Alla scoperta dell’Eucaristia.

 

Cristina Carnevale, Alla scoperta dell’Eucaristia. Un viaggio curioso tra esperienze umane e senso religioso, Ave, Roma, 2011, pp. 56, € 5.00

 

 

Un percorso rivolto ai bambini, ma anche ai genitori, ai catechisti e agli insegnanti che li accompagnano; partendo dall’esigenza di interpretare le esperienze quotidiane (mangiare, stare insieme, ricordare, sacrificarsi, ringraziare) si arriva a scoprire il loro senso religioso collegato al valore dell’Eucaristia (mensa, comunione, memoriale, sacrificio, rendimento di grazie).

Il piccolo lettore viene accompagnato da alcuni simpatici personaggi di fantasia in un processo di esplorazione, riflessione e apprendimento.

 

Cristina Carnevale

L’autrice, esperta in Scienze dell’Educazione e Pedagogia religiosa, è docente di religione nella Scuola Primaria dell Diocesi di Roma. È membro dell’AIMC (Associazione Italiana Maestri Cattolici) e SIREF (Società Italiana di Ricerca Educativa e FOrmativa) e scrive per riviste di pedagogia e didattica.  Già autrice di altre pubblicazione rivolte a bambini, tra cui La stella della pace. Corso di religione cattolica per la scuola primaria, La Scuola, Brescia 2009 e La stella della pace. Corso di religione cattolica per la scuola primaria, La Scuola, Brescia 201

XXV Congresso Eucaristico Nazionale di Ancona 2011

Aperto il XXV Congresso Eucaristico

Eucaristia, matrice  d’unità per il Paese

 

“Nell’anno in cui il nostro Paese fa memoria dei suoi 150 di unificazione nazionale, è importante esplicitare la forza rigenerante dell’Eucaristia, che ha contribuito a plasmare l’identità profonda del nostro popolo ben prima della sua stessa identità politica”.

Il Card. Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ha voluto ricordarlo ad Ancona sabato 3 settembre, aprendo il XXV Congresso Eucaristico Nazionale, nella suggestiva cornice del Teatro delle Muse, alla presenza delle autorità religiose e civili.

“L’Eucaristia, essendo il centro vitale della Chiesa, ha avuto sempre, nella vita dei centri grandi e piccoli disseminati nella nostra Penisola, una indubbia centralità”, ha aggiunto il cardinale sottolineando che di ciò “oggi si avverte ancor più il bisogno di ribadire il primato di Dio e per ritrovare insieme la strada di un bene condiviso”.
Del resto, “attorno al memoriale di Cristo è cresciuta la stessa memoria condivisa che ha reso uno il nostro Paese; e, ne siamo convinti, passa ancora da lì ogni speranza di prospettiva futura”, ha osservato mons. Edoardo Menichelli, arcivescovo di Ancona-Osimo, che nel suo saluto ha ribadito il legame tra Eucaristia e vita sociale.

“Dal riconoscere la nostra appartenenza al Signore, dal nutrirci di Lui fino a rimanere in Lui – ha osservato ancora l’Arcivescovo – nascerà la fiducia che ci consentirà di uscire da ogni meschino cabotaggio e di tornare a prendere il largo sul mare della storia”.

Soprattutto, ha rilevato da parte sua Gian Mario Spacca, presidente della regione Marche, “in un tempo in cui le coordinate di riferimento per la comunità nazionale sembrano offuscate, in cui famiglie e lavoratori vivono quotidiane sofferenze, in cui i giovani faticano ad intravvedere l’orizzonte del proprio futuro”.
“Che questo Congresso, grande festa della fede cristiana, sia sorgente di ispirazione e di energie per un impegno di tutti nella costruzione di una società più giusta, più solidale e più fraterna”, è stato l’augurio del Legato Pontificio, card. Giovanni Battista Re.

Una sintesi della relazione principale, “Eucarestia e storia di una nazione”, affidata ad Andrea Riccardi, è disponibile sul sito www.congressoeucaristico.it insieme alla possibilità di scaricare i testi integrali.

 

 

 

Domenica 4 Settembre 2011

Ancona, la Messa inaugurale del Cen

Una storia narrata con letizia e coraggio

 

 

 

 

“Oggi, ad Ancona, si apre il XXV Congresso Eucaristico Nazionale, con la Santa Messa presieduta dal mio Legato, il Cardinale Giovanni Battista Re. Domenica prossima, a Dio piacendo, avrò la gioia di recarmi ad Ancora per la giornata culminante del Congresso. Fin da ora rivolgo il mio saluto cordiale e la mia benedizione a quanti parteciperanno a questo evento di grazia, che nel santissimo Sacramento dell’Eucaristia adora e loda Cristo, sorgente di vita e di speranza per ogni uomo e per il mondo intero”.

Con queste parole il Papa, domenica 4 settembre, al termine dell’Angelus si è collegato alla celebrazione di Ancona, presieduta dal Card. Re, e concelebrata fra gli altri dal Card. Bagnasco e dall’Arcivescovo Menichelli.

Quest’ultimo, nell’introdurre la celebrazione, trasmessa da RaiUno con la regia di don Antonio Ammirati, ha invitato a leggere il Congresso come l’occasione di grazia con cui “rinnovare la fede nell’Eucaristia, rimotivare la missione della Chiesa italiana, raccontare con letizia e coraggio l’amore per Cristo Signore, percorrere la via della santità che nell’Eucaristia trae alimento e ragione, leggere l’Eucaristia come un convivere sociale dove la giustizia e la fraterna solidarietà hanno cittadinanza senza paura alcuna”.

Testo integrale dell’omelia (sezione “Relazioni e interventi”), foto e approfondimenti sul sito www.congressoeucaristico.it

Da lunedì 5, ogni giorno dalle 9.30, sempre sul sito ufficiale del Cen, la diretta dalle città della Metropolia di Ancona, dove – dopo la preghiera e la lectio, qualificati relatori affrontano le tematiche del Congresso: gli ambiti della vita quotidiana alla luce dell’Eucaristia.

 


Lunedì 5 Settembre 2011

Cen, le giornate dei 5 ambiti

Eucaristia, sinfonia di vita

 

 


 

Davanti alla “frammentazione dei saperi, delle persone, delle relazioni e delle componenti sociali”, la sfera dell’affettività può rappresentare “un nucleo generatore di unità”. Se è vero infatti che l’affettività “è un campo problematico”, è altrettanto vero che può essere “uno spazio per sperimentare una nuova via dove incontrare l’uomo”.
Lo ha affermato Ina Siviglia, docente alla Facoltà teologica di Palermo, nella relazione sulla vita affettiva, tema guida della giornata di lunedì 5 settembre al XXV Congresso Eucaristico Nazionale. Nella società di oggi “la sfera affettiva può essere definita come ‘cultura dei senza’: sesso senza amore, amore senza matrimonio, matrimonio senza figli”. E questo, ha osservato Siviglia, “deve indurci ad analisi e riflessioni molto puntuali che, evitando un moralismo esagerato, conducano ad una progettualità educativa che sappia accompagnare in maniera continuativa il bambino, il ragazzo, il giovane”. Secondo la teologa, è necessaria “una vera e propria alleanza educativa tra diversi soggetti educanti”. Occorre cioè “creare reti di relazioni che costituiscano ambienti competenti
e favorevoli ad una crescita armonica della personalità e a una specifica maturazione dell’affettività”.
“Le esperienze affettive sono sempre più spesso svincolate da ogni legame duraturo e al di fuori di qualsiasi logica progettuale e al tempo stesso i legami non sempre sono alimentati dalla dimensione affettiva”, ha rilevato da parte sua il pedagogista dell’Università Cattolica e presidente della Confederazione dei Consultori di Ispirazione Cristiana, Domenico Simeone, ricordando che “per compiere il cammino verso un amore maturo i bambini, i ragazzi e i giovani hanno bisogno di testimoni credibili e affidabili con cui confrontarsi, di adulti che sappiano ‘compromettersi’ nella relazione educativa, hanno bisogno di educatori che sappiano aprire le porte del futuro perché sogni, desideri, progetti possano trovare dimora”. Del resto, ha sottolineato Simeone, “compito dell’educatore è suscitare nel soggetto una responsabile progettazione dell’esistenza, che, evitando i rischi della progettazione inautentica connotata da acriticità, incoerenza, unilateralità, assecondi la capacità di effettuare scelte orientate al futuro, aperte al cambiamento e volte alla piena realizzazione della persona nella sua globalità”.
In quest’ottica, “la famiglia rimane l’ambito fondamentale dell’umanizzazione della persona, il luogo privilegiato della cura degli affetti e dell’educazione”. Non meno importante è il ruolo della comunità ecclesiale: “i problemi scottanti che interpellano oggi la Chiesa (giustizia, pace, bioetica, ecologia) e non ultima la questione antropologica – ha concluso Siviglia – esigono un serio ripensamento globale di tutta la progettualità e la prassi pastorale”. Per vivere pienamente la vita eucaristica.

 

Martedì 6 Settembre 2011


Cen, è la giornata della fragilità

Entra in carcere la Croce della Gmg

 

 


 


Il Centro Caritativo Beato Gabriele Ferretti, nasce dall’esigenza di continuare l’esperienza di accoglienza e apertura alla persona che in vario modo è effettuata, con il coordinamento della Caritas Diocesana, nelle realtà ecclesiali del territorio dell’ Arcidiocesi di Ancona-Osimo.
Sarà gestito dall’Associazione di riferimento della Diocesi, la SS. Annunziata Onlus, ed è rivolto a persone in difficoltà, senza fissa dimora, con problemi legati a disagi di tipologie diverse e vede la realizzazione di un centro con numerosi servizi legati a singole progettualità:
1) casa di seconda accoglienza,
2) “mercatino della solidarietà” per residenti in stato di povertà,
3) mensa serale,
4) centro diurno per senza dimora
5) laboratorio
6) servizio di igiene personale (docce- lavanderia).
Il Centro Caritativo Beato Gabriele Ferretti vuole essere soprattutto un’opera segno che stimoli tutti gli uomini e le donne di buona volontà a mettersi in atteggiamento di incontro e attenzione nei confronti di chi soffre, di chi è rimasto solo, di chi ha smarrito la strada…
Le possibilità che si aprono rispetto al volontariato in questa nuova realtà, che si aggiunge al Centro Giovanni Paolo II di via Podesti, sono quindi numerose, in base alla disponibilità di tempo e alle caratteristiche di ciascuno.
L’importante è che questa opera viva della presenza costante e generosa di chi riconosce il proprio cammino personale e di fede alla luce dell’incontro e della condivisione con l’altro e cerca quindi di vivere la propria esperienza nell’ottica della comunione, del pane spezzato per tutti, del pane condiviso con tutti nella solidarietà e nella giustizia.


Mercoledì 7 Settembre 2011

Al Cen è la volta di lavoro e festa

Il Vangelo  nel cuore della vita

Uno sguardo eucaristico sulla realtà vuol essere il Congresso in corso nella metropolia di Ancona: un esercizio essenziale, per vivere nella luce dell’Eucaristia e per celebrarla nel cuore della vita. In questa prospettiva, mercoledì 7 settembre si punta a rileggere il Vangelo nell’ambito del lavoro e della festa, con una serie di incontri di approfondimento tra Fabriano, Ancona, Falconara e Osimo: dalle 10 si possono seguire in streaming sul sito del Congresso. Riflessioni, ma anche celebrazioni, concerti, e feste.

