica di Gesù.
Credere è fidarsi…
Alla cieca? Da un certo punto di vista, sì, alla cieca! Questo significa fidarsi.
È il dono incomparabile dell’amicizia.
So che mi posso fidare, ed è naturale che mi fidi.
Ma la fiducia non è infondata; ha percorso una lunga strada, spesso accidentata; è approdata ad una considerazione conclusiva: mi posso fidare, mi fido! Dunque alla cieca relativamente, sulla base di una lunga e assodata esperienza…