I movimenti cattolici: Il cammino Neocatecumenale

Nel discorso rivolto due giorni fa a migliaia di membri entusiasti del Cammino Neocatecumenale, riuniti nell’aula delle udienze, Benedetto XVI ha battuto per tre volte in sole venti righe sul tasto dell’obbedienza dovuta ai vescovi.
In effetti, il rapporto con i vescovi è un punto dolente del Cammino, fondato e diretto da più di quarant’anni dai laici spagnoli Francisco José Gómez Argüello, detto Kiko, e Carmen Hernández, affiancati dal sacerdote italiano Mario Pezzi.
Tra i vescovi, il Cammino conta molti sostenitori in tutto il mondo.
Il prossimo 26 gennaio 250 di costoro, tra i quali 70 dagli Stati Uniti, si ritroveranno in Israele nella Domus Galilaeae, la residenza ideata e costruita da Kiko sulle pendici del Monte delle Beatitudini, con magnifica vista sul lago, per uno stage in cui lo stesso Kiko farà da mattatore.
Ma vi sono anche numerosi vescovi che dal Cammino si sono sentiti scottati, dopo averlo visto all’opera sul proprio territorio.
Ad esempio i vescovi del Giappone.
Il 15 dicembre 2007, nella visita “ad limina” fatta al papa, il loro presidente, che all’epoca era l’arcivescovo di Tokyo, Peter Takeo Okada, disse a Benedetto XVI che “la potente attività simile a una setta sviluppata dai membri del Cammino produce acute e dolorose divisioni e lotte all’interno della Chiesa”.
I vescovi giapponesi esigevano la chiusura del seminario che il Cammino aveva aperto nel 1990 nella diocesi di Takamatsu.
Il Cammino faceva resistenza.
Nel 2008 per due volte dei vescovi giapponesi dovettero recarsi a Roma a perorare la loro causa.
Il segretario di stato vaticano Tarcisio Bertone studiò la questione e diede ragione ai vescovi.
Entro l’anno i seminaristi e il loro rettore dovettero traslocare a Roma.
Ma i membri del Cammino presenti in Giappone non accettarono la cosa pacificamente.
Il vescovo di Takamatsu, Francis Osamu Mizobe, scrisse loro una lettera in cui lamentava che celebrassero liturgie separate e chiedeva che obbedissero alle diocesi invece che ai loro capi.
Da Roma, la congregazione per l’evangelizzazione dei popoli inviò in Giappone un ispettore favorevole al Cammino, Javier Sotil Vaios Espiriceta.
L’ispezione avvenne tra il 20 e il 25 marzo 2009.
Ma non ebbe effetto.
Tant’è vero che nel 2010 i vescovi giapponesi, unanimi, decisero di farla finita.
All’inizio dell’Avvento resero pubblica la loro decisione di sospendere per cinque anni la presenza del Cammino nell’intero paese.
Il Cammino fece appello a Roma, alle massime autorità della Chiesa.
E in effetti lo scorso 13 dicembre si è svolta in Vaticano una riunione fuori del comune.
Da una parte del tavolo c’erano cinque vescovi giapponesi: quello di Osaka e presidente della conferenza episcopale, Leo Jun Ikenaga, gesuita (nella foto); quello di Takamatsu, Mizobe; quello di Fukuoka, Dominic Ryoji Miyahara; quello di Niigata, Tarcisius Isao Kikuchi; e quello emerito di Oita, Peter Takaaki Hirayama.
Dall’altra parte del tavolo c’erano il papa in persona, il cardinale Bertone, altri cinque cardinali e un arcivescovo.
In curia il principale protettore dei neocatecumenali è il sostituto segretario di stato Fernando Filoni.
Le autorità vaticane hanno ordinato ai vescovi di riprendere il dialogo con il Cammino, con l’aiuto di un delegato inviato da Roma e seguendo le istruzioni della segreteria di stato e della congregazione per l’evangelizzazione dei popoli.
I dirigenti del Cammino hanno accolto la decisione vaticana come un loro successo.
Ma i vescovi giapponesi faticano a pazientare ancora.
Il 12 gennaio il loro presidente, l’arcivescovo Ikenaga, ha scritto sul settimanale cattolico giapponese “Katorikku Shimbun” che “noi vescovi, alla luce della nostra apostolica responsabilità pastorale, non possiamo ignorare il danno che producono i neocatecumenali”.
E così ha proseguito: “Nei luoghi dove passano quelli del Cammino aumentano la confusione, i conflitti, le divisioni, il caos.
Speriamo che diano uno sguardo realistico ai motivi per cui le cose non hanno fin qui funzionato e, per la prima volta, ci aiutino ad andare alle radici dei problemi, affinché si possa arrivare a una soluzione”.
Il delegato vaticano non è stato ancora designato.
Quando arriverà, l’arcivescovo Ikenaga ha chiesto ai cattolici giapponesi entrati a contatto col Cammino di incontrarlo e di vuotare il sacco senza reticenze, perché questo è l’unico modo per “far arrivare il vero stato delle cose a un posto così lontano come Roma”.
Nella conferenza stampa tenuta a Roma il 17 gennaio subito dopo l’udienza col papa, Kiko Argüello ha detto che il Cammino agisce sempre in obbedienza ai vescovi e quindi non opera nelle diocesi in cui il vescovo non lo consente.
Ma il caso del Giappone è la prova che le cose non si svolgono in modo così lineare.
Dove il Cammino ha messo piede è difficile che retroceda, indipendentemente da cosa pensino i vescovi.
* Nella stessa udienza del 17 gennaio, Benedetto XVI ha toccato un altro punto dolente del Cammino, quello dei suoi testi di catechismo.
Questi testi – tredici volumi trascritti dall’insegnamento orale di Kiko e Carmen, oggi riassunti sotto il titolo di “Direttorio catechetico del Cammino neocatecumenale” – sono sempre stati segreti.
Nel 1997 l’allora cardinale Joseph Ratzinger ordinò che fossero consegnati alla congregazione per la dottrina della fede, per essere sottoposti a un esame dei loro contenuti dottrinali.
L’esame si protrasse fino al 2003.
La congregazione, che all’epoca aveva Bertone come segretario, apportò delle correzioni e introdusse circa 2000 rimandi a passi paralleli del catechismo ufficiale della Chiesa cattolica.
Eppure, solo alla fine del 2010 i tredici volumi dell’opera hanno avuto l’approvazione ufficiale, comunicata da Benedetto XVI nell’udienza di due giorni fa.
  Perché questo lungo purgatorio? Stando a ciò che Kiko ha detto nella conferenza stampa del 17 gennaio, il motivo era che nel frattempo c’erano altre due questioni da sistemare: l’approvazione definitiva dello statuto del Cammino e l’approvazione del modo con cui nelle comunità neocatecumenali si celebrano la messa e altri sacramenti.
Lo statuto è stato approvato l’11 maggio del 2008 – un anno dopo che era scaduto il precedente statuto provvisorio – e in esso sono state fissate anche le regole liturgiche alle quali il Cammino deve attenersi.
Entrambi questi traguardi sono stati raggiunti con grande fatica e in capo a forti contrasti, specie in campo liturgico, come www.chiesa ha documentato a suo tempo.
E tuttora i comportamenti effettivi delle comunità neocatecumenali non obbediscono sempre e in tutto alle norme.
Le messe continuano a essere celebrate nella gran parte dei casi separatamente, gruppo per gruppo, a porte semichiuse, con largo spazio alla creatività, cioè alle modalità rituali e parlate ritenute utili ai fini del cammino di iniziazione di ciascun gruppo.
Per i catechismi il criterio sembra essere lo stesso.
“Anche ora che sono stati approvati – ha detto Kiko nella conferenza stampa del 17 gennaio – c’è un cammino di iniziazione che va rispettato.
Non è bene che uno possa vedere subito l’intero percorso, prima ancora di cominciarlo.
Se la Chiesa ce lo ordinasse li metteremmo in vendita.
Ma preferiamo di no”.
* Nell’udienza del 17 gennaio Benedetto XVI ha inviato in missione 230 famiglie neocatecumenali, che si sono aggiunte alle oltre 600 già in missione in vari paesi del mondo.
Oltre a queste, ha inviato “ad gentes” anche 13 sacerdoti accompagnati ciascuno da tre o quattro famiglie, col compito di impiantare un nucleo di Chiesa in luoghi in cui il cristianesimo è sparito o non è mai arrivato.
All’udienza erano presenti anche i 2000 seminaristi dei 78 seminari “Redemptoris Mater” che il Cammino ha in tutto il mondo, dai quali sono usciti in vent’anni 1600 preti.
Le ultime cifre danno il Cammino presente in oltre 1320 diocesi di 110 paesi nei 5 continenti, con 20.000 comunità in circa 6.000 parrocchie.
Di queste 20.000 comunità, 500 sono a Roma – definita “la diocesi del mondo in cui il Cammino si è più sviluppato” – e 300 a Madrid, suo luogo d’origine.
Se ad ogni comunità si assegnasse una media di 15 membri, il totale dei neocatecumenali adulti nel mondo sarebbe di 300.000.
“Ma con i bambini e i ragazzi passiamo il milione”, dicono.
Le famiglie neocatecumenali, infatti, sono molto prolifiche.
Tra quelle inviate in missione la media è di 4 figli per coppia.
__________ Il testo integrale del discorso di Benedetto XVI nell’udienza del 17 gennaio 2011: > “Cari amici…” __________ Il sito ufficiale del Cammino, in otto lingue: > Cammino Neocatecumenale __________ Per i precedenti servizi di www.chiesa sul tema, vedi: > Focus su MOVIMENTI CATTOLICI