 

 

 

Giovedì 8 Settembre 2011

Cen, la giornata della tradizione

Per una vita buona, per una vita riuscita



L’ambito della tradizione – a cui il Congresso dedica la giornata di giovedì 8 settembre – invita a riflettere in qual modo l’Eucaristia sostiene il dinamismo della vita cristiana. Il Cristo che si dona, presente nel pane eucaristico, è il riferimento per quella vita buona del Vangelo, nella quale ogni uomo ed ogni donna può trovare la più profonda realizzazione della sua umanità. E’ la giornata dei sacerdoti e della vita consacrata; è la giornata della processione eucaristica, solennizzata anche dall’infiorata.  La città è spesso fatta di mondi che non si parlano: come l’Eucaristia aiuta a coniugare unità e diversità, a fare posto agli esclusi? Maggioranza e minoranza sono due categorie spesso usate contrapposte: come l’Eucaristia ricompone persona e comunità, i pochi e i molti? L’Eucaristia è pane del cammino, accompagna ovunque: come può diventare fonte di accoglienza?

 

 

Venerdì 9 Settembre 2011

Cen, la giornata della cittadinanza

“I cristiani hanno una parola per la città”

 

 

 

“Dobbiamo arrenderci all’Eucaristia che, unendoci intimamente a Gesù, ci apre agli uomini e ce li fa riconoscere non solo come nostri simili ma come fratelli, e ci spinge a servirli. Non è dunque la sintonia ideologica o caratteriale che ci unisce gli uni agli altri, ma Dio; e nella sua verità non ci sono lontananze incolmabili o fratture che non possono essere sanate”. La giornata dedicata alla cittadinanza ha trovato il suo culmine nella celebrazione eucaristica presieduta dal Card. Bagnasco.
Ad Ancona, in una Cattedrale gremita, venerdì 9 settembre il Presidente della Cei, citando sant’Agostino ha ricordato come “nella santa comunione, infatti, siamo assimilati a Lui, conformati a Lui: la nostra individualità viene elevata ma non distrutta, si ritrova più ricca nella comunione trinitaria”.
Questo orizzonte religioso “precede il pur nobile impegno morale” e rende i cristiani “consapevoli di avere qualcosa di proprio da dire”; qualcosa che si condensa in una precisa visione dell’uomo, i cui “cardini costitutivi” e “fondativi della nostra civiltà umanistica” si riassumono nella “vita senza alcuna decurtazione, il matrimonio e la famiglia, la libertà religiosa ed educativa”. Da tale architrave nasce il bene comune, del quale “il lavoro è espressione peculiare, e sul quale oggi si addensano motivate preoccupazioni”.
Soffermandosi sul tema della città, il Cardinale ha richiamato le immagini evangeliche del lievito e del sale per parlare della presenza dei cristiani nella società civile. Ha, quindi, lanciato un appello a dar voce “insieme” a tale presenza: “«insieme», senza avventure solitarie, per essere significativi ed efficaci: «insieme» secondo le forme storicamente   possibili, con realismo e senza ingenuità o illusioni, facendo tesoro degli insegnamenti della storia.
“La condensazione di ideali comuni, che nascono dall’ ispirazione cristiana e dalla sapienza umana – ha concluso – è una ricchezza per tutti”.

» Omelia del S.Em. Card. Angelo Bagnasco [.doc] [.mp3]

 

 


Sabato 10  Settembre 2011

Cen, la giornata della famiglia
Mille famiglie,  una sola famiglia

 

La domenica è “il giorno privilegiato della famiglia”. Per questo “non bisogna rassegnarsi a lasciarlo ridurre a week end, fine settimana consumista e individualista, disgregazione delle comunità e delle famiglie”. Il monito è stato lanciato sabato 10 settembre dal card. Ennio Antonelli, presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia, durante la celebrazione eucaristica che ha dato il via al quarto pellegrinaggio delle famiglie, inserito nel programma del Congresso eucaristico nazionale.
“La partecipazione assidua alla messa della domenica è il sostegno necessario e insostituibile della famiglia cristiana”, ha ricordato il cardinale sottolineando che “intorno a questo incontro settimanale col Signore nell’assemblea liturgica, la famiglia si costruisce come piccola chiesa missionaria e cellula vitale della società mediante la procreazione generosa e responsabile, l’educazione cristiana dei figli, la preghiera in casa, l’amore reciproco e verso tutti, l’incremento delle virtù personali e sociali, le attività ecclesiali e caritative, l’impegno lavorativo e civile”.
Del resto, “ogni celebrazione eucaristica, in quanto ripresentazione del sacrificio della croce, è anche celebrazione dell’alleanza nuziale di Cristo con la Chiesa”. Ecco perché “per i coniugi cristiani partecipare bene e possibilmente insieme alla Messa significa alimentare l’amore reciproco, la carità coniugale”. “La domenica, che nel vangelo di oggi viene chiamata il primo giorno della settimana – ha ribadito il card. Antonelli – è destinata a diventare il giorno privilegiato della famiglia”.
Ai partecipanti al pellegrinaggio delle famiglie – circa 30 mila persone aderenti ad associazioni e movimenti arrivate ad Ancona da tutta Italia – è giunto il saluto del Papa che, attraverso un telegramma a firma del segretario di Stato Tarcisio Bertone, ha esortato ad “attingere sempre dalla celebrazione e dall’adorazione eucaristica energie nuove per camminare in unità di amore e vita e cooperare all’edificazione della comunità ecclesiale e civile”.
.
.
.
Venerdì 2 Settembre 2011


.


La mostra, inaugurazione in diretta
L’arte europea racconta l’Eucaristia



Alla Mensa del Signore. Capolavori dell’Arte Europea da Raffaello a Tiepolo”: la mostra – allestita ad Ancona per il Congresso Eucaristico – presenta un cospicuo numero di capolavori dell’arte, ben 120 opere, molti di dimensioni monumentali, il cui allestimento si è reso possibile grazie agli imponenti spazi della Mole Vanvitelliana.
Un vero e proprio museo dunque, pur se temporaneo, il cui tema evoca subito i nomi di Leonardo e Raffaello, il primo presente con la predella della pala Baglione raffigurante la Carità, il secondo evocato da molte opere fra cui spicca lo spettacolare e monumentale gruppo scultoreo della Basilica della Beata Vergine dei Miracoli di Saronno, che permetterà al pubblico di ammirare in forma tridimensionale il celebre affresco di Leonardo del convento delle Grazie.
La straordinarietà di questa mostra risiede, oltre che nei capolavori dei grandi maestri dell’arte europea, nella preziosa e ricca raccolta del vasto tesoro artistico conservato nelle diocesi marchigiane: un ordinamento storico-artistico mai realizzato prima d’ora e che rende la rassegna unica nel suo genere.
A presiederne l’inaugurazione, venerdì, 2 settembre, alle 18 – vedi la diretta streaming – saranno il Card. Giovanni Lajolo, Presidente del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, S.E. mons. Edoardo Menichelli, Arcivescovo di Ancona-Osimo, don Stefano Russo, Direttore dell’Ufficio Nazionale per i Beni Culturali Ecclesiastici della CEI, Dott. Gian Mario Spacca, Presidente della Regione Marche, Prof. Fiorello Gramillano, Sindaco di Ancona, Dott.ssa Patrizia Casagrande, Presidente della Provincia di Ancona, Dott. Massimo Sarmi, Amministratore Delegato Poste Italiane, Prof. Giovanni Morello, Presidente Comitato Scientifico del CEN, Prof. Antonio Paolucci, Direttore dei Musei Vaticani e Dott. Rodolfo Giampieri, Presidente Camera di Commercio di Ancona.


Da Avvenire

 

La seconda giornata di lavori del Congresso eucaristico nelle Marche è stata dedicata al tema della “fragilità”. In mattinata, riflessioni in contemporanea ad Ancona, Loreto e Osimo, dove si sono celebrate al mattino le messe presiedute rispettivamente da monsignor Liberati, monsignor Marrucci e monsignor Canalini, a cui sono seguite le lodi. In serata ad Ancona la messa presieduta dal cardinale Tettamanzi (nella foto Siciliani, gli stand delle cooperative nate dal Progetto Policoro).





Il Vangelo fuoco che arde nonostante la cenere della storia

“È possibile vivere il Vangelo?”.

 

Chi come me ha una certa età, avendo ormai attraversato le varie stagioni della vita ed essendo approdato all’ultima, riconosce che questa domanda ha ricevuto e continua a ricevere risposte diverse.
C’è stata una stagione, che per la mia generazione è coincisa con la giovinezza, in cui le attese, le speranze, le forti convinzioni tipiche del tempo in cui i giovani si affacciano alla vita e vi entrano, erano convergenti con le speranze della chiesa e del mondo. Erano gli anni del disgelo tra l’occidente e l’oriente comunista, gli anni in cui si riprendeva un dialogo interrotto da tempo, e la primavera sembrava essere la metafora più appropriata per definire quell’epoca in cui molte realtà sembravano germogliare e alcune sbocciare. Questo avveniva anche nella chiesa: un papa che appariva innanzitutto come un cristiano; un concilio da lui voluto in cui ci si ascoltava, ci si confrontava anche aspramente ma con la passione della fedeltà al Signore; un dibattito tra singoli cristiani e tra comunità cristiane che avvertivano nel loro quotidiano il bisogno di mutamento, di rinnovamento, potremmo anche dire di conversione. Si respirava nell’aria una novità che non  era l’arrivo di una “moda”, ma era un ritorno al Vangelo, alla forma vitae della chiesa primitiva.


Per questo si parlava, con molto timore, anche di aggiornamento, qualcuno ardiva persino parlare di riforma della vita della chiesa. Per i cristiani con una certa consapevolezza era il Vangelo che
diventava una presenza dinamica, un riferimento, un principio che veniva invocato come un’urgenza, una realtà da viversi concretamente e, oserei dire, visibilmente: questo non per “un’ostensione davanti agli uomini” ma per verificare che il Vangelo ispirava veramente la vita di molti cristiani ed era assunto dalla chiesa come presenza egemone. In questo cammino si  coniavano parole ed espressioni nuove: ritorno alle fonti, riscoperta della chiesa dei padri, ispirazione alla comunità apostolica, autorevolezza della chiesa indivisa…


Qualcuno oggi, analizzando quella stagione, conclude che nella chiesa si era instaurato un mito – il mito di un’età dell’oro, il mito delle origini – e che questo era dovuto soprattutto a Erasmo da Rotterdam, il quale agli inizi del XVI secolo plasmò un certo vocabolario e una certa filosofia della riforma ecclesiale. In verità chi conosce più in profondità la storia della chiesa sa che nella vicenda stessa del cristianesimo è insita questa nostalgia degli inizi. Anzi, potremmo dire che già nell’Antico Testamento i profeti, a partire da Osea, ricordavano al popolo del Signore il bisogno di ritornare ai tempi del fidanzamento, ai tempi del deserto, contrassegnati dalla fedeltà e dall’amore (cf. Os 2,16- 25): quell’amore che sa cantare la convinzione forte e la grande speranza in cui sembra non apparire la stanchezza e non esserci posto per la frustrazione, la delusione, il misurare la propria debolezza.


