La religione di Obama di Massimo Faggioli in “Europa” del 21 agosto 2010 L’ultimo sondaggio del centro di ricerca del Pew Forum on Religion & Public Life riporta che solo un terzo degli americani sa che il presidente degli Stati Uniti è di fede cristiana, mentre un americano su cinque crede – sbagliando – che Barack Obama sia musulmano.
A poco serve notare che un analogo 20 per cento degli americani crede alle cose più incredibili, in ambito scientifico, storico, economico, medico.
Il vero problema è che, dall’inizio del suo mandato, è cresciuta significativamente, tra i repubblicani ma non solo, la percentuale di americani che credono che il presidente sia musulmano: ma non si può soltanto additare la martellante campagna mediatica di Fox News e della blogosfera per comprendere la crescente confusione dell’americano medio sulla fede religiosa di Obama, in una specie di democratizzazione di una leggenda metropolitana dai molti risvolti politici.
Il primo fattore è una biografia eccezionale, tanto atipica che per parte dell’America profonda rappresenta un passato anormale, quasi da sanare.
Nonostante i tentativi di Obama di accreditarsi una radice familiare materna in Kansas (diventato quasi un luogo dello spirito, dopo il successo del libro What’s the Matter with Kansas?, che prendeva questo stato del Midwest come esempio della roccaforte conservatrice, evangelicale e repubblicana), l’infanzia di Barack tra Hawaii e Indonesia rappresenta un unicum assoluto nelle biografie dei presidenti americani.
Forse più dell’esotica e ai più sconosciuta Indonesia, il più popoloso paese musulmano, sono le Hawaii a rappresentare il paradiso perduto dell’America interreligiosa, dove chiese cristiane di vario tipo convivono, nei piccoli villaggi, con scuole di sciamanesimo e religioni tradizionali, nella consapevolezza che il cristianesimo rappresenta per le Hawaii una importazione recente, come tanti altri ospiti delle isole, arrivata solo nei primi decenni del secolo XIX.
Diventato il cinquantesimo stato degli Usa nel 1959, solo due anni prima della nascita di Obama, le Hawaii erano e rimangono l’avamposto degli Stati Uniti nel Pacifico: in questo scenario ogni tentativo di strumentalizzare le origini etniche e religiose a fini nazionalistici si scontra con la testimonianza dei cimiteri delle vittime della guerra nel Pacifico, in cui nomi anglosassoni, filippini e portoghesi si mescolano a quelli dei soldati di origine giapponese caduti in uniforme americana.
Nei capitoli della sua autobiografia dedicati agli anni trascorsi nel Pacifico, Obama non ha mai nascosto le visioni religiose del padre e della madre, quanto mai diverse dalle varie anime spirituali e confessionali delle elite americane del secondo Novecento: musulmano modernizzante ma fedele alla cultura africana il primo, universalista e refrattaria ad ogni religiosità bigotta la seconda.
Il secondo fattore problematico per la traduzione della biografia religiosa di Obama agli americani è rappresentato da una presidenza animata da un sincero afflato ecumenico, risultato indigesto all’America profonda nella quale il Dio giudeo-cristiano, la patria americana e il fucile sono spesso una cosa sola.
Obama ha tentato di costruire, dal punto di vista del discorso religioso, un magistero presidenziale di sconfessione dello “scontro di civiltà”, ma ha sempre nuotato contro una corrente di montante intolleranza contro l’Islam identificato tout court con gli attacchi dell’11 settembre 2001.
Alle voci sul criptoislamismo di Obama alimentate durante la campagna elettorale del 2008 il presidente ha risposto con atti come il discorso del Cairo del giugno 2009 e la presa di posizione sulla costruzione del Centro islamico a Manhattan, cioè evitando di ripararsi nel rifugio di una religione cristiana professata pubblicamente dal sommo sacerdote della religione civile americana, come era accaduto per tutti i presidenti da Jimmy Carter in poi.
In questo senso il passaggio dalla campagna elettorale alla presidenza ha rappresentato una sorta di privatizzazione incompleta del discorso religioso in Obama.
Questo terzo fattore è quello in cui le scelte di stile della presidenza sono state le più personali, le più coerenti con la biografia dell’Obama prepolitico, e quindi le più rischiose.
Dopo i discorsi a sfondo religioso della campagna elettorale (a Philadelphia del marzo 2008 e l’intervista col pastore Rick Warren dell’estate 2008), dopo l’elezione, nel febbraio 2009, la scelta di creare presso la Casa Bianca un ufficio per le iniziative miste pubbliche-private basate su affiliazioni religiosa (Office of Faith-Based and Neighborood Partnerships), in continuità con le amministrazioni precedenti, si è accompagnato alla decisione di Obama di non scegliere una chiesa per la first family a Washington e di relegare la vita religiosa del presidente alla sfera privata, intenzionalmente sottratta allo scrutinio dell’opinione pubblica.
Questa scelta si è rivelata in parte obbligata (visti i problemi creati durante la campagna elettorale dalla passata affiliazione col pastore Wright di Chicago), ma sicuramente in controtendenza, se si ricordano le pubbliche sfilate della domenica mattina in chiesa di G.W.
Bush e dei Clinton.
Da questo punto di vista, il parallelo tra le campagne elettorali di Kennedy del 1960 e di Obama del 2008, in cui entrambi i candidati si trovarono a dover giustificare una professione religiosa accusata di antiamericanismo, ha portato a due esiti simili e paralleli: una privatizzazione della religione nel nome del diritto alla libertà religiosa.
Questo esito funzionò benissimo per Kennedy, che in campagna elettorale si era trovato a competere con Nixon, un quacchero per nulla dedito al pacifismo della fede quacchera.
La privatizzazione della religione rappresenta invece per Obama un problema politico: non solo nei confronti della destra religiosa che lo accusa di infedeltà al Dio del giudeo-cristianesimo, ma anche della “sinistra di professione” che non apprezza la sensibilità del presidente verso il discorso religioso.
È dura la vita del presidente teologo.
Nell’allegato è possibile consultare contributo.
Categoria: Catechesi
Il dialogo ecumenico
La Parola di Dio è il terreno comune sul quale si innesta il dialogo ecumenico.
È proprio intorno alla mensa della Parola che si svolge la visita di Benedetto XVI alla comunità evangelica luterana di Roma, nel pomeriggio di domenica 14 marzo.
Il Papa partecipa al culto nella Christuskirche di via Sicilia, pronunciando un’omelia sui versetti 20-26 del capitolo dodicesimo del Vangelo di Giovanni, mentre il pastore Jens-Martin Kruse predica sui versetti 3-7 del primo capitolo della seconda Lettera di san Paolo ai Corinzi. L’incontro si svolge nel giorno in cui la Chiesa cattolica e la comunità luterana celebrano la liturgia della domenica Laetare.
Nel periodo della Quaresima, questa domenica è pervasa dalla letizia, perché nel cammino verso Gerusalemme si intravede la gioia che raggiungerà la sua pienezza nella mattina di Pasqua.