“Lo spirito di Assisi”

L’annuncio, fatto da Benedetto XVI dopo l’Angelus di Capodanno, di un suo viaggio ad Assisi, il prossimo ottobre, per un nuovo incontro tra le religioni per la pace, ha rinfocolato le controversie non solo sul cosiddetto “spirito di Assisi”, ma anche sul Concilio Vaticano II e il postconcilio.
Il professor Roberto de Mattei – fresco autore di una riscrittura della storia del Concilio che culmina nella richiesta a Benedetto XVI di promuovere “un nuovo esame” dei documenti conciliari per dissipare il sospetto che abbiano rotto con la dottrina tradizionale della Chiesa – ha firmato assieme ad altre personalità cattoliche un appello al papa affinchè il nuovo incontro ad Assisi “non riaccenda le confusioni sincretiste” del primo, quello convocato il 27 ottobre 1986 da Giovanni Paolo II nella città di san Francesco.
In effetti, nel 1986, l’allora cardinale Joseph Ratzinger non si recò a quel primo incontro, contro il quale era critico.
Partecipò invece a una sua replica tenuta sempre ad Assisi il 24 gennaio 2002, alla quale aderì “in extremis” dopo essersi assicurato che gli equivoci dell’incontro precedente non si ripetessero.
L’equivoco principale alimentato dall’incontro di Assisi del 1986 è stato quello di equiparare le religioni come sorgenti di salvezza per l’umanità.
Contro questo equivoco la congregazione per la dottrina della fede emanò nel 2000 la dichiarazione “Dominus Iesus”, per riaffermare che ogni uomo non ha altro salvatore che Gesù.
Ma anche da papa, Ratzinger è tornato a mettere in guardia dalle confusioni.
In un messaggio al vescovo di Assisi del 2 settembre 2006 ha scritto: “Per non equivocare sul senso di quanto, nel 1986, Giovanni Paolo II volle realizzare, e che, con una sua stessa espressione, si suole qualificare come ‘spirito di Assisi’, è importante non dimenticare l’attenzione che allora fu posta perché l’incontro interreligioso di preghiera non si prestasse ad interpretazioni sincretistiche, fondate su una concezione relativistica.
[…] Perciò, anche quando ci si ritrova insieme a pregare per la pace, occorre che la preghiera si svolga secondo quei cammini distinti che sono propri delle varie religioni.
Fu questa la scelta del 1986, e tale scelta non può non restare valida anche oggi.
La convergenza dei diversi non deve dare l’impressione di un cedimento a quel relativismo che nega il senso stesso della verità e la possibilità di attingerla”.
E in visita ad Assisi il 17 giugno 2007, ha detto nell’omelia: “La scelta di celebrare quell’incontro ad Assisi era suggerita proprio dalla testimonianza di Francesco come uomo di pace, al quale tanti guardano con simpatia anche da altre posizioni culturali e religiose.
Al tempo stesso, la luce del Poverello su quell’iniziativa era una garanzia di autenticità cristiana, giacché la sua vita e il suo messaggio poggiano così visibilmente sulla scelta di Cristo, da respingere a priori qualunque tentazione di indifferentismo religioso, che nulla avrebbe a che vedere con l’autentico dialogo interreligioso.
[…] Non potrebbe essere atteggiamento evangelico, né francescano, il non riuscire a coniugare l’accoglienza, il dialogo e il rispetto per tutti con la certezza di fede che ogni cristiano, al pari del santo di Assisi, è tenuto a coltivare, annunciando Cristo come via, verità e vita dell’uomo, unico Salvatore del mondo”.
Tornando alla controversia sul Concilio Vaticano II, va segnalato un importante convegno tenuto il 16-18 dicembre scorso a Roma, a pochi passi dalla basilica di San Pietro, “per una giusta ermeneutica del Concilio alla luce della Tradizione della Chiesa”.
È finita sotto il giudizio critico dei relatori soprattutto la natura “pastorale” del Vaticano II, con gli abusi avvenuti in suo nome.
Tra i relatori c’erano il professor de Mattei e il teologo Brunero Gherardini, 85 anni, canonico della basilica di San Pietro, professore emerito della Pontificia Università Lateranense e direttore della rivista di teologia tomista “Divinitas”.
Gherardini è autore di un volume sul Concilio Vaticano II che si conclude con una “Supplica al Santo Padre”.
Al quale viene chiesto di sottoporre a riesame i documenti del Concilio, per chiarire “se, in che senso e fino a che punto” il Vaticano II sia o no in continuità con il precedente magistero della Chiesa.
Il libro di Gherardini ha la prefazione di Albert Malcolm Ranjith, arcivescovo di Colombo ed ex segretario della congregazione vaticana per il culto divino, fatto cardinale nel concistoro dello scorso novembre.
Ranjith è uno dei due vescovi ai quali www.chiesa ha dedicato recentemente un servizio con questo titolo: > I più bravi allievi di Ratzinger sono in Sri Lanka e Kazakhstan E il secondo di questi vescovi, l’ausiliare di Karaganda, Athanasius Schneider, era presente al convegno romano del 16-18 dicembre, come relatore.
Qui sotto è riportata la parte finale della sua conferenza.
Che si conclude con la proposta di due rimedi agli abusi del postconcilio.
Il primo è l’emanazione di un “Syllabus” contro gli errori dottrinali di interpretazione del Vaticano II.
Il secondo è la nomina di vescovi “santi, coraggiosi e profondamente radicati nella tradizione della Chiesa”.
Ad ascoltare Schneider c’erano cardinali, dirigenti di curia e teologi di rilievo.
Basti dire che tra gli stessi relatori c’erano il cardinale Velasio de Paolis, l’arcivescovo Agostino Marchetto, il vescovo Luigi Negri e monsignor Florian Kolfhaus della segreteria di stato vaticana.
Tra gli ascoltatori c’era una folta schiera di Francescani dell’Immacolata, una giovane congregazione religiosa sorta nel solco di san Francesco, fiorente di vocazioni e di orientamento decisamente ortodosso, agli antipodi del cosiddetto “spirito di Assisi”, promotrice dello stesso convegno.