Quando, di fronte alla chiesa costantiniana sorta nel IV secolo, avvenne la protesta del monachesimo e la sua fuga nel deserto, i padri monastici chiesero di tornare alla koinonía, alla comunità descritta da Luca nei cosiddetti “sommari” degli Atti degli apostoli (cf. At 2,42-47; 4,32- 35). Ritorno alle fonti, quindi. In seguito ogni tradizione attingerà sempre a quella forma della chiesa primitiva: questo avverrà per i vari tentativi di riforma, da quello di Cluny a quello di Bernardo di Clairvaux, ai movimenti mendicanti e anche a quelli ereticali, tutti tesi a riprendere la prassi di chi “nudo segue il Cristo nudo”.


Mito della riforma? O non piuttosto capacità del Vangelo di essere un fuoco che continua a covare sotto la cenere, che resta brace incandescente la quale può sempre dare origine a un roveto  ardente?
“Il Vangelo è dýnamis, potenza di Dio” (Rm 1,16), dice l’apostolo Paolo! Può essere smentito, fatto tacere, reso inefficace, può essere addirittura contraddetto e pervertito, e allora sembra restare inerte sotto la cenere. Ma poi riprende ad ardere, perché è un fuoco che subito rinasce non appena un cristiano getta sulla cenere qualche sterpo del suo vivere, alla ricerca della luce e della presenza divina. Non si può far tacere per sempre il Vangelo: per qualche tempo sì, e la storia della chiesa lo testimonia; ma poi basta che un uomo o una donna, alla ricerca di luce vera e di fuoco che consumi, abbia il coraggio di scostare un po’ di cenere e di gettarvi sopra una bracciata di legna secca, che subito il fuoco e la luce si fanno nuovamente vedere.


Ormai vecchio, vicino alla morte, un grande spirituale italiano confidò a me e a un mio fratello: “Me ne vado dopo aver combattuto per riformare la chiesa, ma ora sono convinto che la chiesa sia irriformabile”. Quelle parole mi stupirono, mi fecero male, ma non nego che ora a volte sono tentato di condividerle. Siamo capaci di dare alla chiesa un volto nuovo, più fedele e conforme al volto  di Cristo, oppure questa è solo una speranza, e la sposa di Cristo sarà tale solo quando verrà lo Sposo? Mi ostino a credere che alla brace del Vangelo basti il soffio dello Spirito per riprendere adardere, riscaldando i nostri cuori e illuminando l’umanità intera. Sì, il Vangelo si può ancora vivere in ogni stagione.


in “Jesus” n. 9 del settembre 2011

Un ateo tra i cristiani

 


intervista a Alfred Grosser, a cura di Jérôme Anciberro

 

Politologo, specialista delle relazioni internazionali e commentatore dell’attualità politica francese e tedesca, Alfred Grosser è stato una delle colonne del riavvicinamento franco-tedesco fin  dagli anni cinquanta. Questo osservatore è anche conosciuto negli ambienti cristiani per il suo sguardo insieme critico e amichevole di ateo sul mondo della fede.

 

Lei non è né tedesco né cattolico, eppure spesso capita che la prendano per l’uno o per l’altro. Come vive questo paradosso?
È un paradosso reale. Ma anche se non faccio parte né della comunità tedesca, né di quella cattolica, mi sento partecipe della vita, delle speranze e delle delusioni degli uni e degli altri. Se parlo con un uomo politico tedesco appartenente ad una generazione un po’ anziana, lui dimentica in capo a cinque minuti che non sono tedesco. Abbiamo gli stessi punti di riferimento. Succede la stessa cosa quando discuto con un prete cattolico. Parlo la lingua della “tribù”, sono al corrente di quello che succede nella Chiesa. Insomma, ho tutti i segni esteriori di un buon parrocchiano. Mi è del resto capitato di dover far rettificare degli articoli che mi definivano tale.

Si può capire che la prendano per un tedesco, perché è nato tedesco e, come formazione, è germanista. Ma come mai succede così per il cattolicesimo?
La mia famiglia è ebrea e io personalmente sono ateo: ateo e non agnostico. Quest’ultima parola mi sembra che abbia a che fare con la civetteria o con il politicamente corretto. Un po’ come si  diceva “israelita” per non dire “ebreo”. Ma io non credo in Dio, credo in moltissime cose… La mia conoscenza del cattolicesimo si è costruita attraverso delle letture, la mia attività di “compagno di strada” dell’Azione cattolica delle gioventù francese (ACJF), la mia collaborazione a La Croix dal 1955, le mie amicizie, ad esempio con il padre gesuita François Varillon. E quando mia moglie, cattolica per nascita, ha veramente iniziato una vita di fede negli anni settanta, anch’io ho seguito gli insegnamenti da lei ricevuti al Centre Sèvres, la facoltà dei gesuiti di Parigi. Si potrebbe dire  che sono stato “ingesuitato”…

Ma che cosa le dà la frequentazione dei cattolici?
Mi permette di parlare con delle persone che hanno una linea di vita, dei principi con i quali tentano di essere coerenti, anche se questo talvolta lascia a desiderare e anche se non sempre sono d’accordo. Ma, soprattutto, i cristiani pensano, riflettono e questo fa sempre bene. Del resto, anche se il cattolicesimo francese vive oggi una crisi istituzionale profonda, in particolare per il crollo del numero di praticanti e di vocazioni, rimane un luogo di grande vitalità intellettuale.

 

Certi critici affermano al contrario che questa vitalità intellettuale del cattolicesimo francese sia in declino da qualche decennio.
Penso sinceramente che questo giudizio sia sbagliato, ma forse ho cattive frequentazioni… Siamo seri: ci sono degli ambiti oggi in cui certi intellettuali cattolici non possono non essere presi in considerazione. Si può forse parlare seriamente di bioetica ignorando gli studi di Olivier de Dinechin? Capire i fondamenti teologici dell’opera di Bach senza gli studi del gesuita Philippe Charnu e di Christophe Theobold? L’intelligenza cattolica è lì! Quello che si potrebbe forse rimproverare al cattolicesimo francese e che contribuisce alla sua relativa scomparsa dal dibattito pubblico, è una tendenza esagerata alla sottomissione. All’esterno, la Chiesa – più dei laici – è spesso discreta, quando fa riferimento alla laicità che le dà il diritto di intervenire sulla scena pubblica. All’interno, si assiste ad episodi sorprendenti. L’atteggiamento di sottomissione di Mons. Ricard nel 2009 quando Roma gli ha imposto, nella sua diocesi, la costituzione dell’Istituto tradizionalista del Buon Pastore ne è una illustrazione evidente. Ma si tratta di un esempio in più della tendenza cattolica ad accettare tutto, quando si tratta di cose che vengono dalla parte identitaria e conservatrice.

 

Qui le rimprovereranno di occuparsi di cose che non la riguardano, dato che lei non fa veramente parte della famiglia.
Non vedo perché questo mi impedirebbe di analizzare i fatti. Ma è vero che se facilmente reagisco sul cattolicesimo, è perché mi sento coinvolto. Forse perché sono anch’io ferito quando vedo come le persone vicine a me, i miei amici cattolici vengono trattati. Indipendentemente dal fatto che la cosa venga dall’esterno o dall’interno. Sono il primo ad essere impressionato dagli attacchi, in particolare mediatici, che subisce la Chiesa, attacchi che sono nella maggior parte dei casi di una stupidità incredibile. Ma prendiamo un altro esempio, interno questa volta, quello dei preti- operai, alcuni dei quali erano miei amici. Quelle persone sono andate da altre persone, a cui hanno detto che il loro impegno nella vita operaia era definitivo, che non erano andati lì solo a fare una visitina.
E tutt’a un tratto, la gerarchia chiede loro di interrompere tutto. Ci si può immaginare facilmente la sensazione di confusione e la perdita di credibilità. È un po’ quello che è successo in Algeria con gli ufficiali francesi che avevano promesso a certe popolazioni che le avrebbero protette qualunque cosa fosse successa e a cui è stato improvvisamente chiesto di lasciar perdere.

 

Il confronto è per lo meno originale…
Forse, ma è proprio osando fare confronti che si capiscono meglio le cose. All’inizio può irritare, ma è estremamente stimolante. Ho scioccato molti intitolando un capitolo di uno dei miei libri “Auschwitz par comparaison” (1). Contrariamente a ciò che pretendono certe persone, il confronto non porta all’assimilazione di ciò che si mette a confronto, al relativismo o all’indifferenza, permette semplicemente di avanzare nella comprensione, di cogliere meglio certi punti di vista, anche, certamente, arrivando a mantenere alla fine il proprio. Prendiamo un altro esempio, quello del terrorismo in Medio Oriente. È sempre interessante ricordare a degli israeliani che anche loro sono ricorsi al terrorismo in una certa epoca. Questo non giustifica nulla, e soprattutto non il terrorismo di certi gruppi armati palestinesi, ma se mi si risponde che questo “non ha niente a che vedere”, allora non chiedo altro che di poter discutere per essere convinto. Ma a discutere  davvero, con argomenti, spiegazioni, discorsi razionali.

 

Che cosa pensa dei dibattiti mediatici sull’identità francese che hanno fatto molto discutere?
Se faccio astrazione dai calcoli politici del momento, faccio molta fatica a capire questi dibattiti.
Abbiamo tutti molteplici appartenenze, nazionali o meno. Io sono un francese ben integrato, il che non impedisce affatto il mantenimento e anzi lo sviluppo della mia cultura tedesca. Non vedo perché non dovrebbe essere così per altra gente proveniente da altri paesi e che possiede altre culture. Certo, io ho avuto un trattamento privilegiato. Quando sono arrivato in Francia all’età di nove anni senza sapere una parola di francese, eravamo solo due stranieri nella mia classe. Le maestre si sono occupate di me in maniera particolare e un anno dopo ho avuto il primo premio in francese. L’essenziale è mantenere una distanza critica rispetto a tutte le nostre appartenenze. È perché sono francese che mi sono opposto agli orrori della guerra d’Algeria, è perché la mia famiglia era ebrea che critico Israele più di ogni altro paese. Trovo del resto che certi cristiani ci guadagnerebbero molto adottando questa distanza critica, non tanto verso la loro fede, quanto verso le credenze che essa sembra implicare.

 

Quali sono i punti di dottrina cristiana o cattolica che le appaiono più estranei, a lei come ateo?
Ce ne sono moltissimi… Il problema della salvezza, ad esempio. Ho l’impressione che il cristiano abbia bisogno di essere salvato almeno quattro volte: c’è stata la prima alleanza con Abramo, la seconda con Gesù, poi il battesimo, e ancora non è finita. Faccio molta fatica anche a comprendere certe forme di devozione mariana. Un esempio: perché, nelle sue “apparizioni” Maria appare come una ragazza giovane e mai come una vecchia ebrea? Più seriamente, se posso dire: ci raccontano anche – sarebbe il famoso terzo segreto di Fatima – che la Vergine avrebbe modificato il percorso della pallottola che doveva colpire Giovanni Paolo II nell’attentato di cui quest’ultimo è stato vittima. Benissimo. Ma perché non ha fatto niente per i sei milioni di ebrei morti durante la Shoah?