Il nome deriva dalle prime parole dell’antifona d’ingresso in latino: Laetare cum Hierusalem, et exultate in ea, omnes qui diligitis eam.
Lo svolgimento del culto si inserisce in questa atmosfera di gioia.
Il Papa viene accolto al suo arrivo dal pastore Kruse e dagli otto membri del consiglio.
Fa il suo ingresso processionalmente nella chiesa, raggiunge l’altare della celebrazione, accompagnato dal canto Jubilate Deo di Wolfgang Amadeus Mozart, e ascolta il breve saluto della presidente della comunità Doris Esch.
Seguono l’inno Liebster Jesu, wir sind hier, il salmo 84, il Kyrie eleison e il saluto liturgico da parte del pastore.
Dopo la lettura del brano della seconda Lettera di san Paolo ai Corinzi, Kruse tiene l’omelia, al termine della quale il coro intona Befiehl du deine Wege di Johann Sebastian Bach.
Dopo la proclamazione del Vangelo di Giovanni, Benedetto XVI pronuncia l’omelia.
Il coro poi intona Verleih uns Frieden gnädiglich di Felix Mendelssohn Bartholdy.
Il Papa invita l’assemblea alla professione del Credo niceno-costantinopolitano.
Vengono lette le preghiere dei fedeli, al termine delle quali il Pontefice guida la recita del Padre Nostro e impartisce la benedizione finale.
In questo incontro ecumenico, il Pontefice è accompagnato dai cardinali William Joseph Levada, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, Walter Kasper, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, Agostino Vallini, vicario di sua Santità per la diocesi di Roma.
Da parte luterana sono presenti, tra gli altri, il decano in Italia pastore Holger Milkau e il pastore Michael Riedel-Schneider, responsabile della comunità evangelica tedesca per l’Europa del sud.
Non è la prima volta che Benedetto XVI visita il tempio luterano.
Il 19 ottobre 1998, quando era cardinale e prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, vi si recò per partecipare a un dibattito ecumenico sul tema “Prospettive personali.
Esperienze, posizioni ed aspettative ecumeniche” con il vescovo luterano di Berlino Wolfgang Huber.
L’invito al Vescovo di Roma da parte della comunità luterana risale al 2008 e nacque dal desiderio di ricordare il XXV anniversario della storica visita che Giovanni Paolo ii compì l’11 dicembre 1983 alla Christuskirche di via Sicilia, in occasione dei cinquecento anni della nascita di Martin Lutero.
È stata la prima volta che un Papa ha predicato in un luogo di culto luterano dall’inizio della Riforma.
Le origini della comunità luterana di Roma risalgono all’autunno del 1817.
Le prime celebrazioni liturgiche si svolsero nel palazzo della legazione prussiana sul Campidoglio.
A poco a poco, si formò una piccola comunità di lingua tedesca, composta soprattutto da artisti che si ritrovavano nel Caffè Greco.
I legati prussiani a Roma fecero richiesta al re Federico Guglielmo iii di Prussia di inviare un pastore evangelico.
Il primo pastore giunse nel 1819.
Da quell’anno si celebrò il culto protestante nella città eterna.
Tra il 1911 e il 1915, per volere di Guglielmo ii, venne costruita su un terreno intorno ai giardini di Villa Ludovisi la Christuskirche, secondo il progetto dell’architetto Schwechten.
La chiesa venne inaugurata il 5 novembre 1922.
L’edificio ha tre campanili, il più alto dei quali ha tre campane fuse nel 1914, dette “di Lutero” perché riproducono il suono originale delle campane della cappella palatina di Wittenberg distrutte nel corso della prima guerra mondiale.
Dal 1992 la comunità evangelica luterana di Roma, che attualmente conta circa 350 fedeli, celebra nella Christuskirche la liturgia della domenica e delle grandi festività.
(nicola gori) (©L’Osservatore Romano – 14 marzo 2010)
Quaresima 2010
presentiamo questo interessante contributo sulla quaresima che sai può usare nella scuola primaria.
Nell’allegato la documentazione.
Trasfigurazione
Trasfigurazione ( Luca, 9, 28b-30 –Domenica IIa di Quaresima) Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante come la neve.
Manifestazione visivamente trasparente della verità della persona: dice in linguaggio umanamente comprensibile chi è davvero Gesù.
La consuetudine con Lui lascia talora trapelare un che di misterioso e di incomparabile, che il suo singolare atteggiamento contemporaneamente vela e rivela.
Dunque il mistero che fascia la sua esistenza; ma anche la verità che la sua esistenza manifesta.
E la rivelazione non sta nella trasfigurazione esteriore: sta nel significato della sua presenza e, in definitiva, della sua vita.
Su cui fa luce il tema sul quale si intrattengono gli straordinari personaggi che compaiono accanto a lui, Mosè ed Elia, per ricapitolare la storia dell’alleanza, la secolare e tenace fatica per realizzarla.
Rappresenta quel compimento, cui tende la vita di Gesù nel suo cammino risoluto verso Gerusalemme.
La desolazione della morte sul Golgota sarà il compimento dell’alleanza fra Dio e l’uomo; per cui la trasfigurazione in questa pausa del viaggio verso Gerusalemme esprime il senso dell’alleanza: cosa Dio si aspetti dall’uomo, perché l’incontro possa dirsi realizzato.
Gesù sulla croce è spogliato di tutto: – ha salvato gli altri, non può salvare se stesso… – Se è figlio di Dio, scenda dalla croce..
– Dio stesso è assente: Dio mio, perché mi hai abbandonato? Sulla croce Gesù, l’uomo, non ha più appoggio alcuno: non può appellarsi neppure a Dio: può contare solo su se stesso; nonostante la desolazione in cui è piombata la sua esistenza, per quanto infierisca il male, la sventura e Dio stesso appaia lontano, Egli conserva il diritto di proclamare che la sua fiducia in Dio non è incrinata, anzi si erge alta e perentoria: nelle Tue mani affido il mio spirito.
Un gesto di fedeltà oltre ogni desolazione.
Dio, oltre Dio stesso, resta l’unico a cui Gesù si affida.
L’umano in lui attinge il vertice della celebrazione.
L’alleanza con Dio, l’incontro con lui è pagato ad un prezzo che non Dio, ma la fiducia di un uomo in Dio, ha potuto garantire.
Quale gesto di abbandono al Padre, nonostante tutto e contro ogni plausibile spiegazione, porta al vertice la capacità di risposta e di incontro che l’uomo sottende e che in Gesù trova il suo compimento.
Perciò la proclamazione alta e solenne che chiude l’episodio: Questi è il figlio mio, l’eletto, ascoltatelo.
E perciò la figura di Gesù si erge a definire la traccia che ogni uomo può percorrere, è la luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo (Giovanni, 1) Un episodio dunque straordinariamente rivelativo della vera statura di Gesù, oltre le sembianze e la consuetudine.
Spiega perché Lui stesso abbia attesa quest’ora come la più alta e significativa, l’ora decisiva della sua esistenza fra noi.