Trovare Dio nel deserto dell’anima

Secondo la scarna descrizione che di lui fecero fra’ Eliseo de los Martires e fra’ Girolamo di San José, Juan de la Cruz, Giovanni della Croce — uno dei più grandi mistici dell’Occidente — era di statura medio piccola e ben proporzionato nel corpo; il volto, moro, aveva una fronte ampia e spaziosa, naso appena aquilino, barba a mezzo pelo, occhi neri profondi e incoraggianti; il portamento era distinto e grave e, nella sua modestia e mitezza di tratto, irradiava una impronta di nobiltà spirituale, di serenità, e di calma.
Ma, dietro a quella mitezza e a quella serena calma, si celava una volontà di ferro: la volontà che nel corso della sua non lunga vita (era nato, da una famiglia povera, nel villaggio di Fontiveros, vicino ad Avila, nel 1542, morì nel convento di Ubeda, in Andalusia, mentre i confratelli gli leggevano brani del Cantico dei Cantici, il 13 dicembre del 1591), gli consentì di lottare con tutte le sue forze per la riforma dell’ordine del Carmelo a cui apparteneva (in questo vicinissimo a Santa Teresa d’Avila, che aveva incontrato nel 1567 e procedeva in questa stessa linea, fondando conventi «teresiani» dal Nord al Sud della Spagna); gli dette il coraggio e la pazienza di sopportare le contestazioni e le umiliazioni dei carmelitani che rimanevano calzati e vedevano come perturbatori della conservazione gli scalzi, e per circa un anno un duro carcere; la convinzione interiore di non doversi arrendere in alcun modo e per nessun motivo all’idea che la vera riforma della Chiesa non andava impiantata sulla ortodossia del pensiero e della dottrina, bensì cercata e risolta nel cuore dell’uomo addormentato in una fede affievolita, o spenta.
Le sue poesie, fortemente improntate dal Cantico dei Cantici, il libro amoroso e mistico per eccellenza, descrivono l’Amore: il dolore insopportabile che si prova per la lontananza o l’assenza di chi è amato e si nasconde; lo sgomento della solitudine; i misteriosi tocchi d’amore che, per sua volontà imperscrutabile, l’amato concede improvvisamente a chi ama e invece si sente abbandonato e ferito, come prigioniero nel ventre di una bestia, e poi improvvisamente vede un lampo che, però, di nuovo lo acceca e lo ferisce, dal momento che è un lampo, e scompare; infine, le dolcezze sublimi dell’unione, ineffabili, paragonabili con molta approssimazione a un naufragio di una luce piccola in una luce  immensa, di un suono in una musica silente.
Sono poesie meravigliose.
A chi lo interrogava su quale fosse l’origine di questi versi così ricchi e belli, rispose: «A volte era Dio a darmeli, a volte ero io a cercarmeli».
Li cercava — come fa ogni poeta, ogni scrittore, ogni artista — nel buio più assoluto: vera condizione, imprescindibile, per la creazione.
È lo stesso buio, la tenebra, che è al centro dei suoi Commentari — la Salita al Monte Carmelo, la Notte Oscura, il Cantico Spirituale, la Fiamma d’amore: vale a dire, i lunghi commenti che seguono le Canzoni, nei quali, appunto, si specchiano il verso e la prosa, i percorsi niente affatto dissimili del poeta e dell’uomo che insegue Dio e da Dio è inseguito — perché tutto, tutto comincia da lì.
Comincia dal buio che l’anima sente nella  mancanza d’amore, e lì finisce: nella tenebra che Dio impone all’anima per poterla accogliere nuda, smarrita nel buio, dentro di Sé.
Nessuno, mai, è riuscito a raccontare questo cammino dalla tenebra alla tenebra, e dalla tenebra alla luce, come ha fatto Juan de la Cruz.
Nessuno, mai, ha tracciato una salita tanto ardua, priva di ogni consolazione, comprese quelle ultraterrene.
Nessuno, mai, ha concepito per l’anima un abisso così profondo.
La Sposa è già in una notte oscura, eppure è infiammata d’amore: un amore che non riesce a definire e la sovrasta, e che forse, in una sua precedente visita, le ha regalato lo Sposo.
Quindi, esce dalla sua casa addormentata, esce dalla prigione dei sensi, e va a cercarlo.
Ma, per trovarlo, deve andare dove lui si è nascosto e dove, dunque, deve lei stessa nascondersi; deve ridursi a una tenebra ancora più oscura: e spogliarsi, annullare ogni conoscenza terrena, ogni conoscenza dell’intelletto, ogni tentazione della memoria, ogni folle presunzione della fantasia; deve annichilirsi nel corpo e nello spirito come, nel Getsemani e sulla Croce, fece Gesù.
«Per giungere a ciò che non sai» , scrive Juan de la Cruz nella Salita al Monte Carmelo, «devi passare per dove non sai; per giungere al possesso di ciò che non hai, devi passare per dove non hai niente; per giungere a dove non sei, devi passare per dove ora non sei; per giungere interamente al tutto, devi rinnegarti totalmente in tutto» .
L’anima, insomma, deve conoscere Dio attraverso ciò che Egli non è, piuttosto che attraverso ciò che è; deve farsi arida e vuota come il deserto (deve andare nel deserto in cui andò Gesù); deve sentirsi tradita, abbandonata, morta, sola.
Ma ecco che in que lmomento, quando penserà di essere infinitamente lontana da Dio, sentirà un «tocco amoroso» che la sconvolge, una voce forte e dolce che la chiama, e capirà che mai più di quel momento è stata vicina a Dio: che non è fuggito, è in lei tutto nascosto, e la sta chiamando.
Come è possibile questo amore? Come è possibile amare chi non si conosce? Come è possibile, nel buio, questo amore del buio? Come è possibile che io vada a cercarti — dice la Sposa allo Sposo — se «quello che capisco mi piaga e mi ferisce d’amore e quello che non riesco a comprendere mi uccide?».
È possibile — le risponde lo Sposo — perché io non ti ho abbandonata mai, io ti amata da sempre, prima che tu lo sapessi, e ti amerò per sempre.
La Sposa trema, incredula, a queste rivelazioni che di colpo squarciano la tenebra fitta, e balbetta d’amore, non sa che dire.
Allora, l’Amato le infonde nel cuore una immensa, pacifica e amorosa certezza: il calore che non si consuma mai della fiamma.
E l’anima brucia e non si consuma in quella fiamma.
È rapita e si perde in quella pacificante luce.
E — come accade nel Fedro, e alla fine del Verbo degli uccelli, il poema mistico medievale del persiano Attar, come accade in ogni amore vero — la bellezza dell’Amata e dell’Amato si specchiano e si confondono.
San Juan de la Cruz o Giovanni della Croce nacque in Spagna nel 1542 e morì nel 1591.
Fondatore dei Carmelitani Scalzi, fu beatificato nel 1675 e canonizzato nel 1726.
Il volume contenente Tutte le opere di Juan de la Cruz, con testo spagnolo a fronte, è curato da Luigi Bracco (Bompiani, pagine CXCVIII-2330, € 45) e fa parte della collana «Il pensiero occidentale» , diretta da Giovanni Reale.
in “Corriere della Sera” del 29 dicembre 2010

Camillo Ruini: «La stabilità è un bene Opportuno il contributo di chiunque possa darlo»

