Il cattolico post moderno e lo scarso peso in politica

A chi frequenta la realtà cattolica italiana desta un po’ di sconcerto la superficialità con cui di essa si parla e con essa si vuole dialogare.
La persistente diaspora elettorale, seguita alla fine della Dc, istiga qualcuno a tentativi di nuova unità o convergenza, magari di stampo minoritario; ma ne istiga molti di più a tentativi di appropriazione, di alleanze, di consonanze programmatiche e/o etiche nei confronti delle sue diverse componenti.
Tutti tentativi, però, che, al di là della loro reiterazione e del loro rifiuto, declinano verso una evidente confusione.
Per tentare di fare un passo in avanti occorre partire dalla considerazione che in ogni realtà complessa (e quella cattolica lo è più di quanto sembri) bisogna privilegiare una linea interpretativa che parta non dall’alto dei principi ideologici o di alleanze politiche, ma dal basso, cioè dalla fenomenologia quotidiana del popolo cattolico.
È qui, in questa fenomenologia quotidiana, che sta maturando un’evoluzione profonda e importante anche se ancora senza esiti di incisività sociopolitica.
È una maturazione che parte dalla tradizionale ma non scontata consistenza quantitativa del popolo cattolico, dalla sua diffusione capillare sul territorio, dal suo costante vivere in orizzontale senza coazioni di verticismo mediatico.
Chi lo frequenta e lo «conta» verifica ogni domenica che i partecipanti alle funzioni di quattro-cinque parrocchie dell’Umbria (regione non solo piccolissima, ma da sempre segnata da forte tradizione comunista e massonica) equivalgono ai numeri dei rumorosi cortei che in varie occasioni attraversano Roma; e coloro che in quelle funzioni «fanno la comunione» sono più numerosi dei partecipanti ai vari reclamizzati raduni che ogni tanto occupano le piazze romane.
Facendo la somma delle 25.000 parrocchie italiane, si riscontra una totale copertura del territorio e delle sue dinamiche; non c’è gara rispetto alle ambizioni di metter su circoli e squadre da parte di chi sente di non avere un suo quotidiano radicamento nel reale quotidiano.
Ma l’importanza sempre più centrale del popolo cattolico la si riscontra specialmente sul piano qualitativo, quasi socio-antropologico: per la sua eredità e testimonianza di fede, visto che «credere» in qualcosa è oggi cosa rara e forse essenziale; per la sua quotidiana capacità di vivere non facendosi prendere dalla bulimia di quell’edonismo banale e facile (per cui delle cose si gode anche senza averne avuto il desiderio); per la sua quotidiana capacità di vivere il territorio (la terra, l’ambiente, il paesaggio) come un valore aggiunto, rispetto alla pura localizzazione del vivere; per la sua quotidiana capacità di produrre significative relazioni interpersonali e una tendenziale vita comunitaria; per la sua quotidiana capacità di fare integrazione e coesione sociale (con gli anziani non meno che con i lavoratori stranieri, con gli emarginati non meno che con i depressi più o meno soli); per la sua capacità di fare cittadinanza attiva (nel volontariato, come nelle iniziative culturali, come nell’associazionismo di vario tipo).
Si tratta, in ultima analisi e interpretazione, della emergente capacità del popolo cattolico di essere post moderno, cioè post industriale, post urbano, post mediatico, anche post secolarizzato; peraltro senza cadere in tentazione di una regressione verso nostalgie del passato, modelli identitari consolidati, antiche prigionie archetipiche.
È quindi verosimile che si sia di fronte a una importanza del popolo cattolico più interessante di quanto pensano coloro che con esso vogliono far politica.
Ma perché tale sommersa importanza non riesce a esprimersi nella dialettica socio-politica? La risposta più immediata potrebbero essere quella che si tratta di un obiettivo che la maggior parte dei cattolici italiani non ritiene più meritevole d’impegno; ma sarebbe una risposta parziale.
La verità è che mancano al popolo cattolico i livelli intermedi prima di condensazione della propria forza poi di finalizzazione allo sviluppo collettivo del Paese.
Non è che manchino in proposito  movimenti, associazioni, gruppi di aggregazione intermedia; ma si tratta di strutture dove il fondo identitario è più religioso e spirituale che d’impegno civile; e dove quindi si formano carismi «caldi» ma non spendibili sul piano sociopolitico.
E anche sul piano più tradizionalmente ecclesiastico non è che manchino diocesi capaci di guidare il cammino dei propri fedeli, ma in genere i loro vescovi restano incapaci (per propria carenza personale e/o perché abituati a «far fare» ai superiori gerarchici) di elaborare il collegamento delle dinamiche del loro popolo con le grandi tematiche del momento sociopolitico.
Non essendoci dunque un tessuto e una dinamica di tipo intermedio, si capisce come su tali tematiche gli orientamenti della base cattolica non arrivino affatto; o arrivino distorti dalle convinzioni di chi presume di parlare in suo nome; o arrivino sì corrette, ma quasi casuali e quindi senza adeguato seguito (si pensi all’ultima presa di posizione del Papa sul problema dell’immigrazione).
Chi voglia allora far partecipe il popolo cattolico dello sviluppo complessivo della nostra società deve lavorare sulla crescita del suo tessuto intermedio e delle sue dinamiche intermedie; vale per le gerarchie ecclesiastiche e per l’associazionismo ecclesiale, ma vale anche per chi vuole chiamarlo a responsabilità collettive, magari anche politiche.
Altrimenti rischiamo le chiacchiere inutili e confuse che oggi occupano titoli, articoli, dichiarazioni, annunci, siti e circuiti mediatici, verso cui il popolo cattolico si dimostra progressivamente indifferente.
in “Corriere della Sera” del 31 agosto 2010

Custodire il creato, per coltivare la pace

« Ogni volta che la comunità umana crea armonia, costruisce la pace e la salvaguarda.
Anzi rende più vero il creato».
Dal suo eremo di Mosciano, poco fuori Firenze, don Paolo Giannoni legge così la Giornata per la salvaguardia del creato promossa dalla Cei che la Chiesa italiana celebra oggi.
Il tema di quest’anno, Custodire il creato, per coltivare la pace , riprende il messaggio di Benedetto XVI per la Giornata mondiale della pace 2010.
Un tema che – secondo l’oblato camaldolese, teologo e docente per quaranta anni allo Studio teologico fiorentino – rimanda alla pace-shalom che «nella Bibbia non è assenza di violenza o di turbamenti, ma pienezza di vita.
Appare dunque chiaro che ogni volta che si costruisce la vita, la si risana».
La Giornata di oggi richiama alla teologia della creazione, inizio e fondamento di tutte le opere di Dio.
La creazione più che inizio è principio.
Infatti san Tommaso ricorda che Dio ha creato non le creature, ma la creazione.
Per questo la fede nella creazione non è un discorso sulle origini ma sul progetto intero che Dio ha voluto per una pienezza.
E il tema della pienezza porta in sé il desiderio: tutte le cose desiderano Dio.
Come l’uomo può farsi interprete del gemito della creazione? Prima di tutto vivendo il proprio infinito.
Nessuno potrà mai dire «ho amato abbastanza» e «sono stato amato abbastanza »; ci sarà sempre ancora da amare e da essere amati.
E lo stesso va detto della verità e della bellezza.
Invece dell’«ingiuria delle grandi verità» occorre vivere queste grandi verità facendole.
Ogni lavoro, anche quello casalingo, realizza la verità delle cose: quando un buon piatto rende più bella la creazione! E un computer è un capolavoro di perfezione sempre più perfezionata.
Inoltre una risposta grande e necessaria per interpretare il gemito della creazione è l’educazione.
E la liturgia? È una meravigliosa maniera di portare a compimento la creazione: nell’Eucaristia la materia diventa Cristo, nel Battesimo l’acqua dona la vita per la potenza dello Spirito.
Però l’armonia fra creato ed essere umano è stata infranta dal peccato.
Il peccato ci rimanda alla sua radice che non è la malizia del cuore (le mani di Dio non fanno mai una malizia e il cuore umano viene da lui), ma la limitatezza dell’essere.
Elredo di Rievaulx fa eco a Gesù dicendo che più che peccatori siamo dei grandi ignoranti.
Ogni peccato è un atto di idolatria perché, vedendo la bellezza di una creatura, ci si ferma a essa e non la si vede come segno e rimando alla bellezza piena che è Dio.
Così si falsifica l’universo e noi stessi.
Quindi la Giornata di oggi può essere letta anche come un invito alla purificazione? Certo.
L’ascesi non è una mortificazione, ma l’esercizio con il quale nella fede si fa armonia in noi, con gli altri, nel mondo.
L’armonia ci fa «ritornare» (è il verbo usato dai profeti) alla verità.
L’armonia è il metodo del «cambiamento dell’anima».
Si ritorna al Padre che ha ancora una veste, un anello e nuovi calzari.
Siamo riportati alla bellezza e alla verità.
E insieme abbiamo da essere fratelli e sorelle che cooperano all’armonia della vita e del creato dando loro veste, anello, calzari.
Anche così siamo figli del Padre.
Questo corrisponde al fatto che «Dio vide che era cosa buona ».
Come coltivare una spiritualità della salvaguardia del creato? La spiritualità (non una vita interiore, ma la vita che ci dà lo Spirito Santo) già in se stessa è salvaguardia del creato.
Uno spiritualismo falso dimentica la forma di incarnazione che è tutta la vita.
La falsificazione del Vangelo a codice di morale e la riduzione della Chiesa ad agenzia di morale (mentre è la comunità che rende attuale il mistero, l’evento di salvezza) impedisce di capire questa verità.
È essenziale giungere a una contemplazione che colga la bellezza delle cose, come frammenti che rifrangono l’immensa bellezza di Dio.
Quali vie seguire? Serve una cura che amplifica la perfezione delle creature e un grande rispetto, perché le riconosce come consorti dello stesso disegno di pienezza che coinvolge la nostra umanità.
Per questo l’ascesi è all’opposto dello scialo, del consumo, dell’offesa, della noncuranza.
L’ultima pennellata con la quale Dio termina il proprio autoritratto, ossia la Bibbia, è «rasciugare le lacrime».
Ogni volta che si rasciuga una lacrima o si costruisce una gioia che blocca la strada del pianto, possiamo cogliere quella luce che viene nell’impegno di salvaguardia che fa crescere la vita.
 intervista a Paolo Giannoni a cura di Giacomo Gambassi in “Avvenire” del 1 settembre 2010

