Andate e battezzate.

Due giorni fa Benedetto XVI ha ricevuto le presidenti dell’Argentina, Cristina Fernández de Kirchner, e del Cile, Michelle Bachelet, arrivate con le rispettive delegazioni a ringraziare la Santa Sede per la soluzione pacifica data venticinque anni fa dalla diplomazia vaticana alla controversia territoriale tra i due paesi circa la sovranità sulle isole a sud del canale di Beagle.
L’Argentina e il Cile, assieme alla Colombia, sono le nazioni dell’America meridionale in cui la Chiesa cattolica è più saldamente impiantata.
Ma sono anche quelle in cui è più incalzante la sfida della secolarizzazione: nella mentalità, nel costume e nelle norme giuridiche.
Il 13 novembre un giudice di Buenos Aires ha autorizzato un “matrimonio” tra persone dello stesso sesso, dichiarando incostituzionali gli articoli del codice civile che lo vietano.
Il capo del governo di Buenos Aires ha preso le parti del giudice.
E ciò ha provocato la vigorosa reazione dell’arcivescovo della città, il cardinale Jorge Bergoglio, che è anche presidente della conferenza episcopale argentina, persona molto amata e stimata.
La risposta della Chiesa alla sfida della secolarizzazione è un test decisivo per verificare la riuscita o meno delle indicazioni pastorali elaborate per il subcontinente dalla conferenza degli episcopati latinoamericani tenuta nel 2007 ad Aparecida.
La secolarizzazione, infatti, erode quello che è un carattere tipico della Chiesa cattolica in questi paesi: quello di essere Chiesa di popolo, con la famiglia come struttura portante e con il battesimo dei bambini come pratica generale.
In alcune regioni d’Europa battezzare un bambino è già divenuto un atto di minoranza, che per essere compiuto esige una decisione controcorrente.
Ma ora anche in Argentina cresce il numero di bambini, ragazzi, giovani, adulti che non sono battezzati.
Questo calo della pratica del battesimo consegue a un indebolimento dei legami familiari e a un allontanamento dalla Chiesa.
Tra il clero c’è chi ne ha tratto questa conseguenza: là dove vede spegnersi i segni della fede, ritiene giusto neppure amministrare i sacramenti.
In Argentina, oggi le autorità della Chiesa si muovono invece in direzione opposta.
Già nel 2002 l’arcidiocesi di Buenos Aires e le diocesi del circondario avevano pubblicato un’istruzione che raccomandava vivamente di battezzare sia i bambini che gli adulti e spiegava come superare le resistenze alla celebrazione del rito.
Ma ora i vescovi della regione sono tornati alla carica con un libretto dal titolo “El bautismo en clave misionera”, che riproduce l’istruzione del 2002 e la integra con altre indicazioni orientative per i parroci.
Così da quest’anno i parroci più solerti indicono periodicamente delle “giornate del battesimo”, nelle quali amministrano il sacramento a bambini e ad adulti in situazioni di povertà o con famiglie divise, aiutati a superare le diffidenze proprie e del vicinato.
Il senso di tutto ciò il cardinale Bergoglio l’ha spiegato in una intervista alla rivista internazionale “30 Giorni”: “Il bambino non ha alcuna responsabilità dello stato del matrimonio dei suoi genitori.
Il battesimo dei bambini può anzi diventare per i genitori un nuovo inizio.
Io stesso qualche tempo fa ho battezzato sette figli di una donna sola, una povera vedova, che fa la donna di servizio e li aveva avuti da due uomini differenti.
L’avevo incontrata alla festa di San Cayetano.
Mi aveva detto: padre, sono in peccato mortale, ho sette figli e non li ho mai fatti battezzare, non ho i soldi per i padrini e per la festa…
Ci siamo rivisti e dopo una piccola catechesi li ho battezzati nella cappella dell’arcivescovado.
La donna mi ha detto: padre, non posso crederci, lei mi fa sentire importante.
Le ho risposto: ma signora, che c’entro io?, è Gesù che la fa importante”.
A Bergoglio preme non far spegnere una tradizione tipica delle aree più remote dell’Argentina, in quei paesi e villaggi dove il prete arriva solo poche volte all’anno: “Lì la pietà popolare sente che i bambini devono essere battezzati il prima possibile, e allora c’è un uomo o una donna conosciuti da tutti come ‘bautizadores’ che battezzano i bambini quando nascono, in attesa che giunga il prete.
E quando questo arriva, gli portano i bambini perché lui li segni con l’olio santo, terminando il rito.
Quando ci penso, mi viene in mente la storia di quelle comunità cristiane del Giappone che erano rimaste senza sacerdoti per più di duecento anni.
Quando i missionari tornarono, li trovarono tutti battezzati e tutti sacramentalmente sposati”.
Dice ancora il cardinale: “La conferenza di Aparecida ci ha incitati ad annunciare il Vangelo andando a trovare la gente, non rimanendo ad aspettare che la gente venga da noi.
Il fervore missionario non richiede eventi straordinari.
È nella vita ordinaria che si fa missione.
E il battesimo, in questo, è paradigmatico.
I sacramenti sono per la vita degli uomini e delle donne così come sono.
I quali magari non fanno tanti discorsi, eppure il loro ‘sensus fidei’ coglie la realtà dei sacramenti con più chiarezza di quanto succede a tanti specialisti”.
Riaffiora qui l’antica e mai risolta disputa tra Chiesa di élite e Chiesa di popolo, tra Chiesa pura, di minoranza, e Chiesa di massa, popolata quest’ultima anche da quell’immensa marea umana per la quale il cristianesimo è fatto di poche cose elementari.
In Italia, ad esempio, la disputa si è riproposta in occasione dell’ultimo grande convegno nazionale della Chiesa, tenuto a Verona nell’ottobre del 2006.
In quell’occasione, una tesi sostenuta dai “rigoristi” era proprio quella di rifiutare il battesimo e altri sacramenti ai richiedenti ritenuti non idonei perché non praticanti.
È un dilemma che lo stesso Joseph Ratzinger visse da giovane in prima persona, e infine risolse nella stessa direzione indicata dal cardinale Bergoglio.
Questo è ciò che, da papa, lo stesso Ratzinger ha detto rispondendo alla domanda di un sacerdote di Bressanone, in un pubblico botta e risposta con il clero di quella diocesi, il 6 agosto del 2008.
Il sacerdote, di nome Paolo Rizzi, parroco e docente di teologia, chiese in quell’occasione a Benedetto XVI, a proposito di battesimi, cresime e prime comunioni: “Santo Padre, trenta-trentacinque anni fa io pensavo che ci stessimo avviando ad essere un piccolo gregge, una comunità di minoranza più o meno in tutta l’Europa.
Che si dovesse quindi donare i sacramenti solo a chi si impegna veramente nella vita cristiana.
Poi, anche per lo stile del pontificato di Giovanni Paolo II, ho riconsiderato le cose.
Se è possibile fare previsioni per il futuro, lei cosa pensa? Quali atteggiamenti pastorali ci può indicare?”.
Rispose papa Ratzinger: “Devo dire che io ho percorso una strada simile alla sua.
Quando ero più giovane ero piuttosto severo.
Dicevo: i sacramenti sono i sacramenti della fede, e quindi dove la fede non c’è, dove non c’è prassi di fede, anche il sacramento non può essere conferito.
E poi ho sempre discusso quando ero arcivescovo di Monaco con i miei parroci: anche qui vi erano due fazioni, una severa e una larga.
E anch’io nel corso dei tempi ho capito che dobbiamo seguire piuttosto l’esempio del Signore, che era molto aperto anche con le persone ai margini dell’Israele di quel tempo, era un Signore della misericordia, troppo aperto – secondo molte autorità ufficiali – con i peccatori, accogliendoli o lasciandosi accogliere da loro nelle loro cene, attraendoli a sé nella sua comunione.
“Quindi io direi sostanzialmente che i sacramenti sono naturalmente sacramenti della fede: dove non ci fosse nessun elemento di fede, dove la prima comunione fosse soltanto una festa con un grande pranzo, bei vestiti, bei doni, allora non sarebbe più un sacramento della fede.
Ma, dall’altra parte, se possiamo vedere ancora una piccola fiamma di desiderio della comunione nella Chiesa, un desiderio anche di questi bambini che vogliono entrare in comunione con Gesù, mi sembra che sia giusto essere piuttosto larghi.
“Naturalmente, certo, deve essere un aspetto della nostra catechesi far capire che la comunione, la prima comunione, non è un fatto ‘puntuale’, ma esige una continuità di amicizia con Gesù, un cammino con Gesù.
Io so che i bambini spesso avrebbero intenzione e desiderio di andare la domenica a Messa, ma i genitori non rendono possibile questo desiderio.
Se vediamo che i bambini lo vogliono, che hanno il desiderio di andare, mi sembra sia quasi un sacramento di desiderio, il ‘voto’ di una partecipazione alla messa domenicale.
In questo senso dovremmo naturalmente fare il possibile nel contesto della preparazione ai sacramenti, per arrivare anche ai genitori e – diciamo – così svegliare anche in loro la sensibilità per il cammino che fanno i bambini.
Dovrebbero aiutare i loro bambini a seguire il proprio desiderio di entrare in amicizia con Gesù, che è forma della vita, del futuro.
Se i genitori hanno il desiderio che i loro bambini possano fare la prima comunione, questo loro desiderio piuttosto sociale dovrebbe allargarsi in un desiderio religioso, per rendere possibile un cammino con Gesù.
“Direi quindi che, nel contesto della catechesi dei bambini, sempre il lavoro con i genitori è molto importante.
E proprio questa è una delle occasioni di incontrarsi con i genitori, rendendo presente la vita della fede anche agli adulti, perché dai bambini – mi sembra – possono reimparare loro stessi la fede e capire che questa grande solennità ha senso soltanto, ed è vera ed autentica soltanto, se si realizza nel contesto di un cammino con Gesù, nel contesto di una vita di fede.
Quindi convincere un po’, tramite i bambini, i genitori della necessità di un cammino preparatorio, che si mostra nella partecipazione ai misteri e comincia a far amare questi misteri.
“Direi che questa è certamente una risposta abbastanza insufficiente, ma la pedagogia della fede è sempre un cammino e noi dobbiamo accettare le situazioni di oggi, ma anche aprirle a un di più, perché non rimanga alla fine solo qualche ricordo esteriore di cose, ma sia veramente toccato il cuore.
Nel momento nel quale veniamo convinti, nel quale il cuore è toccato, ha sentito un po’ l’amore di Gesù, ha provato un po’ il desiderio di muoversi in questa linea e in questa direzione, in quel momento, mi sembra, possiamo dire di aver fatto una vera catechesi.
Il senso proprio della catechesi, infatti, dovrebbe essere questo: portare la fiamma dell’amore di Gesù, anche se piccola, ai cuori dei bambini e tramite i bambini ai loro genitori, aprendo così di nuovo i luoghi della fede nel nostro tempo”.