 

E in materia di morale, lei che rivendica volentieri il ruolo di moralista?
Qui sono combattuto. Sono contento di vedere che, in generale, le mie convinzioni morali e quelle della Chiesa sono vicine, in particolare per quanto riguarda l’etica sociale. E non sono io ad essere cambiato! Il Dio che punisce, che vedica, che uccide il nemico, anche cristiano, ha lasciato posto al Dio che si è fatto uomo sofferente. Molti valori evangelici, cristiani, sono stati reinventati  contro le Chiese nei secoli XVI, XVIII e XIX.

 

Ci sono comunque dei punti che restano secondo lei problematici nel discorso morale tenuto dalla Chiesa?
Penso ad esempio alla pena di morte. Certo, ci sono dichiarazioni che vanno nel senso della condanna, ma il discorso ufficiale a questo riguardo resta troppo astruso e, stranamente, molto meno vigoroso della condanna dell’aborto… Per quanto riguarda ciò che attiene alla morale sessuale e familiare, non riesco proprio a capire che dei preti che, per definizione, non hanno mai avuto figli e  non hanno mai vissuto in coppia, diano lezioni di vita familiare. Soprattutto se sono cardinali di curia e non hanno mai veramente esercitato come semplici preti di parrocchia.

 

(1) Dans le crime et la mémoire, Flammarion, 1989.

in “Témoignage chrétien” n° 3456 del 1° settembre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)

 

Il triplice richiamo del Presidente della CEI


il ruolo educativo della famiglia, la responsabilità educativa della società, il servizio della carità

.
La solennità della Madonna della Guardia ha offerto al Cardinale Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova e Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, l’occasione per un triplice intervento in ideale continuità: dall’omelia di domenica 28 a quelle di lunedì 29 agosto.
Schematicamente, il primo contributo è stato incentrato sulla famiglia e sull’indispensabile ruolo educativo dei genitori (“lo Stato, che di per sé deve difendere e costruire il bene comune, ha il compito grave di salvaguardare e di promuovere il bene primario della famiglia, per cui un uomo e una donna si scelgono nell’amore e si consacrano totalmente e per sempre l’uno all’altra con il vincolo del matrimonio”); il secondo, sulla responsabilità educativa della società, per cui il Cardinale ha posto con forza la questione morale in politica (“Non si tratta in primo luogo di fare diversamente, ma di pensare diversamente, in modo più vero e nobile se si vuole purificare l’aria, e i nostri giovani non siano avvelenati nello spirito”); infine, sul servizio della carità (“La Chiesa – attraverso le innumerevoli opere di carità a servizio dei deboli e dei poveri – non solo viene in soccorso alle tante fragilità umane, ma mette in atto delle vere scuole di umanità e di fede, dove i discepoli sono lo stuolo degli operatori e dei volontari, spesso giovani e giovanissimi, che con gioia e dedizione aiutano i bisognosi, toccano con mano la complessità della vita, imparano ad amare nel segno del dono di sé senza nulla pretendere”).

file attached Omelia Guardia 28 agosto
file attached Omelia Guardia, 29 agosto pomeriggio.doc
file attached Omelia Guardia, 29 agosto 2011.doc

 


I richiami e le indicazioni di Bagnasco

Alle radici del bene comune

 

La crisi che viviamo in questo periodo provoca interrogativi, ansietà, che investono le basi stesse del bene comune, le motivazioni di quel crescere insieme che sentiamo messo a rischio dalla crisi economica, dallo scollamento tra principi etici fondamentali e una realtà che va in direzione opposta. Con le omelie pronunciate al Santuario della Madonna della Guardia, il Cardinale Angelo Bagnasco, ha offerto un cammino di riflessione sul tema dell’incertezza che si sta insinuando sul nostro futuro, su quello dei nostri giovani, dei ragazzi, che si va facendo opaco. Radice essenziale della società umana è il valore della famiglia, fonte insostituibile della formazione delle nuove generazioni, che è messo in discussione da chi nega la sua  centralità. La famiglia rappresenta la roccia su cui costruiamo la nostra umanità e le scienze psicologiche da sempre vedono nella sua solidità, nell’affetto dei genitori, nel legame tra le sue componenti, la base insostituibile per la gioia, la capacità di crescere, affrontare la vita, che si trasmette ai giovani. Chiunque pensi alla propria famiglia, ha osservato Angelo Bagnasco, sente come un’onda di calore che lo avvolge, ricorda la forza dei sentimenti che hanno alimentato i suoi primi anni, l’hanno introdotto alla vita. Lo Stato non può essere indifferente all’identità della famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna, perché ciò vorrebbe dire indifferenza verso la società che si vuole edificare, porre le basi di una disgregazione del tessuto umano che colpisce soprattutto i giovani, che devono ancora farsi come esseri umani pieni e completi.

I principi cui deve ispirarsi la nostra vita chiedono però rispondenza nella società degli adulti. Molti si accorgono oggi con stupore quanto sia fondato il magistero pontificio, di Benedetto XVI in particolare, sui valori di onestà, probità, sobrietà, che devono segnare l’esperienza umana; se ne accorgono perché toccano con mano che essi sono degradati, sfigurati, da una visione utilitarista pronta a cancellare la dimensione etica lasciando che ciascuno operi come meglio gli aggrada. Sociologia, letteratura, cinema, ci dicono invece ad ogni pié sospinto, che il modello che rischia di prevalere nelle nostra società è il modello di chi è più forte, scaltro, persino furbo; ma la crisi e l’ansietà per il futuro che stiamo vivendo ci mostrano quanto sia fallace questo modello, ci dicono che «la vita non è di chi se la gode», e «il successo del potere e dell’affermazione personale – anche a prezzo della propria onestà – non porta lontano»: perché dietro l’angolo spunta la corruzione che pervade la società, corrompe i rapporti umani, provoca danno a tutti. Il Cardinale Bagnasco richiama alla coerenza, invita tutti a fare la propria parte, non fingere che si possa essere bravi e disonesti insieme, capaci e scaltri allo stesso tempo; occorre promuovere «un ambiente di vita, un orizzonte di modelli, un clima respirabile di valori, un humus comune, dove l’apparenza, il raggiro, la corruzione non la spuntano, la disonestà non è la regola esibita e compiaciuta». Nessuno può chiamarsi fuori, tanto meno coloro che hanno responsabilità nella vita pubblica, i cui comportamenti sono importanti perché si «possa pensare diversamente, in modo più vero e nobile, se si vuole purificare l’aria, e i nostri giovani non siano avvelenati nello spirito».

Il Cardinale Angelo Bagnasco ha completato il cammino di riflessione delineando il ruolo e la funzione che la “carità”, cioè il dono di sé stessi agli altri, svolge nella società. Lo Stato ha l’importante compito di fare e creare giustizia, ma la giustizia non basta a soddisfare i bisogni più profondi dell’uomo. L’essere umano chiede rapporti autentici, di solidarietà profonda, con gli altri, sostegno non solo materiale, e il cristianesimo ha introdotto nella storia l’amore per il prossimo come categoria nuova che comprende ma supera la giustizia, dona qualcosa di più che nessuna legge può dare. I giovani comprendono quasi istintivamente la categoria della carità cristiana, perché vi vedono realizzata la propensione all’amicizia, alla gioia di donare senza nulla chiedere; la carità ha sempre rappresentato un grande vantaggio per lo Stato, realizzando gratuitamente ciò che le strutture pubbliche non sono in grado di fare; ma contiene un tesoro più grande, perché chi la attua supera d’incanto i vizi e le colpe d’egoismo di cui soffriamo oggi, offre un esempio di virtù e abnegazione che esalta l’uomo e propone agli altri una alternativa di vita di cui tutti avvertono, nella coscienza, il fascino.

Carlo Cardia

.

Alcuni commenti dalla Stampa

 

“«So bene – ha detto Bagnasco… – che il compito è arduo perché si tratta di intaccare consuetudini e interessi vetusti»… ha parlato di «reazione di disgusto» della gente semplice nei confronti, in politica, di «stili non esemplari che sono la norma»… Il vero uomo, ha detto il cardinale, non è quello che ha potere e denaro: «I giovani non vogliono essere ingannati»…”
“Per combattere la corruzione, tornata a galla nelle cronache di questi giorni, bisogna far capire con l’esempio che cos’è il valore della verità… essa va richiesta in modo particolare a coloro che costituiscono, per ruolo o visibilità, modelli di comportamento, [ma] è necessario interrogare in primo luogo se stessi… se abbiamo… la determinazione… di cercare al di là dell’apparenza, di fare fatica. Se si ha voglia, in sintesi, di essere consapevoli o servi”
“Impressionante la realtà dell’evasione fiscale. Impressionante la disattenzione verso quell’immenso e bistrattato valore e quella portentosa (ma non inesauribile) risorsa che è la famiglia, e la famiglia con figli. Impressionante la campagna politico-mediatica che è stata scatenata contro la Chiesa per il solo fatto di aver detto tutto questo”