Togliti i sandali dai piedi

Mi succede di chiedermi che cosa sia questa emozione, che mi prende pure il corpo, fino a sentirla spingere negli occhi, ogni volta che due creature, dentro una chiesa o dentro un comune, osano dire, sposandosi, parole tanto assolute e tanto tenere a un tempo.
Mi è accaduto ancora una volta giorni fa dentro il silenzio stupito di una chiesa romanica a cui ti affacci, per scalata di fede, al colmo del biancore di una lunga scalinata.
Mi risposi che a commuovermi è il legame di assolutezza e di tenerezza che abitano queste parole.
Non mi prendono il cuore minimamente le parole assolute se sono intrise di gelo, il gelo del dogmatismo.
Ma queste altre parole che dicono amore incondizionato, che sfidano il futuro senza essere sfrontate, consapevoli di una fragilità, nel dono di una tenerezza infinita, queste sì, mi prendono il cuore.
Forse, ti dirò, è anche stupore, perché le sento pronunciare dentro una stagione, dove nell’aria, tra le mille paure, respiri anche questa paura, strana paura, la paura di amare.
Dentro una stagione come la nostra, in cui si vuole salva e custodita, se possibile, una via di fuga alle spalle.
E non me la sto prendendo, come spesso avviene, con il fenomeno delle convivenze, fenomeno in grande inarrestabile espansione.
Non è detto che abiti lì o sempre lì la paura di amare.
Paura del silenzio Ricordo che anni fa mi capitò di leggere un articolo di Xavier Lacroix, teologo francese, padre di famiglia, direttore dell’Istituto di Scienze della Famiglia a Lione, che invitava a guardare più da vicino il fenomeno: “La situazione non è più quella di trenta anni fa, quando scegliere la convivenza equivaleva a contestare il matrimonio.
Oggi, per esempio, la maggior parte vive un certo senso della fedeltà, e la coabitazione non ha il significato dell’amore libero: ci si augura durata, più dell’80% delle coppie spera di ‘tenere’, si concepiscono bambini e i genitori li riconoscono.
Inoltre, senza saperlo, molti fanno il percorso di storici e etnologi, recuperando e riscoprendo forme antiche di matrimonio in uso prima del XII secolo, prima che la Chiesa istituzionalizzasse il rito con lo scambio di consensi.
(…) Non è che chi non si sposa non si impegna: la promessa può benissimo essere scambiata nell’intimo della coppia ed è questo l’essenziale.
Ma talvolta l’essenziale non basta”.
Il luogo della paura di amare, così mi sembra di capire, non è necessariamente una situazione sociale, è una stanza più interiore, è il cuore di ognuno di noi.
Spesso la paura di amare è paura di uscire da se stessi dove sai, o ti illudi di sapere, paura di abbandonarsi all’altro, paura di rischiare l’avventura delle mani di una donna o di un uomo cui ti stai affidando.
Spesso è anche paura di soffrire.
O di essere ferito.
Una paura che non trattenne il Signore Gesù.
Non lotrattenne dal consegnarsi.
Lui ben consapevole di che cosa può accadere quando sei nelle mani degli uomini.
E furono mani di croce.
Purtroppo della logica del cautelarsi e del non rischiare, della paura di amare con vera e non pallida passione, abbiamo dato ampia dimostrazione lungo i secoli.
Nel suo libro “Equivoci, mondo moderno e Cristo”, padre Bevilacqua ricordava le parole, senza misericordia né reticenze, di alcuni testimoni del nostro tempo, parole che andavano a fotografare volti di credenti.
Secondo Mounier “esseri che pesano e misurano il gesto al millimetro, eroi linfatici, vasi di noia, sacri sillogismi, ombre di ombre”.
Trent’ anni prima Péguy ne aveva smontato il meccanismo psicologico dicendo: “Perché non hanno forza per essere della natura, credono di appartenere alla grazia.
Perché non hanno il coraggio temporale credono di essere penetrati dall’eterno, Perché non possono appartenere al mondo che rifiutano, credono di appartenere a Dio”.
Parole non prive di durezza, in cui senti la delusione per un amore che si dichiara tale ma, per paura di sofferenze o di falsi moralismi, tiene, ad ogni buon conto, una buona riserva di distanza.
Paura di essere invasi A volte è anche, e lo dobbiamo ammettere, paura di essere invasi.
Le storie di amori che furono invasioni non vanno certo a rassicurare il cuore.
Non sarà, mi chiedo, che il segreto per togliere dal cuore dell’altro la paura di amare non stia anche nel vivere amori che non siano per nulla nel segno dell’invasione dell’altro, nel segno dell’occupazione dell’altro, nel segno della riduzione dell’altro a oggetto? Mi ritornano al cuore le parole di un amico, Erri De Luca: un giorno lui si trovò fra le mani il libro della Bibbia e tale fu il fascino che dovette per passione andare al sapore delle parole così come suonavano nell’antico testo e da allora, al chiarore delle luci del mattino, interroga con gli occhi e le dita le grafie sacre.
In un suo testo che mi fecero conoscere anni fa due amici, Federica e Tomaso, mi capitò di leggere una poesia, non più dimenticata, che mi piace qui trascrivere, parola per parola, quasi toccandole: Ho visto l’amore delle frecce, “io amo te”: arco teso contro un bersaglio, dove io è il soggetto e te un complemento, oggetto di una mira, un caso accusativo.
Ho letto in una lingua antica: E amerai “al” tuo compagno come te stesso, (veaavtà lereacà camòca).
Un errore in grammatica, non un errore in cuore.
Porta amore a qualcuno porgi il te stesso ma fino alla soglia.
Fa’ che si chini per alzarlo a sé, mai che debba staccarselo di dosso.
Fa’ che non sia proiettile contro sagoma attinta, ma la deposta offerta.
Quando Federica e Tomaso mi lessero la poesia, che poi trovò posto nel libretto del loro matrimonio, a colpirmi fu da principio la stranezza del dativo.
Nella traduzioni che per lo più abbiamo fra le mani, è scritto: ‘Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19 ,1 8).
E la traduzione grammaticalmente funziona.
Nel testo originale, annota Erri De Luca, sta scritto: `Amerai al tuo compagno come te stesso”.
“Al tuo compagno”, al dativo.
“Un errore in grammatica” ma, aggiunge Erri De Luca, “non un errore in cuore”.
Ti dirò che l’allusione di Erri De Luca a un possibile “errore in cuore” ebbe l’effetto di mettermi in allarme, perché se già è doloroso per tutti noi riconoscere di avere errato in qualcosa, dolore dei dolori, dispiacere dei dispiaceri, peso da sfondarti l’anima sarebbe riconoscere di aver errato in cuore, di aver sbagliato in amore.
Ma nella poesia di Erri De Luca a colpirmi non fu solo la sorpresa di quell’inatteso dativo, fu anche la suggestione di una parola che mi è molto cara, la parola “soglia”: “Porta amore a qualcuno/ porgi il te stesso/ ma fino alla soglia./ Fa’ che si chini per alzarlo a sé,/ mai che debba staccarselo di dosso”.
In amore, perché non si generi paura, dovremmo, penso, consumare di venerazione la soglia, guardandoci da parole e gesti che suonino anche lontanamente come invasioni di una intimità, del territorio che sta oltre: al di là la terra è sacra.
Al cuore mi ritorna l’affascinante pagina del roveto dell’Oreb: ardeva per fuoco, ma non si consumava.
Gli occhi di Mosè erano un’interrogazione, mosse alcuni passi a carpire il segreto.
Ma dal roveto un grido: “Non avvicinarti oltre, togliti i sandali dai piedi perché il luogo sul quale stai è suolo santo” (Es 3, 5).
Il grido anche oggi chiede riconoscimento, riconoscimento del mistero dell’altro.
Riconoscimento che ti fa indugiare alla soglia.
Togliti i calzari, riconosci la tua fragilità, levati le tue precomprensioni, sta nudo.
Né Dio né l’altro sono terra di occupazione, terra da invadere, o terra che ti meriti.
Riconosci la distanza.
Anche nell’amore più forte e appassionato, riconosci la distanza.
Togliti i sandali dai piedi.
in “Mosaico di pace” n° 7 del luglio 2010

Dio esiste.

ANTHONY FLEW- A.
ROY VARGHESE, Dio esiste.
Come l’ateo più famoso del mondo ha cambiato idea, Alfa&Omega, 2010,  ISBN: 8888747915, pp.
206, euro 17,90.
«Credo che l’universo sia stato creato da un’Intelligenza infinita e che le sue intricate leggi manifestino ciò che gli scienziati hanno chiamato la Mente di Dio.
Ritengo che la vita e la riproduzione abbiano origine da una Fonte divina».
Sembrerebbe la solita affermazione teistica di un onesto pensatore in ricerca religiosa il quale, osservando il cosmo, ne deduce la provenienza da un Dio creatore.
Ma se tale frase è uscita dalla penna di quello che per decenni è stato uno degli atei più celebri del pianeta, beh, allora, la faccenda si fa interessante.
È lo stesso Anthony Flew, filosofo inglese nato nel 1923 e morto lo scorso 8 aprile, docente in diverse università (Oxford, Aberdeen, Toronto), ad aver messo nero su bianco che “Dio esiste.
Come l’ateo più famoso del mondo ha cambiato idea” (Alfa&Omega, pp.
206, euro 17,90).
Libro che, richiamando il celebre “Storia di un’anima” di Teresa di Lisieux, potremmo definire «Storia di un cervello che passò dalla negazione granitica di Dio all’adesione “scientifica” ad un Essere superiore».
Volume, quello di Flew, che nella sua versione originale (2007) aveva suscitato un vespaio di polemiche.
Compresa la reprimenda del biologo ateo Richard Dawkins, che nel suo “L’illusione di Dio” aveva attribuito a una decadenza senile la conversione di Flew.
Proprio da tale accusa parte il testo dell’ex anti-Dio, quando afferma che «questi critici giunsero alla conclusione che le previsioni di un imminente ingresso nell’aldilà avessero scatenato una conversione sul letto di morte».
Tutt’altro, replica Flew, e l’andamento del racconto – scritto insieme al filosofo cattolico Roy A.
Varghese – ne è la controprova.
Quasi memore del procedimento filosofico classico, Flew procede prima in chiave destruens e quindi costruens rispetto all’ipotesi che Dio esista.
Si scopre così che l’ateo di Oxford fece la sua prima, pubblica professione di ateismo davanti ad un gigante del pensiero cristiano novecentesco, lo scrittore (e apologeta convertito) Clive S.
Lewis, il narratore delle celebri “Cronache di Narnia”.
Infatti nell’estate del 1951 Flew espresse i suoi principi che avrebbero poi costituito il nucleo del primo dei suoi tre libri fondamentali – 35 le opere da lui vergate – sulla sua mancanza di religiosità, “Theology and Falsification” (poi ripubblicato in “Nuovi saggi di teologia filosofica”, curato da Alasdair MacIntyre), nel contesto del Socratic Club di Oxford, uno spazio di discussione tra atei e cristiani il cui presidente, dal 1942 al ’54, fu appunto Lewis.
Flew quindi fece tesoro del pensiero del filosofo analitico Ludwig Wittgenstein.
E ne interpretò il pensiero in chiave anti-religiosa: «Sfidavo i credenti religiosi a spiegare come dovessero essere comprese le loro assunzioni», ovvero ad affermare la «logica» del dichiarare vera l’esistenza di Dio.
Nel suo iter intellettuale – durante il quale incrociò le lame anche con il pensatore neotomista Ralph McInerny, di recente defunto – Flew produsse altre due opere fondamentali, “God and Philosophy” e “The Presumption of Atheism”, nel quale, rifacendosi a David Hume, sosteneva che «le tesi cosmologiche e morali a favore dell’esistenza di Dio non fossero valide.
[…] Sostenevo che una discussione sull’esistenza di Dio dovesse iniziare col supporre l’ateismo e che l’onore della prova dovesse spettare ai teisti».
Dopo una vita di studi in cui si è anche occupato di scienze sociali, avendo abiurato il marxismo giovanile già all’epoca del patto Ribentropp-Molotov del ’39, ebbene 6 anni fa Flew – l’immagine è sua – cambiò casacca e passò nella squadra dei teisti.
Per l’occasione scelse una platea importante, un convegno a New York: «Annunciai che accettavo l’esistenza di un Dio».
E la motivazione era opposta e speculare alla negazione di un tempo: «Perché credo così, pur avendo esposto e difeso l’ateismo per più di mezzo secolo? È per il quadro del mondo, come lo vedo io, che è emerso dalla scienza moderna».
In particolare, a convincere l’anziano pensatore di Oxford, è lo studio del Dna: «Credo che il materiale del Dna abbia dimostrato, con la complessità quasi incredibile delle disposizioni di cui si necessita per generare la vita, che l’Intelligenza debba essere stata così coinvolta nel far sì che questi elementi diversi operassero insieme».
Flew riconosce di essere sulla scia di altri che, come lui, hanno trovato nella ricerca scientifica una chiave per dimostrare che affidarsi a Dio non è una pia illusione.
L’ex ateo cita, in primis, Charles Darwin, padre della teoria dell’evoluzione, di cui riprende questo passaggio: «La ragione mi parla dell’impossibilità quasi di concepire l’universo e l’uomo come il risultato di un mero caso o di una cieca necessità.
Questo pensiero mi costringe a ricorrere a una Causa Prima dotata di un’intelligenza».
Tra gli altri, Flew cita John Polkinghorne, pastore anglicano e grande filosofo della scienza di Cambridge, e Francis Collins, colui che ha portato a termine la mappatura del genoma umano e autore del fortunato “Il linguaggio di Dio” (Longanesi).
In fin dei conti il percorso di Flew, retrospettivamente, è coerente con quel principio socratico di cui si era abbeverato durante gli studi oxfordiani: «Seguire il ragionamento fin dove porta».
Flew chiude così la sua confessione: «Alcuni sostengono di aver stabilito un contatto con questa Mente.
Io no.
Ma chi lo sa cosa potrebbe accadere in seguito? Un giorno potrei sentire una Voce che dice: Puoi sentirmi adesso?».
Lorenzo Fazzini Avvenire 27 agosto 2010

Educazione e catechesi: binomio inscindibile.