Una donna a capo dei protestanti tedeschi

Margot Kässmann, piccola donna energica di 51 anni dallo sguardo luminoso, è stata eletta ieri presidente del consiglio della Chiesa protestante della Germania (EKD), succedendo al vescovo Wolfgang Huber, a capo dei 25 milioni di protestanti del suo paese.
Così, è sulle prime pagine dei giornali insieme ad Angela Merkel, anche lei protestante, rieletta cancelliera al Bundestag.
Questa coincidenza sottolinea, secondo gli osservatori, il posto delle donne nella società tedesca.
Il sinodo della Chiesa protestante, organismo che elegge il consiglio della Chiesa, aveva già messo a capo del sinodo stesso, nel maggio scorso, Katrin Göring Eckardt, tra l’altro deputata dei Verdi.
Madre di quattro figlie, Margot Kässmann, fino ad oggi vescovo di Amburgo, era stata designata nel 2006 “donna dell’anno” da una rivista con programmi televisivi di grande tiratura.
Una popolarità a volte fastidiosa, conquistata affrontando apertamente le prove della vita, come l’operazione di cancro al seno nel 2006.
Ma, alcuni mesi dopo, lei affrontava un’altra prova, il suo divorzio dopo ventisei anni di matrimonio.
Anche in quel caso, lei scelse la trasparenza: “Per quanto riguarda la mia unione, non volevo credere che fosse un fallimento, e mi sono stati necessari diversi anni per ammettere che il mio ex-marito ed io non saremmo invecchiati insieme”, scrive in un libro intitolato In der Mitte des Lebens (“Nel mezzo della vita”), pubblicato in settembre.
Dimostra la stessa franchezza rispetto alla sua Chiesa: il giubileo della Chiesa protestante nel 2017 (1) non sarà, assicura, un “culto di Lutero”, figura di cui lei non vuole nascondere le ombre, come i suoi rapporti con gli ebrei, la fine della sua vita che impregnò negativamente la Chiesa o la sua mancanza di solidarietà rispetto ai contadini che si erano ribellati ai principi.
Monsignor Robert Zollitsch, presidente della Conferenza episcopale cattolica tedesca, ha subito salutato con favore l’elezione di Margot Kässmann invitandola a lavorare con i vescovi cattolici.
Una cooperazione che potrebbe tuttavia rendere più complicato questo accesso di una donna a capo dei protestanti, ritengono certi osservatori, alla vigilia del secondo Kirchentag ecumenico nel 2010 a Monaco.
Ma, “al di là dei nostri profili particolari, quello che ci unisce è più importante di quello che ci separa”, afferma Margot Kässmann, che ha dietro di sé una lunga esperienza in seno al Consiglio ecumenico delle Chiese.
in “La Croix” del 29 ottobre 2009 (traduzione: www.finesettimana.org)

“Chiesa e Stato, venti anni dopo il crollo del muro di Berlino”.

Sua Em.za il Card.
Angelo Bagnasco, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ha partecipato dal 1° al 4 ottobre, a Parigi (presso la Maison de la Conférence des évêques de France), all’Assemblea Plenaria dei Presidenti delle Conferenze episcopali d’Europa.
Tema dell’incontro è stato “Chiesa e Stato, venti anni dopo il crollo del muro di Berlino”.
In vista di definire i vari modelli e soluzioni giuridiche adottate dai singoli Stati europei per inquadrare giuridicamente la Chiesa cattolica nel proprio paese e regolare i rapporti con essa e le sue strutture, in particolare pastorali, sociali e educative, il Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE) ha promosso un’inchiesta.
Questa deve permettere di rispondere a diverse questioni: qual è l’inquadramento giuridico della Chiesa cattolica negli Stati europei? Quali sono le leggi e i concordati finora abrogati? Come vengono sovvenzionati le istituzioni ecclesiali (scuole, ospedali…) di pubblica utilità? Come influiscono i vari atti, trattati e accordi adottati presso le istituzioni europee nel contesto locale? E quali sono gli aspetti comunitari della religione? Nel corso di questo incontro annuale, i risultati di questa indagine europea saranno presentati ai Presidenti delle Conferenze episcopali d’Europa.
La seconda parte dei lavori si è concentrata invece sul servizio del CCEE alla Chiesa in Europa con la presentazione delle attività delle varie Commissioni CCEE: della CEEM (Commissione Episcopale Europea per i Media); della Commissione “Migrazioni”; della Commissione “Catechesi, scuola e università”; del Servizio Europeo per le Vocazioni (EVS) e della Commissione “Ambiente”).
Parte dei lavori è stata dedicata al tema della collaborazione tra il CCEE ed altri organismi continentali quali il SECAM (Symposium of Episcopal Conferences of Africa and Madagascar) e il CELAM (Consejo Episcopal Latinoamericano).
Riguardo alle attività del CCEE nell’ambito del dialogo ecumenico è stato presentato il programma del 2° Forum cattolico-ortodosso (Isola di Rodi, Grecia, 23-27 novembre 2009) sul tema La relazione Chiesa e Stato.
Nel corso dell’incontro, i presidenti hanno ricevuto inoltre alcune brevi comunicazioni su temi di attualità: la visita di Papa Benedetto XVI in Repubblica Ceca (26-28 settembre 2009); l’Anno Sacerdotale (19 giugno 2009-19 giugno 2010); l’attenzione della Chiesa Cattolica per le popolazioni in Terra Santa; il rapporto Chiesa e Media nell’ultimo anno; l’ideologia dei gender nel panorama legislativo europeo e questioni attuali di bioetica.
Documenti allegati:Intervento Card.
Bagnasco.doc