I giovani e la razionalità del sacro

Si fa un gran parlare dei giovani. È, in fondo, la forma retorica più antica e consolidata che si conosca. Tanto è vero che si sprecano sempre affermazioni solenni e proverbiali quando non si
comprende nulla o quasi di un certo fenomeno. Ben più complesso diviene, invece, il discorso non appena si vuole parlare realmente con cognizione di causa delle nuove generazioni, in un contesto, come quello attuale, nel quale non sembra sia più possibile restare nei limiti di una sola cultura o di una specifica civiltà determinata.
Alcuni eventi sono una buona occasione per farlo. Il più espressivo del protagonismo peculiare dei ragazzi è certamente la Giornata Mondiale della Gioventù che si sta svolgendo in questi giorni a Madrid alla presenza di Benedetto XVI. Ho avuto modo di sperimentare personalmente di cosa si tratti in tutte le occasioni in cui ho accompagnato Giovanni Paolo II dai primi energici appuntamenti fino agli ultimi più faticosi. E poi anche a Benedetto XVI in Germania nel 2005. È stupefacente che dopo 28 anni non solo non è finita la spinta partecipativa, ma il coinvolgimento sembra perfino aumentato. Quest’anno, il profilo essenziale dei partecipanti si esprime così: età media intorno ai 22 anni, il 48 per cento studia (di cui il 58 per cento in un’istituzione  universitaria), il 40 per cento lavora, il 6 per cento è disoccupato; uno su dieci è già sposato; il 55 per cento vive in casa coi genitori. Provengono da 187 Paesi diversi. La cifra totale dei  partecipanti supererà il milione di persone.
Il dato è fin troppo chiaro per essere commentato. È un campione rappresentativo, vasto ed eterogeneo di persone normali.
D’altronde, anche in altre occasioni diverse vediamo i giovani raccogliersi insieme per qualche scopo, senza particolari segni distintivi. È il caso, ad esempio, delle proteste inglesi che hanno messo a ferro e fuoco la città di Londra o della Primavera araba nel Magreb. Giovani, sempre giovani, differenti gli uni dagli altri, che agiscono in modo peculiare e per motivi comuni imparagonabili. Ma sempre e solo giovani, senza specifiche qualità.
Ecco così che, leggendo ogni volta le statistiche, si rimane insoddisfatti, sprovvisti di una spiegazione valida sulle ragioni per cui non un bambino o un adulto, ma un ragazzo non più adolescente  decida di dedicare alcuni giorni della propria vita a stare con altri coetanei che non conosce, in una città che non gli è familiare, a vivere un evento di natura religiosa.
Il citato paragone può, in questo senso, aiutare a capire. I movimenti di ribellione britannica, sono espressione di un moral collapse come ha detto in modo sintetico il premier inglese David Cameron. 
Una paradossale assenza di finalità e di principi che si traduce in un nichilismo sconfinato.
Distruggere, lo si capisce bene, è la quintessenza di una rabbia che trova soddisfazione unicamente nella violenza urbana e nel saccheggiare negozi. In quel caso siamo, evidentemente, agli antipodi di Madrid, davanti ad un malessere generazionale che pone interrogativi duri e chiare responsabilità; direi soprattutto a noi adulti.
Ma anche le rivolte politiche in Africa sono animate da una simile spinta generazionale, questa volta evidentemente positiva. Anche lì sono i giovani a farla da protagonista, non volendo più  accettare e tollerare di vivere al di sotto di loro stessi, delle proprie capacità, possibilità, libertà. È lampante che rispetto al primo caso non è il nichilismo a spingere all’azione, ma una giusta volontà di cambiamento, un anelito civile a riempire il vuoto sociale in cui si è costretti a vivere.
Paragonate a queste agitazioni di massa, quanto spinge giovani di tutto il mondo a stare alcuni giorni con il Papa è il desiderio di fare un’esperienza opposta e decisiva rispetto ad ogni altra. Anche se, a ben vedere, vi è una medesima opzione motivazionale forte, alternativa al restarsene a casa o al mare. Mi ricordo che proprio in occasione della giornata dei giovani a Roma nel Giubileo del  2000 Indro Montanelli scrisse che una spiegazione, in casi del genere, non la dà né la sociologia, né la demografia: bisognerebbe entrare nell’ambito della religione. O esiste un fatto che chiamiamo sacro, oppure, in questi casi, non si motiva né si capisce niente di niente.
Logicamente, resta particolarmente importante chiarire cosa s’intenda qui con fatto religioso. Perché alcuni dei ragazzi che partecipano alla Giornata non sono credenti; allo stesso modo che non tutti coloro che rompono le vetrine sono criminali o tutti coloro che gridano libertà sono democratici.
Mi ricordo di aver indagato in passato sulle ragioni di simile affluenza e di aver trovato delle risposte insolite ma coincidenti tra i ragazzi stessi che partecipavano. Alcuni mi rispondevano che nessuno, in società, a scuola o in famiglia, era in grado di dire qualcosa di simile a quello che stavano ascoltando. Alcuni confessavano il dubbio se sarebbero stati in grado di vivere sempre al livello etico che il Papa chiedeva loro, anche se si sentivano per questo, ancora di più, chiamati ad esserci. Tutti, con disarmante semplicità affermavano: «Ma lui (il Papa) ha ragione». Cioè, dice il vero.
Comprendere giornate intense di preghiera e ascolto, non prive di sacrifici per i partecipanti, significa andare al cuore dell’esperienza religiosa. Richiede di superare in modo drastico quel relativismo imperante che spinge a fare solo ciò che le proprie pulsioni (anche la noia) impongono.
Davanti a sé e accanto a sé c’è una ragione che è vera, una spiegazione umana che garantisce di trovare la propria identità, oltre il proprio nulla e oltre i miraggi del convenzionalismo insipido con cui spesso si presenta la politica.
D’altronde, tale spinta forte a afferrare con il pensiero, il cuore e la volontà il senso della vita, è l’essenza della sana ribellione che si chiama “vita interiore”. L’alternativa, non a caso, è il fondamentalismo irrazionale e il relativismo cinico, ma mai, in nessun modo, l’esperienza spirituale.
Perciò, in definitiva, ad attirare tanti giovani a radunarsi è unicamente la razionalità del sacro, un desiderio di ascoltare la verità e di far parlare la coscienza, che solo può soddisfare le fresche aspirazioni di un giovane ad oltrepassare i circoscritti confini determinati dello spazio e del tempo.
E quelli ancora più determinati della banalità.



in “la Repubblica” del 19 agosto 2011

Le catechesi dei Vescovi italiani alla GMG di Madrid


In questa pagina, dedicata alle Catechesi dei Vescovi italiani a Madrid, è possibile scaricare i testi giorno per giorno.
.


Un appello per carceri più umane

 

Quando, nel febbraio del 1980, entrai a Milano, era prevista una prima parte in automobile e una seconda a piedi, accompagnato da una presenza di decine di migliaia di ambrosiani. Nella parte percorsa in automobile vi fu un momento nel quale passammo vicino ad un luogo dalle mura altissime. Compresi subito che si trattava del famoso carcere di San Vittore e diedi spontaneamente la mia benedizione a tutti i carcerati che vivevano là dentro.


Dovetti imparare ben presto che in carcere non ci sono solo detenuti ma anche guardie carcerarie, militari, suore come la beata Enrichetta (detta la madre dei carcerati), beatificata a Milano poco tempo fa. Queste suore avevano deciso di vivere nel carcere per essere più vicine alle sofferenze di cui erano testimoni.

Quando iniziai la visita pastorale, cominciando proprio dal carcere di San Vittore, venni a contatto diretto con tali sofferenze, soprattutto compresi che quella del sovraffollamento era quella da cui scaturivano molte delle altre. Le carceri che visitavo erano tutte piene sino all’inverosimile, ben al di là della loro capienza normale. In una cella per tre persone ne dormivano sei. Tutto questo conduceva a che il carcere divenisse non un luogo di redenzione, ma,  per tanti, una ulteriore scuola di delinquenza, nella quale i detenuti più giovani venivano tenuti in balìa dei vecchi.


Quante volte sono intervenuto per denunciare questo scandalo! Del resto questo costituiva un punto monotonamente fisso per il discorso del Procuratore all’inizio dell’anno giudiziario. Egli soleva insistere sulla eccessiva lunghezza dei processi e il conseguente ingorgo delle cause.
Capisco bene che il rimedio a questo stato di cose era legato a una qualche modifica legislativa, fatta da esperti, e che il Parlamento era responsabile di omissione in questa materia, dove emerge la negazione di diritti umani.

I veti incrociati delle varie posizioni e opposizioni non avrebbero mai risolto nulla.
Debbo anche testimoniare che alcuni carcerati venivano radicalmente scossi dalla realtà del carcere e facevano, con l’aiuto dei cappellani, un vero processo di conversione. Non mi meravigliavo di questa potenza di Dio, legata spesso alla conoscenza della Parola. Tuttavia è sempre preferibile che questo cammino avvenga fuori delle realtà del carcere, che è piuttosto incline a favorire la nuova delinquenza. Perciò il fatto che tale questione rimanga ancora aperta come una ferita dolorosa mi turba profondamente.


in “Corriere della Sera” del 21 agosto 2011

Raimon Panikkar: Vita e parola

 

Raimon Panikkar, Vita e parola. La mia Opera, Jaca Book, Milano 2010 (pp. 158, euro 16,00)

 

Il 26 agosto 2010 si spegne, all’età di 92 anni, Raimon Panikkar, personalità ricca e complessa, profeta del dialogo e maestro dell’esperienza mistica.

Da qualche anno, con grande coraggio, la Jaca Book sta curando la pubblicazione dell’Opera Omnia di Panikkar a cura dell’Autore stesso e di Milena Carrara Pavan, che hanno organizzato i numerosi scritti in dodici volumi tematici (ma che arrivano a 17 poiché alcuni volumi sono in due tomi). È da notare anche che l’iniziativa dell’editore italiano è la prima in assoluto e sebbene Panikkar vivesse in Spagna e parlasse numerose lingue, sarà in italiano che comparirà per la prima volta l’edizione integrale delle sue Opere.

 

Sono quattro i volumi finora pubblicati, probabilmente cinque entro la fine dell’anno. Ma abbiamo la fortuna della pubblicazione – pochi mesi prima della sua morte – del volumetto di cui facciamo la recensione e che contiene le 16 Prefazioni riscritte da Panikkar a tutti i volumi che compongono il piano dell’Opera Omnia. Un testo dunque preziosissimo per accostarsi integralmente, anche se in modo essenziale e sintetico, alla pluriformità di un pensiero e di una esperienza di vita estremamente ricchi e stimolanti. Il volume è arricchito da una ampia nota biografica a cui manca solo la data della sua recente scomparsa.

Nella Prefazione è Panikkar stesso a definire il contenuto del volume: “Mi era stato chiesto in più occasioni di elaborare una sintesi del mio pensiero, di pubblicare, cioè, un testo che potesse intitolarsi La mia Opera. Mi sono reso conto che in effetti il lavoro l’avevo già fatto, avendo preparato in questi ultimi anni le introduzioni ai vari volumi dell’Opera Omnia” (p. 7). Ecco dunque tutto il valore di questo agile volumetto, estremamente denso e ricco. Peraltro, come sottolinea Panikkar, queste introduzioni sono anche un preziosissimo accesso non solo al suo pensiero, ma anche alla sua vita, essendo le due cose strettamente interconnesse: “Colgo l’occasione per sottolineare che tutti i miei scritti rappresentano non solo un problema intellettuale della mia mente, ma una preoccupazione del mio cuore e, ancor più, un interesse reale della mia intera esistenza, che ha cercato per prima cosa di raggiungere chiarezza e profondità studiando seriamente i problemi della vita umana […] Ora che ho fatto lo sforzo di riunire i miei scritti per argomenti, mi accorgo che lo schema di questa Opera Omnia rappresenta il percorso non solo del mio pensiero ma anche della mia vita, senza esaurirne, come dicevo, l’esperienza. I miei scritti coprono un lasso di circa settant’anni, in cui mi sono dedicato ad approfondire il senso di una vita umana più giusta e piena” (pp. 7-8). In questa prospettiva, aggiunge Panikkar, “non ho vissuto per scrivere, ma ho scritto per vivere in modo più cosciente e aiutare i miei fratelli con pensieri che non sorgono soltanto dalla mia mente, ma scaturiscono da una Fonte superiore che si può forse chiamare Spirito” (p. 8). In seguito, sintetizza in modo estremamente chiaro tutto il suo itinerario di vita: “Attratto fin da giovane dalla spiritualità, mi sono avvicinato allo studio delle religioni approfondendo prima la religione in cui sono nato e cresciuto, il cristianesimo, scoprendo poi la religione di mio padre, l’induismo, e subendo infine il fascino del buddhismo, pur rimanendo fedele alla mia origine cristiana. Con tale bagaglio di esperienze e conoscenze mi sono aperto in forma spontanea al dialogo con le diverse culture e religioni, avendolo già vissuto interiormente. Non si può scoprire infatti la verità di un’altra religione se non la si vive in profondità dall’interno […] Dalla rielaborazione della Trinità, che considero il fulcro del cristianesimo, sono giunto alla formulazione della mia visione della realtà che ho chiamato cosmoteandrica. Per comunicare agli altri ciò che non può essere descritto direttamente sono ricorso al mito, al simbolo e al culto, che sono alla base di ogni formulazione di fede, sviluppandone l’ermeneutica. Sono sempre stato attratto dalla filosofia come amore per la verità e per il Mistero. Non volendo chiudermi in un mondo di speculazione astratta, mi sono aperto alla vita che mi sta attorno nella sua concretezza e ho scoperto che non era profana ma sacra, da qui il mio interesse per i problemi che riguardano la secolarità” (pp. 8-9).