L’educazione è parte integrante della missione della Chiesa.
È con questa convinzione che si sono conclusi, giovedì 17 a Bologna, i lavori del 44° congresso dei direttori degli uffici catechistici diocesani promosso dalla Conferenza episcopale italiana (Cei).
Nella sua relazione di sintesi il direttore dell’Ufficio catechistico nazionale, don Guido Benzi, ha evocato un’immagine che ben riassume i lavori e le prospettive future scaturite dal convegno:  la Chiesa come Mysterium Lunae.
Dopo aver richiamato il suo simbolismo, commentando un passo dell’Exaemeron di sant’Ambrogio, Benzi ha sottolineato i due aspetti che più legano la Chiesa alla sua attività di maestra e madre della fede:  “La Chiesa, come la “Luna crescente” nel rinnovarsi della sua presenza, è soggetta, in forza della Grazia dello Spirito, a una vita sempre nuova, a un rigenerarsi, generando alla luce e alla vita del Cristo i cristiani.
E, infine, la Chiesa, come l'”astro rifulgente”, irraggia nel plenilunio pasquale, la luce del Cristo, e annuncia la verità del Vangelo della morte e risurrezione del Figlio di Dio”.
La Chiesa, oggi come ieri, riceve da Cristo – “colui che dà origine alla fede e la porta a compimento” (Ebrei, 12, 2) – tutto ciò che le serve per poter, a sua volta, accompagnare altri nella crescita dell’esperienza di vita cristiana.
La sottolineatura che è stata data nei quattro giorni di convegno, in linea con le indicazioni progettuali della Cei, è stata quella relativa al tema dell’educazione.
Per questo motivo, il convegno si è dato dei momenti di ascolto delle molteplici declinazioni del tema educativo.
La prima è quella pedagogica, tema affrontato da Maria Teresa Moscato dell’Università di Bologna.
Dal suo versante, la Moscato ha ribadito l’importanza del legame intrinseco che esiste tra esperienza religiosa ed educazione, al punto che l’elisione della prima cancella anche la seconda:  “E c’è ancora un elemento essenziale che confluisce nella sparizione dell’idea di educazione, ed è la progressiva riduzione dell’esperienza – e della pratica – religiosa nelle generazioni adulte:  non sto dicendo che dal momento che è sparita l’idea di educazione non educhiamo più alla religiosità.
Sto dicendo che, al contrario, nella misura in cui non siamo più religiosi non riusciamo a percepire la necessità dell’educazione e la responsabilità comune verso di essa”.
Così come la fede è una salvaguardia per la retta ragione, altrettanto l’esperienza religiosa è custode dell’importanza dell’educazione complessiva delle nuove generazioni.
È questo una sorta di leit motiv che è risuonato anche in altre relazioni come, per esempio, nella sottolineatura posta da Paola Bignardi, membro del Comitato per il progetto culturale della Cei, sul ruolo e l’importanza della comunità ecclesiale come comunità educante, così come è stata pensata dal documento base Il rinnovamento della catechesi fino a oggi.
Da queste indicazioni, ha ricordato la Bignardi, deve scaturire un percorso di verifica e ripensamento:  “Oggetto della verifica cui le nostre comunità sono chiamate è il volto attraente che esse sanno mostrare, facendo percepire il valore dell’invito di Papa Benedetto a Verona:  far “emergere soprattutto quel grande “sì’ che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza””.
Particolarmente significativa è stata, infine, la tavola rotonda, condotta da don Carmelo Sciuto, dell’ufficio catechistico nazionale, che ha posto a tema la questione decisiva delle alleanze educative.
Originale ed efficace è stata la modalità scelta che ha visto, mediante l’utilizzo di video e interviste precedentemente preparate, il coinvolgimento dei diversi protagonisti dell’attività educativa ecclesiale, a cominciare dai direttori degli uffici competenti della Cei ma coinvolgendo anche le famiglie, i catecumeni, i parroci, i catechisti, gli insegnanti di religione, i capi scout, gli educatori dei ragazzi di Azione cattolica provenienti da varie realtà italiane.
Oltre all’importanza dei temi trattati, ciò che è emerso è la vera forza di cui dispone la compagine ecclesiale nel raccogliere le impegnative sfide dell’emergenza educativa.
(©L’Osservatore Romano – 20 giugno 2010)

Comunione e connessione

 Essere “in rete” è un modo di abitare il mondo e di organizzarlo.
La sfida della Chiesa non deve essere quella di come “usare” bene la rete, come spesso si crede, ma come “vivere” bene al tempo della rete.
Internet è una realtà destinata a essere sempre più trasparente e integrata rispetto alla vita, diciamo così, “reale”.
Questa è la vera sfida:  imparare a essere wired, connessi, in maniera fluida, naturale, etica e perfino spirituale; a vivere la rete come uno degli ambienti di vita.
È evidente, dunque, come la rete con tutte le sue “innovazioni dalle radici antiche” ponga alla Chiesa una serie di questioni rilevanti di ordine educativo e pastorale.
Tuttavia vi sono alcuni punti critici che riguardano la stessa comprensione della fede e della Chiesa.
La logica del web ha un impatto sulla logica teologica? Certamente internet comincia a porre delle sfide alla comprensione stessa del cristianesimo.
Quali sono i punti di maggiore contatto dialettico tra la fede e la rete? Proverò quindi a individuare questi punti critici per avviare una loro discussione alla luce anche di palesi connaturalità come anche di evidenti incompatibilità.
La “navigazione”, in generale, è oggi una via ordinaria per la conoscenza.
Capita sempre più spesso che, quando si necessita di una informazione, si interroghi la rete per avere la risposta da motori di ricerca quali “Google”, “Bing” o altri ancora.
Internet sembra essere il luogo delle risposte.
Esse però raramente sono univoche:  la risposta è un insieme di link che rinviano a testi, immagini e video.
Ogni ricerca può implicare un’esplorazione di territori differenti e complessi dando persino l’impressione di una certa esaustività.
Digitando in un motore di ricerca la parola God oppure anche religion, spirituality, otteniamo liste di centinaia di milioni di pagine.
Nella rete si avverte una crescita di bisogni religiosi che la “tradizione” religiosa soddisfa a fatica.
L’uomo alla ricerca di Dio oggi avvia una navigazione.
Quali sono le conseguenze? Si può cadere nell’illusione che il sacro e il religioso siano a portata di mouse.
La rete, proprio grazie al fatto che è in grado di contenere tutto, può essere facilmente paragonata a una sorta di grande supermarket del religioso.
Ci si illude dunque che il sacro resti “a disposizione” di un “consumatore” nel momento del bisogno.
In questo contesto occorre però considerare qualcosa di estremamente interessante:  il possibile cambiamento radicale nella percezione della domanda religiosa.
Una volta l’uomo era saldamente attratto dal religioso come da una fonte di senso fondamentale.
L’uomo era una bussola, e la bussola implica un riferimento unico e preciso:  il Nord.
Poi l’uomo ha sostituito nella propria esistenza la bussola con il radar che implica un’apertura indiscriminata anche al più blando segnale e questo, a volte, non senza la percezione di “girare a vuoto”.
L’uomo però era inteso comunque come un “uditore della parola”, alla ricerca di un messaggio del quale sentiva il bisogno profondo.
Oggi queste immagini, sebbene sempre vive e vere, “reggono” meno.
L’uomo da bussola prima e radar poi, si sta trasformando in un decoder, cioè in un sistema di decodificazione delle domande sulla base delle molteplici risposte che lo raggiungono.
Viviamo bombardati dai messaggi, subiamo una sovrainformazione, la cosiddetta information overload.
Si può evitare, certo, ma occorre ormai molta “buona educazione”, capacità di selezione che non è per nulla scontata.
Il problema oggi non è più quello di reperire il messaggio di senso ma di decodificarlo, di riconoscerlo sulla base delle molteplici risposte che si ricevono.
La grande parola da riscoprire, allora, è una vecchia conoscenza del vocabolario cristiano:  il “discernimento”.
Le domande radicali non mancheranno mai, ma oggi sono mediate dalle risposte che si ricevono e che richiedono il filtro del riconoscimento.
La risposta è il luogo di emersione della domanda.
Tocca all’uomo d’oggi, dunque, e soprattutto al formatore, all’educatore, dedurre e riconoscere le domande religiose vere a partire dalle molte risposte che lui si vede offrire continuamente.
È un lavoro complesso, che richiede una grande preparazione e una grande sensibilità spirituale.
È dunque necessario oggi educare le persone al fatto che ci sono realtà e domande che sfuggono sempre e comunque alla logica del “motore di ricerca”, e che la “googlizzazione” della fede è impossibile perché falsa.
È certamente da privilegiare invece la logica propria dei motori semantici verso i quali ci stiamo muovendo e che aiutano l’uomo a porre domande.
È il caso di Wolfram|Alpha, un “motore computazionale di conoscenza”, cioè un motore che interpreta le parole della domanda, e propone direttamente una sola risposta.
Visto che, al momento, l’unica lingua che comprende è l’inglese, è interessante notare che la risposta alla domanda Does God exist? (Dio esiste?) sia:  “Mi dispiace, ma un povero motore computazionale di conoscenza, non importa quanto potente possa essere, non è in grado di fornire una risposta semplice a questa domanda”.
Lì dove “Google” va a colpo sicuro fornendo centinaia di migliaia di risposte indirette, Wolfram|Alpha fa un passo indietro.
Ovviamente la sua è una risposta scritta da una persona, che avrebbe potuto scrivere anche semplicemente “sì” o “no”.
Qual è il migliore, dunque? Difficile da dire.
Forse una via di mezzo.
La differenza chiara però è che un motore “sintattico”, quale è “Google”, analizza le parole al di fuori del contesto nel quale vengono utilizzate.
La ricerca semantica tenta invece di interpretare il significato logico delle frasi, analizzando il contesto.
Il modo in cui si pone la domanda può influenzare l’efficacia della risposta, e dunque essa deve essere ben posta.
La ricerca di Dio è sempre semantica e il suo significato nasce e dipende sempre da un contesto.
Cominciamo a comprendere come la rete “sfidi” la fede nella sua comprensione grazie a una “logica” che sempre di più segna il modo di pensare degli uomini.
Esploriamo alcuni territori facendo alcuni esempi.
Il primo potrebbe essere quello dell’Ecclesiologia, visto che la rete crea communities.
Non è possibile immaginare una vita ecclesiale essenzialmente di rete:  una “Chiesa di rete” in sé e per sé è una comunità priva di qualunque riferimento territoriale e di concreto riferimento reale di vita.
L'”appartenenza” ecclesiale rischierebbe di essere considerata il frutto di un “consenso”, e dunque “prodotto” della comunicazione.
In questo contesto i passi dell’iniziazione cristiana rischiano di risolversi in una sorta di “procedura di accesso” (login) all’informazione, forse anche sulla base di un “contratto”, che permette anche una rapida disconnessione (logoff).
Il primo ordine di interrogativi nasce dal fatto che internet permette il collegamento diretto col centro delle informazioni, saltando ogni forma di mediazione visibile.
Qualcuno, per fare un esempio concreto, potrebbe chiedersi:  perché devo leggere la lettera del parroco se posso realizzare la mia formazione attingendo materiali direttamente dal sito della Santa Sede? Molti, del resto già, grazie alla televisione, ben conoscono il volto del Santo Padre, ma non riconoscerebbero il vescovo della propria diocesi.
Ma esiste una problematica più profonda di questa, legata al riconoscimento dell’autorità “gerarchica”.
La rete, di sua natura, è fondata sui link, cioè sui collegamenti reticolari, orizzontali, L’unica gerarchia è data dalla popolarità del page rank.
La Chiesa vive di un’altra logica, differente da questa, e cioè quella di un messaggio donato, cioè ricevuto, che “buca” la dimensione orizzontale.
Non solo:  una volta bucata la dimensione orizzontale, essa vive di testimonianza autorevole, di tradizione, di Magistero:  sono tutte parole queste che sembrano fare a pugni con una logica di rete.
In fondo potremmo dire che sembra prevalere nel web la logica dell’algoritmo page rank di “Google”.
Sebbene in fase di superamento, esso ancora oggi determina per molti l’accesso alla conoscenza.
Esso si fonda sulla popolarità:  in “Google” è più accessibile ciò che è maggiormente linkato, quindi le pagine web sulle quali c’è più accordo.
Il suo fondamento è nel fatto che le conoscenze sono, dunque, modi concordati di vedere le cose.
Questa a molti sembra la logica migliore per affrontare la complessità.
Ma la Chiesa non può sposare questa logica, che nei suoi ultimi risultati, è esposta al dominio di chi sa manipolare l’opinione pubblica.
L’autorità non è sparita in rete, e anzi rischia di essere ancora più occulta.
E infatti la ricerca oggi si sta muovendo nella direzione di trovare altre metriche per i motori di ricerca, che siano più di “qualità” che di “popolarità”.
Ma il terzo e più decisivo e generale momento critico di questa orizzontalità è l’abitudine a fare a meno di una trascendenza.
Il punto di riferimento delle dinamiche simboliche dello spazio digitale non è più un’alterità trascendente, ma sono io.
Io sono al centro del mio mondo virtuale che diventa l’unico spazio di realtà, pur non essendo in grado di soddisfare la mia ricerca di verità.
Tuttavia, nonostante i tre ordini di problemi qui illustrati, esiste anche un aspetto importante sul quale riflettere, e che appare oggi di grande importanza:  la società digitale non è pensabile e comprensibile solamente attraverso i contenuti trasmessi, ma soprattutto attraverso le relazioni:  lo scambio dei contenuti avviene all’interno delle relazioni.
È necessario dunque non confondere “nuova complessità” con “disordine”, e “aggregazione spontanea” con “anarchia”.
La Chiesa è chiamata ad approfondire maggiormente l’esercizio dell’autorità in un contesto fondamentalmente reticolare e dunque orizzontale.
Appare chiaro che la carta da giocare è la testimonianza autorevole.
Oggi l’uomo della rete si fida delle opinioni in forma di testimonianza.
Facciamo un esempio:  se oggi voglio comprare un libro o farmi un’opinione sulla sua validità vado su un social network come aNobii o visito una libreria on line come Amazon o Internetbookshop e leggo le opinioni di altri lettori.
Questi pareri hanno più il taglio delle testimonianze che delle classiche recensioni:  spesso fanno appello al personale processo di lettura e alle reazioni che ha suscitate.
E lo stesso accade se voglio comprare una applicazione o un brano musicale su iTunes.
Esistono anche testimonianze sulla affidabilità delle persone nel caso in cui esse sono venditrici di oggetti su eBay.
Ma gli esempi si possono moltiplicare:  si tratta sempre e comunque di quegli user generated content che hanno fatto la “fortuna” e il significato dei social network.
La “testimonianza” è da considerare dunque, all’interno della logica delle reti partecipative, un “contenuto generato dall’utente”.
La Chiesa in rete è chiamata dunque non solamente a una “emittenza” di contenuti, ma soprattutto a una “testimonianza” in un contesto di relazioni ampie composto da credenti di ogni religione, non credenti e persone di ogni cultura.
È chiamata dunque – scrive Benedetto XVI – a “tener conto anche di quanti non credono, sono sfiduciati ed hanno nel cuore desideri di assoluto e di verità non caduche”.
È su questo terreno che si impone l’autorità della testimonianza.
Non si può più scindere il messaggio dalle relazioni “virtuose” che esso è in grado di creare.
Si comprende bene che uno dei punti critici della nostra riflessione è in realtà il concetto di “dono”, di un fondamento esterno.
La rete per la Chiesa è sempre e comunque “bucata”:  la Rivelazione è un dono indeducibile e l’agire ecclesiale ha in questo dono il suo fondamento e la sua origine.
Ma è il concetto stesso di “dono” che oggi sta mutando.
La rete è il luogo del dono, infatti.
Concetti come file sharing, freeware, open source, creative commons, user generated content, social network hanno tutti al loro interno, anche se in maniera differente, il concetto di “dono”, di abbattimento dell’idea di “profitto”.
(©L’Osservatore Romano – 25 aprile 2010)  Dal 22 al 24 aprile a Roma la Conferenza episcopale italiana ha organizzato un convegno sul tema “Testimoni digitali.
Volti e linguaggi nell’era crossmediale”.
Pubblichiamo uno stralcio dell’intervento di uno dei relatori.
L’avvento di internet è stato, certo, una rivoluzione.
E tuttavia è necessario subito sfatare un mito:  che la rete sia un’assoluta novità del tempo moderno.
Essa è una rivoluzione, certo, ma che potremmo definire “antica”, cioè con salde radici nel passato.
Internet replica antiche forme di trasmissione del sapere e del vivere comune, ostenta nostalgie, dà forma a desideri e valori antichi quanto l’essere umano.
Quando si guarda alla rete occorre non solo vedere le prospettive di futuro che offre, ma anche i desideri e le attese che l’uomo ha sempre avuto e alle quali prova a rispondere, e cioè:  connessione, relazione, comunicazione e conoscenza.
Sappiamo bene come da sempre la Chiesa abbia nell’annuncio di un messaggio e nelle relazioni di comunione due pilastri fondanti del suo essere.
Internet non è, come spesso si legge, un semplice “strumento” di comunicazione che si può usare o meno, ma un “ambiente” culturale, che determina uno stile di pensiero e contribuisce a definire anche un modo nuovo di stringere le relazioni.
E la Chiesa è naturalmente presente lì dove l’uomo sviluppa la sua capacità di conoscenza e di relazione.