E’ l’ora in cui l’uomo ha dato testimonianza di chi sia l’uomo; di quale insondabile capacità di offerta custodisca la vita umana: di quale valore assuma per Dio il fatto che almeno un uomo l’abbia realizzata in pienezza e l’abbia lasciata a consegna per quanti su quella traccia sono disposti a camminare.
Quaresima: tempo di riflessione
Quaresima: tempo di riflessione Tu che solo conosci il segreto di ciò che sono e sono atto a diventare” (Gabriel Marcel) La vita di ciascuno custodisce un segreto: un sogno affiora sollecitante e indefinito fin dai primi anni della giovinezza; la vita chiede di decifrarlo.
Anzi il compito di decifrarlo riempie la vita, giacché noi non siamo trasparenti a noi stessi.
Lo spessore che avvolge l’esistenza è il segno della sua grandezza e contemporaneamente il peso della sua condizione.
Del segreto che noi siamo portiamo una vaga intuizione che alimenta il desiderio e fermenta le attese, per lo più deluse.
Ma l’intuizione profonda che ci accompagna non cessa di fermentare gli anni fervidi della maturità: interiore percezione di inadeguatezza, di parzialità, incompiutezza; indefinita nostalgia, di pienezza di risposta.
Soprattutto progressiva consapevolezza dell’essere, cui attingiamo e che non siamo: presagio di una presenza arcana che urge oltre l’assillo delle cose, oltre la dolcezza delle relazioni.
Agostino, all’apertura di quel grande affresco che sono Le confessioni, l’ha detto con parole non più dimenticate: ‘Ci hai fatti per Te e il nostro cuore è senza pace fino a che non riposa in Te’.
Ma precisamente la luminosa Confessione che ne segue è la testimonianza più conturbante che l’incontro non gli ha dato pace.
Dio urge alla sua vita e la incalza in termini sempre nuovi.
La sua ricerca già lucida, penetrante, originale si dilata all’intero orizzonte della sua vita: non è più solo la chiarezza delle idee che lo appassiona; è l’autenticità della sua stessa esistenza che entra in gioco.
Il tentativo singolarissimo di decifrarla in tutti i risvolti misteriosi che l’attraversano, nelle pieghe segrete in cui si cela un’arcana presenza che lo sospinge a consapevolezza di sé e delle sue aspirazioni, a fermento di una intensità di vita sorprendente e inappagata costituiscono il fascino permanente della pagina di Agostino.
Agostino ha presagito e infaticabilmente perseguita una presenza in cui trovare rifugio – trovare la pace- che plachi, che risponda: l’ha man mano avvertita come stimolo e sollecitazione tenaci a portarsi un passo più in là, con la soddisfazione di un orizzonte tutto da esplorare: canta e cammina, ha detto a se stesso e a noi in una delle sue sagaci e concise annotazioni.
Camminare nella gioia perché l’itinerario è lungo ma anche appassionante, appena ci si accorga che è in gioco l’incontro, la tenerezza dell’amico con cui entrare e tenersi in relazione, che sappia dare volto anche al presagio, che voglia instaurare un dialogo a tutto campo, che solleciti a confrontarsi con disponibilità trasparente e sincera Scoprire il segreto è dunque coltivare il dialogo interiore e personale per leggere l’esistenza ed esplorare i suoi rapporti luminosi e misteriosi con la Trascendenza.
S’impone uno spazio irrinunciabile e prezioso di contemplazione, come condizione appassionante da perseguire.
Alla ricerca del proprio volto, presagito nel volto di Dio, rivelato nel dialogo con lui.
Un volto appena sbozzato, le cui linee restano da definire. Il segreto è certo in ciò che siamo, ma più profondamente in ciò che aspiriamo ad essere. La vita custodisce il segreto: può passarle accanto senza mai avvertirlo; può sentirne il presagio e spendersi per decifrarlo.
L’assillo delle cose tendono ad evadervi, magari a soffocarlo; una sosta pensosa in questo assillo è sufficiente per darvi risalto e lasciarlo parlare.
Se poi la sosta apre al dialogo interiore con l’unico che conosce il segreto, se dispone ad un incontro carico di trepidazione, l’esistenza può rivelare il tesoro che porta con sé, che segretamente l’alimenta: le risorse che suscita, cui attingere, la statura che lascia intravedere aprono sul monito evangelico “siate voi dunque perfetti come è perfetto i Padre celeste.” (Matteo, 5, 48) Dio non si dà mai parzialmente secondo la lucida intuizione del pensatore religioso moderno (S.
Kierkegaard).
L’osservazione lascia intuire la pista privilegiata: solo dandosi senza riserva ciascuno chiama a raccolta tutte le risorse di cui dispone e dà attuazione piena ai tratti che compongono la propria identità e la vanno perseguendo.
La vita dunque custodisce il segreto: può esser lasciato inavvertito e inoperante tanto che l’esistenza trascorre insignificante e vuota; può esser presagito, esplorato fino ad alimentare l’esistenza e farla fiorire in tutta la sua germinalità. Da TRENTI Z., La secolarità nell’orizzonte della creazione, Leumann, Elledici, 2009, pp.45-47 (Per gentile concessione dell’Editrice).
la visita del Papa in sinagoga di Roma
“Mi aspetto che con questa visita i rapporti con gli ebrei migliorino, visti i problemi che ci sono qui in Italia a causa di una particolare sensibilità, e spero che sia un segno che il dialogo avanza”.
Il cardinale Walter Kasper, presidente della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, ha incontrato ieri alcuni giornalisti in occasione della visita del Papa alla sinagoga di Roma, domenica.
Teologo autorevole e pastore credibile, il prelato tedesco, che è anche il titolare del dicastero vaticano sull’ecumenismo, in questi anni ha costruito con il mondo ebraico un solido rapporto personale.
Due anni fa fu lui a scrivere sull’Osservatore Romano un chiarimento sul significato della preghiera pro Iudaeis del messale romano del 1962, quello in latino liberalizzato da Benedetto XVI, in cui escludeva ogni intento di proselitismo.
In effetti, la memoria delle conversioni forzate è ancora viva tra gli ebrei che su questo punto sono molto guardinghi.
Kasper ritiene che l’incontro dei prossimi giorni possa rinsaldare i rapporti.
“C’è un’atmosfera nuova, di confidenza reciproca, anche se non mancano le difficoltà, vista la lunga storia che abbiamo alle spalle”.
Questa è la seconda visita di un Papa nella sinagoga di Roma dopo quella di Giovanni Paolo II, il 13 aprile 1986, che passò alla storia per la sua definizione degli ebrei come “fratelli maggiori”.
“Benedetto XVI ne aveva visitata già una a Colonia – ricorda il cardinale – in occasione della Giornata mondiale della gioventù del 2005, e un’altra a New York in occasione del suo viaggio negli Stati Uniti, nel 2008.
Questo incontro vuole confermare i rapporti maturati negli ultimi decenni.
Non si parlerà tanto delle differenze tra cristianesimo ed ebraismo – si sa che ci sono e sono fondamentali – ma di ciò che abbiamo in comune: la fede in un unico Dio.
In un mondo secolarizzato questa vuol dire testimoniare i comandamenti, onorare il nome di Dio e santificare il sabato, cose ormai non più tanto normali.