Vediamo ora, nello specifico, come è articolato il densissimo volume. È questo anche un modo per accostarci all’articolazione dell’Opera Omnia che raccoglie – come detto – per temi e con la supervisione dell’Autore stesso, tutti gli scritti di Panikkar.

Il primo capitolo – Mistica, pienezza di vita – contiene il saggio che fa da introduzione al tomo 1 del primo volume dell’Opera Omnia, intitolato Mistica e spiritualità. A proposito del volume – già pubblicato – Panikkar scrive che “è in parte autobiografico in quanto tratta del tema più importante della mia vita, che ha ispirato in forma discreta tutti i miei scritti, così da divenirne una chiave ermeneutica indispensabile” (p. 11). La mistica, per Panikkar, altro non è che esperienza integrale della vita; in questa prospettiva, essa non è “un privilegio di pochi prescelti, ma la caratteristica umana per eccellenza. L’uomo è essenzialmente un mistico” (p. 12). La mistica è qualcosa che “non disumanizza” (p. 13); è “esperienza gioiosa” (p. 14), appunto in quanto esperienza integrale della Vita, di “quella vita che non è mia benché sia in me; quella vita che, come dicono i Veda, non muore, che è infinita, che alcuni definirebbero divina: Vita, tuttavia, che si ‘sente’ palpitare, o, per meglio dire, semplicemente vivere in noi” (p. 15). In questo senso, l’esperienza mistica è quella che “ci permette di godere pienamente della Vita” (p. 16). Ne consegue allora, che “il grande ostacolo a che scaturisca spontaneamente in noi l’esperienza della Vita è la nostra preoccupazione per il fare a scapito dell’essere, del vivere. La mistica, quindi, richiede una certa maturità, che è più facile raggiungere al crepuscolo della vita” (p. 18).

Il secondo saggio – Spiritualità, il cammino della vita – fa da introduzione al tomo 2 del primo volume. Se la mistica è l’esperienza suprema della realtà, la spiritualità viene intesa da Panikkar come il “cammino per giungere a tale esperienza” (p. 21). È evidente che i cammini sono stati e sono molti. Ma una spiritualità per l’oggi dovrà comunque essere integrale: “vuol dire che deve coinvolgere l’uomo nella sua totalità” (p. 21), e quindi, nel linguaggio di Panikkar, fare sintesi tra quattro dimensioni che sarebbero, invece, nella cultura di oggi divise, con il rischio di frammentare e alienare l’uomo. Le quattro dimensioni, che una genuina spiritualità deve ricomporre, sono sōma, psychē, polis, kosmos. Anzitutto, l’uomo non ha, ma è sōma, corpo. Ne deriva che una spiritualità “che faccia astrazione dal corpo umano, che lo sottovaluti o che lo releghi come cosa secondaria, sarebbe monca” (p. 22). Ma l’uomo è anche psychē, anima, cioè pensiero, immaginazione, fantasia, volontà. L’uomo inoltre è anche polis, non è cioè individuo, ma società, collettività, chiesa, famiglia. “La dicotomia (mortale!) tra individuo e collettività si trova proprio alla base delle tensioni di ogni specie” (p. 22). Infine, l’uomo è kosmos: non è solo società ma universo, mondo. Cioè non è e non può essere separato dagli animali, dalle cose, dalla terra; e allora la terra non può essere arbitrariamente sfruttata perché non è ‘l’altro’ ma è parte costitutiva dell’uomo. In questo quadro antropologico, Dio è insieme immanente e trascendente: “è nella stessa quaternitas degli elementi che definiscono l’uomo che si incontra il divino” (p. 24). Solo in questa prospettiva possiamo comprendere come la spiritualità genuina non sia affatto qualcosa che disincarni, ma anzi qualcosa che – componendo i frammenti, mettendo insieme interno ed esterno, alto e basso – aiuta piuttosto a vivere la Vita integralmente. Nel senso dell’incarnazione, dove “i problemi della terra non possono essere separati da quelli del cielo” (p. 26). E una tale spiritualità non potrà che aprirsi al dialogo interculturale e interreligioso: “Non bisogna perdere di vista il fatto che, considerando la situazione attuale dell’umanità, nessuna religione, nessuna civiltà, nessuna cultura ha la forza sufficiente o è in grado di dare all’uomo una risposta soddisfacente: le une hanno bisogno delle altre. Non si può pretendere che la soluzione per l’insieme dell’umanità, d’ora in poi, possa venire da un’unica fonte […] bisogna sforzarsi perché avvenga una mutua fecondazione tra le differenti tradizioni umane” (p. 25).

Il terzo saggio – Religione e religioni – fa da introduzione all’omonimo, secondo volume dell’Opera Omnia, di imminente pubblicazione. Il titolo intende sottolineare “l’ambiguità della parola ‘religione’ che al singolare rappresenta l’apertura costitutiva dell’uomo al mistero della vita mentre al plurale indica le diverse tradizioni religiose” (p. 27). In questa prospettiva, l’esperienza di Dio – ma meglio sarebbe dire, in senso ancora più ampio, l’esperienza integrale della Vita – non è e non può essere monopolio di nessuna religione. Ogni religione ne esprime una parte, ma non la esaurisce. Le religioni “sono vie che conducono gli uomini verso la loro pienezza”, in qualunque modo poi si concepisca questa pienezza. Le vie sono tante: alcune sono costituite dalle religioni tradizionali, altre sono vie nuove, a cui spesso è difficile dire se possano o meno essere chiamate religioni. Ne deriva che nessuna religione (o cultura, o tradizione) può pretendere “di esaurire la gamma universale dell’esperienza umana” (p. 28) e che quindi il pluralismo sia, soprattutto oggi, una stringente necessità: “l’incontro-dialogo tra religioni, ideologie e concezioni del mondo è un imperativo umano dei nostri giorni” (p. 28). E in questo incontro Panikkar comprende anche la possibilità del dialogo con un certo umanesimo ateo in quanto, comunque, impegnato in un medesimo sforzo per il perfezionamento umano. Questo è quanto Panikkar chiama ecumenismo ecumenico. Esso “tenta di arrivare a un fecondo arricchimento reciproco e di accettare una critica delle tradizioni religiose del mondo senza tralasciare per questo di riconoscere il ruolo unico spettante a ognuna di esse. Come le confessioni cristiane riconoscono un Cristo di cui non possiedono il monopolio, un Cristo che le unisce tutte quante, senza dovere per questo esserne amalgamate, così le distinte tradizioni dell’umanità riconoscono un humanum (diversamente interpretato alla stessa maniera in cui vi sono interpretazioni divergenti di Cristo) non manipolabile da chicchessia, cioè trascendente. Fedeli a questo humanum, discutono tra loro tentando di avvicinarsi all’ideale” (p. 29). Ebbene, solo un tale atteggiamento che rinuncia alla pretesa di monopolio su ciò che la religione rappresenta, potrebbe aprire ad un fecondo dialogo dialogale, con l’unico obiettivo di aiutare l’uomo a raggiungere la sua pienezza.

Il terzo volume dell’Opera OmniaCristianesimo – dà anche il titolo al quarto saggio. Qui Panikkar distingue tre diversi livelli contenuti nella parola ‘cristiano’: esso può essere l’aggettivo di cristianità, cioè riferirsi ad una civiltà. Nel Medioevo, ad esempio, era impossibile essere cristiani senza appartenere alla cristianità. Ma cristiano può anche alludere alla religione cristianesimo: fino a non molto tempo fa era difficile dirsi cristiano senza riconoscersi appartenente al cristianesimo. Ma cristiano, sostiene Panikkar, può anche riferirsi a cristianìa, cioè alla possibilità di riconoscersi cristiano “come atteggiamento personale, senza appartenere alla cristianità o aderire al cristianesimo in quanto struttura istituzionale” (p. 31). Si tratta di una coscienza cristiana più matura che, soprattutto per il terzo millennio che si è appena aperto, sembra costituire un forte appello. Essere cristiano come membro della cristianità appartiene infatti al passato o semmai, come dice Panikkar, “ai sogni di alcuni nei confronti del futuro” (p. 32), ma sembra non parlare più alla maggioranza dei cristiani. Il cristianesimo come religione ha preso posto nella coscienza cristiana a cominciare dal declino della cristianità come regime politico-religioso. Ma il cristianesimo come religione deve confrontarsi con le altre religioni esistenti e ciò mette in crisi la sua purezza dottrinale. Da qui l’emergere, oggi, di quella che Panikkar chiama cristianìa (Christlicheit, in tedesco; christianness, in inglese), e cioè la “confessione di una fede personale, che adotta un atteggiamento analogo a quello di Cristo, nella misura in cui Cristo rappresenta il simbolo centrale della propria vita” (p. 35), e che comporta un rendersi indipendenti rispetto alla sovraistituzionalizzazione del cristianesimo ufficiale. “Si tratta di un mutamento ecclesiale nella stessa autocomprensione cristiana” (p. 35). Ciò non significa, precisa Panikkar, disprezzare o ignorare le strutture giuridiche e gli apparati istituzionali, ma solo non identificarsi con essi. Si tratta di superare, non di respingere: è una nuova autocomprensione per la quale “ci si è resi indipendenti da un ordine politico fisso e determinato (cristianità)”, come anche “dall’identificazione tra essere cristiano e l’accettazione di una serie determinata di dottrine (cristianesimo)” (p. 38). In questa prospettiva, cristianìa apparterrebbe piuttosto alla dimensione mistica, che, peraltro, ha bisogno di istituzioni. Ebbene, proprio questa nuova autocomprensione mistica, dice Panikkar, sembra essere l’urgenza dei nostri giorni.

Il quarto volume dell’Opera Omnia, è dedicato all’induismo. Il quinto e il sesto saggio costituiscono rispettivamente le introduzioni al primo e al secondo tomo del volume. Non ci soffermiamo su queste densissime introduzioni che hanno il grande merito di aiutare noi occidentali a comprendere meglio il cuore di una tradizione molto diversa dalla nostra. Il settimo saggio – Buddhismo – costituisce l’introduzione al quinto volume dell’Opera Omnia e raccoglie i testi di Panikkar su ciò che possiamo ritenere il messaggio fondamentale di questa religione. Un’impresa quasi paradossale, dato il carattere fondamentalmente apofatico del buddhismo. Caratteristica del buddhismo è infatti l’affermazione della non-realtà della realtà ultima: essa è niente. Ma, osserva Panikkar, “il buddhismo non afferma che l’Assoluto è un niente, che non esiste in generale un qualche cosa, ma piuttosto che nessun essere corrisponde a quel qualche cosa […] Significherebbe quindi falsare completamente il buddhismo, se si volesse fargli affermare che bisogna pensare l’Assoluto come un Niente; l’Assoluto non deve essere pensato, perché, in tal caso, si sarebbe costretti a pensarlo come Essere o non-Essere, ed esso «non è» nessuna delle due cose” (p. 75).