Cardinale Angelo Sodano: Con la Chiesa a fianco del Papa

Intervista al cardinale Angelo Sodano, a cura di Giampaolo Mattei “È ormai un contrasto culturale: il Papa incarna verità morali che non sono accettate e così le mancanze e gli errori di sacerdoti sono usate come armi contro la Chiesa”.
Alza la voce il cardinale Angelo Sodano, decano del collegio cardinalizio, che all’inizio della messa del giorno di Pasqua ha espresso a Benedetto XVI l’affetto e la fedeltà di tutti i cattolici.
“Dietro gli ingiusti attacchi al Papa – sottolinea nell’intervista rilasciata al nostro giornale – ci sono visioni della famiglia e della vita contrarie al Vangelo.
Ora contro la Chiesa viene brandita l’accusa della pedofilia.
Prima ci sono state le battaglie del modernismo contro Pio X, poi l’offensiva contro Pio XII per il suo comportamento durante l’ultimo conflitto mondiale e infine quella contro Paolo VI per l’Humanae vitae”.
Il suo intervento, la mattina di Pasqua, si può leggere come una reazione alla campagna diffamatoria contro il Papa, intensificata in questi giorni dalle accuse pretestuose di non aver parlato, durante i riti pasquali, delle vittime degli abusi sessuali? Davanti a questi ingiusti attacchi ci viene detto che sbagliamo strategia, che dovremmo reagire diversamente.
La Chiesa ha il suo stile e non adotta i metodi che oggi sono usati contro il Papa.
L’unica strategia che abbiamo ci viene dal Vangelo.
La comunità cristiana come vive, secondo lei, questa prova? Si sente giustamente ferita quando si tenta di coinvolgerla in blocco nelle vicende tanto gravi quanto dolorose di qualche sacerdote, trasformando colpe e responsabilità individuali in colpa collettiva con una forzatura veramente incomprensibile.
Nel mio intervento non ho fatto altro che dare voce al popolo di Dio: al collegio cardinalizio, anzitutto, che è tutt’uno con il Romano Pontefice; ma anche ai vescovi e a tutti i quattrocentomila sacerdoti.
Sì, ho voluto espressamente parlare dei pastori che spendono la loro vita a servizio di Dio e della Chiesa.
Se qualche ministro è stato infedele non si può e non si deve generalizzare.
Certo, ne soffriamo, e Benedetto XVI ha chiesto scusa più volte.
Ma non è colpa di Cristo se Giuda ha tradito.
Non è colpa di un vescovo se un suo sacerdote si è macchiato di colpe gravi.
E certo non è responsabile il Pontefice.
Tutta la Chiesa è con il Papa: è stato questo il messaggio? Le mie parole erano inserite nella liturgia di Pasqua.
È logico che nelle feste più significative dell’anno una famiglia si stringa intorno al proprio padre.
Ho quindi ritenuto che questa fosse un’occasione adatta per riaffermare i profondi vincoli di unità che stringono tutti i membri della Chiesa intorno a colui che lo Spirito Santo ha posto a guidare la comunità dei credenti.
Da parte mia, come decano del collegio cardinalizio, ho ritenuto doveroso fare quell’intervento.
Come ogni cardinale, ho la missione di stare sempre a fianco del Papa e di servire la Chiesa usque ad effusionem sanguinis.
Sento un dovere di riconoscenza a Benedetto XVI per la dedizione apostolica con cui presta il suo quotidiano servizio alla Chiesa.
Quelle parole sono nate anche da un’esigenza personale, dall’affetto profondo che porto al Vicario di Cristo.
Come ha pensato il suo intervento? Oltre a una testimonianza di vicinanza al Papa, il mio è stato un invito alla serenità.
È l’appello che il Papa stesso, per primo e continuamente, rivolge alla Chiesa e al mondo, sulla scia dei suoi grandi predecessori sulla cattedra di Pietro.
Non meravigliamoci delle persecuzioni perché Gesù già aveva detto ai suoi apostoli che “un servo non è più grande del suo padrone.
Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra”, come si legge nel Vangelo secondo Giovanni.
in “L’Osservatore Romano” del 7 aprile 2010