Cambi importanti

Proprio mentre in Italia, tra agosto e settembre, era in atto la drammatica defenestrazione di Dino Boffo, direttore unico dei media di proprietà della Chiesa cattolica, sull’altra sponda del Tevere si preparava in silenzio e quiete il cambio al vertice di un altro ente chiave, lo IOR, Istituto per le Opere di Religione, la banca vaticana.
Anche lo IOR, propriamente, sta vivendo tempi burrascosi.
Un libro che ne descrive le malefatte, con tanto di documenti inoppugnabili, è da mesi nell’alta classifica dei best seller.
In esso però la brutta figura non è dello IOR in quanto tale, ma delle sue pecore nere di un tempo che fu, i monsignori Paul Marcinkus e Donato De Bonis.
Il banchiere Angelo Caloia, presidente dello IOR negli ultimi quindici anni, esce anzi dal libro con l’aureola del cavaliere bianco, del coraggioso che ha cacciato i ribaldi, ripulito le stalle, restituito alla banca del papa un’immagine virtuosa.
Il suo congedo e la nomina come successore di Ettore Gotti Tedeschi (nella foto) sono stati annunciati in pace e reciproca stima tra i due, la mattina del 23 settembre.
Quello stesso giorno il direttivo della conferenza episcopale italiana, cioè i trenta cardinali e vescovi di prima fila, erano riuniti a Roma a porte chiuse per discutere di tante cose, tra le quali proprio la successione a Boffo.
Ma né da quel summit, né dai conciliaboli dei giorni successivi è finora uscito un orientamento unitario.
Boffo era molto più che un professionista dei media: era il “progetto culturale” del cardinale Camillo Ruini realizzato sul versante della comunicazione, era il tramite attraverso cui il messaggio della Chiesa si faceva “cultura popolare”.
Ruini era stato per sedici anni, dal 1991 al 2007, presidente della CEI e con lui la Chiesa era tornata protagonista dello spazio pubblico come mai in passato.
Il suo progetto era la perfetta trasposizione in Italia della visione planetaria di Giovanni Paolo II.
Via lui, le opposizioni al disegno ruiniano hanno ripreso fiato tra i vescovi, il clero, il laicato cattolico, oltre che nella segreteria di Stato vaticana.
C’era Boffo a tenere la linea di resistenza, dalla cabina di regia del quotidiano “Avvenire”, della tv Sat 2000, delle radio.
Ora che anche lui è saltato, travolto dal “Giornale” di Vittorio Feltri e Silvio Berlusconi, nonché impallinato da cattolici influenti che erano stati tra le sue firme pregiate, da Vittorio Messori a Giovanni Maria Vian, quest’ultimo attuale direttore de “L’Osservatore Romano”, la scelta di chi gli succederà dirà anche la futura direzione di marcia della gerarchia cattolica italiana.
Allo IOR è tutt’altra musica.
Lì il ricambio è già avvenuto e in piena trasparenza, per volontà della segreteria di Stato e con il placet di Benedetto XVI.
Se di Angelo Caloia le biografie erano scarne, rarissime le uscite pubbliche, insondabile il pensiero, tutto l’opposto accade con il suo successore alla testa della banca vaticana.
Di Ettore Gotti Tedeschi si conoscono vita e miracoli, simpatie e frequentazioni, agenda ed idee.
L’ultima sua sortita, prima della nomina, è stata il 19 settembre al Palazzo della Borsa di Genova.
Ha discusso, assieme all’arcivescovo della città e presidente della CEI, cardinale Angelo Bagnasco, l’enciclica “Caritas in veritate” di Benedetto XVI.
Ha detto che l’attuale crisi mondiale dell’economia “ha avuto origine dal non aver seguito le indicazioni della ‘Humanae vitae’, cioè dalla negazione della vita e dal blocco delle nascite”.
Lo stesso concetto Gotti Tedeschi l’aveva espresso anche in un editoriale su “L’Osservatore Romano” dello scorso 6 giugno.
Se l’egemonia economica del mondo passerà dall’Occidente alla Cina, ha scritto, è per i differenti tassi di natalità e di densità di popolazione.
L’andamento demografico determina la crescita o la decrescita della capacità produttiva di un’economia.
Di figli ne ha cinque, Gotti Tedeschi: “e tutti da una moglie sola”, precisa.
Abita nelle campagne di Piacenza, dove è nato 64 anni fa, a Pontenure, non lontano dal grande fiume Po.
La mattina si alza prestissimo, come un monaco.
Con la sua Bmw raggiunge Milano all’alba.
Legge i giornali nel suo ufficio di presidente in Italia del Banco di Santander, la prima banca privata d’Europa, di proprietà di una famiglia laica di Spagna, i Botin.
Poi va a messa tutte le mattine, mai che ne salti una.
Insegna etica della finanza all’Università Cattolica di Milano.
Ma è anche consigliere della Banca San Paolo di Torino e della Cassa Depositi e Prestiti, che è il braccio operativo del ministero del Tesoro.
Il 23 settembre, mentre il Vaticano rendeva pubblica la sua nomina a nuovo presidente dello IOR, Gotti Tedeschi era a Roma proprio a una riunione decisiva della Cassa, ad approvare un piano industriale di 50 miliardi di euro in infrastrutture ed edilizia popolare.
La Cassa Depositi e Prestiti è creatura prediletta di Giulio Tremonti, l’attuale ministro del Tesoro, del quale Gotti Tedeschi è consigliere “per i problemi economici, finanziari ed etici nei sistemi internazionali”, una carica istituita apposta per lui.
Prima della nomina, Gotti Tedeschi non aveva mai messo piede allo IOR, né se n’era mai occupato.
Ma in Vaticano era già da qualche tempo di casa.
Il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, l’aveva chiamato in aiuto un anno fa per raddrizzare la gestione finanziaria del Governatorato della Città del Vaticano, i cui bilanci sono andati in rosso nel 2008 per più di 15 milioni di euro.
La cura pare abbia funzionato.
Il principale responsabile della cattiva gestione, il segretario generale del Governatorato, monsignor Renato Boccardo, è stato spedito a vescovo di Spoleto e Norcia, lui che ambiva a una nunziatura di primissimo ordine e per questo aveva persino rifiutato la sede di Vienna.
Al suo posto c’è ora il lombardo Carlo Maria Viganò, che tra non molto salirà anche al grado più alto del Governatorato, rimpiazzando l’attuale numero uno, il cardinale Giovanni Lajolo.
Come banchiere Gotti Tedeschi si è formato in quella nave scuola della grande finanza internazionale che è l’americana McKinsey.
Come cattolico si è convertito da “superficiale” a fervente negli anni Sessanta, con maestro spirituale Giovanni Cantoni, fondatore di Alleanza Cattolica.
I libri che hanno rivelato il suo pensiero al grande pubblico sono “Denaro e Paradiso”, del 2004, con prefazione del cardinale Giovanni Battista Re, e “Spiriti animali.
La concorrenza giusta”, edito dall’Università Bocconi e con la prefazione di Alessandro Profumo, presidente della prima banca italiana in Europa, Unicredit.
Ma poi vi sono state anche altre sue uscite pubbliche minori, eppure non meno rivelatrici.
Nel 2007 Gotti Tedeschi, lui che è il più cattolico dei banchieri, firmò un manifesto ultraliberista in 13 punti lanciato dall’ex segretario del laicissimo partito radicale, Daniele Capezzone.
Il manifesto proponeva un’unica “flat tax” al 20 per cento, il presidenzialismo sul modello americano o francese, il credito d’imposta per la sanità e la scuola, l’obbligo per il pubblico amministratore di pagare i danni da lui arrecati, la pensione a 65 anni per tutti, la detassazione del lavoro straordinario, l’abolizione degli ordini professionali e del valore legale dei titoli di studio.
Anni fa Gotti Tedeschi propose di assegnare il Nobel per l’economia a Giovanni Paolo II, per l’enciclica “Centesimus annus”.
Più di recente a Benedetto XVI per la “Caritas in veritate”, alla cui stesura egli ha contributo.
Anche al premier inglese Gordon Brown ha quest’anno augurato il Nobel, per aver appoggiato su “L’Osservatore Romano” una sua proposta grandiosa e “vantaggiosa” di investimento nei paesi poveri, a favore di quei due o tre miliardi di persone che attendono solo di migliorare la loro vita.
Lo IOR appare fin troppo stretto per un nuovo presidente dai così vasti ed esplosivi propositi.
Ma l’avventura è appena cominciata.

Il “progetto culturale” ideato e realizzato dai cardinali Ruini e Scola.