Ma anche sulla seconda tavola del Decalogo, nelle opere di giustizia sociale e di pace, possiamo dare una testimonianza comune”.
In effetti, la sensazione è che i rapporti cattolici-ebrei abbiano preso una piega molto pragmatica.
“Nei primi anni abbiamo parlato molto del passato, della Shoah e di tutto il resto, poi siamo passati ai problemi concreti, a come possiamo affrontarli insieme.
C’è una forte collaborazione su progetti caritativi ed educativi.
Certo, restano aperti dei problemi, ma credo che lo saranno fino alla fine dei tempi”.
Il nodo teologico fondamentale riguarda ovviamente la figura di Gesù di Nazaret.
Kasper riconosce che “molti ebrei, soprattutto i più ortodossi, su questo punto non vogliono dialogare.
Noi però non nascondiamo le nostre idee.
Il dialogo non è solo uno scambio intellettuale ma è anche cooperazione e testimonianza.
E comunque dialogo non significa sincretismo.
Sui nostri fondamenti siamo chiari.
C’è anche da tener presente che l’ebraismo è plurale.
Noi abbiamo rapporti con ebrei ortodossi e liberal, certo non con i fondamentalisti che si vedono per le strade di Gerusalemme”.
Ma non ci vogliono gli haredim per inciampare in un nome che divide e irrigidisce: Pio XII.
“Eppure ha salvato migliaia di ebrei – ribatte Kasper – ha agito fattivamente, e questo gli è stato riconosciuto da personalità come Golda Meir.
Se avesse parlato troppo forte avrebbe fatto più danni.
Comunque credo che le opinioni del mondo ebraico su Pio XII stiano lentamente cambiando”.
Poco tempo fa, nel bel libro autobiografico “Al cuore della fede.
Le tappe di una vita” (Edizioni Paoline), il cardinale era stato più drastico: “L’opinione pubblica ebraica è ancora molto lontana da un giudizio storico corretto nei confronti di questo grande Papa e del suo impegno in difesa degli ebrei per quel che allora era possibile”.
In effetti, in questi giorni alcuni esponenti delle comunità ebraiche hanno detto chiaro e tondo che il dossier Pio XII resta una pregiudiziale nel rapporto con i cattolici.
Kasper cerca di stemperare i toni, ma ribadisce che la beatificazione di Papa Pacelli “è una questione interna alla chiesa” e che non è possibile alcun “veto”.
E non è nemmeno d’accordo con chi ritiene che con il pontificato di Benedetto XVI ci sia stata una brusca inversione di tendenza dopo l’idillio dell’era Wojtyla.
“I rapporti sono tuttora buoni, puntiamo soprattutto alla cooperazione su progetti concreti”.
E’ un po’ paradossale che un teologo di razza come Kasper insista tanto su aspetti organizzativi, ma certo il ruolo che ha rivestito in questi anni nella curia romana lo obbliga a una continua mediazione politica (non diplomatica, però, visto che l’annosa questione dell’accordo fondamentale tra Santa Sede e stato d’Israele non è di sua competenza).
Abbiamo comunque provato a chiedergli se la difficoltà nel dialogo con gli ebrei non sia più profonda.
Se, cioè, non abbia ragione un suo illustre collega, Elmar Salmann, il quale sostiene che il Novecento è stato dominato dal pensiero ebraico in tutti i campi del sapere, da Freud a Kafka, da Einstein a Derrida.
Un pensiero, sostiene il teologo benedettino in un recente saggio (“Passi e passaggi nel cristianesimo”, Cittadella Editrice), “che determina il nostro inconscio, ci determina in modo totalmente naturale nella nostra visione dei valori del mondo”.
Questo pensiero postmoderno – frammentario, democratico, multipolare – con la sua “impossibilità di un centro della storia” rende ardua la prospettiva di una sola verità (Gesù Cristo) che è ancora la pretesa dei cristiani.
Le vittime dello sterminio sono i vincitori sul piano delle idee e questo il cattolicesimo non può ignorarlo.
Kasper non si scompone: “Abbiamo una verità comune: la fede nell’unico Dio creatore del cielo e della terra.
Possiamo dire che il cristianesimo ha universalizzato la fede ebraica nel solo Dio.
Certo, è vero che grandi pensatori del Novecento erano ebrei, ma costoro hanno avuto grande influsso sulla teologia cristiana.
Basta pensare a Buber o a Lévinas con la loro filosofia dialogica.
D’altra parte gli studiosi ebrei ci hanno aiutato a entrare nella Bibbia e la stessa ricerca su Gesù è cambiata grazie a loro; quando io studiavo teologia il problema era l’ellenizzazione del cristianesimo, Bultmann, oggi si parla del contesto ebraico della Scrittura.
D’altra parte anche gli ebrei hanno subito l’influsso cristiano, basta pensare alla liturgia: la sinagoga di Roma somiglia a una chiesa.
Perciò non vedrei la cosa in termini di competizione”.
Kasper lo dice anche nell’autobiografia: “I cristiani ricordano agli ebrei che l’Alleanza di Dio con Abramo si rivolge a tutti i popoli, che non possiamo chiuderci in un ghetto, ma dobbiamo allargare il monoteismo ebraico a tutto il mondo e testimoniare il Dio unico all’umanità, come ha fatto la missione cristiana… Nel libro del profeta Zaccaria c’è una bella immagine per la relazione tra ebrei e cristiani, a cui anche la ‘Nostra aetate’ fa riferimento: quando il messia arriverà noi saremo spalla a spalla.
Dunque, non uno contro l’altro, ma, per quanto distinti, spalla a spalla, l’uno accanto all’altro solidali nel servizio comune alla pace e alla salvezza del mondo”.
Sarà, ma qualche volta i fratelli fanno a spallate.
in “il Foglio” del 14 gennaio 2010
Il “Codex Pauli”
Un’opera monumentale, unica nel suo genere, concepita sullo stile degli antichi codici monastici ed arricchita da una minuziosa selezione di fregi, miniature e illustrazioni, provenienti da manoscritti di datazione diversa dell’Abbazia di San Paolo fuori le Mura.
Si tratta del “Codex Pauli”.
L’opera, un tomo unico di 424 pagine di alto valore ecumenico, è dedicata a Benedetto XVI, che ha indetto le celebrazioni per il bimillenario della nascita di san Paolo.
La tiratura è limitata a 998 copie numerate.
Per il Codex Pauli è stato creato, inoltre, il font originale “Paulus 2008”, che rispecchia la grafia dell’amanuense della Bibbia Carolingia (IX sec.).
Il Codex Pauli ospita i contributi inediti, appositamente preparati, del Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I; del Patriarca di Mosca e di Tutte le Russie, Kirill; di Gregorios III Laham; del dr.
Rowan Williams, Primate della Comunione Anglicana; del dr.
Eduard Lohse, Vescovo emerito della Chiesa Evangelica di Hannover; e di molti altri.
L’opera si apre con un’articolata parte introduttiva, organizzata secondo alcune sezioni.