Competenza e imprenditorialità

Della definizione di competenza viene approfondito l’intervento sulla realtà, cioè il passaggio da una teoria, che sta resistendo alla falsificazione, all’azione umana di modificazione della realtà.
Di questo passaggio vengono esplicitati i punti seguenti: è creativo, imprenditoriale e in miglioramento continuo.
Successivamente vengono svolte alcune riflessioni, coerenti con l’impostazione proposta, relative all’attività didattica e alla definizione dei profili e dei piani di studio personalizzati sia nelle scuole che nelle università e nei corsi di formazione, per concludere con un rilievo sull’ambiente formativo.
I due termini in questione, competenza e imprenditorialità, vanno precisati.
Sulla definizione di competenza e su alcune implicazioni di essa mi sono soffermato varie volte (1) e mi sembra che resti sempre aperta a ulteriori risultati la proposta di svilupparla all’interno di una teoria generale della conoscenza umana limitata, fallibile e sempre perfettibile, lasciandoci alle spalle il paradigma illuminista che va dall’estremo di tralasciare la realtà per la conoscenza (nella visione idealistica) o la conoscenza per la realtà (nella visione marxista): in entrambi questi casi, tuttavia, è la conoscenza della realtà che fa la realtà.
Cogliendo la competenza come un processo — il processo conoscitivo umano integralmente inteso — che parte dalla realtà, nella quale ogni persona umana, che conosce, è immersa, e perviene alla realtà dopo lo sviluppo della dimensione logica-astratta, si può immediatamente comprendere che anche l’intervento sulla realtà è conoscenza e che l’azione umana non è semplicemente intervento sulla realtà esterna all’uomo, ma comprende intuizione di attese e bisogni, poiché avviene all’interno di un vissuto; intuisce problemi, sviluppa teorie, deducendone sempre nuove conseguenze e controllandole e falsificandole; e, infine, ritorna alla realtà con progetti e decisioni motivate per trasformarla in risposta, sempre perfettibile, alle attese e ai bisogni in continua evoluzione.
Per lo scopo che mi prefiggo ora, in questa definizione sono da sottolineare due aspetti: anzitutto […] come capacità di attivazione del processo, la competenza — il processo competente — è unica; possono venire distinte varie competenze in base alla diversità delle metodiche di falsificazione approntate (fisica, storia, sociologia, biologia, geologia, ermeneutica, traduzione, chimica, e così via) e alle prestazioni effettuate.
[…] La differenza tra una prestazione medica e la fabbrica di un’automobile non consiste nel processo competente, che è il medesimo, ma nelle metodiche di controllo e, conseguentemente, nelle prestazioni.
Una prestazione, poi, non può non essere «sociale».
Il controllo del processo competente non può non essere insieme e di base e trasversale.
Per poter pervenire a una comprensione del processo competente è necessario procedere da una teoria dell’azione umana, che, oltre a possedere sempre una dimensione economica, è competente quando comprende una prestazione quale risultato di un processo conoscitivo umano integrale.
(2) In secondo luogo […] il processo conoscitivo umano integrale è un metodo che procede per tentativi ed errori, ed è il medesimo procedimento del circolo ermeneutico, «detto in due linguaggi differenti»: (3) dalle attese e dai bisogni, colti in forma limitata, fallibile e sempre perfettibile, intuiamo problemi, elaboriamo teorie esplicative, le falsifichiamo controllandole in forma limitata, fallibile e sempre perfettibile, e perveniamo a interventi di trasformazione della realtà limitati, fallibili e sempre perfettibili per un miglioramento continuo.
E, come «chi si mette a interpretare un testo, attua sempre un progetto», (4) così il processo conoscitivo umano integrale, cioè competente, consiste in un progetto che viene effettivamente portato ad attuazione e valutato in vista di un miglioramento continuo: è un intervento sulla realtà limitato, fallibile, ma sempre perfettibile.
La realizzazione medesima dell’intervento competente, trasformativo della realtà, modifica a sua volta i bisogni e le attese e il circolo procede all’infinito.
(5) La descrizione proposta del processo competente è logica; effettivamente (psicologicamente) i processi si realizzano in infinite modalità diverse; tuttavia un processo conoscitivo umano completo deve sviluppare tutte le dimensioni specificate.
Nel processo competente sono da individuare i seguenti passaggi: • dalle attese e dai bisogni (vissuto) all’intuizione di un problema (a livello logico); • dai problemi, alla teorie e alla deduzione delle conseguenze di esse, che sono infinite (livello logico); • la falsificazione delle teorie (livello logico e sperimentale); • con l’intervento sulla realtà, in continuo miglioramento, in risposta alle attese e ai bisogni in altrettanto continua evoluzione.
In questa sede mi soffermerò sull’intervento sulla realtà, cioè nel passaggio da una teoria, che sta resistendo alla falsificazione, all’azione umana di modificazione della realtà.
Di questo passaggio vorrei esplicitare i punti seguenti: • è creativo; • è imprenditoriale; • è in miglioramento continuo; • è imprenditoriale nel miglioramento continuo.
Una definizione di imprenditorialità verrà proposta quando ne descriverò il punto specifico.
In un secondo tempo presenterò alcune riflessioni sull’attività didattica e sulla definizione dei profili e dei piani di studio personalizzati sia nelle scuole che nelle università e nei corsi di formazione, per concludere con un rilievo sull’ambiente formativo.
1.
Competenza 1.
1.
Dalla teoria all’azione Se, da una parte Hegel sostiene che la dialettica è la legge del pensiero e, dall’altra, Marx che è la legge della realtà, noi ci troviamo di fronte due posizioni contrapposte, ma non contraddittorie, perché anche Marx non può fare a meno della conoscenza e del pensiero per affermare che la dialettica è la legge della realtà: non si può abolire la conoscenza o ridurla a ideologia.
Infatti, che la dialettica sia legge della realtà è un’affermazione logica, astratta, senza una qualche forma di falsificazione.
Tra le posizioni di Hegel e di Marx, che unicamente all’interno di una visione idealista, teorica, astratta possiamo affermare che sono contraddittorie, vi è una serie infinita di altre posizioni intermedie, le quali, tuttavia, o enfatizzano la conoscenza e il pensiero logico astratto, oppure cercano di negarlo in nome della realtà.
Se però approfondiamo il discorso, ci accorgiamo che tutte le posizioni possibili risultano essere anzitutto giudizi logici, astratti, frutto del pensiero umano; e che qualunque forma di falsificazione avviene — o almeno dovrebbe avvenire — sotto il controllo metacognitivo umano limitato, fallibile e sempre perfettibile, con un’asimmetrica logica tra falsificazione e conferma.
L’azione umana, se appunto umana, avviene attraverso il controllo metacognitivo ed è conoscenza che, a sua volta, viene ulteriormente sviluppata sia a livello logico che pratico in un miglioramento continuo: «Tutti i nostri concetti hanno una forza euristica; essi sono anche pronti a identificare nuove esperienze, modificandosi in modo da poterle comprendere.
La pratica di un’abilità è sempre inventiva; concentrandoci sul raggiungimento di un successo, facciamo sorgere in noi nuove capacità».(6) Nessuno di noi può uscire dalla conoscenza e pervenire alla realtà: alla realtà perveniamo attraverso la conoscenza! Noi non siamo in possesso di un criterio di verità, come ci ha fatto comprendere Alfred Tarski.
(7) L’intervento sulla realtà ci mette di fronte alla complessità della realtà, di ogni situazione o contesto, cosicché essi non potranno mai essere pienamente controllati da una mente umana e, tanto meno, dalle forze umane.
Ilya Prigogine ci ha indicato la freccia del tempo e l’irreversibilità di ogni fenomeno.
(8) Il passaggio dalla teoria all’azione è complesso, non lineare.
Inoltre […] la nostra teoria giunge alla conclusione che non soltanto la mente nel suo complesso, ma persino tutti i singoli processi mentali devono eternamente rimanere per noi fenomeni di tipo speciale, che non riusciremo mai a spiegare completamente in termini di leggi fisiche, per quanto essi siano prodotti dagli stessi principî che sappiamo operare nel mondo fisico.
Se si preferisce, si può anche esprimere questo concetto affermando che i fenomeni mentali fondamentalmente non sono «null’altro che» processi fisici; tuttavia, questo non cambia il fatto che nella trattazione dei processi mentali noi non potremo mai evitare l’impiego di termini mentali, e che dovremo sempre rimanere entro i limiti di un dualismo pratico, un dualismo che non si fonda su una qualsiasi asserzione riguardo a una differenza oggettiva tra le due classi di eventi, bensì sulle dimostrabili limitazioni dei poteri della nostra mente rispetto alla piena comprensione dell’ordine unitario a cui essi appartengono.
(9) In conclusione: […] la possibilità di completare il compito della scienza così da poter spiegare dettagliatamente il modo in cui il nostro quadro sensoriale del mondo esterno rappresenta le relazioni esistenti fra le parti di quel mondo implicherebbe che questa riproduzione del mondo includesse una riproduzione di quella riproduzione (o un modello del rapporto modello-oggetto), la quale, a sua volta dovrebbe includere una riproduzione di quella riproduzione, e così via ad infinitum.
Pertanto, l’impossibilità di spiegare interamente qualunque rappresentazione del mondo esterno elaborata dalla mente comporta anche l’impossibilità di spiegare interamente il mondo «fenomenico» esterno.
La concezione di un simile completamento del compito della scienza è una vera e propria contraddizione in termini.
La ricerca che la scienza si propone rappresenta, per la sua stessa natura, un compito che non ha mai fine, in cui ogni passo avanti apre necessariamente nuovi problemi.
(10) Ma bisogna tener conto del «libero arbitrio»: Si può osservare di passaggio che queste considerazioni hanno alcuni riflessi anche sulla controversia di vecchia data in merito al «libero arbitrio».
Anche se potessimo conoscere il principio generale da cui tutta l’attività umana è determinata in modo causale mediante processi fisici, questo non significherebbe che potremo mai riconoscere una particolare azione umana come il risultato necessario di un particolare complesso di circostanze fisiche.
Le decisioni umane ci appariranno sempre come il risultato di un’intera personalità umana — vale a dire di tutta la mente di una persona — la quale, come si è visto, non può essere ridotta a qualcosa d’altro.
(11) Nel passaggio dalla dimensione teorica del processo conoscitivo umano all’intervento sulla realtà noi non conosciamo mai pienamente: • né il punto di partenza, cioè i nostri processi mentali e le nostre conoscenze, né un linguaggio della scienza unificata; (12) • né le conseguenze delle nostre teorie, che sono infinite; • né la realtà, sulla quale dobbiamo intervenire: ogni situazione possiede infinite variabili ed è in continua evoluzione; • né la nostra azione, la quale ha effetti intenzionali e infiniti effetti inintenzionali; • né, quindi, il risultato delle nostre azioni; • né il rapporto tra le nostre conoscenze e la realtà.
Le azioni umane strutturalmente «sono caratterizzate dall’incertezza rispetto al futuro», sicché a esse sono «connessi dei rischi che ne fanno della vere e proprie speculazioni».(13) Indipendentemente dal fatto che «l’azione sia originata da motivi altruistici o egoistici, da una disposizione nobile o bassa; se è diretta verso il raggiungimento di fini materiali o ideali; se scaturisce da un riflessione esauriente e scrupolosa o se segue impulsi passeggeri o passioni», essa ha sempre una dimensione sociale o di scambio.
«Le leggi della scienza catallattica spiegate dall’economia sono valide per ogni scambio, a prescindere dal fatto che coloro che ne sono coinvolti agiscano saggiamente o meno o che siano spinti da motivi economici o non».(14) Questo non significa che le persone non siano responsabili, non debbano essere educate ai valori.
Infine «non esiste competenza che non sia socialmente legittimata, in funzione anche della responsabilità verso terzi.
In caso contrario dovremmo arrestarci a nozioni pure oppure a contenuti psicologici».(15) Una formazione, che si limiti alla gestione di conoscenze teoriche, ritenendo l’intervento sulla realtà come qualcosa di aggiuntivo o di applicativo, non solamente non educa, ma diseduca; non forma ma allontana dall’azione.
1.
2.
Creatività del processo competente Ho affrontato brevemente il discorso del passaggio dalla teoria all’azione nel processo umano competente.
Dall’approfondimento svolto risulta logicamente che tale percorso non è né lineare né deterministico con riferimento alle conoscenze possedute, ma può (e deve) essere progettato.
La riuscita di un intervento sulla realtà è frutto di creatività: è, radicalmente parlando, intuizione.
Precisando, una conseguenza logica delle considerazioni proposte precedentemente è la seguente: il passaggio dalla teoria all’azione è sempre frutto di intuizione creativa nella lettura della situazione reale sulla quale si interviene: sia perché la situazione è sempre aperta e complessa sia perché l’azione umana è, pure, sempre aperta e complessa e ha conseguenze intenzionali e infinite conseguenze inintenzionali.
(16) Le azioni umane sono realtà complesse e aperte e, pertanto, il rapporto tra pensiero e realtà non è mai un’«applicazione», come pretendevano i razionalisti illuministi.
Per agire c’è bisogno di intuire, attraverso il sapere di sfondo e l’occhio clinico, (17) la situazione nella quale si interviene, mai conoscibile integralmente e definitivamente, perché, tra l’altro, in continua evoluzione.
L’intuizione è favorita dal vissuto della persona competente, dalle sue attese e dai bisogni espliciti e impliciti; ma è sempre qualcosa di nuovo, frutto di creatività; non esiste una via logica che porti alla realizzazione di un intervento sulla realtà.(18) Ora l’intervento sulla realtà, tramite l’azione umana, mentre è effettiva conoscenza, che può essere elaborata teoricamente, richiede un progetto, che è, a sua volta, frutto di creatività, limitato, fallibile e sempre perfettibile, in miglioramento continuo; non essendo possibile, per principio, alcuna pianificazione.
(19) Per questo la trasformazione della realtà, prestazione di ogni processo umano competente, non è mai garantita e, soprattutto, non lo è mai in modo ottimale.
Una formazione che non abbia progettato di creare le condizioni per lo sviluppo della creatività per l’intervento sulla realtà, e si limiti alla dimensione teorica del processo conoscitivo umano oppure pervenga solamente a forme di simulazione non è mai completa, proprio dal punto di vista della conoscenza, oltre che senza il risultato competente atteso, e rischia di diseducare.
1.
3.
Imprenditorialità nel processo competente La creatività nel passaggio dalla dimensione teorica del processo competente all’intervento sulla realtà, se ben considerata, ci permette di coglierne un significato profondo: può essere vera e propria imprenditorialità, quando è sviluppata a livello umano competente.