Uno di questi segnali è la diffusione a largo raggio in Italia, a partire dal 17 settembre, di un libro curato dal comitato per il progetto culturale della CEI, dal titolo: “La sfida educativa”.
Il libro si presenta come un rapporto su quella che è stata chiamata, anche da Benedetto XVI, “emergenza educativa”.
Un rapporto, cioè, sulla drammatica incapacità che la società di oggi mostra nell’educare le nuove generazioni.
Ma il libro, oltre che un rapporto descrittivo e analitico, è anche una proposta su come affrontare questa emergenza e vincere la sfida.
Il cardinale Ruini, nella prefazione, scrive che in gioco sono “i fondamentali dell’esistenza dell’uomo e della donna, il senso stesso che attribuiamo all’uomo e alla nostra civiltà”.
La sfida educativa non riguarda dunque solo la famiglia, la scuola, la Chiesa, ma la società nel suo insieme.
Capitolo dopo capitolo, il libro la esamina nei diversi ambiti e ad opera di diversi specialisti: anche nel lavoro, nell’impresa, nei consumi, nei mass media, nello spettacolo, nello sport.
La questione dell’educazione sarà l’asse portante dell’azione pastorale della Chiesa italiana nel decennio 2010-2020, come stabilito dalla conferenza episcopale.
Ma col progetto culturale si vuole arrivare a coinvolgere l’intera nazione.
Una prova è che la stampa de “La sfida educativa” è stata affidata a una casa editrice non cattolica ma “laica” per antonomasia, la Laterza.
E proprio nella sede di Roma della Laterza sarà fatta, martedì 22 settembre, la presentazione ufficiale del libro.
Con il cardinale Ruini, con il ministro dell’istruzione, Mariastella Gelmini, con la presidente della confederazione degli industriali, Emma Marcegaglia, e col presidente della casa editrice, Giuseppe Laterza, a fare da moderatore.
Pochi giorni prima, il 10 dicembre, lo stesso Spaemann parlerà a un grande convegno promosso a Roma dal comitato per il progetto culturale della CEI, cioè dallo stesso Ruini.
E siamo a un terzo segnale.
Il convegno avrà per titolo: “Dio oggi.
Con lui o senza di lui cambia tutto”.
Di esso www.chiesa ha già dato notizia.
È impressionante la coincidenza tra il tema di questo convegno e quella che Joseph Ratzinger ha indicato come la “priorità” del suo pontificato: “rendere Dio presente in questo mondo e aprire agli uomini l’accesso a Dio”.
A maggior ragione in un tempo “in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento”.
Lo scorso 9 settembre il cardinale Ruini – presentando a Milano un libro nel quale egli dialoga con l’intellettuale laico Ernesto Galli della Loggia – ha sottolineato l’importanza di questo prossimo convegno su Dio.
In quell’occasione, al suo stesso tavolo, il direttore de “L’Osservatore Romano”, Giovanni Maria Vian, ricordò come al suo inizio, dieci, quindici anni fa, il progetto culturale lanciato da Ruini appariva come “un’araba fenice”, che nessuno capiva cosa fosse, e dove.
Il rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Lorenzo Ornaghi, gli ribatté che in realtà il progetto culturale si è poi rivelato “uno sforzo gigantesco di trasformare il messaggio cristiano in cultura popolare”.
L’Università Cattolica è stata ed è una fucina di questo progetto.
Non a caso la nomina e poi la riconferma del “ruiniano” Ornaghi come suo rettore sono stati tra i capitoli più aspramente combattuti della Chiesa italiana negli ultimi anni.
Un’altro strumento cruciale del progetto culturale è stato ed è “Avvenire”.
Non a caso gli avversari di Ornaghi sono stati gli stessi che in questi anni hanno osteggiato anche Boffo come direttore del giornale dei vescovi, facendo circolare contro entrambi false accuse infamanti.
Anche di questo www.chiesa ha dato conto in recenti servizi.
La scelta del successore di Boffo alla direzione di “Avvenire” sarà quindi rivelatrice della volontà o no della conferenza episcopale italiana di continuare nel solco del progetto di Ruini.
Di certo, il cardinale Ruini ha sempre operato in lampante sintonia e col pieno sostegno dell’attuale papa, oltre che del suo predecessore.
E così l’attuale presidente della CEI, cardinale Angelo Bagnasco.
Che è stato a colloquio venerdì scorso con papa Benedetto XVI, in vista del consiglio permanente che comincia questa sera con la sua attesa prolusione.
La posta in gioco è il “progetto culturale” ideato e realizzato dai cardinali Ruini e Scola.
C’è chi lo dà per morto.
Ma i fatti provano che è più vivo che mai.
Con tre grosse novità: una proposta al paese su “l’emergenza educativa”, una nuova scuola di teologia applicata a una società “plurale”, un convegno internazionale su “Dio oggi” Un secondo segnale ha per epicentro Venezia ed ha anch’esso un cardinale come suo alto ispiratore: non Ruini ma Angelo Scola, patriarca della città.
I due porporati – non a caso – fanno parte del comitato per il progetto culturale istituito dalla CEI nel 2008, con Ruini presidente.
Scola, a Venezia, è la prova vivente di come il progetto culturale può essere realizzato in forme originali, creativamente e con frutto, in una diocesi tipo.
Il 15 settembre il cardinale Scola ha aperto a Venezia un congresso internazionale dal titolo: “La società plurale”, con relatori studiosi italiani e stranieri di diverse discipline, cattolici e non, da Massimo Cacciari a David Novak, da Ottfried Höffe a Cesare Mirabelli, da Ignazio Musu a Steve Schneck.
Il congresso ha segnato l’avvio a Venezia di un nuovo centro di studi denominato “Alta Scuola Società Economia Teologia”, in sigla ASSET, che ha la finalità di far interagire le diverse discipline, teologia compresa, nell’affrontare le questioni cruciali di un mondo culturalmente “plurale”.
Scola, nell’introdurre il congresso, ha invitato i cristiani a individuare e proporre il “terreno comune” sul quale compiere “compromessi nobili” tra posizioni diverse.
Fermo restando il dovere degli stessi cristiani, qualora il compromesso non fosse possibile, come nel caso dell’aborto o della famiglia, di ricorrere all’obiezione di coscienza e comunque di proseguire la loro “narrazione” a voce alta nella società, nella speranza di un mutamento positivo.
La nuova Alta Scuola è l’ultima nata di una costellazione di iniziative promosse negli ultimi cinque anni dal cardinale Scola e raccolte sotto l’egida dello Studium Marcianum, dal nome del santo patrono di Venezia, l’evangelista Marco, tra le quali la rivista internazionale “Oasis”.
Opererà con seminari, laboratori culturali, corsi estivi, pubblicazioni, lezioni annuali.
La lezione inaugurale, il prossimo 17 dicembre, sarà tenuta dal filosofo Robert Spaemann, dell’università di Monaco.

Una Conferenza di tutte le Chiese europee

“Siamo convinti che una Conferenza di tutte le Chiese europee possa, concordemente, rispondere al meglio al comandamento sacro del ristabilimento della comunione ecclesiale e servire l’uomo contemporaneo posto di fronte a una moltitudine di problemi complessi”: è la proposta lanciata ieri, domenica, dal Patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo, all’assemblea della Conferenza delle Chiese europee (Kek) in corso di svolgimento a Lione dal 15 al 21 luglio.
Nel testo dell’allocuzione quel “tutte” appare in neretto, a sottolineare la volontà del Patriarca ortodosso di allargare, di “migliorare l’impegno ecumenico” già garantito dalla cooperazione tra la Kek e il Consiglio delle conferenze episcopali d’Europa (Ccee).
”Proponiamo – ha detto Bartolomeo – di porre in essere un modo di cooperare meglio organizzato e strutturato fra queste due istanze”.
Al riguardo, il Patriarca ecumenico ha ricordato che “la Chiesa di Costantinopoli aveva proposto, durante l’ottava assemblea della nostra conferenza”, tenuta all’Accademia ortodossa di Creta nel 1979, “che la Chiesa cattolica romana divenisse in futuro membro della Kek”.
Bartolomeo non nasconde che “questa sfida non è facile e che si mostrerebbero necessari dei lavori preparatori e degli emendamenti ai relativi regolamenti”.
Tuttavia, la creazione di una Conferenza di tutte le Chiese europee consentirebbe “di promuovere più efficacemente il dialogo delle Chiese d’Europa con le istituzioni europee e l’Unione europea”.
Questo dialogo, “instaurato da molto tempo dalla nostra Chiesa”, ha detto ancora Bartolomeo, è “prezioso e necessario non solo per le Chiese ma anche per le istanze politiche dell’Unione europea, e soprattutto per i popoli dell’Europa”.
La risposta da parte cattolica non si è fatta attendere.
Interpellato dai giornalisti a margine dell’assemblea della Kek, l’arcivescovo di Lione, cardinale Philippe Barbarin, ha detto – riferisce il Sir – che scriverà direttamente al Papa per informarlo dell’idea lanciata da Bartolomeo.
“Il Patriarca – ha dichiarato il porporato – ha espresso la speranza che si intensifichino i rapporti con la Chiesa cattolica ed è andato oltre questa affermazione”.
Barbarin, come del resto ricordato da Bartolomeo, ha spiegato che tale proposta non rappresenta una novità perché la questione è già stata posta dalle Chiese in passato, aggiungendo che ciò implicherebbe “modificazioni strutturali abbastanza importanti” e una certa correlazione con la non partecipazione della Chiesa cattolica al Consiglio ecumenico delle Chiese.
L’arcivescovo di Lione ha tenuto a distinguere due piani: da una parte “il terreno concreto della collaborazione che esiste e può essere sicuramente intensificato”, dall’altra “la questione dell’integrazione della struttura che presuppone una riflessione”.
L’appello, “forte, pieno di speranza e fraterno”, è stato tuttavia “ascoltato”.
Al riguardo, il presidente della Kek, Jean-Arnold de Clermont, ritiene “possibile avere un Consiglio di tutte le Chiese cristiane in Europa”, un luogo attorno al quale “si incontrano tutti i cristiani d’Europa per elaborare un messaggio comune da portare alle società europee”.
Tornando al discorso del Patriarca ecumenico, egli ha sottolineato “le nostre responsabilità e i nostri obblighi nei confronti della Kek” e quelli che “ci spettano riguardo al comandamento di nostro Signore”, il quale “ci impone di fare tutto il possibile per ristabilire la piena comunione fra le Chiese cristiane in Europa”.
Rifacendosi al tema dell’assemblea riunita a Lione – Chiamati a una sola speranza in Cristo – Bartolomeo ribadisce che “ciò costituisce la nostra speranza e la nostra incrollabile convinzione”.
La Conferenza delle Chiese europee festeggia quest’anno il cinquantesimo anniversario della fondazione.
Mezzo secolo caratterizzato, secondo il Patriarca di Costantinopoli, da tante luci ma anche da qualche ombra.
Durante questo periodo – ha detto – “sono stati elaborati innumerevoli documenti di tenore ecumenico, testi di grande profondità teologica, come la Charta oecumenica, che è il frutto degli sforzi congiunti di tutte le Chiese d’Europa, e cioè della Kek e della Ccee”.
Tuttavia, ricorda Bartolomeo, “come è stato sottolineato nel messaggio della iii Assemblea ecumenica europea, a Sibiu nel 2007, numerose proposizioni della Charta non sono state né assorbite dalla coscienza dei nostri fedeli né, a fortiori, applicate dalle nostre Chiese”.
Sono restate “lettera morta”, incapaci di produrre i risultati positivi sperati.
La conclusione è che “i nostri discorsi si dimostrano non essere coerenti con i nostri atti”, circostanza che “intacca la credibilità delle nostre Chiese e dà l’impressione, tanto all’interno che all’esterno, che esse sono incapaci di trovare delle soluzioni ai problemi esistenti”.
Un aspetto toccato anche da fratel Alois, priore della comunità ecumenica di Taizé, che nella meditazione tenuta sabato a Lione nel tempio della Chiesa riformata si è chiesto: “Come essere credibili, parlando di un Dio dell’amore, se i cristiani restano separati?”.
L’avvenire della nuova Europa in costruzione, senza i valori spirituali cristiani, “che toccano tutto ciò che concerne il sostegno e la protezione della persona umana e della sua dignità”, è “buio, perfino incerto”, ha concluso il Patriarca ecumenico di Costantinopoli.
(giovanni zavatta) (©L’Osservatore Romano – 20-21 luglio 2009)