L’intervista Sul citofono della casa che guarda il Vaticano non è scritto «cardinale» o «eminenza» , ma solo il cognome: Ruini.
Anche ora che non è più il capo dei vescovi italiani e il vicario del Papa, la sua autorevolezza e il suo prestigio tra i cattolici — e non solo— sono intatti.
Cardinal Ruini, lei ha organizzato un convegno sui 150 anni dell’Unità d’Italia.
Come mai l’unificazione, che si fece contro la Chiesa, oggi è difesa dalla Chiesa stessa? «Lo abbiamo fatto spontaneamente, ci pareva importante dare il nostro contributo.
Ma fin dall’ 800 nella realtà cattolica e anche in ambienti ecclesiastici si guardava con simpatia e coinvolgimento all’Unità.
A dividere la Chiesa dalla nuova Italia era la questione romana, l’indipendenza dal potere politico.
Poi, in particolare nella seconda metà del ’ 900, il contributo dei cattolici alla storia unitaria è stato grande.
Quando ho cercato di approfondire il tema dei 150 anni, avevo in mente la lettera ai vescovi italiani del 6 gennaio 1994, in cui Giovanni Paolo II insiste sulla missione dell’Italia in Europa in un modo che ci appare sorprendente.
Oggi è difficile trovare un italiano che si esprima in questi termini sull’Italia» .
Lei pensa che oggi l’unità nazionale sia in pericolo? «Un pericolo immediato non lo vedo.
Vedo piuttosto una tendenza alla divaricazione tra il Centro Nord e il Sud.
Bisogna cercare di invertire questa tendenza, governarla e superarla; altrimenti a lungo termine può diventare pericolosa» .
Sta emergendo un separatismo anche meridionale? «Non direi un separatismo ma una profonda insoddisfazione, che non è una novità.
Già molti anni fa — almeno dall’ 86, quando arrivai alla Cei come segretario— notavo nella cultura meridionale una lettura dell’unificazione come un danno per il Sud.
Forse adesso è venuta più fuori, ma non nasce ora» .
L’espansione della Lega la preoccupa? «Non credo sia da collegarsi a una volontà separatista, ma più che altro a una rivendicazione delle autonomie locali e in genere di concretezza.
Il federalismo corrisponde alla ricchezza plurale della nostra società, perché l’Italia è il Paese delle cento città.
E può aiutare a responsabilizzare le classi dirigenti locali.
Certo bisogna che sia un federalismo solidale, bilanciato da un’autorità centrale abbastanza forte sul piano non solo della legislazione ma del governo concreto» .
Oggi siamo alla fine di un ciclo politico, o è importante la stabilità sino alla fine della legislatura? «Guardate, della fine dei cicli è meglio parlare quando si sono conclusi e un nuovo ciclo è nato.
Parlarne prima è piuttosto avventuroso.
Non è facile prevedere queste cose» .
Sarebbe auspicabile che i centristi cattolici contribuissero alla stabilità? «La stabilità è certamente un bene per il Paese.
Quindi è opportuno che ogni forza che può farlocontribuisca.
I modi possono essere tanti.
Certo la stabilità non è l’unico bene: accanto a essa c’è la capacità di fare riforme.
Entrambe, stabilità e riformabilità, rimandano allo stesso problema: una guida che possa essere stabile ma anche in grado di prendere decisioni.
Viviamo un periodo di velocissimi mutamenti in tutto il mondo.
Ogni paese, ogni persona è costretta ad adeguarsi in tempi rapidi.
Questo è forse il più grande problema del nostro tempo: nel Vaticano II, con la Gaudium et spes, si dice che la caratteristica del tempo presente è il mutamento.
Era vero nel ’ 65; lo è molto di più nel 2011.
E questo richiede una certa agilità.
È vero fino a un certo punto che il nostro Paese sia poco stabile.
È più vero che è lento nel prendere decisioni» .
Sta dicendo che occorrono riforme per dare più poteri ai governi? «Il problema della debolezza istituzionale dell’esecutivo c’è fin dall’inizio, dal ’ 48.
Anche al tempo di De Gasperi ricordo che ci fu una serie di suoi governi.
Da molti anni questa mia personale valutazione mi ha portato a consigliare, a chi veniva a parlare con me, di trovare la maniera per rafforzare l’esecutivo: sempre nel rispetto della distinzione dei poteri dello Stato» .
Il bipolarismo è un valore o una gabbia che può essere scardinata? «Credo che il bipolarismo, come tutte le forme politiche, abbia pregi e svantaggi.
La Chiesa non ha competenza a intervenire su una o l’altra forma; io posso dire una parola a titolo personale, non di più.
Il bipolarismo è un tentativo di adattare all’Italia, e alla molteplicità dei suoi soggetti politici, uno schema che consenta l’alternanza e una certa governabilità.
Un modo di adeguare il bipartitismo a una realtà complessa come la nostra» .
Nel 2008 lei era considerato favorevole a un accordo tra i cattolici e il Pdl, che non ci fu.
Oggi lo ritiene ancora possibile? «È improprio parlare di un accordo tra i cattolici e il Pdl: molti cattolici sono nel Pdl o lo sostengono, altri lo avversano o comunque non lo amano.
L’accordo a cui vi riferite è nel novero delle cose possibili.
Ciò che può contribuire alla stabilità politica è opportuno.
Ma non tocca a me dare indicazioni operative che non mi competono» .
Ma in chiave storica, secondo lei, dalla Chiesa è venuto un appoggio al berlusconismo? Se sì, dura tuttora? Perché la Chiesa sembra diffidare tanto del centrosinistra? «Queste due categorie, berlusconismo e antiberlusconismo, non servono a molto, per comprendere le dinamiche ecclesiali.
Non è mai stato un problema per noi, né in un senso né nell’altro.
Se vogliamo decifrare la linea della Chiesa nel lungo periodo, è abbastanza semplice: basta approfondire le parole di Giovanni Paolo II a Palermo, nel novembre ’ 95.
Il Papa disse che l’unità dei cattolici non era più intorno a un partito ma a contenuti essenziali e vincolanti; mentre per il resto ci poteva essere un pluralismo anche tra i cattolici.
Questa è sempre stata la linea su cui ci siamo mossi» .
Questi valori essenziali sono stati fatti propri più dalla destra che dalla sinistra? «Ognuno di voi può osservarlo nella realtà empirica.
Non sono cose che si giudicano a priori» .
Infatti le stiamo guardando a posteriori.
«Ma se si chiede alla Chiesa di dare lei stessa questo giudizio, ricadremmo nello schema precedente, quello dell’unità politico-partitica dei cattolici.
Noi non diamo indicazioni di voto.
E credo che questo sia apprezzato dall’opinione pubblica: la gente preferisce che noi indichiamo alcuni obiettivi ed essere poi lei a giudicare della congruenza delle forze politiche con ciò che diciamo.
E naturalmente, anche tra la gente, non tutti tengono conto delle nostre indicazioni» .
Nel referendum sulla fecondazione assistita ne hanno tenuto conto.
«Lì era diverso.
Lì non c’erano in gioco i partiti, si andava direttamente sui contenuti.
Il referendum ci consentiva quindi più libertà di intervento.
C’era da fare una scelta.
Noi l’abbiamo fatta.
Fortunatamente non è stata una scelta isolata» .
Ma non siete stati troppo accondiscendenti con Berlusconi? «Nella Chiesa, come sapete, ci sono vari atteggiamenti.
Personalmente non amo dare giudizi pubblici sui comportamenti privati delle singole persone, specialmente quando questi giudiziverrebbero subito letti e interpretati in chiave di lotta politica.
È chiaro comunque che ciascuno di noi deve cercare di dare una testimonianza positiva, tanto più importante quanto maggiore è la sua notorietà» .
Lei non ha mai avuto l’impressione che i politici facessero propri a parole i valori della Chiesa in modo strumentale? «Giudicare le intenzioni è molto difficile.
Che i leader pensino anche a un ritorno in termini politici non è strano, forse è anche normale.
D’altra parte sono scelte che hanno anche dei costi.
Non è che uno appoggiando la Chiesa ci guadagni di sicuro.
Quello che la Chiesa dice, infatti, è spesso controcorrente».
Che impressione le hanno fatto le immagini degli scontri del 14 dicembre a Roma? Vede il rischio di una stagione violenta? «Bisogna distinguere protesta e violenza.
Quando la protesta non è violenta, i giovani vanno ascoltati.
Più che il rifiuto della riforma universitaria, credo che queste proteste esprimano una preoccupazione di fondo: oggi le aspettative per i giovani non sono crescenti, ma purtroppo decrescenti.
E questo problema va fronteggiato in due modi.
È necessario fare riforme che diano maggiore spazio ai giovani, perché la società italiana penalizza i giovani, a cominciare dai bambini.
E bisogna che tutti— anche le famiglie, che tendono a essere molto protettive — accettino che nel mondo globalizzato i risultati anche personali si ottengono oggi con fatica maggiore di ieri.
La competizione geopolitica è diventata molto più dura e questo è un fatto irreversibile che riguarda tutto l’Occidente.
Bisogna dunque educare i ragazzi, fin da piccoli, ad affrontare le difficoltà, e non volerli proteggere da tutto.
Quanto alla violenza, è qualcosa che purtroppo si ripete dal ’ 68.
La mia personale allergia risale agli anni 70, quando mi occupavo di studenti a Reggio Emilia: ricordo la fatica di conquistare la possibilità di espressione che da tempo veniva rifiutata.
Per imporre il pensiero unico era facile che si arrivasse a forme di intimidazione» .
Il Papa ha paragonato il nostro tempo al crollo dell’Impero romano…
«Chi ha seguito gli scritti del teologo e del cardinale Ratzinger, e poi di Benedetto XVI, sa che da tempo ha questa preoccupazione: vengono meno i fondamenti morali, culturali e antropologici su cui si fonda la nostra civiltà.
L’imperare del consumismo e del relativismo.
L’eliminazione della specificità irriducibile dell’uomo rispetto agli altri viventi.
E in particolare l’odio dell’Europa verso se stessa, l’odio del proprio passato e delle radici cristiane.
Lo stesso cristianesimo, oltre a essere oggetto di odio, sembra talvolta odiare se stesso e rinnegare la propria rilevanza storica e perfino salvifica.
Ricordo quanto fu contestata dall’interno della Chiesa la dichiarazione Dominus Iesus, che nel 2000 affermava un punto base del Nuovo Testamento: Gesù Cristo è l’unico Salvatore!» .
Quali sentimenti le ha suscitato il libro-intervista del Papa? «Sono stato colpito dalla sua disarmante sincerità, dal suo esporsi sui temi più difficili, e dalla lucidità con cui li affronta.
La linea è sempre quella.
Da una parte Benedetto XVI denuncia la gravità dei problemi nella società e anche dentro la Chiesa.
Dall’altra non indulge mai a una lettura pessimistica, alla fine c’è sempre una grande fiducia: dovuta alla fede in Dio ma anche alla fiducia nell’uomo, quando l’uomo può esprimersi nella sua piena dimensione, come soggetto libero, intelligente e responsabile» .
Lei come passerà la notte di Natale? Per chi pregherà e per chi invita a pregare? «Come ogni anno, andrò alla messa di mezzanotte del Papa in San Pietro.
Pregherò per la Chiesa, per la pace nel mondo, per il mio Paese, per tutti coloro che soffrono e per i tanti che mi chiedono di pregare per loro.
Ma il Natale richiama specialmente Betlemme, le origini umili e indifese del cristianesimo, la povertà e debolezza del Bambino che nasce per noi.
Questi inizi devono essere una caratteristica permanente.
Non possono essere relegati al passato.
Natale ci serve per ritrovare l’origine e vedere il presente in quella chiave: il Natale non è una bella favola per i bambini ma una realtà, più reale delle cose che tocchiamo con mano ogni giorno» in “Corriere della Sera” del 24 dicembre 2010