Nella prima, Annus Pauli, viene ripercorsa l’avventura dell’Anno dedicato al bimillenario della nascita dell’Apostolo.
Ne sono testimoni privilegiati i Cardinali Tarcisio Bertone, Ennio Antonelli, Raffaele Martino, Jean Louis Tauran, Jozef Tomko, Antonio Rouco Varela, André Vingt-Trois e Walter Kasper.
Nella sezione Roma Pauli viene ripercorsa la ricca tradizione spirituale, liturgica e artistica dei monaci benedettini, che da tredici secoli custodiscono il sepolcro di san Paolo sulla via Ostiense.
Evangelium Pauli è il titolo della terza parte, che presenta la figura e il messaggio del grande Apostolo in dialogo con le culture e con la sensibilità dei nostri giorni.
Il Cardinal Kasper legge san Paolo tra Est ed Ovest; il dottor Antonio Paolucci lo ricolloca tra le radici cristiane dell’Europa; il professor M.D.
Nanos lo rapporta con l’ebraismo, il professor D.A.
Madigan con l’Islam.
Ma molti altri sono gli approfondimenti: san Paolo come cosmopolita, viaggiatore, missionario, apostolo, e modello di dialogo interreligioso.
Nell’ultima parte, Vita Pauli, si affronta l’interrogativo sull’identità di Saulo/Paolo dopo duemila anni di interpretazione, esaltazione, avversione, strumentalizzazione dell’Apostolo e del suo messaggio.
Sfogliando le pagine del Codex, il Paolo di ieri, presente con il testo originale greco, ci raggiunge attraverso la traduzione in lingua corrente.
Accanto al corpus paulinum integrale, comprendente le tredici Lettere dell’Apostolo, l’opera offre anche il testo italiano-greco degli Atti degli Apostoli e della Lettera agli Ebrei.
Un’ultima sezione raccoglie un’accurata selezione dei poco conosciuti Apocrifi riguardanti Paolo (Atti di Paolo; Lettere di Paolo e dei Corinzi; Martirio del santo Apostolo Paolo; Atti di Paolo e Tecla; Lettera ai Laodicesi; Corrispondenza tra Paolo e Seneca; Apocalisse di Paolo).
Ogni singolo testo si apre con una presentazione curata dai più noti esegeti di san Paolo e si conclude con una pagina di Lectio divina, secondo la millenaria tradizione monastica.
La presentazione e le introduzioni agli scritti paolini sono di mons.
Gianfranco Ravasi, affiancato da autorevoli studiosi, biblisti e teologi, quali il cardinale Carlo Maria Martini, Romano Penna, Rinaldo Fabris, Primo Gironi, Antonio Pitta, Stefano Romanello, Giuseppe Pulcinelli, Paolo Garuti e Marco Valerio Fabbri.
“Il Codex Pauli – spiega padre Edmund Power nella presentazione – è primariamente un atto di venerazione alla Parola di Dio.
È la Parola che dà la vita.
Questo libro trae la propria ispirazione dalla figura del Dottore delle Genti, figura complessa e spiccata, incapace di nascondersi: le sue Lettere, le sue parole, mostrano in maniera eloquente la sua personalità energica e dinamica”.
“Un uomo che sa essere ironico, perfino sarcastico, eppure mai privo di una parte affettuosa, ispirata, maestosa, che ci fa vedere in lui un uomo ‘ossessionato dal Cristo’ – spiega –.
Così anche il corpus del Codex Pauli è un magma di creatività umana, da cui scaturiscono bellezza e amore”.
“Secondo la tradizione monastica, l’arte è lo sforzo d’incarnare una visione interiore ricorrendo alla forma espressiva di una Bellezza in se stessa inesprimibile – continua l’Abate di San Paolo fuori le Mura –.
Non tutti riescono a percepirla chiaramente: ecco perché l’opera artistica cerca di spingere ciascun contemplante a orientarsi verso l’unico Dio, quale fonte di ogni bellezza”.
“Chi cerca e ama la bellezza mediante il linguaggio dell’arte si indirizza verso il Divino – sottolinea –.
Quest’opera si propone lo stesso fine”.
[Per maggiori informazioni: www.codexpauli.it – paolo.pegoraro@codexpauli.it] (ZENIT.org)
Così San Francesco inventò il Presepio
Il simbolo più popolare del Natale è il presepe, cioè quella rappresentazione visiva di quanto si legge nel Vangelo di San Luca al capitolo secondo: la nascita di Gesù che “viene adagiato in una mangiatoia perché non vi era posto per loro nell’albergo”, ma gli angeli trasformano la notte in una festa meravigliosa, invitando i pastori a rendere omaggio a quel bambino.
In questi giorni, il presepe è presente in milioni e milioni di famiglie in tutto il mondo, non solo cattoliche.
Si tratta di una tradizione che affonda le sue radici in uno specifico fatto storico della vita di San Francesco.
Fu lui, il poverello d’Assisi, a dar vita per la prima volta a un presepe, e lo fece a Greccio, in Umbria, il 25 dicembre 1223.
Ne abbiamo parlato con un frate francescano, che si chiama Padre Francesco Rossi e che per vent’anni è vissuto a Greccio, addetto ad accompagnare i pellegrini sul luogo dove avvenne il primo presepe e spiegare loro la storia e quali significati profondi volle dare ad essa il Santo di Assisi.
L’intervista Ci ha detto Padre Rossi <<Nel 1220, Francesco era riuscito a realizzare un grande desiderio, andare a visitare i luoghi della vita terrena di Gesù.
Fu anche a Betlemme e si fermò a lungo a pregare e meditare sul luogo dove il Salvatore nacque.
Tornato in Italia, continuava a ripensare a quel viaggio.
E la sua mente era affascinata soprattutto dall’evento della nascita di Gesù.
Dio che si fa uomo.
Dio che diventa bambino, umile, fragile, indigente.
Francesco si commuoveva fino a piangere facendo queste considerazioni.
E nel Natale del 1223, decise di organizzare una “rappresentazione viva” della nascita di Gesù, convinto che, potendo “vedere” con i suoi occhi, avrebbe avuto modo di comprendere ancora più a fondo>>.
Perché scelse Greccio per quella rappresentazione e non Assisi, sua città natale, dove abitualmente viveva? << Probabilmente perché Greccio gli richiamava alla mente il paesaggio di Betlemme, che aveva visitato tre anni prima Conosceva Greccio.
La sua prima visita a quei luoghi risale al 1208.
Allora si era stabilito, con alcuni suoi compagni, sulla montagna.
Ma in seguito, gli abitanti che stavano giù a valle lo pregarono di andare a vivere vicino a loro.
E Francesco scese dalla montagna e si stabilì in alcune grotte nei pressi del borgo.
Greccio era un piccolo agglomerato di povere abitazioni intorno al castello.
Forse contava un centinaio circa di abitanti.
La zona era paludosa, malsana, e anche per questo poco abitata.
Ma aveva quell’aspetto di povertà assoluta, di silenzio, di sofferenza anche fisica della natura, che a Francesco piacevano, perché lo aiutavano a meditare, a sentirsi umile, povero.