La Chiesa in Italia Carità e verità

Carità e verità sull’uomo – è dunque ribadito dai vescovi italiani – sono i due aspetti di una medesima diaconia.
I presuli, in ottemperanza a tale servizio, osservano quindi come a seguito della crisi economica, in Italia il tessuto sociale si va “sfilacciando”, e le disuguaglianze “aumentano, invece di diminuire”.
Nessuno, si legge nel comunicato finale “ignora il pesante impatto della sfavorevole congiuntura economica internazionale, di cui non si riesce a cogliere ancora esattamente la portata, né si intende minimizzare l’impegno profuso da chi detiene l’autorità.
Resta però evidente che i costi del difficile momento presente ricadono in misura prevalente sulle fasce più deboli della popolazione”.
Il vero profilo di una compiuta evangelizzazione – spiegano i presuli – “richiede di saper servire la persona nella sua integralità, ponendo attenzione sia ai bisogni materiali sia alle aspirazioni spirituali, secondo l’insuperabile intuizione di Paolo VI, per il quale il destino della Chiesa è di “portare la Buona Novella in tutti gli strati dell’umanità e, col suo influsso, trasformare dal di dentro”, fino a “raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la Parola di Dio e col disegno della salvezza” (Evangelii nuntiandi, nn.
18-19)”.
Nel comunicato, i vescovi ricordano la grande emozione suscitata dall’incontro con Benedetto XVI, giovedì 28 maggio e sottolineano l’approvazione del Documento comune per un indirizzo pastorale dei matrimoni tra cattolici e battisti in Italia.
Ma ampio spazio, nel corso dell’assemblea generale, è stato dato alla trattazione della questione educativa, attraverso gruppi di lavoro che hanno fatto emergere un radicato consenso intorno alla scelta dell’educazione quale tema portante degli Orientamenti pastorali della Chiesa in Italia nel decennio 2010-2020.
Si è condivisa – è scritto nel comunicato finale – “la consapevolezza che l’urgenza della questione non nasce in primo luogo da una contingenza particolare, ma dalla necessità che ciascuna persona e ogni generazione ha di esercitare la propria libertà.
Si è dunque privilegiato un atteggiamento positivo e non allarmistico e si è precisato che questa scelta è in profonda continuità con il recente cammino della Chiesa in Italia, dal momento che comunicare il Vangelo è riproporre in modo essenziale Cristo come modello di umanità vera in un contesto culturale e sociale mutato”.
Su questo punto, è stata ribadita la necessità di “non sottovalutare l’impatto delle trasformazioni in atto, senza peraltro limitarsi semplicemente a recensirne le cause socio-culturali, indulgendo a diagnosi sconsolate e pessimiste.
Al contrario, si intende ribadire che l’educazione è una questione di esperienza:  è un’arte e non un insieme di tecniche e chiama in causa il soggetto, di cui va risvegliata la libertà”.
È questo, spiegano i vescovi, “il punto centrale su cui far leva per riscoprire la funzione originaria della Chiesa, a cui spetta connaturalmente generare alla fede e alla vita, attraverso una relazione interpersonale che metta al centro la persona.
La libertà, peraltro, prende forma soltanto a contatto con la verità del proprio essere, quando cioè è sollecitata a prendere posizione rispetto alle grandi domande della vita e, in primo luogo, rispetto alla questione di Dio.
Di qui la centralità del rapporto tra libertà e verità, che non può essere eluso e che è variamente declinato, tanto nel rapporto tra libertà e autorità quanto in quello tra libertà e disciplina”.
In tema di immigrazione, i vescovi affermano che di fronte a tale fenomeno una risposta dettata dalle “sole esigenze di ordine pubblico – che è comunque necessario garantire in un corretto rapporto tra diritti e doveri – risulta insufficiente, se non ci si interroga sulle cause profonde di un simile fenomeno.
Due azioni convergenti sembrano irrinunciabili.
La prima consiste nell’impedire che i figli di Paesi poveri siano costretti ad abbandonare la loro terra, a costo di pericoli gravissimi, pur di trovare una speranza di vita.
La seconda risposta sta nel favorire l’effettiva integrazione di quanti giungono dall’estero, evitando il formarsi di gruppi chiusi e preparando “patti di cittadinanza” che definiscano i rapporti e trasformino questa drammatica emergenza in un’opportunità per tutti.
Ciò è possibile se si tiene conto della tradizionale disponibilità degli italiani – memori del loro passato di emigranti – ad accogliere l’altro e a integrarlo nel tessuto sociale.
Suonerebbe infatti retorico l’elogio di una società multietnica, multiculturale e multireligiosa, se non si accompagnasse con la cura di educare a questa nuova condizione, che non è più di omogeneità e che richiede obiettivamente una maturità culturale e spirituale.
In questa logica è stato deciso di dotarsi di un osservatorio nazionale specializzato per monitorare e interpretare questo fenomeno, e si è chiesto alle parrocchie, all’interno del loro precipuo compito di evangelizzazione, di diventare luogo di integrazione sociale”.
(©L’Osservatore Romano – 10 giugno 2009)  La Chiesa non è “un’agenzia umanitaria” chiamata a “farsi carico delle patologie della società ma irrilevante rispetto alla fisiologia della convivenza sociale”.
Allo stesso tempo è da rigettare “un modello di Chiesa che si limiti a ribadire una fede disincarnata, priva di connessioni antropologiche e perciò incapace di offrire il proprio apporto specifico all’edificazione della città dell’uomo”.
È quanto si legge nel comunicato finale dell’assemblea generale della Conferenza episcopale italiana (Cei), tenutosi dal 25 al 29 maggio scorsi.