L’intervento sulla realtà, frutto di creatività, poiché non esiste una via logica alla realizzazione di esso — anche se, appunto perché azione umana, dipende da una decisione razionalmente motivata e progettata — va colto e approfondito, nel processo conoscitivo umano competente, quale dimensione di esso e autentica conoscenza, quando viene sviluppato, appunto, a livello umano.
Ci troviamo all’interno dell’azione umana, complessa, sempre aperta, «strutturalmente caratterizzata dall’incertezza», che comporta sempre non solamente scambio — e quindi le dimensioni etica e di comunicazione — ma anche innovazione e investimento.
In sintesi: «Il metodo individualistico (20) concentra la propria attenzione sull’azione umana.
L’uomo agisce perché si trova in una situazione di disequilibrio.
La sua azione produce conseguenze intenzionali e inintenzionali; e ciò significa che l’agire — che è economico, perché i mezzi a nostra disposizione sono scarsi — si svolge attraverso l’utilizzo di una conoscenza che è sempre parziale e fallibile, che rende quindi difficile il superamento di quel disequilibrio».
(21) Mentre la creatività indica formalmente la scoperta di qualcosa di nuovo e viene riferita al primo che vi arriva, l’imprenditorialità, sempre formalmente, denota la capacità di investire la scoperta, di coglierne e sfruttarne i possibili sviluppi produttivi ai vari livelli, compresi, evidentemente, quelli economici, perché l’agire umano è economico.
Kirzner ha deciso di vedere, nella prontezza [alertness] a scoprire nuovi obiettivi, che probabilmente si riveleranno valevoli e nuove risorse probabilmente disponibili, l’elemento imprenditoriale del processo decisionale dell’uomo.
È questo elemento imprenditoriale che è fonte della nostra visione dell’azione umana come attiva, creativa e umana, invece, che passiva, automatica e meccanica.
(22) Il processo di scoperta dell’imprenditore viene così liberato da forme di riduzione all’azione di economizzazione passiva, automatica e meccanica.
La scoperta di nuovi obiettivi e di nuove risorse, appunto perché azione umana, ha bisogno della capacità di identificare problemi, di elaborare teorie esplicative e di falsificarle.
Ma lo specifico imprenditoriale sta nell’arrivarvi prontamente e nello sfruttarle prima di altri, sapendo prendere le decisioni di economizzazione.
La caratteristica dell’imprenditorialità, nella nozione più generale di competenza, è rappresentata, formalmente, dalla prontezza, cioè dal fatto di riuscire a perseguire i nuovi obiettivi e a investirvi le risorse per primi, o comunque in tempi utili: è la dimensione dell’investimento nell’azione umana competente In sintesi, la competenza, come processo conoscitivo umano, in una descrizione logica, è possesso di conoscenze, gestione di conoscenze, prestazione, controllo metacognitivo, comunicazione e deontologia professionale, poiché è azione a livello umano e sempre complessa.
Ora l’investimento delle competenze è frutto di imprenditorialità quale prontezza nell’approfittare e investire le competenze.
Il problema, però, va approfondito, poiché le competenze — in quanto capitale umano, come vedremo — possono sì essere investite da terzi, che ne approfittano con prontezza, ma vi è una metaimprenditorialità (in analogia con la metacognizione) che consiste nella prontezza necessaria per approfittare delle proprie competenze e investirle.
Ritengo che questa forma di metaimprenditorialità risulti essere una componente della competenza.
La metaimprenditorialità, così intesa, ha riferimento pure al miglioramento continuo delle proprie competenze in risposta all’evoluzione delle attese e dei bisogni di una società o nel prevenirli.
Una formazione che non preveda la predisposzione dell’habitat per l’emersione della prontezza imprenditoriale in risposta alle attese in continua evoluzione e in concorrenza con il mercato, non solamente non è formazione, ma rischia proprio di togliere energie alla crescita e al miglioramento.
1.
4.
Miglioramento continuo nel processo competente Le norme ISO 9001:2000 (8.5.4) discorrono di «miglioramento continuo dell’organizzazione» così spiegato: «Per contribuire ad assicurare il futuro dell’organizzazione e la soddisfazione delle parti interessate, la direzione dovrebbe creare una cultura che coinvolga il personale nelle ricerca di opportunità per migliorare le prestazioni dei processi, delle attività e dei prodotti.
Per coinvolgere il personale, l’alta direzione dovrebbe creare un ambiente in cui l’autorità sia delegata, in modo che il personale abbia i poteri e sia investito della responsabilità per individuare dove esistono delle opportunità, per l’organizzazione, di migliorare le sue prestazioni».
Nella definizione di competenza proposta l’apertura al miglioramento continuo è strutturalmente presente, tra l’altro, nel passaggio dalla teoria all’azione.
Infatti, se da una parte questo passaggio è frutto di creatività, perché ogni situazione è unica e in continua evoluzione, ne consegue che il processo competente non potrà mai consistere in un esercizio o in un addestramento, ma in un miglioramento continuo per elevare incessantemente la performance delle prestazioni e degli interventi trasformativi della realtà in risposta alle attese e ai bisogni in continua evoluzione.
Il miglioramento continuo può pervenire fino al mutamento di «paradigma», se così posso esprimermi, sia in risposta ai bisogni e alle attese che nel prevenirli.
Dall’altra parte, però, una competenza, per il medesimo ordine di motivazioni, non è mai compiutamente posseduta, perché, appunto, ogni situazione è nuova, unica, irriproducibile, in continua evoluzione.
La conseguenza è evidente: il miglioramento continuo per sviluppare il livello di performance ed essere in grado di intervenire in risposta all’intuizione, all’interpretazione e alla soddisfazione di un’attesa o di un bisogno sempre in continua evoluzione Una formazione, che si limiti alla realizzazione di qualche prestazione, senza sviluppare un vero e proprio apprendistato delle competenze con l’esercizio del miglioramento continuo, documentato, non è formazione, ma rischia unicamente di addestrare.
1.
5.
Imprenditorialità nel miglioramento continuo del processo competente L’imprenditorialità, quale prontezza (alertness) necessaria per approfittare delle conoscenze e investirle, nel passaggio al processo competente, quale processo conoscitivo umano integrale, diviene la prontezza nell’approfittare e investire le competenze; nello specifico della metaimprenditorialità, è la prontezza nell’approfittare e investire le proprie competenze.
Se la metaimprenditorialità ha riferimento pure al miglioramento continuo delle proprie competenze in risposta all’evoluzione delle attese e dei bisogni di una società (o nel prevenirli), e, logicamente il possesso di una competenza non può essere statico, pure l’imprenditorialità e la metaimprenditorialità, in quanto prontezza, non possono essere statiche, ma in continua evoluzione in risposta alle attese e ai bisogni, sempre in continua evoluzione; anzi, appunto perché prontezza, nel prevenirli e nell’anticipare i tempi.
Una formazione che non educhi alla metaimprenditorialità, non solamente non è formazione, ma rischia proprio di bloccare.
2.
Per la formazione Gli sviluppi proposti, conseguenti alla definizione di competenza dalla quale sono partito, hanno riferimento, tra l’altro, alla didattica, alla definizione dei profili e dei piani di studio personalizzati sia nelle scuole che nelle università e nei corsi di formazione.
2.
1.
Per la mediazione didattica Poiché la conoscenza è un’azione umana, che comprende l’intero processo conoscitivo, incluso l’intervento sulla realtà, riteniamo che nessun apprendimento, se avviene a livello umano, possa esserne in qualche modo monco, come farebbe supporre il paradigma illuminista (francese).
Accompagnare il discente a gestire una prestazione di intervento sulla realtà è un’attività conoscitiva e di apprendimento, non solamente per ciò che comporta l’operar con mano, ma per l’acquisizione, a livello umano (per libero convincimento interiore e con decisioni liberamente motivate e responsabili), di ogni conoscenza: è un apprendistato, non un addestramento.
(23) Ed è un discorso che è pienamente coerente con la personalizzazione dei processi di insegnamento e di apprendimento.
Infatti, dal punto di vista psicologico, il processo competente segue le attitudini e le capacità di ogni persona e avviene nelle forme più disparate.
Nella definizione ho presentato necessariamente una descrizione logica, ma nella realtà non si realizza un procedimento logico: si può partire da qualunque dimensione o momento, che ho descritto logicamente, del processo competente; e ci si può muovere a causa di motivazioni diversissime e all’interno di situazioni le più disparate, persino in una classe.
Ho presentato una procedura sia per le Unità di Apprendimento.
(24) che per i crediti universitari (ECTS).
(25) Tali procedure possono divenire anche questionari per una rilevazione sia qualitativa che quantitativa delle azioni di insegnamento e di apprendimento.
(26) Per lo sviluppo di un apprendimento, che sia un vero e proprio apprendistato, ritengo importante, tra l’altro, una descrizione metacognitiva del proprio apprendimento, come è indicato nelle procedure proposte, certificabili ai sensi delle norme ISO 2000:9001.
Nel trattare del passaggio Dalla scuola all’università, affermavo che […] il percorso formativo dovrebbe prevedere: • lo sviluppo graduale della metacognizione dall’età della preadolescenza; • la collaborazione progressiva con i docenti nella redazione delle UA (almeno dopo il biennio superiore di scuola); • la redazione degli ECTS, con la collaborazione e il controllo dei docenti, da parte degli studenti universitari: è, chiaramente, un’azione di tutoring.
È una modalità di attivare la continuità tra scuola e università.
(27) 2.
2.
Per i Profili Anzitutto i Profili vanno strutturati per competenze.
Una domanda emerge immediatamente: le competenze dei Profili devono essere professionalmente qualificate oppure devono fare riferimento ai compiti dello sviluppo? La risposta che propongo è la seguente: i compiti dello sviluppo prevedono la maturazione delle varie dimensioni della persona a livello pienamente umano, non ancora, però, professionalmente qualificato.
Le competenze del profilo, coerentemente, saranno definite dai compiti dell’età evolutiva fino a una maturazione pienamente umana e responsabilmente umana, prevista, per legge, a 18 anni.
Non prevediamo ancora [nella scuola] alcuna qualifica professionale per l’inserimento nel mondo del lavoro, poiché essa richiederebbe la specificazione di competenze legate all’esercizio di una professione determinata e socialmente riconosciuta.
Riteniamo che questa specificazione debba essere attribuita ai percorsi di istruzione e formazione professionale e universitari.
(28) Un secondo problema nasce dall’epistemologia proposta del processo competente: è unico, ma si diversifica solamente per le metodiche di falsificazione e per le prestazioni, in risposta a situazioni sempre diverse.
Una soluzione coerente è la seguente: i compiti dell’età evolutiva riguardano le varie dimensioni del processo umano competente, compreso nella sua visione integrale e, quindi, con le prestazioni, che sono conoscenza, se realizzate a livello umano.
Ne consegue che la distinzione di competenze nei profili da noi considerati [al termine del Primo e del Secondo Ciclo] riguarda le varie dimensioni della maturazione umana di ogni persona, e, quindi, necessariamente, essendo il processo competente fondamentalmente unico, le cosiddette “competenze”del profilo pongono l’attenzione e precisano vari momenti del processo competente, legati, nell’età scolare, allo sviluppo integrale della persona.
Ecco perché usiamo l’espressione: “dimensioni del processo competente”.
Analogamente riteniamo si debba procedere per la specificazione delle “competenze” di una determinata professione (29) e, quindi, anche nei Profili al termine dei corsi di Laurea universitari e dell’Istruzione e Formazione Professionale.
Il Profilo rappresenta il capitale umano (HC), atteso al termine dei corsi di studio o di formazione, «definibile come l’incremento di conoscenze e attitudine al lavoro dovuto a istruzione, formazione, miglioramento delle condizioni di salute e psicofisiche (Mincer, 1958; Mincer, 1970; Becker, 1962; Becker, 1964).
Ciò premesso tale concetto può essere preso in considerazione in senso stretto, facendo riferimento alle definizione presente in letteratura o in senso lato come “capitale umano potenziale” inteso come capacità di primo inserimento nel mercato del lavoro grazie agli studi universitari (Cammelli, 2003)» (Giorgio Vittadini).
VEDERE CON BORDIGNON.
Il capitale umano, senza il riferimento all’investimento, e, quindi, all’imprenditorialità e alla metaimprenditorialità, risulta mancante.
Non abbiamo altra modalità che l’investimento di fatto delle competenze del Profilo per valutare il capitale umano, poiché l’imprenditorialità non è unicamente di terzi, ma pure dello studente stesso.
Se non si realizza, la causa (siamo all’interno della complessità) non è mai solamente del mercato del lavoro e delle professioni, ma anche dello studente, che non è riuscito a essere imprenditore di se stesso.
E questo si può documentare per mezzo di un confronto con gli studenti, che, invece, sono riusciti a investire le proprie competenze.
2.
3.
Per i Piani di Studio Personalizzati Ho definito il Piano di Studi Personalizzato (PSP) «come il percorso di apprendimento che gli studenti compiono, con l’apporto di tutti i processi di insegnamento (relativi a discipline di studio, attività, laboratori, tirocini), al fine di realizzare il Profilo educativo, culturale e professionale».
(30) Il PSP nella scuola è documentato dalla descrizione procedurale delle Unità di Apprendimento e nell’Università degli ECTS.
Lavorando su questa documentazione, i vari consigli di classe o di corso — oppure organi con analoghe competenze — possono, da una parte, seguire il percorso effettivamente compiuto da ogni studente; e dall’altra, procedere verso un miglioramento continuo secondo le prospettive indicate.
(31) Il PSP obbliga a sviluppare l’orientamento effettivo dello studente (spendibilità, implementazione, integrazione degli apprendimenti), il quale deve elaborare e iniziare a realizzare un progetto personale di apprendimento lifelong learning, un progetto professionale e vocazionale personale, per un progetto personale di vita, con l’inserimento nella società civile e nella comunità ecclesiale tramite prestazioni concrete di competenze acquisite in continuo miglioramento.
Ritengo che questo modo di procedere porti in modo efficace alla personalizzazione dell’apprendimento.
3.