Tornando dai suoi viaggi in giro per l’Italia, amava sostare a Greccio.
E quando pensò di “rivivere” la nascita di Gesù, volle che questo avvenisse a Greccio>>.
Ci sono documenti storici di quell’evento? <<I primi biografi, contemporanei a Francesco, quindi testimoni diretti, in particolare Tommaso da Celano e San Bonaventura, ne fanno un resoconto dettagliato.
<<Tommaso da Celano, nella sua “Vita prima di San Francesco d’Assisi”, al capitolo XXX, dedicato appunto al racconto del Presepio di Greccio, dice che il Santo pensava continuamente alla vita di Gesù e soprattutto “all’umiltà dell’Incarnazione e alla carità della Passione”.
Cioè, ai due aspetti più umani e anche più sconvolgenti della vita terrena del Cristo.
<<Francesco ha fama, tra la gente, di essere un santo romantico, un poeta, l’autore del “Cantico delle creature”, l’amante degli animali, della natura, insomma un santo in un certo senso un po’astratto, immerso in una realtà mistica lontana dalla concretezza della vita.
Immagine completamente sbagliata.
<<San Francesco era sì un tipo romantico, un vero poeta e un autentico mistico, ma con una “concretezza” granitica.
La sua imitazione del Cristo era “alla lettera”, senza sbavature.
Gesù ha insegnato che siamo tutti fratelli, figli dello stesso Padre e che egli si nasconde nei più miseri, negli ammalati, nei carcerati.
E Francesco, per “vivere” alla lettera questo insegnamento, andava a visitare i carcerati, abbracciava e serviva i lebbrosi.
Gesù era povero, non aveva niente, e Francesco, che apparteneva a una famiglia ricca, volle rinunciare a tutto, perfino ai vestiti che indossava.
L’Incarnazione, la nascita e la morte di Gesù erano, come scrisse il Celano, argomenti fissi delle meditazioni di Francesco voleva assimilarne il significato più profondo, immedesimandosi in essi fino a “viverli”.
E per riuscire in questo, si ritirava sui monti, in luoghi deserti, in modo che la sua meditazione fosse profonda.
Nel 1223 era tutto concentrato sulla nascita di Gesù e volle celebrare il Natale di quell’anno con una “rappresentazione realistica” di quell’evento.
L’anno successivo, 1224, andrà sul monte Verna per meditare sulla passione e morte di Gesù e avrà l’impressione delle stigmate di Cristo sul proprio corpo>>.
Come si svolse quella “rappresentazione” del Natale? <<Francesco la preparò con meticolosità.
Chiese aiuto a un amico, un certo Giovanni da Greccio, signore della zona, che il santo stimava molto perché, come scrive il Celano, “pur essendo nobile e molto onorato nella sua regione, stimava più la nobiltà dello spirito che quella della carne”.
All’amico disse di voler organizzare, per la notte di Natale, una “rappresentazione” della nascita di Gesù.
Non, però, uno “spettacolo” da far vedere ai curiosi.
Ma una “ricostruzione visiva e vera”.
Tommaso da Celano riporta le parole esatte che Francesco disse a Giovanni: “Vorrei rappresentare il bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia, e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello”.
Francesco aborriva lo spettacolo.
Lo riteneva irrispettoso nei confronti del grande mistero religioso.
E temeva che la sua iniziativa venisse male interpretata.
Per questo, come informa San Bonaventura, (anche lui contemporaneo di Francesco e quindi testimone diretto), prima di mettere in atto quel suo progetto chiese il permesso al Papa>>.
Cosa accadde nel corso di quella notte? <<Giovanni di Greccio organizzò ogni cosa come Francesco aveva chiesto.
La notizia era stata diffusa e la gente del luogo si radunò presso la grotta dove Francesco e i frati andavano a pregare.
Arrivarono pellegrini anche da altri borghi.
Scrisse il Celano: “Arrivarono uomini, donne festanti, portando ciascuno, secondo le sue possibilità, ceri e fiaccole per illuminare quella notte”.
<<Alla fine arrivò anche Francesco e, vedendo che tutto era predisposto secondo il suo desiderio, era raggiante di letizia.
Il Celano precisa che, a quel punto, “si accomoda la greppia, vi si pone il fieno e si introducono il bue e l’asinello”.
Da questa annotazione si comprende chiaramente che Francesco vuole ricostruire la scena della nascita di Gesù, ma non vuole dare spettacolo.
Infatti, nessuno dei presenti prende il posto della Madonna, di San Giuseppe, del bambino.
Se così si fosse fatto, sarebbe stato spettacolo.
No, Francesco vuole vedere la scena reale su cui pensare e riflettere nel corso della Messa che sarebbe stata celebrata, perché la Messa avrebbe richiamato la presenza reale di Gesù in quel luogo.
<<E’ questo un dettaglio importantissimo.
La liturgia eucaristica richiama sull’altare la presenza “vera, reale e sostanziale” di Gesù.
Francesco voleva rivivere la nascita di Gesù in forma reale nel contesto della Messa.
Quando parlava dei sacerdoti, li paragonava alla Vergine Maria, perché nella Messa i sacerdoti fanno rinascere sull’altare Gesù.
E diceva anche che i fedeli, quando fanno la Comunione, sono come Maria che ha portato Gesù dentro di sé.
Quindi, la Liturgia eucaristica di quella notte di Natale avrebbe portato Gesù in quel luogo allestito come la capanna di Betlemme>>.
Francesco era diacono: partecipò alla Messa? <<Certamente.
Indossò i paramenti solenni e lesse il Vangelo, tenendo poi una predica.
Il Celano dice che quando pronunciava le parole “Bambino di Betlemme” la sua voce tremava di tenerezza e di commozione.
Il Celano aggiunge che, nel corso della celebrazione eucaristica, si manifestarono “in abbondanza i doni dell’Onnipotente”, cioè fatti prodigiosi.
E riporta la testimonianza, che viene riferita anche da San Bonaventura, di ciò che vide Giovanni da Greccio.
“Egli affermò”, scrisse San Bonaventura “di aver veduto, dentro la mangiatoia, un bellissimo fanciullo addormentato, che il beato Francesco, stringendolo con ambedue le braccia, sembrava destare dal sonno”.
E una chiara indicazione di ciò che potrebbe essere accaduto e che la tradizione ha sempre tramandato: Gesù si fece realmente vivo “apparendo” nelle sembianze di un bambino sul fieno di quella mangiatoia>>.
Qualcosa di così personale
Pubblichiamo la Prefazione di “Qualcosa di così personale.
Meditazioni sulla preghiera” del cardinale Martini Ho ben 82 anni di vita e la malattia di Parkison e gli acciacchi dell’età si fanno sentire.
Ma probabilmente, per quanto riguarda la preghiera, sono ancora a metà del guado.
Sento che la mia preghiera dovrebbe trasformarsi, ma non so bene in che modo, e sento anche una certa resistenza a compiere un salto decisivo.
So che posso dire come Isacco: «Io sono vecchio e ignoro il giorno della mia morte» (Gen 27,2), ma di questo non ho ancora tratto le conclusioni.