Natale – La tenerezza di Dio

Natale – La tenerezza di Dio    Nel quieto silenzio che avvolgeva ogni cosa,  mentre la notte giungeva a metà del suo corso,  il tuo Verbo onnipotente, o Signore,  è sceso dal cielo, dal trono regale     Se consideriamo la presenza che Dio riserva alla vicenda umana, così come la tradizione biblica ce la consegna, sembra davvero che con Gesù si dia un nuovo inizio.
La Parola di Dio che si erge a difesa del popolo ebraico contro l’Egitto e il suo re ha una veemenza che la presenza del Verbo di Dio, venuto fra noi, non conosce.
Un breve accostamento fra i due racconti, quello della Sapienza e quello di  Luca lo conferma.
  Sulla travagliata vicenda umana la Potenza di Dio si erge sovrana.
Non di rado incombente e terribile, come quando percuote la tracotanza del Faraone e ne piega l’alterigia, ne spezza la violenza.
Lo ricorda la rievocazione potente del libro della Sapienza.
                  Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose,  e la notte era a metà del suo corso,  la tua parola onnipotente dal cielo,  dal tuo trono regale, guerriero implacabile,  si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio,  portando, come spada affilata, il tuo ordine inesorabile.                              (Sap.
18, 14-15) Vindice sovrano a protezione per l’oppresso, a minaccia irresistibile per l’oppressore.
  Redimere con pazienza  Con Gesù tace la potenza, si nasconde la maestà; si rivela la tenerezza, la mansuetudine.
 Nella rievocazione che ne fa la liturgia:                  nel quieto silenzio che avvolgeva ogni cosa,                  mentre la notte giungeva a metà del suo corso,                  il tuo Verbo onnipotente, o Signore,                  è sceso dal cielo, dal trono regale                       (Antifona d’inizio, 2a domenica dopo Natale).
               Dio scopre la soddisfazione di recare la novità, la gioia, la salvezza;                di far commuovere e godere anche dentro le avversità, la rude asperità                del vivere quotidiano.
               Ai pastori che vegliavano di notte il gregge l’angelo proclama:                vi annuncio una grande gioia…                  oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore,                 che è il Cristo Signore.
(Lc.
2, 10-11)                 Da sempre Dio ha coltivato un sogno:                   quando egli fissava i cieli, io ero là;                   quando tracciava un cerchio sull’abisso;…                   quando disponeva le fondamenta della terra,                    allora io ero con lui come architetto                    ed ero la sua delizia ogni giorno,                    dilettandomi davanti a lui in ogni istante;                    dilettandomi sul globo terrestre,                    ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo.
(Pv.
8, 26-31)                          Con Gesù Egli lo ha attuato.
E’ vero che                                            i Suoi non l’hanno accolto;                   A quanti però l’hanno accolto,                    ha dato potere di diventare figli di Dio (Gio.
1, 11-12).
                  Dunque di piantare sulla terra un germe capace di germogliare                   fino ad instaurare il Regno:                   Il tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino (Mc 1, 15);                    anzi è giunto fra voi il regno di Dio (Mt.
12, 28).
Il regno che di fatto la venuta di Gesù ha inaugurato, capace di fermentare l’esistenza di tutti, di redimere in profondità il tessuto refrattario della storia, che Dio non ha cessato di governare con potenza; ma che in Gesù intende redimere con pazienza, secondo ritmi lenti, ma irrresistibili; perché davanti ai suoi occhi mille anni sono come il giorno di ieri che è passato…               Ma con Gesù tace la potenza, si nasconde la maestà; si rivela la tenerezza, la mansuetudine.
Nella rievocazione che ne fa la liturgia: nel quieto silenzio che avvolgeva ogni cosa, mentre la notte giungeva a metà del suo corso, il tuo Verbo onnipotente, o Signore, è sceso dal cielo, dal trono regale (Antifona d’inizio, 2a domenica dopo Natale).
Dio scopre la soddisfazione di recare la novità, la gioia, la salvezza; di far commuovere e godere anche dentro le avversità, la rude asperità del vivere quotidiano.
Ai pastori che vegliavano di notte il gregge l’angelo proclama: vi annuncio una grande gioia… oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore.
(Lc.
2, 10-11)   Da sempre Dio ha coltivato un sogno: quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso;… quando disponeva le fondamenta della terra, allora io ero con lui come architetto ed ero la sua delizia ogni giorno, dilettandomi davanti a lui in ogni istante; dilettandomi sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo.
(Pv.
8, 26-31)   Con Gesù Egli lo ha attuato.
E’ vero che i Suoi non l’hanno accolto; A quanti però l’hanno accolto,  ha dato potere di diventare figli di Dio (Gio.
1, 11-12).
Dunque di piantare sulla terra un germe capace di germogliare fino ad instaurare il Regno: Il tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino (Mc 1, 15); anzi è giunto fra voi il regno di Dio (Mt.
12, 28).
Il regno che di fatto la venuta di Gesù ha inaugurato, capace di fermentare l’esistenza di tutti, di redimere in profondità il tessuto refrattario della storia, che Dio non ha cessato di governare con potenza; ma che in Gesù intende redimere con pazienza, secondo ritmi lenti, ma irrresistibili; perché davanti ai suoi occhi mille anni sono come il giorno di ieri che è passato…

Natale: Sei Tu… l’atteso?

Il Natale ripropone la domanda di Giovanni a Gesù: Sei Tu… l’atteso?   Giovanni il battista ci ha mandati da te per domandarti ‘Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?’ (Lc.
7, 20).
  Figura rude e altera questa di Giovanni il Battista.
La sua parola tagliente e persuasiva irrompe nella travagliata vicenda di un popolo, che custodisce da secoli un’attesa tenace e ne proclama il compimento.
Annuncia il Messia, l’Atteso; risponde ad un’esigenza irriducibile nella vita di ogni uomo, in attesa di colui che sappia darvi pieno compimento.
Come di fatto si verifica quando sulla scena appare una misteriosa figura  che s’impone con piena autorità.
E’ interessante  notare come il racconto evangelico lo vada progressivamente imponendo all’ammirazione delle folle e dei singoli.
Un rapido accenno ad alcuni episodi ne offre precisa conferma.
L’adultera lo contempla ergersi con sorana autorità, salvatore insperato, sui suoi accusatori, più grande perfino della legge che la condanna ( Gio.
8, 11); Zaccheo, il pubblicano, lo vede imporsi alla sua vita, attraversare la soglia della sua casa e inondarla di gioia (Lc.
19,5); La povera vedova nel tempio neppure s’accorge che il Suo sguardo silenzioso l’ha seguita ed ha contato i due spiccioli, messi nel salvadanaio, graditi a Dio più di ogni altra offerta: Lui solo ha saputo misurare lo spazio della sua illimitata fiducia (Lc.
21, 3).
E qui la figura sconcertante del Battista, il profeta che ha salutato in Gesù il liberatore ed è finito in carcere per la perentoria franchezza della sua parola; ora guarda con comprensibile sconcerto ai gesti che Egli va compiendo.
Perciò manda una delegazione a chiedergli: Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?   Suggestiva figura questa del Battezzatore, il più grande fra i nati di donna.
E’ vissuto per Lui, lo ha proclamato alle folle, lo ha additato ai suoi stessi discepoli, che sull’autorità della sua parola lo hanno seguito.
Il suo operare lo sorprende: Sei Tu?…
E’ la domanda che s’impone nella vicenda singolare e incomparabile di ogni uomo, che aspira ad un gesto di superiore comprensione e di misericordia, quando ha tradito perfino se stesso, come avviene nell’adultera; o intende ritrovare dignità e considerazione anche in una situazione compromessa, come in Zaccheo; o attende che un gesto apparentemente insignificante non cancelli la grandezza d’animo con cui è compiuto, quella che Dio solo misura, come nel caso della povera vedova.
Attese diverse che attraversano la vita, la fermentano.
Sei Tu la risposta all’attesa segreta di ogni uomo lungo la pista accidentata della propria esistenza? Oltre le innumerevoli attese che segnano la vita c’è un’attesa senza nome né volto ma profonda e persistente.  Presagita in tutte le situazioni che costellano il vivere quotidiano, affioranti ed effimere, tenace richiamo a quella presenza misteriosa e sovrana che Cristo interpreta.
Sei Tu… colui che attendo? Il tuo lungo pellegrinare lungo le strade assolate della Palestina – non ha mostrato sollecitudine per tutti? – non ha rinfrancato i più deboli? – non ha assolto chi era condannato? – non ha ridato gioia al deluso, serena sicurezza al naufrago? Venite a me voi tutti che mi avete atteso, che mi state aspettando, perché riempirò di conforto e di gioia la vostra attesa…     La domanda di Giovanni rappresenta un’occasione preziosa per interrogarci:             Quale l’attesa che fermenta, magari poco avvertita, la nostra vita?             Nella stessa scelta di consacrazione quale figura di Cristo ci ha orientati?             Negli anni della maturità religiosa ci sono aspetti                                     – che ci sconcertano?                                     – che ci appassionano?             Ho scoperto nel Vangelo ‘una verità per me’?