L’ambiente formativo L’imprenditorialità — o metaimprenditorialità — di una persona si rivela proprio nella strutturazione e realizzazione di un progetto personale di apprendimento lifelong learning, di un progetto professionale e vocazionale personale, per un progetto personale di vita, evidentemente in continua evoluzione e arricchimento.
L’ambiente formativo, sia nelle dimensioni simmetriche che asimmetriche, dovrà sviluppare competenze intese nel significato di un processo conoscitivo umano integrale.
L’interazione tra studenti dovrà favorire lo sviluppo delle attitudini e capacità di ciascuno in vista dell’acquisizione di competenze spendibili effettivamente e di fatto investite in rapporto con l’ambiente del lavoro e delle professioni.
L’interazione studenti-formatori comporta, da una parte, nel formatore la ricerca della realizzazione di ognuno degli studenti, secondo i progetti propri di ciascun allievo, senza mai imporre le proprie vedute o prospettive, solamente impedendo ciò che è negativo; dall’altra che lo studente, conscio e impegnato nella realizzazione dei propri progetti, percepisca il formatore come uno che ne cerca effettivamente il bene, cioè la realizzazione.
L’ambiente formativo deve divenire un luogo attivo nel quale le competenze vengono acquisite, investite nel miglior modo possibile in interazione con l’ambiente circostante, che non è semplicemente luogo di impiego, ma anche di acquisizione e sviluppo delle competenze.
Sono caratteristiche di un ambiente formativo (scuola, università, istruzione e formazione professionale) non solamente l’acquisizione di conoscenze o di «pratiche», ma lo sviluppo di imprenditorialità e di investimento delle competenze, in un miglioramento continuo, nell’interazione con la domanda, in concorrenza con l’offerta, prevenendo, se possibile, la prima e, certamente, la seconda.
Scuola e ambiente di lavoro (impresa) devono essere collegati e interagenti: acquisizione di conoscenze, progettazione e realizzazione con riprogettazione per un miglioramento continuo è il processo di un apprendimento, che è un apprendistato.
La visione sia di competenza che di apprendimento prospettate «ci permette di dire che non esiste competenza che non sia socialmente legittimata, in funzione anche della responsabilità verso terzi.
In caso contrario dovremmo arrestarci a nozioni oppure a contenuti psicologici».
L’introduzione delle competenze nelle scuole, nelle università e nella formazione […] permette di superarne alcuni gravi limiti: • la perdita di contatto con l’esperienza, che è all’origine dell’insegnamento quale proposta di contenuti da apprendere (visione illuminista dell’insegnamento); • l’incapacità di attingere alla trasformazione progettuale della realtà attraverso i processi di insegnamento e di apprendimento; • e, infine, il lasciare i giovani inattivi per anni e anni, lontani dal contatto con i problemi e impediti di un loro apporto di collaborazione sociale».
(32) La personalizzazione dell’apprendimento, accolta anche nell’ambiente anglosassone, (33) porta coerentemente a sviluppare le attitudini e capacità degli studenti verso l’acquisizione delle competenze, che comportano non solamente l’intervento sulla realtà, ma anche un investimento imprenditoriale di esse.
Gli ambienti formativi non devono arrestarsi alla simulazione del processo competenze- conoscenze-progettazione-realizzazione, ma devono condurre gli studenti e gli allievi fino all’investimento imprenditoriale delle competenze acquisite, in un miglioramento continuo, in risposta alla domanda e in concorrenza con l’offerta.
L’apprendimento, che è un apprendistato, non si ferma alle soglie della struttura scolastica, universitaria o di formazione, ma la sorpassa ed entra nel territorio per rispondere alla domanda e in concorrenza con l’offerta.
Il che significa che scuole, università, strutture formative saranno all’altezza della loro missione solamente nell’interazione continua con le imprese e con il mercato del lavoro e delle professioni, non tanto per offrire alle persone in formazione un mero posto di lavoro (che non è da disprezzare!), ma per rendere le persone in formazione imprenditori e in grado di investire le competenze acquisite.
NOTE 1.  Si vedano soprattutto i primi due capitoli di B.
Bordignon, Certificazione delle competenze.
Premesse teoriche, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2006: Cos’è competenza? (pp.
11-39); Quando una persona possiede un competenza (pp.
41-65).
Ora anche in: http://books.google.com/books?id=QQd4yz6SfNMC&dq=Bruno+Bordignon&printsec=frontco ver&source=bl&ots=–l3E_25iH&sig=_Rsrx_xJQ6m6RQ7BdYBT9eoG3n8&hl=it&ei=wXQvS r7EGoPE_Qadn_jHCg&sa=X&oi=book_result&ct=result&resnum=4 2.  B.
Bordignon, Certificazione delle competenze.
Premesse teoriche, op.
cit., pp.
11; 14-15.
3.  D.
Antiseri, Teoria unificata del metodo, Torino, Utet Libreria, 2001, nuova edizione, p.
129.
Dario Antiseri si era introdotto: «Qua giunti, una domanda sorge spontanea: c’è davvero qualche differenza fra la teoria ermeneutica di H.-G.
Gadamer e la teoria epistemologica di K.
R.
Popper? Il circolo ermeneutico descrive (e prescrive) un procedimento diverso da quello descritto (e prescritto) dal metodo risolventesi nei tre passaggi problemi-teorie-critiche? In breve: esistono differenze tra l’ermeneutica e l’espistemologia?» (pp.
129-130).
4.  H.-G.
Gadamer, Verità e metodo, Milano, Fabbri, 1972, pp.
313-314: «Chi si mette a interpretare un testo, attua sempre un progetto.
Sulla base del più immediato senso che il testo gli esibisce, egli abbozza preliminarmente un significato del tutto.
E anche il senso più immediato il testo lo esibisce solo in quanto lo si legge con certe attese determinate.
La comprensione di ciò che si dà da comprendere consiste tutta nella elaborazione di questo progetto preliminare, che ovviamente viene continuamente riveduto in base a ciò che risulta dall’ulteriore penetrazione del testo».
5.  B.
Bordignon, Personalizzazione dei processi di apprendimento, «Orientamenti Pedagogici», n.1, 2008, pp.
90-91.
6.  M.
Polanyi, La conoscenza personale.
Verso una filosofia post-critica, a cura di E.
Riverso, Milano, Rusconi, 1990, p.
241.
7.  Per una breve presentazione di questa problematica in Tarski si può vedere: D.
Antiseri, Manuale di Metodologia delle Scienze Sociali, Torino, Utet Libreria, 1996, p.
196 (Alfred Tarski risponde alla domanda di Pilato).
8.  Vedi, ad esempio: I.
Prigogine, Le leggi del caos, Roma-Bari, Laterza, 2006².
9.  F.A.
von Hayek, L’ordine sensoriale.
I fondamenti della psicologia teorica, introduzione di H.
Klüver, edizione italiana a cura di F.
Marucci e A.M.
Petroni, Milano, Rusconi, 1990, p.
271.
10.  F.A.
von Hayek, op.
cit., pp.
275-276.
Il titolo originale dell’opera: The Sensory Order.
An Inquiry into the Foundation of Theoretical Psycology, London, Routledge, 1952.
Ma, come dice Hayek nella Prefazione, «le origini di questo libro […] risalgono ad un approccio al problema in voga una generazione fa […] Trent’anni dopo, esaminando la letteratura psicologica, ho scoperto con grande sorpresa che il problema specifico a cui mi ero interessato era rimasto per lo più nello stesso stato in cui versava quando me ne ero occupato per la prima volta» (pp.
6-7).
11.  F.A.
von Hayek, op.
cit., p.
274.
In nota Hayek scrive : «per una discussione più approfondita su questo punto si veda F.A.
Hayek, 1942, pp.
290 e ss.» e cioè Scientism and the Study of Society, «Economica», n.
9, 1942, pp.
267-291; n.
10, 1943, pp.
34-63; n.
11, 1944, pp.
27-39, rist.
in The Counter-Revolution of Science, Glencoe, Free Press, 1952; trad.
it.
L’abuso della ragione, Firenze, Vallecchi, 1967.
12.  «È chiaro che questa tesi di un unico linguaggio universale della scienza unificata, è strettamente legata a quella dell’eliminazione della metafisica […].
Ora, la cosa strana di questa tesi di un unico linguaggio universale è che, prima che fosse pubblicata (il 30 dicembre del 1932), essa era stata confutata da uno dei colleghi di Carnap nel Circolo di Vienna.
Gödel infatti, con i suoi due famosi teoremi di incompletezza, aveva dimostrato che un linguaggio unificato non risulterebbe abbastanza universale neppure ai fini della teoria elementare dei numeri: anche se è possibile costruire un linguaggio in cui vengano espresse tutte le asserzioni di questa teoria, esso tuttavia non consente di formalizzare tutte le dimostrazioni delle asserzioni che (in qualche altro linguaggio) possono essere dimostrate.
Sarebbe stato meglio, pertanto, scartare senz’altro questa dottrina di un unico linguaggio universale di un’unica scienza universale (particolarmente in considerazione del secondo teorema di Gödel, il quale mostrava che era inutile cercare di discutere della coerenza di un linguaggio in quello stesso linguaggio).
Ma da allora è emerso ancora dell’altro a dimostrazione dell’insostenibilità della tesi del linguaggio universale, e mi riferisco principalmente alla dimostrazione di Tarski secondo cui ogni linguaggio universale è paradossale (tesi pubblicata per la prima volta in polacco nel 1933, e in tedesco nel 1935)» (K.R.
Popper, La demarcazione tra scienza e metafisica.
In Congetture e confutazioni.
Lo sviluppo della conoscenza scientifica, Bologna, il Mulino, 1972, pp.
457-458.
L’edizione originale è del 1969: Conjectures and Refutation, London, Routledge and Kegan Paul).
13.  L.
von Mises, Socialismo, trad.
it., Milano, Rusconi, 1990, p.
239.
Si veda la Prefazione di L.
Infantino a Burocrazia di prossima edizione per Rubbettino.
14.  L.
von Mises, Problemi epistemologici dell’economia, Roma, Armando Editore, 1988, p.
57.
15.  B.
Bordignon, Certificazione delle competenze.
Premesse teoriche, op.
cit., pp.
64-65.
16.  L’analisi delle quali è, poi, il compito, come precisa Dario Antiseri, delle Scienze sociali teoriche: «Le scienze sociali hanno come loro (principale ovvero) esclusivo compito quello di analizzare le conseguenze inintenzionali delle azioni umane intenzionali» (Trattato di Metodologia delle Scienze Sociali, Torino, UTET Libreria, 1996, p.
470.
Ma si veda tutto il Capitolo venticinquesimo, pp.
467-487).
17.  Ho sviluppato questi argomenti in Certificazione delle competenze.
Premesse teoriche, op.
cit., pp.
42-57: Problema ed esercizio (pp.
42-45); Competenza e abilità (pp.
45-46); Un esempio classico: l’«occhio clinico» (pp.
46-50); Apprendimento e addestramento (pp.
50-54); Competenza e transfer degli apprendimenti (pp.
54-55).
18.  Per questo, anche se da tempo sostengo che, nell’insegnamento delle materie scientifiche, è necessaria la Storia della scienza e delle scoperte, non riesco a «comprendere» il tentativo di Alberto Corsero-Lecca di pervenire a «un approccio sistemico per l’educazione creativa alla scoperta scientifica» (L’apprendimento delle scienze inteso come evoluzione di un sistema complesso: un progetto di ricerca.
In Complessità dinamica dei processi educativi.
Aspetti teorici e pratici, a cura di F.
Abbona, G.
del Re, G.
Monaco, Milano, FrancoAngeli, 2008, pp.
86-105).
Probabilmente è da distinguere meglio ciò che è preparazione dell’humus culturale, che può favorire la scoperta e la creatività della scoperta medesima, mai frutto di causazione lineare, poiché non esiste una «via logica alla scoperta scientifica».
Sull’argomento si veda di Dario Antiseri, La creazione delle ipotesi (pp.
10-17).
In Teoria unificata del metodo, Torino, UTET Libreria, 2001, nuova edizione.
19.  Per la tesi sull’impossibilità della pianificazione F.A.
von Hayek ha vinto il premio Nobel nel 1974.
Si può leggere nella edizione italiana (Nuovi studi di filosofia, politica, economia e storia delle idee, Traduzione di G.
Minotti a cura di E.
Coccia, Roma, Armando Editore, 1988, pp.
32-44) con il titolo La presunzione di conoscere, il discorso pronunciato a Stoccolma l’11 dicembre 1974, in occasione del conferimento dei Premi Nobel, e ristampato da Les prix Nobel en 1974, Stoccolma 1975.
20.  Poiché sono un individualista metodologico, ritengo che esistano unicamente le persone umane e le azioni che queste mettono in atto: le organizzazioni sono uno «stenogramma», come lo definisce Lorenzo Infantino, per intendere un intreccio, congegnato in infinite forme, di persone e di azioni umane.
Di Infantino si veda per esempio, L’ordine senza piano.
Le ragioni dell’individualismo metodologico, Roma, Armando Editore, 2008 (nuova edizione, p.
14): «Il problema non sta quindi nel se, ma nel come usare i concetti collettivi.
Abbiamo bisogno di essi, perché sono degli stenogrammi che ci consentono di comunicare con grande immediatezza e risparmio di tempo.
Non sono però delle entità dotate di una vita separata, autonoma o, come diceva Salvemini, “sdoppiata dagli avvenimenti e creatrice degli avvenimenti stessi”».
Infantino aggiunge in nota: «In tal caso, come Böhm-Bawerk […] ha posto in evidenza, si cade in un”flagrante errore di duplicazione” della realtà».
Per una prima presentazione dell’individualismo metodologico si può leggere il capitolo XXIV L’individualismo metodologico: i suoi problemi e i suoi teorici, di D.
Antiseri, Trattato di metodologia delle Scienze Sociali, Torino, UTET Libreria, 1996, pp.
440-466.
21.  L.
Infantino, Prefazione all’edizione italiana di I.M.
Kirzner, Concorrenza e imprenditorialità, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 1997, p.
10.
22.  È la tesi di I.M.
Kirzner, Concorrenza e imprenditorialità, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 1997.
23.  B.
Bordignon, L’apprendimento è un apprendistato, «Orientamenti Pedagogici», n.
5, 2008, p.
768.
24.  B.
Bordignon, La struttura dell’Unità di Apprendimento.
Una sperimentazione delle Scuole Salesiane, «Orientamenti Pedagogici», n.
4, 2007, pp.
635-664.
25.  B.
Bordignon e R.
Caputi, Certificazione delle competenze.
Una sperimentazione delle Scuole Salesiane, Roma, Armando, 2009, pp.
543-593.
26.  B.
Bordignon, Unità di Apprendimento (UA) e Nuova Ricerca Didattica (NRD).
Una sperimentazione delle Scuole Salesiane, «Orientamenti Pedagogici», n.1, 2009, pp.
91-104.
27.  B.
Bordignon e R.
Caputi, Certificazione delle competenze.
Una sperimentazione delle Scuole Salesiane, op.
cit., p.
194.
28.  B.
Bordignon e R.
Caputi, ibidem, p.
437.
29.  B.
Bordignon e R.
Caputi, ibidem, p.
437-438.
In questo volume sono riportati due esempi di Profilo (al termine del primo anno della scuola secondaria di primo grado e al termine del terzo anno della scuola secondaria di secondo grado), alle pp.
439-464.
30.  B.
Bordignon, Personalizzazione dei processi di apprendimento, «Orientamenti Pedagogici», n.
1, 2008, p.
102.
31.  Per una esemplificazione relativa a una Terza Liceo Scientifico si può vedere Avvio alla strutturazione di Piani di Studio Personalizzati (PSP).
In B.
Bordignon e R.
Caputi, Certificazione delle competenze.
Una sperimentazione delle Scuole Salesiane, op.
cit., pp.
101-161.
32.  B.
Bordignon, Certificazione delle competenze.
Premesse teoriche, op.
cit., pp.
64-65.
33.  Si veda CERI-OCSE, Personalizzare l’insegnamento, Bologna, il Mulino, 2008.
L’edizione originale: Personalising Education / Personaliser l’education, Paris, Organization for Economic Cooperation and Development (OECD), 2006.
Orientamenti Pedagogici Vol.
56, n.
6, novembre-dicembre 2009 (pp.
xx)