Cerco comunque di chiarirmi le idee riflettendo un po’ sull’argomento.
Mi pare che si possa parlare in due modi della preghiera dell’anziano.
Si può considerare l’anziano nella sua crescente debolezza e fragilità, secondo la descrizione metaforica (ed elegante) del Qohèlet: «Ricordati del tuo Creatore / nei giorni della tua giovinezza / prima che vengano i giorni tristi / e giungano gli anni di cui dovrai dire: non ci trovo alcun gusto.
/ Prima che si oscurino il sole, / la luna, la luce e le stelle / e tornino ancora le nubi dopo la pioggia; quando tremeranno i custodi della casa / e si curveranno i gagliardi / e cesseranno di lavorare le donne che macinano, / perché rimaste poche / e si offuscheranno quelle che guardano dalle finestre / e si chiuderanno i battenti sulla strada: / quando si abbasserà il rumore della mola / e si attenuerà il cinguettio degli uccelli / e si affievoliranno tutti i toni del canto» (12,1-4.
Ma anche fino al verso 8).
In questo caso il tema sarà la preghiera (qui evocata dalle parole «Ricordati del tuo Creatore») di colui che è debole e fragile, di colui che sente il peso della fatica fisica e mentale e si stanca facilmente.
La salute e l’età non consentono più di dedicare alla preghiera i tempi lunghi di una volta: si sonnecchia facilmente e ci si appisola.
Mi pare quindi sia necessario imparare a utilizzare al meglio il poco tempo di preghiera di cui si è in grado di disporre.
Non riuscendo più a dedicare alla preghiera lo stesso tempo di quando si avevano più energie, e sentendola spesso come un po’ distante e poco consolante, è possibile che il proprio spirito venga catturato da un certo senso di scoraggiamento.
Allora la tentazione sarà di accorciare ulteriormente i tempi da consacrare alla preghiera, limitandosi allo strettamente necessario.
Tuttavia questo accorciare i tempi dell’orazione potrebbe essere molto pericoloso.
Infatti la preghiera, per dare qualche conforto, deve essere di norma un po’ prolungata.
Se si restringe il tempo, anche le consolazioni sorgeranno con maggiore difficoltà e si creerà una sorta di circolo vizioso, che porterà a pregare sempre meno.
Ma la preghiera dell’anziano potrebbe anche essere considerata la preghiera di qualcuno che ha raggiunto una certa sintesi interiore tra messaggio cristiano e vita, tra fede e quotidianità.
Quali saranno allora le caratteristiche di questa preghiera? Non è facile stabilirlo in astratto e aprioristicamente: occorrerebbe piuttosto riflettere sull’esperienza dei santi, in particolare dei santi anziani.
Perciò bisognerebbe dedicare, con pazienza, un po’ di tempo alla ricerca.
Anzitutto nella Bibbia.
In molti Salmi si parla apertamente dell’anziano e della sua condizione con espressioni molto significative e suggestive.
Ad esempio: «Sono stato fanciullo e ora sono vecchio; non ho mai visto il giusto abbandonato né i suoi figli mendicare il pane» (Sal 36,25).
Si veda anche l’esortazione del Salmo 148,12: «I vecchi insieme ai bambini lodino il nome del Signore».
La Scrittura ci offre anche preghiere tipiche di un anziano.
La più nota è la preghiera dell’anziano Simeone al tempio quando prende tra le sue deboli braccia il piccolo Gesù: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli» (Lc 2,29 ss.).
La ricerca dovrebbe allargarsi ai Padri apostolici, come Ignazio e Policarpo, quindi ai Padri del deserto e ai grandi oranti di tutti i secoli.
Non essendo qui possibile percorrere una tale via analitica, mi limiterò ad alcune riflessioni generali, aiutato anche dalla testimonianza di qualche confratello più anziano di me.
Mi chiederò, cioè, quali potrebbero essere alcune caratteristiche positive nella preghiera di un anziano.
Mi pare che possano emergere tre aspetti: un’insistenza sulla preghiera di ringraziamento; uno sguardo di carattere sintetico sulla propria vita ed esperienza; infine una forma di preghiera più contemplativa e affettiva, una prevalenza della preghiera vocale sulla preghiera mentale.
Sul primo di questi tre punti riporto la testimonianza di un confratello: «Riguardo ai contenuti della mia preghiera in questi anni di vecchiaia – ho 85 anni – si distingue la preghiera di ringraziamento.
Si sono sviluppati due motivi per ringraziare Dio: anzitutto per avermi concesso un tempo in cui mi posso dedicare (vorrei quasi dire “a tempo pieno”) a prepararmi alla morte.
E ciò non è dato a tutti.
In secondo luogo per avermi mantenuto finora nel pieno dominio delle risorse mentali e, largamente, anche di quelle fisiche».
Là dove invece non c’è questo vigore fisico e/o mentale la preghiera si colorerà soprattutto di pazienza e di abbandono nelle mani di Dio, sull’esempio di Gesù che muore dicendo: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46).
È così che i Salmi ci insegnano a pregare: «Tu salvi dai nemici chi si affida alla tua destra» (Sal 16,7); «Mi affido alle tue mani: tu mi riscatti, Signore, Dio fedele» (Sal 30,6); «Lo salverò, perché a me si è affidato» (Sal 90,14).
Chi ha raggiunto una certa età è anche nelle condizioni di volgere uno sguardo sintetico sulla propria vita, riconoscendo i doni di Dio, pur attraverso le inevitabili sofferenze.
Veniamo quindi invitati a una lettura sapienziale della nostra storia e di quella del mondo da noi conosciuto.
E beati coloro che riescono a leggere il proprio vissuto come un dono di Dio, non lasciandosi andare a giudizi negativi sui tempi vissuti o anche sul tempo presente in confronto con quelli passati! La terza caratteristica della preghiera dell’anziano dovrebbe essere un crescere della preghiera vocale (e quindi una diminuzione della preghiera mentale) insieme a un inizio di semplice contemplazione che esprime con mezzi molto poveri la propria dedizione al Signore.
Diminuisce la preghiera mentale per la minore capacità di concentrazione dell’anziano.
Ma contemporaneamente bisogna aver cura di aumentare la preghiera vocale.
Anche se un po’ assonnata o distratta, essa è comunque un mezzo per avvicinarci al Dio vivente.
Sarebbe ideale arrivare a contemplare molto semplicemente il Signore che ci guarda con amore, oppure pensare a Gesù che ha bisogno di noi per rendere piena la sua lode al Padre.
Ma qui sarà lo Spirito Santo che si farà nostro maestro interiore.
A noi non resterà che seguirlo docilmente.
CARLO MARIA MARTINI, Qualcosa di così personale, Mondadori, Milano 2009, pp.
159, Euro 17.50 “La preghiera è qualcosa di estremamente semplice, qualcosa che nasce dal cuore.” Con queste parole il cardinale Martini ci introduce nel tema del suo nuovo libro, dedicato a uno degli aspetti più intimi e delicati del rapporto con Dio: la preghiera.
“È la risposta immediata che sale dal profondo quando ci mettiamo di fronte alla verità dell’essere.