La svolta mariana degli Stati Uniti

L’orgoglio degli americani soffriva di una mancanza: già avevano fatto venire Gesù nei futuri States (così affermano i 6 milioni di Mormoni) ma la Madonna, almeno ufficialmente, non era mai stata  tra loro.
Ma ecco che l’8 dicembre, nel giorno dell’Immacolata Concezione, la Chiesa ha  sentenziato in modo solenne, per voce del vescovo di Green Bay nel Wisconsin, che Maria è davvero apparsa nell’America del Nord.
È la prima volta che una apparizione negli Usa è  riconosciuta ufficialmente come autentica.
Il Messico, nel 1531, ha avuto Guadalupe, che provocò la nascita del santuario forse più frequentato del mondo.
Per stare nelle Americhe, autentici pure, secondo la Chiesa, i fatti che diedero vita a un altro enorme santuario, quello brasiliano dell’Aparecida (1717).
Il Venezuela vide riconosciute le apparizioni della Finca Betania, avvenute nel 1976.
Per non parlare della Francia, che ha il primato (Le Laus, 1664; La Salette, 1846; Lourdes, 1858; Pontmain, 1871).
Anche il Giappone (Akita, 1973) e la Polonia (Gietrzwald, 1877), ebbero Maria tra loro.
Persino l’Africa Nera (Kibeho, nel Rwanda, 1981) ha goduto di una apparizione mariana dichiarata soprannaturale.
Nulla, invece, per gli yankee.
Sinora, lo dicevamo, milioni di statunitensi credevano che le popolazioni originarie della loro terra fossero i discendenti di tribù emigrate da Israele prima di Cristo.
E Gesù stesso, dopo la Risurrezione, sarebbe venuto nel territorio dei futuri Stati Uniti.
Anzi, proprio qui avrebbe dato il meglio del suo insegnamento.
È questo, in effetti, il Credo di quella religione tipicamente made in Usa che è il mormonismo, ufficialmente «Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni».
Quanto alle presunte apparizioni di Maria, sono state numerose, ma nessuna ha superato le severe inchieste della gerarchia cattolica.
Adesso la svolta, anche se sono occorsi 151 anni per giungere alla decisione.
I fatti, in effetti, si svolsero a Champion, sobborgo di Green Bay, nel 1859, cioè un anno dopo Lourdes.
Anche nel Wisconsin la protagonista fu una ragazzina, figlia di immigrati belgi.
Per tre volte, una Signora radiosa, vestita di bianco, le apparve e le disse: «Sono la Regina del Cielo che prega per i peccatori e desidero che tu faccia lo stesso».
Aggiunse poi: «Riunisci i figli di questo Paese selvaggio e insegna loro ciò che devono sapere per salvarsi».
Il comando della Signora fu preso radicalmente sul serio, tanto che Adele Brise — questo il nome della veggente — aiutata da un’amica che era presente alle apparizioni e che aveva lei stessa visto e sentito, fondò una Congregazione per l’educazione dei figli dei poveri immigrati.
Morì nel 1896 in odore di santità e sul luogo dell’Incontro sorse un santuario ancora oggi molto frequentato: la Chiesa vi permetteva il culto, però non si pronunciava sulla verità delle origini.
L’attuale vescovo di Green Bay, monsignor David Ricken, ha ripreso il dossier storico, impressionato soprattutto dal fervore dei pellegrini e basandosi, dunque, sul criterio dato da Gesù stesso: «Dai frutti conoscerete l’albero».
Tanta devozione, durata un secolo e mezzo, poteva avere solo origini genuine.
Così, nel giorno della Immacolata, nella sua cattedrale, ha letto solennemente un decreto: «Dichiaro con certezza morale e in base alle norme della Chiesa che le apparizioni e i discorsi ricevuti dalla serva di Dio Adele Brise nell’ottobre del 1859 hanno verità di carattere soprannaturale.
Io, con la presente, approvo queste apparizioni della Vergine Maria come degne di fede».
Il vescovo precisa che accettare questa verità «non è obbligatorio» per i credenti, ma questa è la norma che sempre vale per questi eventi.
Grande esultanza, comunque, non solo nel Wisconsin ma in tutto il Paese, dove — malgrado tutto — quella cattolica è la comunità religiosa con il maggior numero di aderenti.
Come ha osservato Massimo Introvigne, sociologo delle religioni: «Anche questo è un segno che la Chiesa americana è molto cambiata.
Dopo l’ubriacatura progressista e la crisi dei preti pedofili, i credenti si sono stretti attorno ai vescovi e al loro insegnamento: anche nel rilancio della devozione mariana».
in “Corriere della Sera” del 13 dicembre 2010

Martin Rhonheimer: il papa discute in campo aperto

Intervista con Martin Rhonheimer D.
– Alcuni commentatori cattolici considerano le osservazioni del papa un cambiamento totale; altri dicono che non è cambiato assolutamente nulla.
Qual è la posizione giusta? R.
– Né l’una né l’altra.
Comincerei con la seconda: “Niente è cambiato”.
Non è vero.
Papa Benedetto, immagino dopo un’attenta ponderazione, ha fatto affermazioni pubbliche che hanno cambiato la riflessione su queste materie, sia dentro che fuori la Chiesa.
Per la prima volta è stato detto da parte del papa in persona, sia pure non in un formale atto di insegnamento del magistero della Chiesa, che la Chiesa non “proibisce” incondizionatamente l’uso profilattico del condom.
Al contrario, il Santo Padre ha detto che in certi casi (nel commercio del sesso, ad esempio), il loro uso può essere un segno di un primo passo verso la responsabilità (nello stesso tempo chiarendo che questa non è né una soluzione per vincere l’epidemia dell’AIDS né una soluzione morale; la sola soluzione morale è abbandonare uno stile di vita moralmente disordinato, e vivere la sessualità in un modo realmente umanizzato).
Queste considerazioni accendono molte sensibilità su entrambi i versanti, e questo è il motivo per cui spero che il passo compiuto da papa Benedetto possa cambiare il modo con cui discutiamo questi temi, verso un modo meno teso e più aperto.
Ma l’altra posizione, secondo cui ciò che ha detto il papa è un cambiamento totale, è ugualmente inesatta.
Primo, ciò che egli ha detto non cambia in nessun modo la dottrina della Chiesa sulla contraccezione; semmai conferma questa dottrina, come insegnata dalla “Humanae vitae”.
Secondo, le sue affermazioni non dichiarano che l’uso del condom sia privo di problemi morali o sia in genere permesso, anche per finalità profilattiche.
Papa Benedetto parla di “begründete Einzelfälle”, che tradotto letteralmente significa “giustificati singoli casi” – come il caso di una prostituta – nei quali l’uso del condom “può essere un primo passo nella direzione di una moralizzazione, una prima assunzione di responsabilità”.
Ciò che è “giustificato” non è l’uso del condom come tale: non, almeno, nel senso di una “giustificazione morale” da cui consegua una norma permissiva tipo “è moralmente permesso e buono usare in condom in questo e quel caso”.
Ciò che è giustificato, piuttosto, è il giudizio che ciò può essere considerato un “primo passo” e “una prima assunzione di responsabilità”.
Papa Benedetto certamente non ha voluto stabilire una norma morale che giustifichi eccezioni.
Terzo, ciò che papa Benedetto dice non si riferisce a persone sposate.
Parla solo di situazioni che sono in se stesse intrinsecamente disordinate.
Quarto, come ben mette in chiaro, il papa non difende la distribuzione dei condom, che egli crede portino a una “banalizzazione” della sessualità che è la causa primaria della diffusione dell’AIDS.
Egli semplicemente menziona il metodo “ABC”, insistendo sull’importanza di A e B (astinenza e fedeltà, “be faithful”), considerando C (“condom”) un ultimo ripiego (in tedesco “Ausweichpunkt”) nell’eventualità che delle persone rifiutino di seguire A e B.
Inoltre, molto più importante, egli dichiara che quest’ultima soluzione appartiene propriamente alla sfera secolare, cioè a programmi di governo per combattere l’AIDS.
Ciò che il papa ha detto, quindi, non riguarda come le istituzioni sanitarie guidate dalla Chiesa debbano trattare i condom.
Ha dato una valutazione su che cosa pensare riguardo a una prostituta che abitualmente fa uso di condom, non riguardo a coloro che sistematicamente li distribuiscono al fine di contenere l’epidemia, cosa che è nella responsabilità delle autorità di uno stato.
Da parte sua, la Chiesa continuerà a presentare la verità riguardo all’ esercizio pienamente umano della sessualità.
D.
– Nelle sue osservazioni, papa Benedetto non definisce l’uso del condom da parte di persone infette di HIV un “male minore”, eppure è così che alcuni teologi e leader cattolici spiegano ciò che ha detto.
Sono i preservativi in qualche caso un “male minore”? R.
– Descrivere l’uso del preservativo per prevenire il contagio come un male minore è molto ambiguo e può produrre confusione.
Certo, possiamo dire che quando una prostituta usa un condom, ciò diminuisce il male della prostituzione o del turismo sessuale, dato che diminuisce il rischio di trasmettere il virus HIV a più larghi strati della popolazione.
Ma ciò non significa che sia bene scegliere atti cattivi per conseguire una finalità buona.
Fermo restando che un comportamento sessuale immorale dovrebbe essere evitato in tutto, a mio giudizio il punto giustamente messo in luce dal Santo Padre è che quando una persona che già sta compiendo atti immorali usa un preservativo, egli o ella non scelgono propriamente un male minore, ma semplicemente cercano di prevenire un male, il male del contagio.
Dal punto di vista del peccatore questo ovviamente significa scegliere un bene: la salute.
D.
– Se il papa dice che l’uso del preservativo in alcuni casi può essere un segno di risveglio morale, non è che egli dice che la pratica della contraccezione è talvolta accettabile? O che la pratica della contraccezione è preferibile alla trasmissione dell’HIV? R.
– Un condom è fatto per essere un mezzo per impedire ai fluidi maschili di penetrare nel grembo della donna.
Il suo uso corrente è per la contraccezione.
Nel caso di cui parla il papa, invece, la ragione del loro utilizzo non è di impedire il concepimento, ma di prevenire il contagio.
Non dobbiamo confondere gli atti umani, che possono essere intrinsecamente buoni o intrinsecamente cattivi, con delle “cose”.
Non è il condom come tale, ma il suo uso che presenta problemi morali.
Quindi, ciò che il papa dice non si riferisce anche alla questione della contraccezione.
Sappiamo che alcuni teologi morali sostengono che poiché – eccetto nel caso di partner sessuali sterili – l’effetto dei condom è sempre fisicamente contraccettivo e per questa ragione intrinsecamente cattivo, coloro che li usano necessariamente commettono il peccato della contraccezione, anche se non ne fanno uso per questo scopo.
Questo è il motivo per cui essi argomentano che il loro utilizzo rende un atto già immorale ancora peggiore.
Ma ciò che papa Benedetto ha detto ora – tenuto conto che non ha voluto restringere il caso alla sola prostituzione omosessuale maschile, nella quale la questione della contraccezione ovviamente non si pone – indebolisce in modo decisivo questa argomentazione.
Io penso che la sola via per sfuggire dal bizzarro vicolo cieco a cui portano tali argomentazioni – la tesi, ad esempio, che anche da un punto di vista morale sarebbe meglio per una prostituta essere infettata che utilizzare un condom – è avere ben chiaro che i preservativi, considerati come tali, non sono “intrinsecamente contraccettivi” nel senso di un giudizio morale.
È il loro uso, e l’intenzione implicata in questo uso, che determina se l’uso di un condom equivale a un atto di contraccezione.
D.
– Si può presumere che il papa fosse consapevole della confusione che certe parole possono produrre tra i cattolici.
Non le chiedo di fare congetture indebite sulle sue intenzioni, ma che cosa di buono può venir fuori da questo? R.
– È evidente che il Santo Padre ha voluto portare questa materia in campo aperto.
Sicuramente ha previsto il trambusto, i fraintendimenti, la confusione e anche lo scandalo che avrebbe potuto causare.
E credo che egli abbia giudicato che sia necessario, nonostante tutte queste reazioni, parlare di queste cose, nello stesso spirito di apertura e di trasparenza con il quale, da quando era a capo della congregazione per la dottrina della fede, ha trattato i casi di abuso sessuale tra il clero.
Penso che papa Benedetto creda nella forza della ragione, e che dopo un certo tempo le cose diverranno più chiare.
Egli ha cambiato la riflessione pubblica su questi temi e ha preparato il terreno per una più vigorosa e appropriata comprensione e difesa dell’insegnamento della Chiesa sulla contraccezione, come parte di una dottrina dell’amore coniugale e del vero significato della sessualità umana.
__________ Il settimanale cattolico degli Stati Uniti su cui è uscita l’intervista col professor Rhonheimer, raccolta dal suo direttore, John Nort