Formazione al sacerdozio, tra secolarismo e modelli di Chiesa

Tra pochi giorni, venerdì 19, festa del Sacro Cuore di Gesù, avrà inizio lo speciale Anno Sacerdotale voluto da Benedetto XVI.
Le finalità sono state indicate da papa Joseph Ratzinger ai cardinali e vescovi che compongono la congregazione per il clero, riuniti lo scorso 16 marzo in assemblea plenaria.
La congregazione per il clero si chiamava fino al 1967 congregazione “del Concilio”.
Era stata costituita infatti dopo il Concilio di Trento per curare l’applicazione delle indicazioni conciliari da parte del clero in cura d’anime.
Il profilo di prete delineato dal Concilio di Trento ha caratterizzato la vita della Chiesa cattolica fino alla metà del Novecento.
Ne è stato un modello il santo Curato d’Ars, Giovanni Maria Vianney, di cui ricorre il 150.mo anniversario della morte.
Negli ultimi decenni, però, l’identità del prete cattolico si è in varia misura mutata, offuscata, sbriciolata, sotto i colpi della secolarizzazione, fuori e dentro la Chiesa.
L’intento dell’Anno Sacerdotale è appunto quello di ricostruire nel prete una forte identità spirituale, fedele alla sua missione originaria.
Ciò comporta anche un’energica opera di eliminazione della “sporcizia” che ha inquinato una parte del clero, quantitativamente limitata ma disastrosa sul piano della sua immagine globale.
A questo proposito va notata una coincidenza.
Con l’inizio dell’Anno Sacerdotale avrà inizio anche la visita apostolica ordinata dalle autorità vaticane dentro la congregazione dei Legionari di Cristo.
Questa congregazione si distingue per l’abbondanza delle vocazioni e il gran numero di nuovi preti.
Nello stesso tempo, però, rischia di crollare così come è già crollata la figura del suo carismatico fondatore, il sacerdote Marcial Maciel, la cui doppia vita gravemente immorale – venuta definitivamente allo scoperto – è diventata oggi un terribile scandalo prima di tutto per quelli che furono i suoi più ferventi discepoli.
Ricostruire l’identità spirituale del clero implica quindi anche una speciale cura della sua formazione.
Come i seminari sono stati una pietra miliare della riforma della Chiesa voluta dal Concilio di Trento, così oggi è nei seminari che si forgia l’identità dei nuovi preti.
La congregazione del clero non si occupa dei seminari.
Prende cura di essi la congregazione per l’educazione cattolica.
Anche quest’ultima, quindi, dovrà operare perché l’Anno Sacerdotale porti frutto.
Qualcosa, anzi, ha già fatto, a giudicare dal discorso tenuto dal suo segretario, Jean-Louis Bruguès, ai rettori dei seminari pontifici convenuti a Roma nei giorni scorsi.
Monsignor Bruguès, 66 anni, domenicano, era fino al 2007 vescovo di Angers.
Oltre che segretario della congregazione per l’educazione cattolica è vicepresidente della pontificia opera delle vocazioni sacerdotali e membro della commissione per la formazione dei candidati al sacerdozio.
È inoltre accademico della pontificia accademia San Tommaso d’Aquino.
Il discorso che ha rivolto ai rettori di seminario non ha nulla del linguaggio curiale.
È di una franchezza non comune.
Descrive e denuncia senza mezzi termini i guasti del dopoconcilio, in particolare in Europa, compresa l’impressionante ignoranza sui punti elementari della dottrina che oggi si riscontra nei giovani che entrano in seminario.
Questa ignoranza è a tal punto che, tra i rimedi, monsignor Bruguès auspica che si dedichi un anno intero di seminario a far apprendere il Catechismo della Chiesa cattolica.
Il Catechismo “ad parochos” fu un’altra delle pietre miliari della riforma tridentina.
Quattro secoli dopo, si è di nuovo lì.
È sempre rischioso spiegare una situazione sociale a partire da una sola interpretazione.
Tuttavia, alcune chiavi aprono più porte di altre.
Da molto tempo sono convinto del fatto che la secolarizzazione sia diventata una parola-chiave per pensare oggi le nostre società, ma anche la nostra Chiesa.
La secolarizzazione rappresenta un processo storico molto antico, poiché è nato in Francia a metà del XVIII secolo, prima di estendersi all’insieme delle società moderne.
Tuttavia, la secolarizzazione della società varia molto da un paese all’altro.
In Francia e in Belgio, per esempio, essa tende a bandire i segni dell’appartenenza religiosa dalla sfera pubblica e a riportare la fede nella sfera privata.
Si osserva la stessa tendenza, ma meno forte, in Spagna, in Portogallo e in Gran Bretagna.
Negli Stati Uniti, invece, la secolarizzazione si armonizza facilmente con l’espressione pubblica delle convinzioni religiose: l’abbiamo visto anche in occasione delle ultime elezioni presidenziali.
Da una decina d’anni a questa parte è emerso tra gli specialisti un dibattito molto interessante.
Sembrava, fino ad allora, che si dovesse dare per scontato che la secolarizzazione all’europea costituisse la regola e il modello, mentre quella di tipo americano costituisse l’eccezione.
Ora invece sono numerosi coloro i quali – Jürgen Habermas per esempio – pensano che è vero l’opposto e che anche nell’Europa post-moderna le religioni svolgeranno un nuovo ruolo sociale.
RICOMINCIARE DAL CATECHISMO Qualunque sia la forma che ha assunto, la secolarizzazione ha provocato nei nostri paesi un crollo della cultura cristiana.
I giovani che si presentano nei nostri seminari non conoscono più niente o quasi della dottrina cattolica, della storia della Chiesa e dei suoi costumi.
Questa incultura generalizzata ci obbliga a effettuare delle revisioni importanti nella pratica seguita fino ad ora.
Ne menzionerò due.
Per prima cosa, mi sembra indispensabile prevedere per questi giovani un periodo – un anno o più – di formazione iniziale, di “ricupero”, di tipo catechetico e culturale al tempo stesso.
I programmi possono essere concepiti in modo diverso, in funzione dei bisogni specifici di ciascun paese.
Personalmente, penso a un intero anno dedicato all’assimilazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, che si presenta come un compendio molto completo.
In secondo luogo occorrerebbe rivedere i nostri programmi di formazione.
I giovani che entrano in seminario sanno di non sapere.
Sono umili e desiderosi di assimilare il messaggio della Chiesa.
Si può lavorare con loro veramente bene.
La loro mancanza di cultura ha questo di positivo: non si portano più dietro i pregiudizi negativi dei loro fratelli maggiori.
È una fortuna.
Ci troviamo quindi a costruire su una “tabula rasa”.
Ecco perché sono a favore di una formazione teologica sintetica, organica e che punta all’essenziale.
Questo implica, da parte degli insegnanti e dei formatori, la rinuncia a una formazione iniziale contrassegnata da uno spirito critico – come era stato il caso della mia generazione, per la quale la scoperta della Bibbia e della dottrina è stata contaminata da uno spirito di critica sistematico – e alla tentazione di una specializzazione troppo precoce: precisamente perché manca a questi giovani il background culturale necessario.
Permettetemi di confidarvi alcune domande che mi sorgono in questo momento.
Si ha mille volte ragione di voler dare ai futuri sacerdoti una formazione completa e d’alto livello.
Come una madre attenta, la Chiesa desidera il meglio per i suoi futuri sacerdoti.
Per questo i corsi si sono moltiplicati, ma al punto di appesantire i programmi in un modo a mio parere esagerato.
Avete probabilmente percepito il rischio dello scoraggiamento in molti dei vostri seminaristi.
Chiedo: una prospettiva enciclopedica è forse adatta per questi giovani che non hanno ricevuto alcuna formazione cristiana di base? Questa prospettiva non ha forse provocato una frammentazione della formazione, un’accumulazione dei corsi e un’impostazione eccessivamente storicizzante? È davvero necessario, per esempio, dare a dei giovani che non hanno mai imparato il catechismo una formazione approfondita nelle scienze umane, o nelle tecniche di comunicazione? Consiglierei di scegliere la profondità piuttosto che l’estensione, la sintesi piuttosto che la dispersione nei dettagli, l’architettura piuttosto che la decorazione.
Altrettante ragioni mi portano a credere che l’apprendimento della metafisica, per quanto impegnativo, rappresenti la fase preliminare assolutamente indispensabile allo studio della teologia.
Quelli che vengono da noi hanno spesso ricevuto una solida formazione scientifica e tecnica – il che è una fortuna – ma la loro mancanza di cultura generale non permette ad essi di entrare con passo deciso nella teologia.
DUE GENERAZIONI, DUE MODELLI DI CHIESA In numerose occasioni ho parlato delle generazioni: della mia, di quella che mi ha preceduto, delle generazioni future.
È questo, per me, il nodo cruciale della presente situazione.
Certo, il passaggio da una generazione all’altra ha sempre posto dei problemi d’adattamento, ma quello che viviamo oggi è assolutamente particolare.
Il tema della secolarizzazione dovrebbe aiutarci, anche qui, a comprendere meglio.
Essa ha conosciuto un’accelerazione senza precedenti durante gli anni Sessanta.
Per gli uomini della mia generazione, e ancor di più per coloro che mi hanno preceduto, spesso nati e cresciuti in un ambiente cristiano, essa ha costituito una scoperta essenziale, la grande avventura della loro esistenza.
Sono dunque arrivati a interpretare l'”apertura al mondo” invocata dal Concilio Vaticano II come una conversione alla secolarizzazione.
Così di fatto abbiamo vissuto, o persino favorito, un’autosecolarizzazione estremamente potente nella maggior parte delle Chiese occidentali.
Gli esempi abbondano.
I credenti sono pronti a impegnarsi al servizio della pace, della giustizia e delle cause umanitarie, ma credono alla vita eterna? Le nostre Chiese hanno compiuto un immenso sforzo per rinnovare la catechesi, ma questa stessa catechesi non tende a trascurare le realtà ultime? Le nostre Chiese si sono imbarcate nella maggior parte dei dibattiti etici del momento, sollecitate dall’opinione pubblica, ma quanto parlano del peccato, della grazia e della vita teologale? Le nostre Chiese hanno dispiegato felicemente dei tesori d’ingegno per far meglio partecipare i fedeli alla liturgia, ma quest’ultima non ha perso in gran parte il senso del sacro? Qualcuno può negare che la nostra generazione, forse senza rendersene conto, ha sognato una “Chiesa di puri”, una fede purificata da ogni manifestazione religiosa, mettendo in guardia contro ogni manifestazione di devozione popolare come processioni, pellegrinaggi, eccetera? L’impatto con la secolarizzazione delle nostre società ha trasformato profondamente le nostre Chiese.
Potremmo avanzare l’ipotesi che siamo passati da una Chiesa di “appartenenza”, nella quale la fede era data dal gruppo di nascita, a una Chiesa di “convinzione”, in cui la fede si definisce come una scelta personale e coraggiosa, spesso in opposizione al gruppo di origine.
Questo passaggio è stato accompagnato da variazioni numeriche impressionanti.
Le presenze sono diminuite a vista d’occhio nelle chiese, nei corsi di catechesi, ma anche nei seminari.
Anni fa il cardinale Lustiger aveva tuttavia dimostrato, cifre alla mano, che in Francia il rapporto fra il numero dei sacerdoti e quello dei praticanti effettivi era restato sempre lo stesso.
I nostri seminaristi, così come i nostri giovani sacerdoti, appartengono anch’essi a questa Chiesa di “convinzione”.
Non vengono più tanto dalle campagne, quanto piuttosto dalle città, soprattutto delle città universitarie.
Sono cresciuti spesso in famiglie divise o “scoppiate”, il che lascia in loro tracce di ferite e, talvolta, una sorta d’immaturità affettiva.
L’ambiente sociale di appartenenza non li sostiene più: hanno scelto di essere sacerdoti per convinzione e hanno rinunciato, per questo fatto, ad ogni ambizione sociale (quello che dico non vale dovunque; conosco delle comunità africane in cui la famiglia o il villaggio portano ancora delle vocazioni sbocciate nel loro seno).
Per questo essi offrono un profilo più determinato, individualità più forti e temperamenti più coraggiosi.
A questo titolo, hanno diritto a tutta la nostra stima.
La difficoltà sulla quale vorrei attirare la vostra attenzione supera dunque la cornice di un semplice conflitto generazionale.
La mia generazione, insisto, ha identificato l’apertura al mondo col convertirsi alla secolarizzazione, nei confronti della quale ha sperimentato un certo fascino.
I più giovani, invece, sono sì nati nella secolarizzazione, che rappresenta il loro ambiente naturale, e l’hanno assimilata col latte della nutrice: ma cercano innanzitutto di prendere le distanze da essa, e rivendicano la loro identità e le loro differenze.
ACCOMODAMENTO COL MONDO O CONTESTAZIONE? Esiste ormai nelle Chiese europee, e forse anche nella Chiesa americana, una linea di divisione, talora di frattura, tra una corrente di “composizione” e una corrente di “contestazione”.
La prima ci porta a osservare che esistono nella secolarizzazione dei valori a forte matrice cristiana, come l’uguaglianza, la libertà, la solidarietà, la responsabilità, e che deve essere possibile venire a patti con tale corrente e individuare dei campi di cooperazione.
La seconda corrente, al contrario, invita a prendere le distanze.
Ritiene che le differenze o le opposizioni, soprattutto nel campo etico, diventeranno sempre più marcate.
Propone dunque un modello alternativo al modello dominante, e accetta di sostenere il ruolo di una minoranza contestatrice.
La prima corrente è risultata predominante nel dopoconcilio; ha fornito la matrice ideologica delle interpretazioni del Vaticano II che si sono imposte alla fine degli anni Sessanta e nel decennio successivo.
Le cose si sono invertite a partire dagli anni Ottanta, soprattutto – ma non esclusivamente – sotto l’influenza di Giovanni Paolo II.
La corrente della “composizione” è invecchiata, ma i suoi adepti detengono ancora delle posizioni chiave nella Chiesa.
La corrente del modello alternativo si è rinforzata considerevolmente, ma non è ancora diventata dominante.
Così si spiegherebbero le tensioni del momento in numerose Chiese del nostro continente.
Non mi sarebbe difficile illustrare con degli esempi la contrapposizione che ho appena descritto.
Le università cattoliche si distribuiscono oggi secondo questa linea di divisione.
Alcune giocano la carta dell’adattamento e della cooperazione con la società secolarizzata, a costo di trovarsi costrette a prendere le distanze in senso critico nei confronti di questo o quell’aspetto della dottrina o della morale cattolica.
Altre, d’ispirazione più recente, mettono l’accento sulla confessione della fede e la partecipazione attiva all’evangelizzazione.
Lo stesso vale per le scuole cattoliche.
E lo stesso si potrebbe affermare, per ritornare al tema di questo incontro, nei riguardi della fisionomia tipica di coloro che bussano alla porta dei nostri seminari o delle nostre case religiose.
I candidati della prima tendenza sono diventati sempre più rari, con grande dispiacere dei sacerdoti delle generazioni più anziane.
I candidati della seconda tendenza sono diventati oggi più numerosi dei primi, ma esitano a varcare la soglia dei nostri seminari, perché spesso non vi trovano ciò che cercano.
Essi sono portatori d’una preoccupazione d’identità  (con un certo disprezzo vengono qualificati talvolta come “identitari”): identità cristiana – in che cosa ci dobbiamo distinguere da coloro che non condividono la nostra fede? – e identità del sacerdote, mentre l’identità del monaco e del religioso è più facilmente percepibile.
Come favorire un’armonia tra gli educatori, che appartengono spesso alla prima corrente, e i giovani che si identificano con la seconda? Gli educatori continueranno ad aggrapparsi a criteri d’ammissione e di selezione che risalgono ai loro tempi, ma non corrispondono più alle aspirazioni dei più giovani? Mi è stato raccontato il caso di un seminario francese nel quale le adorazioni del Santissimo Sacramento erano state bandite da una buona ventina d’anni, perché giudicate troppo devozionali: i nuovi seminaristi hanno dovuto battersi per parecchi anni perché fossero ripristinate, mentre alcuni docenti hanno preferito dare le dimissioni davanti a ciò che giudicavano come un “ritorno al passato”; cedendo alle richieste dei più giovani, avevano l’impressione di rinnegare ciò per cui si erano battuti per tutta la vita.
Nella diocesi di cui ero vescovo ho conosciuto difficoltà simili quando dei sacerdoti più anziani – oppure intere comunità parrocchiali – provavano una grande difficoltà a rispondere alle aspirazioni dei giovani sacerdoti che erano stati loro mandati.
Comprendo le difficoltà che incontrate nel vostro ministero di rettori di seminari.
Più che il passaggio da una generazione ad un’altra, dovete assicurare armoniosamente il passaggio da un’interpretazione del Concilio Vaticano II ad un’altra, e forse da un modello ecclesiale a un altro.
La vostra posizione è delicata, ma è assolutamente essenziale per la Chiesa.
 Il discorso del 15 marzo 2009 nel quale Benedetto XVI ha annunciato l’Anno Sacerdotale con inizio il 19 giugno: > Alla plenaria della congregazione per il clero __________ Altra documentazione sull’Anno Sacerdotale: > Congregazione per il clero __________ Sul caso dei Legionari di Cristo: > La Legione è allo sbando.
Tradita dal suo fondatore
(16.2.2009)