I saggi successivi – Pluralismo e interculturalità e Dialogo interculturale e interreligioso – sono le introduzioni ai due tomi del volume Culture e religioni in dialogo, il sesto dell’Opera Omnia. Sono saggi molto densi, perché vanno a toccare uno dei temi su cui Panikkar si è espresso di più e per il quale ha combattuto con maggiore convinzione: il tema del dialogo. Un tema oggi molto urgente, a motivo dei cambiamenti a cui il nostro mondo è andato incontro negli ultimi decenni e che hanno visto popoli e culture venire tra loro in contatto e mescolarsi, creando, spesso, scontri di civiltà e problemi di convivenza: “La verità di una tradizione si scontra con quella dell’altra e il dialogo rappresenta l’unica via per la sopravvivenza” (p. 77). Per l’analisi del contenuto del primo saggio, rimandiamo alla recensione che abbiamo fatto dell’intero tomo. I temi del pluralismo e del dialogo sono ripresi anche nel secondo saggio, il nono, che, come detto, costituisce l’introduzione al secondo tomo. Panikkar definisce un “mito nascente” della nostra epoca, un mito unificante, quello secondo cui l’uomo avvertirebbe sempre più l’insufficienza delle proprie culture e delle proprie religioni e tenderebbe verso una sorta di unità della famiglia umana, “nell’ottica globale di una cultura dell’uomo che abbraccia tutte le civiltà e le religioni come tante sfaccettature che si arricchiscono e stimolano a vicenda” (p. 91). Questo mito, curiosamente, prosegue Panikkar, si presenterebbe come l’opposto del vecchio mito del “monogenismo”, che ci presentava “l’unità della razza umana sottolineandone l’origine unica” (p. 92). Oggi, l’unità dell’umanità “ci appare molto meno al suo inizio che non al suo termine” (p. 92). A lungo andare,  “i sistemi di pensiero sembrano convergere su tutti i piani: la mutua fecondazione appare non solo possibile, ma auspicabile […] L’altro comincia a diventare un altro polo di noi stessi. Il confronto porta alla complementarietà” (p. 93). Dagli altri si può imparare e grazie agli altri si può crescere. Ma, conclude Panikkar, sarebbe un errore e un pericolo operare sintesi frettolose: “prima di arrivare a una qualche visione d’insieme dobbiamo studiare le dottrine, conoscere i fatti e scoprire lo spirito di un’altra tradizione” (p. 95). È dunque necessario un lungo e umile lavoro; si tratta di “conoscere quanto meglio possibile la nostra tradizione, sviluppare l’empatia e la comprensione, renderci conto che scoprire le altre religioni è al contempo approfondire e purificare la nostra e che iniziarci a un’altra tradizione non può che arricchirci” (p. 96).

Il decimo saggio – Induismo e cristianesimo – introduce l’omonimo volume focalizzato sul dialogo tra le due culture alle quali “l’autore appartiene fin dalla nascita e alle quali è stato fedele in tutta la sua vita: ha continuato sempre a sentirsi profondamente cristiano e autenticamente hindū” (p. 97). Per un cristiano il dialogo tra le religioni – afferma Panikkar – deve rispettare tre condizioni: “1. Si deve rimanere fedeli alla tradizione cristiana. Questo è il problema teologico; 2. Non si devono violare le altre tradizioni; devono essere interpretate secondo la loro stessa autocomprensione. Questo è il problema ermeneutico; 3. Non si deve mettere da parte l’esame critico della cultura contemporanea. Questo è il problema filosofico” (p. 102). All’esame di queste tre condizioni sono dedicate le pagine del saggio. L’undicesimo saggio introduce invece l’omonimo ottavo volume dell’Opera Omnia con il titolo Visione trinitaria e cosmoteandrica: Dio-Uomo-Cosmo. Qui Panikkar presenta una sua visione della realtà, una cosmovisione che, a grandi linee, intende riprendere il tema cristiano della Trinità. Essa si situa come una terza, grande, visione, che cerca di superare i limiti delle due visioni precedenti, quella monista e quella dualista. La visione monista, fondandosi sulla ragione, intende ridurre ad unità i dati che le si presentano, giungendo al concetto di Essere: l’Essere è uno, l’Uno, o semplicemente la Realtà. “La ragione, per intendere, esige la reductio ad unum, come dicevano gli scolastici […] Se vogliamo intendere razionalmente la realtà, dovremo arrivare al monismo […] In breve, se non vogliamo rinunciare alla razionalità dovremo affermare che in ultima istanza tutto è Dio, o Essere, o Spirito, o Materia, o Energia, o Nulla” (p. 116). All’opposto, la visione dualista riconosce due irriducibili sfere della realtà: il materiale e lo spirituale. La via di uscita al dilemma tra monismo e dualismo è costituita dalla visione a-dualista o advaita, che è quella che Panikkar fa propria. Si tratta di superare il razionalismo, ma senza cadere nell’irrazionalismo. La realtà “è costituita da tre dimensioni relazionate le une con le altre – la perichōrēsis trinitaria – così che non solo una non esiste senza l’altra, ma tutte sono intrecciate inter-in-dipendentemente. Tanto Dio, quanto il Mondo e l’Uomo presi separatamente, o a sé, senza relazione con le altre dimensioni della realtà, sono semplici astrazioni della nostra mente” (p. 117).

Il volume nono dell’Opera OmniaMistero ed ermeneutica – è costituito da due tomi. L’introduzione al primo tomo – Mito, simbolo, culto – costituisce il dodicesimo saggio, mentre il saggio Fede, ermeneutica, parola introduce il secondo tomo. Il quattordicesimo saggio – Filosofia e teologia – introduce l’omonimo decimo volume dell’Opera Omnia. Nella prospettiva di Panikkar, filosofia e teologia sono inseparabili perché si implicano vicendevolmente. La filosofia è da lui intesa “non solo come amore della saggezza, ma anche come saggezza dell’amore” (p. 127). La filosofia, scrive ancora Panikkar, “è un tipo di amore molto particolare. È saggezza, la saggezza dell’amore, la saggezza che è contenuta nell’amore […] E la saggezza nasce quando l’amore del sapere e il sapere dell’amore si fondono spontaneamente” (p. 128). Ne consegue che una tale filosofia non può non cristallizzarsi in uno stile di vita, anzi è l’espressione della vita stessa. “Una filosofia che tratti solo di strutture, teorie, idee e si isoli dalla vita, eviti la prassi e reprima i sentimenti, non è solamente unilaterale perché non prende in considerazione altri aspetti della realtà, ma è cattiva filosofia […] Perciò tutte le tradizioni sostengono che per fare veramente filosofia si richiede cuore puro, mente ascetica, vita autentica. L’attività filosofica esige un coinvolgimento totale” (p. 128). La riflessione deve cioè divenire carne, e il pericolo della astrazione intellettuale è grande. “Un professore per me è «uno che professa», vale a dire che esprime una «professione», una confessione, con la totalità della sua vita”, esattamente come un religioso autentico “è colui che lotta, che si sforza per arrivare all’unione armoniosa del sacro e del secolare” (p. 129). La teologia descrive anch’essa questa esigenza di coinvolgimento in una immersione totale nella vita, in una comunione piena con la Realtà.

Il saggio successivo, il quindicesimo, introduce il volume undicesimo dell’Opera Omnia, intitolato Secolarità sacra. Secolarità sacra è – secondo Panikkar – “lo stile di vita cui siamo chiamati, superando la dicotomia tra il sacro e il profano” (p. 135). E aggiunge: “non si tratta di fuggire dal mondo, ma di trasfigurarlo. Bisogna ‘trovare’ il sacro e ‘scoprirne’ la via secolare” (p. 135). Non si tratta, in altre parole, di negare la trascendenza del divino, ma bensì di cogliere “l’immanenza del sacro nelle viscere stesse del mondo” (p. 135). Si tratta di re-imparare a cogliere la sacralità del mondo, senza confondere immanenza e trascendenza. “Se si riduce tutto il reale al meramente secolare, si soffoca la realtà privandola del suo carattere di infinitezza e libertà. Ma, allo stesso tempo, negare alla secolarità il suo carattere reale e definitivo, degrada la vita umana a un semplice gioco senza importanza reale, né dignità. Forse una delle ragioni della crisi apparentemente universale dell’umanità attuale è che non si è riusciti a operare una sintesi tra sacro e secolare” (p. 137). L’ultimo saggio, il sedicesimo, introduce l’ultimo volume dell’Opera Omnia, dedicato a Spazio, tempo e scienza. Il volume racchiude articoli e scritti che riguardano la scienza, apparsi nel primo periodo della vita di Panikkar.

Speriamo di essere riusciti a far cogliere, in queste pagine inevitabilmente troppo sintetiche, almeno qualche frammento della ricchezza e pluriformità di un pensiero e di una esperienza di vita che – crediamo – ha segnato profondamente il nostro tempo e non cesserà di parlare al nostro futuro.

Massimo Diana

Gli scritti liturgici di Giovanni Battista Montin

 

Giovanni Battista Montini, Scritti liturgici. Riflessioni, appunti, saggi (1930-1939), a cura di Inos Biffi (Collana Quaderni dell’Istituto Paolo VI), Studium, Roma 2010, pp. 304 – € 35,00.

 

Presentazione

Sono raccolti in questo volume testi editi e inediti di Giovanni Battista Montini dalla fine degli anni ’20 alla fine degli anni ’30. E precisamente: il commento alle feste dell’anno liturgico apparso sulla rivista della FUCI, «Azione Fucina», dal Novembre 1930 al Novembre 1931; due quaderni (inediti) di appunti stesi per la spiegazione della liturgia in generale, dei riti della Messa e delle Messe domenicali e festive relativi agli anni 1926-1933 e 1936-1937; il commento (inedito) ai «Vangeli domenicali su Gesù Cristo» degli anni 1938-1939; un gruppo di saggi di argomento liturgico-artistico risalenti a quegli anni. Alcuni dei documenti hanno più la forma di appunti che non di completa stesura. Tuttavia nelle note, dettagliate e meticolose, il Curatore ha cercato di svolgerli, completando riferimenti e allusioni e mettendone in luce il vario contenuto in apposite introduzioni. Anche grazie a tale più compiuta lettura questi scritti rivelano singolare importanza: indicano cioè quanto fosse versatile e approfondita, sotto diversi aspetti precorritrice, la cultura liturgica del giovane Montini ed ampia e multiforme la sua informazione bibliografica. In particolare, egli aveva un’autentica e precisa teologia della liturgia, intesa sempre come reale ed efficace presenza del mistero di Cristo e come versione orante della fede e del dogma. Montini concepiva la liturgia come principio e risorsa primaria dell’esperienza e della spiritualità cristiana. Non mancava di sottolineare con vigore la funzione educativa della pietà, ponendone in evidenza la dimensione ecclesiale. Coglieva inoltre l’importanza della storia della liturgia, che dava prova di ben conoscere nelle sue linee principali, mostrandosi specialmente sensibile alla proprietà estetica dei riti, alla loro arte e poesia. Una visione che in quegli anni ben pochi possedevano e che troveranno pratica attuazione anche negli anni dell’episcopato milanese, trovando poi compiuta sistemazione nella costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium.