Tu chi sei?

Tu quis es? Tu chi sei? È una domanda sull’ identità di un’altra persona.
Chi la pone sul serio, tuttavia, sperimenta in sé gli stessi interrogativi: Tu quis es? Chi pensi di essere? Quale definizione dai di te stesso? Da questa domanda si apre una via all’interiorità.
Di fatto, noi vorremmo conoscere a fondo che cosa muove il nostro fratello o sorella ad agire in un certo modo.
Questo rifluire della domanda su noi stessi ci coglie soprattutto quando interroghiamo le persone che ci sono care o con cui abbiamo una comunità di vita.
Quando poi si tratta di qualcuno da cui dipende la nostra vita e il nostro futuro, questa ricerca può assumere anche un carattere drammatico.
La Scrittura è particolarmente conscia di quanto questa domanda ci interpelli e ci mostra, in particolare nei Vangeli, esempi di questo cammino interiore che può anche giungere a una prova, come quella di Giacobbe con l’angelo (Gen 32) o l’agonia di Gesù nell’Orto degli Ulivi (Mc 14,32- 42).
Questo atteggiamento fondamentale di domanda si pone fin dagli inizi della predicazione di Gesù.
Chi viene a contatto con il suo ministero si stupisce di come Egli possieda la forza del dire, connessa con il potere di fare miracoli.
Il quarto Vangelo ha nella sua prima pagina la domanda «tu quis es?» posta a Giovanni il Battista.
La sua risposta è molto chiara: «Egli confessò e non negò.
Confessò: “Io non sono il Cristo”.
Allora gli chiesero: “Chi sei, dunque? Sei tu Elia?”.
“Non lo sono” disse.
“Sei tu il profeta?”.
“No” rispose.
Gli dissero allora: “Chi sei perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato.
Che cosa dici di te stesso?”» (Gv 1,20-22).
Occorreva una grande umiltà per rispondere così.
Con questo il Vangelo di Giovanni ci fa comprendere come per conoscere il Cristo sia necessario anzitutto sapere chi non si è, ed essere molto sinceri sulle cose che non abbiamo.
I primi che si pongono questa domanda rispetto a Gesù sono i due discepoli dello stesso Giovanni.
Secondo il quarto Vangelo, non osano essere espliciti, ma chiedono timidamente: «Maestro, dove abiti?» e Gesù risponde con una proposta: «Venite e vedrete» (Gv 1,39).
Dunque, per rispondere alla domanda «tu quis es?» occorre avere la capacità di ascoltare e comprendere il mondo della persona in questione.
Natanaele poi viene colpito da grande stupore perché, incontrandolo, Gesù gli dice di averlo visto sotto il fico.
A questo stupore Gesù risponde: «Vedrai cose più grandi di queste» (Gv 1,50).
I capitoli terzo e quarto di Giovanni ci fanno comprendere che è attraverso dubbi e fatiche che si arriva a conoscere l’altro.
Nel terzo Gesù cerca di chiarire le idee a un uomo fondamentalmente buono ma legato da difficoltà e fatiche.
Di fronte alla Samaritana Egli afferma: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è che ti dice dammi da bere, tu avresti chiesto a lui e lui ti avrebbe dato acqua viva» (Gv 4,10).
La donna, quindi, non è ancora giunta a riconoscere chi gli sta di fronte, ma arriverà alla conoscenza di Gesù evocando la questione messianica e sentendosi rispondere: il Messia «sono io che parlo con te».
Nel capitolo quinto Gesù viene rimproverato dai giudei per aver compiuto un miracolo nel giorno di sabato, e le resistenze alla sua missione si fanno via via più forti.
Chi vuole conoscere intimamente il mistero di Cristo deve pagare un duro prezzo.
Da qui in avanti si ripeteranno queste auto-affermazioni di Gesù con l’uso di termini metaforici.
Egli si presenta come luce del mondo che dona la luce della vita.
In questi capitoli prevalgono le diatribe di coloro che non sono disposti ad accettare la sua testimonianza.
Gesù guarisce il cieco nato e il quarto Vangelo ne trae occasione per esprimere tutte le difficoltà a riconoscere che Gesù sia il Messia.
In seguito Egli paragona se stesso alla porta delle pecore e soprattutto al buon pastore.
Finalmente Gesù si dichiara come la risurrezione e la vita (Gv 11,10-25).
Intanto si sono già formati a proposito della sua persona due schieramenti opposti: quelli che gli credono e valutano positivamente i suoi gesti e, dall’altra parte, quelli che prendono scandalo dalle sue parole e dal suo modo di agire.
Si vede di qui che nella formazione del giudizio su una persona vengono fuori molte ragioni emotive ed è quindi necessario un cuore puro.
In conclusione, per rispondere al «tu quis es?» bisogna: primo, riconoscere coraggiosamente ciò che io non sono; secondo, incontrare l’altro nel suo ambiente e nella sua storia; terzo, avere il senso dello stupore, ossia la capacità di meravigliarsi che suscita la ricerca; quarto, essere disponibili ad andare oltre il visibile; quinto, accettare insieme anche il reale nelle sue manifestazioni meno appariscenti.
Infine, per conoscere un’altra persona bisogna essere disposti a lasciarsi mangiare per dare vita e riceverla.
La domanda «tu quis es?» coinvolge tutta la persona ed è una domanda primaria: conoscersi e conoscere significa lasciarsi attraversare e insieme condurre dall’altro.
in “Corriere della Sera” del 7 dicembre 2010

Protestanti in Francia: famiglia ricomposta.