I vescovi degli Stati Uniti su ricerca e obiezione di coscienza

Il cardinale George, in una dichiarazione resa pubblica dalla Conferenza episcopale, ha espresso gratitudine per le affermazioni fatte da Obama sulla necessità di “onorare la coscienza di quanti non sono d’accordo con l’aborto” anche attraverso le clausole di coscienza riconosciute agli operatori sanitari.
“Dal 1973 – si legge nella dichiarazione – le leggi federali a protezione del diritto all’obiezione di coscienza degli operatori sanitari hanno costituito una parte importante della tradizione dei diritti civili in America.
Tali leggi dovrebbero essere pienamente applicate e rinforzate.
Gli operatori e le istituzioni sanitarie cattoliche dovrebbero poter sapere che le loro più profonde convinzioni religiose e morali saranno rispettate nel momento in cui esercitano il loro diritto a servire i pazienti che hanno bisogno di aiuto.
Gli operatori cattolici, in particolare, rendono un grande ed essenziale contributo all’assistenza sanitaria nella nostra società.
Passi essenziali per proteggere i diritti di coscienza rafforzeranno il nostro sistema sanitario e la possibilità per molti pazienti di accedere a un’assistenza orientata alla difesa della vita.
Un Governo – ha aggiunto il cardinale – che vuole ridurre il tragico numero di aborti nella nostra società lavorerà anche per assicurare che nessuno sia costretto a supportare l’aborto o a prendervi parte, attraverso prestazioni dirette o fornendo informazioni sull’aborto o finanziandolo con i dollari delle sue tasse.
Mentre il dibattito continua, attendiamo di poter lavorare con l’amministrazione e i legislatori per raggiungere questo obbiettivo”.
I vescovi degli Stati Uniti, dunque, attraverso il cardinale George, rispondono a quanti hanno visto dietro alle posizioni assunte dai presuli sui temi etici un’opposizione politica alla nuova amministrazione.
Raccogliendo l’invito espresso dal presidente Obama nel suo discorso all’università di Notre Dame, la Conferenza episcopale ha invece ricordato quali sono i termini inderogabili all’interno dei quali, dal punto di vista cattolico, il dialogo, quale che sia il colore dell’amministrazione, può avvenire.
Il contributo a un lavoro comune con l’amministrazione è dimostrato anche dalla raccolta di pareri, avviata dalla stessa Conferenza episcopale, riguardo alle linee guida elaborate dai National Institutes of Health (Nih) per la ricerca sulle cellule staminali embrionali.
Secondo monsignor David Malloy, segretario generale della Conferenza episcopale degli Stati Uniti, i Nih hanno perso “un’enorme opportunità per mostrare come la scienza e l’etica possano non solo coesistere ma aiutarsi e arricchirsi l’una con l’altra”.
Monsignor Malloy ha citato anche la dignità della vita umana in ogni stadio dell’esistenza e l’innato diritto di ogni uomo a non essere soggetto a sperimentazioni senza il proprio consenso informato ed esplicito.
Leggi che manchino di riconoscere tale diritto – ha aggiunto – finiscono per chiamare in causa “la loro stessa legittimità morale”.
Il segretario generale della conferenza ha messo in evidenza “un fatto scientifico centrale” nella questione della ricerca sulle cellule staminali embrionali: l’embrione che verrà distrutto per ottenere cellule staminali “è un essere umano nelle primissime fasi del suo sviluppo”.
Non si tratta – ha spiegato monsignor Malloy – di un argomento religioso ma di un fatto riconosciuto da molti organismi, compresa la National Bioethics Advisory Commission nominata dal presidente Clinton.
Tale organismo arrivò alla conclusione che dal momento che gli embrioni umani meritano rispetto in quanto forme di vita umana, distruggerli per ottenere cellule staminali è “giustificabile solo se alternative meno problematiche dal punto di vista etico non siano disponibili”.
Tali alternative esistono, ha ricordato monsignor Malloy riferendosi per esempio alla riprogrammazione delle cellule staminali adulte in modo che diventino cellule staminali pluripotenziali senza danno alla vita umana.
Le politiche federali che vietavano la distruzione di embrioni avevano consentito il grande avanzamento di questo tipo di ricerche.
Ora, l’executive order del 9 marzo, presentato dal presidente Obama – ha detto ancora il segretario generale della Conferenza episcopale – non ha solo rimosso tale politica ma anche un analogo provvedimento del 2007 che dava istruzioni ai Nih per poter praticare nuove strade al fine di ottenere la riprogrammazione delle cellule staminali adulte senza distruggere embrioni umani: “Con tale decisione – ha concluso monsignor Malloy – sia la scienza sia l’etica sono state ignorate”.
Il presidente della Conferenza episcopale degli Stati Uniti, il cardinale Francis Eugene George, arcivescovo di Chicago, esorta il presidente Barack Obama a tradurre in pratica quanto ha affermato recentemente riguardo alla difesa del diritto all’obiezione di coscienza per gli operatori sanitari.
Obiezione – ricorda il cardinale – nella quale rientra anche il diritto a non finanziare l’aborto con le tasse pagate allo Stato.
Obama, intervenendo presso la University of Notre Dame di South Bend, in Indiana, ha assicurato che il diritto all’obiezione, finora previsto dalla legge, continuerà a essere riconosciuto.
La questione è rilevante, in quanto alla luce dei provvedimenti presi dalla nuova amministrazione in materia etica, molti operatori sanitari si potrebbero trovare di fronte alla necessità di dover prestare servizi moralmente non condivisi.