 

Quella trama dove passa il filo di Dio

 

Nel volume Scritti Liturgici. Riflessioni, appunti, saggi (1930-1939) – Brescia- Roma, Istituto Paolo VI – Studium, 2010, pagine 296 euro 35 – sono raccolti i più antichi testi dedicati da Giovanni Battista Montini alla liturgia e precisamente: il commento all’anno liturgico apparso in “Azione Fucina” (dal novembre 1930 al novembre 1931); due Quaderni di appunti stesi negli anni 1926-1933 e 1936-1937 per la spiegazione della liturgia in generale, dei riti della messa, e delle messe domenicali e festive; il commento ai “Vangeli domenicali su Gesù Cristo”, che è ancora un’analisi dell’anno liturgico (anni 1938-1939) e infine un gruppo di brevi saggi di argomento liturgico, risalenti a quegli anni. Pubblichiamo ampi stralci della Presentazione scritta dal curatore.

 

Egli già possedeva un’autentica e precisa teologia della liturgia, intesa come reale ed efficace presenza del mistero di Cristo e come versione orante della fede e del dogma. La celebrazione era da lui concepita come principio e risorsa primaria dell’esperienza e della spiritualità cristiana, e come componente essenziale per l’educazione alla pietà, mentre ne poneva in chiara evidenza la dimensione ecclesiale.

“Montini, assistente della Fuci – scrive Marcocchi – concepì la liturgia non come realtà estetizzante o archeologica o rubricistica, ma come il luogo privilegiato per entrare in comunione con Cristo e ancorare la vita spirituale ai fatti della vita del Signore attualizzati nell’anno liturgico”.
Montini coglieva inoltre l’importanza della storia liturgica, che dava prova di conoscere nelle sue linee principali, mostrandosi specialmente sensibile alla proprietà estetica dei riti, alla loro “arte” e poesia. Come si vede una visione della liturgia, multiforme, poliedrica e dagli svariati intrecci, che ben pochi in quegli anni possedevano, soprattutto con la perspicacia e il vigore del giovane Montini, che aveva saputo assimilare tanto intimamente le fonti, da saperle riesprimere con un tono e un linguaggio tipicamente suo, e non senza suscitare tenaci e autorevoli opposizioni da parte di chi giudicava la mentalità e l’educazione liturgica una specie di pericolosa gnosi.

A dire, inoltre, quanto la liturgia occupasse il sapere e il gusto di Montini, sono eloquenti le sue iniziative pratiche, ossia la sua predicazione e le sue lezioni, in cui trasmetteva nell’ambiente intorno a sé la sua conoscenza e il suo gusto per la liturgia. Chi seguirà il successivo pensiero liturgico di Montini come arcivescovo di Milano e come Papa, che approverà la costituzione liturgica Sacrosanctum concilium, lo troverà esattamente coerente con le riflessioni e considerazioni disseminate in questi scritti giovanili. In quegli anni si distingueva nello scrivere di liturgia con acutezza e fascino specialmente Romano Guardini, che nel 1918 con Lo spirito della liturgia aveva inaugurato la collana “Ecclesia orans”, promossa e diretta dall’abate di Maria Laach, Ildephons Herwegen. Per interessamento anche di Montini e con la prefazione di padre Giulio Bevilacqua il suggestivo volumetto apparirà tradotto nel 1930 presso la Morcelliana, che si mostrava vivamente interessata delle opere liturgiche di Guardini, e in generale del tema liturgico. D’altra parte, questa attenzione alle opere di Guardini si inseriva in una sensibilità cristocentrico-liturgica che aveva profondamente e variamente segnato l’educazione di Montini, grazie soprattutto all’opera dello stesso padre Bevilacqua, che fu il suo grande maestro.

Tra i testi qui pubblicati abbiamo un commento all’anno liturgico 1930-1931, apparso in “Azione Fucina”, il quindicinale della Fuci. Vi possiamo rilevare come tratti emergenti anzitutto una lucida teologia della ricorrenza degli eventi salvifici secondo il calendario della Chiesa: l’anno sacro è “stagione completa dello spirito”, rinnovamento e ripetizione della vita di Cristo e dei suoi misteri, così che la sua storia diventi storia dell’anima, è riflessione sulla sua dottrina, rigenerazione dell’incarnazione; giro di evoluzione totale dell’anima.Sono gli splendidi accenti e qui, direi, di sapore quasi caseliano, con cui Montini apre il suo commento: “Questo ciclo liturgico sarà ciclo dell’anima. Questa storia di Cristo deve ripetersi come storia della mia anima. Ogni anno la Chiesa rinnova il suo racconto su la vita di Gesù, ne ripensa la stessa dottrina, ne ripresenta i misteri, affinché tale vicenda sia la stagione completa dello spirito, avido di santità, avido di rigenerare in sé l’incarnazione del Signore. Vivere questa vicenda è compiere un giro di evoluzione totale dello spirito cristiano”.

Nella stessa linea, la vicenda della liturgia è sentita come riflesso e disegno della vicenda della vita, dal suo inizio alla sua fine: “Nella vicenda liturgica si riflette (…) la vita”.
Questa concezione dell’anno liturgico più analiticamente risalta in questo ampio sguardo che Montini volge sul corso del tempo coinvolto nella trama di un anno sacro: “L’anno liturgico è come l’immagine completa della vita: l’infanzia a Natale, l’adolescenza all’Epifania, la virilità, la fatica, il dolore, l’amore alla Pasqua, la pienezza e la fecondità alla Pentecoste, la saggezza e l’esperienza della cosidetta “vita vissuta” nel periodo successivo. Poi l’insistente meditazione dell’al di là, suscitata dalle solennità dei Santi e dei Morti aveva riempito lo spirito di gravi ed alti pensieri; s’era giunti al punto di desiderare l’eternità: ma come si poteva qualificare simile desiderio quale indice di vecchiaia e foriero della fine? che l’ultima avventura dell’uomo sia la sorpresa, e perciò lo spavento, di finire? L’ultima scena dovrebbe allora esser tragica e tremenda anche nel dramma liturgico. E lo è, difatti. L’ultima domenica dell’anno spirituale è infatti improntata a carattere di apocalittica tragicità”. “Dopo averci prospettato Gesù Fanciullo, Gesù Redentore, Gesù Pastore e Maestro, la liturgia ci svela, su uno sfondo di conflagrazione cosmica, Gesù Giudice”.
L’anno liturgico, dal suo inizio con la Prima domenica di Avvento, è sentito, in particolare, come un itinerario di ricerca del Signore, che parte dalla coscienza del proprio peccato: “Eravamo partiti – scrive Montini – in cerca del Salvatore per aver sperimentata la miseria dell’uomo”; ed ecco, di domenica in domenica, di festa in festa, il suo trascorrere scandire, non senza tratti drammatici segnati dalla stessa liturgia, le vicissitudini dell’anima.
D’altronde, secondo Montini, abbiamo “venuta di Dio nel cuore del tempo”. Lo stesso passare del tempo è, infatti, tutto avvertito non come un trascorrere cronologico insensato, ma come un tragitto temporale attraversato dalla grazia.

Con sensibilità e linguaggio, che ci verrebbe da dire “esistenziale”, discorre de “l’istante, in cui il fuggevole flutto del fiume, ch’è la nostra vita, sarà toccato dall’istante eterno. Il contatto del tempo con l’eternità riempie di trepidazione e di stupore”; la vita si trova interpretata come “trama dove il filo di Dio sta per passare a tessere l’unica tela della vostra vita!”.
È la ragione per cui – continua Montini – “ancor prima che l’aureo filo di Dio, scorra nei poveri cànapi umani, già questi mi son divenuti cari e preziosi. E mentre prima non capivo dove tendevano e come si sarebbero sbrogliati dall’intricata matassa delle vicende senza senso e senza connessione, ora già vedo come si distendono in sapiente disegno, e come la trama sfilacciata della vita umana si può intrecciare, serrare, unificare e fluire, come serico manto che rimonta su le spalle di Cristo”.

Questo – com’è chiamato – “aureo filo di Dio” è esattamente la grazia del tempo liturgico, in cui, tramite la memoria della Chiesa, si dispongono gli avvenimenti della salvezza: tale grazia riscatta e conferisce valore a tale “intricata matassa delle vicende” e ne permette una lettura soprannaturale, di là dal “ditirambo risonante” di altre “mille voci”, devianti e vane.
Mentre, proprio nel messaggio e nel dono delle molteplici festività dell’anno della Chiesa, e quindi in Cristo, da esse rivelato e offerto, l’uomo trova, in maniera multiforme, a seconda delle ricorrenze liturgiche, il compimento dei suoi più intimi desideri e quindi del suo amore.

Con spirito agostiniano Montini ritorna su questo tema dei desideri raccolti in “fascio”, che presentono Cristo e sono avviati e allineati a Lui, l’Uomo Dio nel quale si incarnano.
La concezione dell’anno liturgico si fonda, a sua volta, sulla convinzione che “i fatti storici della vita del Signore devono tradursi in fatti spirituali delle nostre anime”.
Scrive Montini in una magnifica pagina: “L’economia seguita da Dio nel disporre vicende della storia del Salvatore, corrisponde all’economia segreta e intima da realizzare nella direzione degli spiriti fedeli. Ciò che fu del Fratello Primo deve rinnovarsi in tutti i fratelli uomini. Ciò che fu nelle circostanze della sua vita fatto esteriore oltre che interno mistero, deve riprodursi nell’educazione delle nostre coscienze. La vita seguita da Dio per venire a noi segna la nostra via per andare da lui. Se così è: l’infanzia di Cristo ha da essere l’infanzia nostra. Come la nascita sua all’ordine nostro naturale deve significare nascita nostra all’ordine suo, soprannaturale, così ogni passo della sua vita darà ora un impulso al cammino spirituale dell’anima. Perciò il problema mio sarà questo: interpretare il significato spirituale della vita di Gesù per farlo precetto della mia. E qui la liturgia mi è chiave d’interpretazione. Letterale, simbolica, analogica, o quale? La liturgia dirà. E mostrerà quale ricchezza concettuale, quale meditazione teologica arricchisca la preghiera cristiana”.

È il motivo che si va ripetendo: il ciclo dell’anno liturgico, con le sue feste principali, tratteggia e raffigura “le leggi di sviluppo della spiritualità cristiana” descrivendo appunto così “l’itinerario dell’anima”, sul quale la “storia di Cristo” si ripete nostra storia, “come storia della mia anima”. Questi semplici accenti lasciano indovinare l’inesauribile ricchezza delle pagine liturgiche del giovane Montini: anche dopo i cambiamenti della riforma conciliare, esse conservano intatto il loro valore e la loro suggestione. Del resto, è quello che si deve riconoscere a tutto l’acuto e intenso magistero di Paolo VI, ingiustamente rimosso e trascurato.

Alcuni dei documenti pubblicati in questo volume hanno la forma di rapidi appunti, che le note provvedono a svolgere, completandone i riferimenti e le allusioni. Anche grazie a tale più compiuta lettura, rivelano la loro singolare importanza: indicano cioè quanto fosse approfondita e versatile la cultura liturgica del giovane Montini, e ampia la sua informazione bibliografica.

 

(©L’Osservatore Romano 23 luglio 2011)