” Il che può avvenire in molti modi, diversi per ciascuno di noi: davanti a un paesaggio di montagna, in un momento di solitudine nel bosco, ascoltando una musica.
Sono momenti di verità dell’essere, nei quali ci sentiamo come tratti fuori dalla schiavitù delle invadenze quotidiane, che ci sollecitano continuamente.
Spiritualità secolare
Nel grigiore invadente del cielo “pesante come un coperchio” – secondo le parole di Charles Baudelaire, che ha sempre ragione – con le litanie continue di crisi, di epidemie, di indici negativi, di cupe prospettive, si fatica a tirare avanti.
La natura è allo stremo, si dice, e gli specialisti suonano già la campana a morto di un degrado “irreversibile”, senza speranza di recupero.
Il mondo è malato, gli uomini lo hanno asservito alle loro comodità, da incoscienti.
Abbiamo svuotato il sottosuolo delle sue risorse, carbone, petrolio, per soddisfare i bisogni crescenti delle società dell’opulenza, abbiamo proiettato nell’atmosfera sempre più scorie gassose ed emissioni elettriche di cui il cielo non sa più che fare.
I nostri organismi sono sottoposti alla stessa follia.
Le nostre terre e i nostri cieli sono esauriti! Visito un amico malato.
Da diversi giorni, sono una passante di un luogo divenuto familiare, l’Institut Curie.
Potrebbe essere il luogo della desolazione, è invece quello dello stupore.
Nei corridoi dell’ospedale specializzato nel trattamento del cancro, ci sono molteplici occasioni per rallegrarsi.
I sorrisi e l’attenzione all’altro sono di una qualità speciale, sono di quelli che sanno che la vita è fugace, e reale il legame tra gli uomini.
Il medico radiologo di fronte al mio amico, a cui occorre salvare la vita, è, per un caso del destino, mio fratello.
Paradossalmente, scopro di non conoscere l’essere di cui ho condiviso l’intimità per molti anni.
Mio fratello si è spogliato di tutto ciò che una persona a vent’anni costruisce del suo ego per mostrare agli altri una certa immagine di sé.
Ha lasciato emergere ciò che era profondamente nascosto, tra molte altre possibilità del suo carattere: l’empatia.
– Vedi, mi dice, trascinandomi fuori a bere un caffè, sono diventato un prete! Sorrido a colui che di solito si diverte a stuzzicarmi per il mio gusto per le interpretazioni religiose.
Che cosa lo separa oggi da un essere che ha la fede? Me lo chiedo mentre lo vedo chinarsi sull’altro per portarlo verso la vita.
C’è molto di più nella sua mano che si attarda sulla spalla che nell’attenzione al corpo.
Le ore passate a cercare, a rispondere senza dar peso al tempo, a rimettere il camice che si è appena tolto perché c’è un paziente di cui vorrebbe essere sicuro che non ha niente.
– Ah, eccoti qua, aspettami che finisco un’ecografia e torno a casa con te.
Vincent detta il suo rapporto osservando ogni parte di quel polmone che la vecchia signora teme di vedere malato.
Constata con piacere che non c’è niente di sospetto.
– Ah, mammina! dice con aria scherzosa alla paziente, lei mi fa perdere tempo.
Non ha niente.
Ha ottant’anni e fa ottanta mila cose al giorno.
Altro che affaticata! Forza, torni a casa.
Non la voglio più vedere.
La vecchia signora se ne va, felice di aver rivisto il medico dai capelli rossi.
– Le voglio bene.
È una suora.
Fa delle conferenze molto profonde.
Una testa! E tu, come stai? – Sono felice di veder risplendere le luci nella notte di Natale.
– Ancora con le tue interpretazioni religiose! di Paule Amblard in “Témoignage chrétien” n° 3374 del 10 dicembre 2009 (traduzione: www.finesettimana.org) “Beati i poveri in spirito, di essi è il Regno dei Cieli” (Mt 5, discorso della montagna).
C’era di che scioccare gli ascoltatori.
Aspettavano con impazienza da secoli il ritorno di un re che avrebbe ridato forza e potenza al popolo d’Israele, ed ecco che parlava di un Regno di poveri…
Quello sguardo sulla povertà ci urta ancora oggi, assetati come siamo di ricchezze, di potere, di consumi.
Padre Dominique Barthélémy, domenicano, che è stato membro della Pontificia Commissione biblica, propone in un libro postumo di aprire la Bibbia e di scoprire nelle sue pagine che cos’è il povero.
Non la povertà, ma il povero.
“Lo Spirito del Signore è su di me, perché il Signore mi ha unto.
Mi ha inviato a portare la buona notizia ai poveri, a consolare i cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la liberazione dei prigionieri” (Is, 61, 1-2): già per Isaia, il povero è colui che è l’Emmanuele, “Dio con loro”, “un neonato avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia” (Lc 2,12).
La sua ricchezza è un cuore puro e libero che si dona (“Questo è il mio Corpo offerto per voi”, Lc 22, 19), e il cui regno culminerà nell’annientamento della Croce, perdonando l’umanità per le sue infedeltà, annunciando al buon ladrone, povero tra i peccatori, “fin da oggi sarai con me in Paradiso” (Lc 23, 35-43).
Il povero Lazzaro (Lc 16, 19-31), spiega anche a lungo padre Barthélémy, è colui che è piccolo, umile, che subisce la povertà (il povero passivo) e “fu portato dagli angeli nel seno di Abramo”.
Diverso è il povero attivo, colui che si riconosce peccatore, con cuore ingombro dei suoi desideri, ma decide un cambiamento di vita (la metanoia, il pentimento, un passo verso la guarigione) e che “sarà innalzato, perché si è abbassato” (Lc 18, 9).
I visi dei poveri sono legione: li incontriamo tra noi, tra gli immigrati respinti, gli stranieri che bussano alle porte dei paesi ricchi, gli analfabeti, quelli buttati fuori dalla loro famiglia o dal lavoro, le migliaia di emarginati sradicati.
Solo la giustizia e la solidarietà, l’“esser con” senza miserabilismo, possono addolcire le ferite di queste povertà sulle strade umane.
Il diritto e gli Stati che raddrizzano i torti e rendono giustizia agli oppressi, da un lato, il perdono evangelico che offre a tutti i poveri dei percorsi di speranza, dall’altro, apriranno la via verso una maggiore equità sulla terra e saranno, così, insieme, promessa e realtà di salvezza.
Questo Dio che è, che era e che viene trascende il tempo con la sua presenza nella nostra attualità: la salvezza annunciata, per noi uomini, per un “dopo” è in realtà una salvezza presente da ricevere e da accogliere ogni istante.
Il povero è volto del Signore, ci porta al Signore povero, sofferente (Is 42, 1-6).
La parola biblica invita ognuno a fare un posto alla povertà, alla spogliazione e a convertirsi.
Ad impegnarsi in questo, con gioia, per vivere.
di Bernard Rivière in “Témoignage chrétien” n° 3374 del 10 dicembre 2009 (traduzione: www.finesettimana.org)