Cristianesimo & Islam. La necessità del dialogo in Europa

L´incontro è iniziato con una presentazione del Card.
Tauran sullo status quaestionis del dialogo con i musulmani.
Momento importante del dialogo interreligioso è stato la pubblicazione della “Lettera dei 138”.
Da ciò è nata l’idea del primo incontro del Forum cattolico-musulmano che si è riunito nel mese di novembre 2008 a Roma.
In questi mesi il dicastero presieduto dal cardinale Tauran ha lavorato su degli Orientamenti pastorali la cui pubblicazione è prevista dopo la pausa estiva.
Altri punti significativi della presentazione del cardinale è stata l´importanza ma anche la complessità che la questione del dialogo con i musulmani riveste per la Chiesa, anche se a differenza di altri tempi, oggi la presenza musulmana è sostanzialmente pacifica.
Questo dialogo ci offre l´opportunità di approfondire la nostra fede, così da testimoniarla e darne ragioni, solo e vero modo di avere un dialogo sincero, senza cadere nel relativismo.
La riunione è proseguita con la presentazione di rapporti che i delegati hanno preparato circa la situazione del dialogo nei loro paesi.
In sostanza, quanto emerge è la domanda, sempre attuale, di come rapportarci ai musulmani oggi in Europa.
Si nota chiaramente come, nonostante la grande diversità di approcci, la connessione della presenza musulmana in Europa non può più solo essere collegata e affrontata alla stregua della questione del fenomeno migratorio.
Se ci sono ancora alcuni paesi in cui questo è vero, nella maggior parte dei paesi europei, i musulmani appartengono alla seconda, terza, quarta e addirittura quinta generazione, quindi persone nate ed educate in Europa, che sono e si riconoscono pienamente cittadini europei.
Tra le sfide che il dialogo interreligioso mostra vi sono questioni legate al tema dei matrimoni misti, dell´istruzione e dell´integrazione nelle scuole e nei movimenti giovanili cattolici dei giovani musulmani, la questione di tensioni in alcune città europee circa la costruzione di moschee e minareti.
Dall’altra parte si riscontra una certa sintonia su alcuni temi che indicano come questo dialogo può aiutare a elaborare posizioni in comune circa le questioni legate al tema della bioetica o della presenza della religione nello spazio pubblico.
La presentazione di don Andrea Pacini sui giovani musulmani europei ha permesso di evidenziare come, per capire l´identità dei musulmani, si dovrebbe vedere l´intersezione di tre fattori: il rapporto con l´Islam “etnico” delle prime generazioni di immigrati, il rapporto con la società europea e, infine, l´influenza dei flussi transnazionali dei musulmani in Europa.
Inoltre si assiste sempre più ad una differenziazione tra un tipo più tradizionale di esperienze legate all’islam dei paesi di provenienza da altre forme più personalizzate segnate dalla cultura europea, di tendenza a volte più liberale e in altri casi di corrente “neo-ortodossa”.
Si tratta d’altra parte di un nuovo tipo di organizzazione, di tipo associativo, con obbiettivi non esclusivamente religiosi, in dialogo con la cultura europea.
In ogni caso è chiaro che il musulmano si riconosce a livello personale e comunitario come appartenente all´Islam a prescindere della grande varietà di tradizioni.
Dal canto suo Martino Diez ha presentato il progetto Oasis promosso nel 2004 dal cardinale Angelo Scola di Venezia per sostenere il dialogo con i musulmani e con i cristiani che vivono in Paesi a maggioranza musulmana.
Oasis è una Fondazione Internazionale che pubblica una rivista mensile in varie lingue, compreso l´arabo.
Produce anche una newsletter inviata gratuitamente per e-mail e ha due collane di libri.
La sua presentazione è stata incentrata sulla questione della identità dell’interlocutore.
Si è visto come questa sia una questione molto delicata e come sia facile cadere in forme stereotipate non corrispondente alla realtà.
Un punto importante da lui riferito è stato il tema del métissage (incontro fra culture diverse).
Alle volte sembra un problema ma non deve essere visto come una tragedia, ma come un´opportunità per aumentare le possibilità di convivenza di persone con culture diverse.
In una società in cui tutti siano sempre più in grado di riconoscere l’altro e di essere riconosciuti, senza questo riconoscimento reciproco, un vero dialogo sarà impossibile.
Il padre bianco Hans Vöcking, esperto di Islam per il CCEE, ha raccontato la già lunga storia del lavoro che il CCEE insieme alle altre chiese cristiane membri della KEK (Conferenza delle Chiese europee) hanno svolto nell’ambito del dialogo con l’Islam.
Per lui anche la chiesa è chiamata a ripensare il suo approccio.
“Solo fino a 30 anni fa, la presenza dei musulmani in Europa rientrava per le Chiese nella categoria degli aiuti agli immigrati.
Oggi c’è la constatazione che i musulmani fanno parte integrante delle società europee e questa presenza necessita di una riflessione diversa che è al tempo stesso pastorale, sociale, caritativa e religiosa”.
Alla fine della riunione è stato espresso da molti partecipanti il desiderio di continuare questi incontri, perché possano essere occasioni per affrontare una serie di temi comuni e far conoscere ciò che i vari paesi stanno facendo per affrontare le diverse situazioni che, nonostante le caratteristiche specifiche di ciascun paese, sono simili.
P.
Duarte da Cunha Segretario generale CCEE San Gallo, il 29 aprile 2009 ***************** Al Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE) appartengono quali membri le attuali 33 Conferenze episcopali presenti in Europa, rappresentate di diritto dal loro Presidenti, gli Arcivescovi del Lussemburgo e del Principato di Monaco e il vescovo di Chişinău (Moldavia).
Lo presiede il Cardinale Péter Erdő, Arcivescovo di Esztergom-Budapest, Primate d’Ungheria; i Vicepresidenti sono il Cardinale Josip Bozanić, Arcivescovo di Zagabria e il Cardinale Jean-Pierre Ricard, Arcivescovo di Bordeaux.
Segretario generale del CCEE è P.
Duarte da Cunha.
La sede del segretariato è a St.
Gallen (Svizzera).
Per ulteriori informazioni: Thierry Bonaventura, CCEE Media Officer Tel: +41/ 71/227 6040 – Fax: +41/71/227 6041 Mobile: +41/ 78/ 851 6040 thierry.bonaventuraccee.ch Primo Incontro europeo dei delegati delle Conferenze episcopali responsabili per i rapporti con i musulmani in Europa – Bordeaux, Francia, 27-28 aprile 2009 Per 2 giorni delegati delle Conferenze episcopali per i rapporti con i musulmani del Portogallo, Spagna, Francia, Inghilterra, Belgio, Germania, Svizzera, Bosnia ed Erzegovina, Slovenia, Polonia, Italia, Malta, Scandinavia, Austria e Turchia, insieme al Cardinale Jean Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, si sono incontrati a Bordeaux per condividere quanto ciascun paese sta facendo nel campo del dialogo con i musulmani.
La riunione è stata ulteriormente arricchita dalla presenza di don Andrea Pacini, esperto rinomato del dialogo con il mondo musulmano e che nel 2005 ha pubblicato un volume sulla realtà dei giovani musulmani in Europa, da Martino Diez, presidente della Fondazione Oasis di Venezia, da P.
Hans Vöcking dei padri missionari africani e da contributi pervenuti dalle Conferenze episcopali dei Paesi Bassi, dell´Albania e della Conferenza Episcopale SS.
Cirillo e Metodio.