Protestanti sono tra il 2,5% e il 2,8% dei francesi.
Vent’anni fa erano circa il 2%.
Questa crescita si spiega con l’esplosione delle Chiese evangeliche.
È vero che gli evangelici fanno più discepoli dei luterano-riformati, ma questi ultimi restano ancora nettamente la maggioranza (56%).
Come succede per molti giovani cattolici, i luterano-riformati si ispirano sempre più ai modi di  espressione degli evangelici, al loro senso della comunità e si impegnano in campagne di evangelizzazione.
Il che potrebbe delineare un futuro molto diverso dagli scenari tratteggiati negli anni ’80 sotto il regno assoluto del paradigma della secolarizzazione e dell’ineluttabile scomparsa del religioso.
Questi sono in poche parole i principali insegnamenti del convegno “I protestanti in Francia, una famiglia ricomposta.
Analisi e punti di riferimento”, che si è svolto a Parigi dal 18 al 20 novembre.
Era organizzato dal Groupe Sociétés Religions Laïcités (Ecole pratique des hautes études et CNRS) con il sostegno dell’Institut européen en Sciences des religions e sotto il patrocinio della Fédération protestante de France.
Un convegno particolarmente vivace, con decine di interventi limitati a venti minuti, dibattiti con la sala e talvolta tra relatori.
Tra questi ultimi: Claude Baty, presidente della Federazione protestante, Etienne Lhermeneault, presidente del Consiglio nazionale degli evangelici francesi e Laurent Schlumberger, presidente del Consiglio nazionale della Chiesa riformata.
La “religione come memoria in una discendenze di credenti”, caratteristica di una certa cultura luterano-riformata, sembra lasciare il posto alla “religione per la speranza con pellegrini e convertiti”.
Sembra anche che si vada verso una nuova situazione ecumenica, poiché gli incontri tra i cristiani di Chiese diverse, ad esempio attraverso il parcours Alpha, si moltiplicano.
In altri termini,: la tesi del “blocco dell’ecumenismo” non sta proprio più in piedi.
Ora, questo nuovo “cristianesimo di convinzione” e assertivo che corrisponderebbe all’individualizzazione si sviluppa in una società in cui il numero di atei e di non cristiani tende ad aumentare in questi ultimi trent’anni.
La ricomposizione del protestantesimo si inscriverebbe quindi nella ricomposizione della società.
Queste sono alcune delle formule utilizzate dai due responsabili scientifici del convegno: Sébastien Fath, ricercatore al CNRS al Groupe Sociétés Religions Laïcités, et Jean-Paul Willaime, direttore di studi alla sezione delle Sciences religieuses de l’école pratique des hautes études.
Numeri Per avere un quadro generale delle nuove tendenze, la cosa migliore è consultare un sondaggio effettuato dall’Ifop per Réforme e La Croix: “I protestanti fotografati dalle inchieste IFOP del 2010”.
Il documento è particolarmente ricco, tanto per i risultati grezzi, che per l’originalità del metodo.
I sondaggisti hanno interrogato per telefono negli scorsi mesi di maggio e di giugno 702 persone selezionate dall’Ifop.
Quest’ultimo, guidato dal gruppo GSRL, ha preso in considerazione le persone che si sono dichiarate “protestanti” e quelle che si sono dichiarate “cristiani evangelici”.
A molti evangelici – in questo caso il 18% degli intervistati – non piace presentarsi come “protestanti”.
Un fatto che gli istituti di sondaggio ignoravano fino a quel momento.
E che cambia notevolmente i risultati.
Inoltre, non si parla più qui di “persone vicine al protestantesimo”, un’espressione simpatica ma inadatta.
Secondo Sébastien Fath permette a molti cattolici liberali di esprimere la loro prossimità a ciò che percepiscono del protestantesimo (che raramente corrisponde alla realtà).
Ma queste persone sono cattoliche, non protestanti.
I risultati del sondaggio sono dunque, ai nostri occhi, molto sorprendenti.
Citiamo ad esempio il fatto che il 39% dei protestanti è “praticante regolare” (si reca al culto almeno una volta al mese).
Confrontiamo questa cifra con il 7% dei cattolici praticanti regolari (cioè che vanno a messa almeno una volta al mese).
Citiamo un altro indicatore, molto protestante: il 46% dei protestanti francesi legge la Bibbia almeno una volta al mese.
Quasi la metà! Ma i numeri più spettacolari, a nostro avviso, sono quelli che si ottengono confrontando il profilo dei luterano-riformati e quello degli evangelici.
Il 60% degli evangelici si reca al culto una volta alla settimana, contro…
il 9% dei luterano-riformati.
Il 74% degli evangelici legge la Bibbia almeno una volta alla settimana, contro il 17% dei luterano-riformati.
Una differenza che si ritrova in ambito teologico.
Il 70% degli evangelici dice di contare su guarigioni miracolose contro il 13% dei luterano-riformati.
Si può anche citare il profilo demografico dell’evangelico tipo: è più giovane e più cittadino del riformato tipo.
Il suo statuto sociale è generalmente meno elevato di quello del riformato.
In materia di etica sessuale (e bioetica), le differenze sono importanti (non è necessariamente una sorpresa), ma meno caratterizzanti di quanto si pensava.
Il 46% dei luterano-riformati è a favore della benedizione delle coppie omosessuali da parte delle Chiese, ma una maggioranza – il 54% – è contraria.
Questa opinione è condivisa per il 14% degli evangelici, mentre l’85% è contrario.
Quanto alle convergenze, evidentemente numerose, e sottolineate in particolare dai responsabili della Federazione protestante, si possono citare le preferenze in materia di etica sociale e di politica.
Il 61% dei luterano-riformati è contrario all’affermazione: “Ci sono troppi immigrati in Francia”.
Esattamente come il 62% degli evangelici.
Ci sarebbe anche una correlazione positiva tra atteggiamento favorevole all’accoglienza degli immigrati e lettura della Bibbia.
A rifiutare l’affermazione che ci sono troppi immigrati in Francia è il 71% dei lettori settimanali della Bibbia.
Ecumenismo Destra o sinistra? Alla pari.
Il 53% dei luterano-riformati sono di sinistra (PS e Verdi) e di sinistra si dice anche il 46% degli evangelici.
Il 34% dei luterano-riformati sono di destra (UMP e FN), tale opinione è condivisa “solo” dal 32% degli evangelici.
Si può pensare (e altri sondaggi lo confermano) che i partiti centristi siano molto popolari tra i protestanti.
In ogni caso, come precisa Jean-Paul Willaime nel documento consegnato ai giornalisti, bisogna abbandonare un preconcetto: “Gli orientamenti politici dei luterano-riformati e degli evangelici non differiscono molto.
La contrapposizione corrente tra riformati di sinistra ed evangelici di destra non corrisponde alla realtà.” Altro preconcetto che occorrerebbe rivedere: “l’ecumenismo” attira ancora un numero di luteranoriformati un po’ più alto rispetto agli evangelici.
Ma quando si osservano gli scambi concreti tra cristiani, si scopre che gli evangelici partecipano a incontri ecumenici proporzionalmente più dei luterano-riformati! La differenza è marginale, e si può invece notare la convergenza.
Gli evangelici sono “aperti” al dialogo con gli altri cristiani quasi quanto i luterano-riformati.
Al termine del convegno che aveva lui stesso aperto, Claude Baty ci ha manifestato la sua reazione rispetto ai numeri e alle analisi presentate.
Ha refutato sicuramente la tesi della polarizzazione tra evangelici e luterano-riformati e insistito al contrario su tutto ciò che unisce i protestanti.
“A mio avviso è sbagliato spiegare il protestantesimo diviso in fratture e in blocchi contrapposti.
E in queste condizioni, credo che la mia responsabilità sia di non voler fratturare per esistere, ma al contrario gestire la diversità per dare all’esterno una testimonianza che sia coerente”, ci dice.
Una cosa è certa: durante questi tre giorni di convegno, ci sono stati dibattiti, ma non aprioristicamente tra evangelici e luterano-riformati.
O tra carismatici e tradizionalisti.
Ci sono stati degli scambi tra scienziati, pastori e teologi su fatti osservabili, non dibattiti sterili.
“Non ci si è accontentati di commemorare Calvino”, si rallegra Claude Baty.
E manifesta un punto di vista che sembra nettamente condiviso dagli altri attori del protestantesimo contemporaneo: “Bisogna uscire da una identità storica che ha come finalità solo la commemorazione.
Bisogna uscire da una storia ideale, per entrare in un ritratto realistico”.
in “www.temoignagechretien.fr” del 22 novembre 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)