Cercando il Dio del silenzio

Senza questo silenzio – che pur conosce contraddizioni da parte dei monaci – non sarebbe possibile una vita di lotta contro la dispersione, l´ansia, la distrazione, il de….
ment, come lo definiva Pascal.
Si tratta, infatti, di unificare la vita, di giungere a una semplificazione del cuore attraverso il lungo lavoro di “ordinare” i pensieri, i sentimenti, le azioni: uno sforzo costante verso la conoscenza di sé, del proprio profondo, in modo da imprimere alla vita consapevolezza, responsabilità e bellezza.
Ma a volte questo silenzio dei muri, dei corridoi, delle celle, del chiostro, del giardino o del bosco appare abitato da pensieri che urlano con voce straziante.
Antonio, il primo monaco solitario cristiano, li chiamava “demoni” e aveva la percezione di vederli nella cella, intenti ad assalirlo mentre si sentiva solo, debole e fragile, fino a interrogarsi se Dio non lo avesse abbandonato…
Sono le tentazioni dell´eremita, come di chi vive la solitudine all´interno di una comunità monastica.
Ma sono anche le stesse tentazioni proprie di ogni uomo, perché il monaco è un uomo come gli altri, vulnerabile come gli altri: la solitudine, il silenzio, l´ascesi gli consentono forse una maggiore consapevolezza nel guardare in faccia questi pensieri-tentazioni e nell´affrontarli.
Sono “avversari” di ogni tipo, dalle tentazioni più basse ai pensieri più sottili: il non credere più in Dio né in nulla, lo spettro della nientità che tutto dissolve in nonsenso, il peso dei propri peccati che porta a dubitare del perdono e della possibilità di trovare il bene nell´uomo.
Il monaco conosce anche questa contraddizione al silenzio che viene dal suo cuore, dalla sua psiche e che lo rende a volte esperto di a-teismo.
Anche per questo, nella sua vita quotidiana il monaco giustappone al silenzio il canto, più volte al giorno: vive nella custodia amorosa del silenzio, eppure canta assieme agli altri nella preghiera con inni, salmi, orazioni…
La preghiera, intessuta della parola di Dio è lo spazio vitale in cui lo stesso silenzio è ricondotto alla sua qualità di ricerca di Dio: lì si esprime quella sete che dal deserto, dalla terra arida che ciascuno sente di essere, fa muovere verso l´essere umano autentico la cui vita può divenire un capolavoro.
E nella preghiera comunitaria si ritrova anche l´altro elemento fondamentale della vita monastica, cui il silenzio stesso è orientato: l´ascolto.
Sì, l´invito di san Benedetto al silenzio è in funzione di quell´esortazione che apre la sua regola per i monaci: «Ascolta!».
Ascolto del silenzio che parla, certo, ascolto della parola di Dio che richiede di far tacere le altre parole, ma anche ascolto dell´altro, del fratello e della sorella, di quanti bussano alla porta del monastero per confidare soprattutto le loro fatiche e le loro sofferenze, quando la durezza della vita li porta a interrogarsi sul senso ultimo che sovente lo star bene ottunde.
Il lungo silenzio del monaco in cella, la sua solitudine a volte così pesante da portare alla sera – silenzio e solitudine abitati dalla preghiera – sono così preparazione all´ascolto degli altri: ascolto a volte faticoso, perché richiede comprensione, simpatia, condivisione e magari parole che non si vorrebbero pronunciare né udire.
Sovente questo silenzio oggi inusuale spaventa chi vi si accosta per la prima volta: non manca chi si affretta a tornare alla propria vita quotidiana in cui il rumore, il chiacchiericcio, la molteplicità dei messaggi distoglie dal porsi le domande vere e dall´affrontare i pensieri-tentazioni che sorgono nel cuore.
Ma così si preferisce il sonnambulismo spirituale, il non conoscersi in profondità, e si finisce per imboccare percorsi di alienazione anziché vie di umanizzazione.
Sì, c´è un grande silenzio che avvolge molte esistenze piene di vita, fatte di lavoro e di preghiera in un nascondimento che oggi molti non riescono più a comprendere, un silenzio soprattutto dei corpi e dei volti, che talora si celano nell´anonimato anche quando si fanno eloquenti nella scrittura, firmandosi semplicemente come «un certosino…
una monaca benedettina…
un eremita…
un monaco d´occidente…».
Eppure forse sono là in disparte anche per ricordarci che ogni parola autentica nasce dal silenzio e dal silenzio è custodita.
in “la Repubblica” del 4 aprile 2010 Quando uno varca la soglia di un monastero, a volte trova di fronte a sé un affresco o un´icona del patriarca dei monaci, san Benedetto che, dito sulla bocca, invita al silenzio: «Tace!».
Del resto, già i padri del deserto nel Quarto secolo cercavano di vivere secondo il detto di abba Arsenio: «Fuge (cioè ritirati in disparte), tace (fa´ silenzio), quiesce (ricerca la pace)!».
Per quanti fanno vita monastica, il silenzio è l´atmosfera, l´ambiente in cui vivono la loro tensione a quaerere Deum, a cercare Dio, impegno che contiene innanzitutto il quaerere hominem, cercare l´essere umano.
Dal canto dell´ultima preghiera della sera (verso le venti) fino all´ora ancora notturna che precede l ´alba (attorno alle quattro), i monaci e le monache osservano il “grande silenzio”: da soli, nella loro cella, cercano di vegliare, di leggere, di pensare e di pregare.
Ma anche durante il giorno le regole chiedono che il monaco faccia silenzio, parli se è necessario alla carità, e comunque vigili sempre a che la sua parola miri a ciò che è essenziale, autentico, veritiero, evitando non solo ogni doppiezza o menzogna, ma anche di dire ciò che non fa o che non pensa in profondità.

Lettera ai nostri fratelli preti per la settimana santa 2010

Settimana Santa 2010 Cari amici preti, il Giovedì Santo, giorno in cui si celebra l’istituzione dell’eucarestia, è tradizionalmente la “festa dei preti”, la vostra festa.
Alcuni giorni prima, siete stati riuniti dal vostro vescovo per la messa crismale.
Per ognuno di voi, quell’incontro è un momento di ritorno alle fonti, una sorta di festa di famiglia, in cui si rinnova, in Cristo, il vostro impegno per il servizio del popolo di Dio.
Ma quest’anno le rivelazioni sugli scandali di pedofilia rendono cupa l’atmosfera.
Come provare la gioia di essere prete quando dei sospetti pesano su “i preti”, facendo di questa espressione generalizzata una minaccia permanente e insopportabile? E, in senso più ampio, come provare la gioia di essere “cattolico” davanti ad un tale disastro? Potremmo fare silenzio, aspettare che si calmino i nostri oscuri sentimenti di vergogna, di umiliazione e di collera.
Ma sentiamo risuonare la parola di Cristo: “Questo è il mio Corpo”, e sentiamo che siamo tutti membra di questo Corpo.
Quando anche un solo membro soffre, tutto il corpo soffre.
Ci rendiamo conto che la sofferenza che proviamo con voi ha le sue radici anche nella nostra responsabilità di fronte a ciò che succede.
Il silenzio che viene rimproverato alla “Chiesa” è anche il nostro silenzio.
Neanche noi abbiamo saputo vedere, né voluto sentire, né osato parlare.
Così, ci prendiamo la nostra parte, e condividiamo il peso di ciò che succede.
Se ciascuno di noi “è la Chiesa”, che sia nella buona e nella cattiva sorte.
Insieme bisognerà capire che, se il crimine è stato di alcuni, il silenzio è stato di tutto un “sistema” a causa del quale i misfatti sono stati sottovalutati e si è preferito difendere la struttura dell’istituzione a scapito delle vittime.
Dolorosamente educati da questi avvenimenti, bisognerà che voi, preti, e noi, fedeli di Cristo, ricostruiamo la comunione ecclesiale sulla trasparenza, l’umiltà e la saggezza, perché la nostra Chiesa possa annunciare il Vangelo, e anche perché sia semplicemente più “umana”.
Ma prima di tutto, oggi, in occasione del Giovedì Santo, vogliamo ripetervi la nostra salda e calorosa amicizia.
La rivelazione di crimini isolati che riguardano delle personalità perverse non intacca in alcun modo la stima e la fiducia che abbiamo nei vostri confronti.
Noi battezzati cattolici rendiamo grazie a causa di voi, che avete scelto di servire il corpo di Cristo nel sacerdozio presbiterale, e vi ringraziamo di essere, in mezzo a noi, segni particolari della presenza di Cristo.
Siete i nostri preti e i nostri amici, siate certi che ci troverete al vostro fianco sia nei momenti di gioia che nelle prove, nella fraternità fondata su Cristo.
Buone feste pasquali, cari amici e cari fratelli.
in “www.conferencedesbaptisesdefrance.fr”del 30 marzo 2010 (traduzione: www.finesettimana.
org)