Ritorna il Cortile dei gentili

Il Cortile dei Gentili ritorna in un autunno ricco di incontri. Innanzitutto con l’appuntamento di Bucarest l’11 e il 12 ottobre. Il cardinale Gianfranco Ravasi, in visita in Romania come ministro della cultura del Vaticano, oltre i colloqui e dibattiti previsti riceverà un dottorato honoris causa all’università della capitale rumena. Alla sua lectio magistralis seguirà un dialogo con il fisico  e filosofo Horia-Roman Patapievici. E poi, il 12, vi saranno cinque interventi di intellettuali rumeni sull’argomento «Umanesimo e spiritualità». Il sottotitolo di queste relazioni è una domanda stimolante: «È possibile un dialogo sulla trascendenza?».
Ravasi ci confida: «Ho intenzione a Bucarest di intervenire in questi grandi eventi su Cioran e Ionesco, figure ideali di un agnosticismo o ateismo segnato profondamente dalla domanda». Si sofferma su una frase di Cioran: «Mi sono sempre aggirato attorno a Dio come un delatore.
Incapace di invocarlo, l’ho spiato». E precisa: «Vorrei presentare la figura di colui che si aggira attorno al cortile dei credenti e ne cerca quasi il centro. Anche se in un altro suo testo giunge al paradosso secondo cui “il nome di Dio è il Nulla, cioè Tutto”. Lui per tutta la vita quell’opera di spionaggio l’ha condotta». Inoltre, dicevamo, Ionesco. Il cardinale aggiunge: «Lo presenterei cominciando da una dichiarazione che ha fatto in una intervista. Questa: “Ogni volta che il telefono suona mi precipito nella speranza, ogni volta delusa, che possa essere Dio che mi telefona. O almeno uno dei suoi angeli di segreteria”. In lui c’era continuamente la speranza di una epifania del divino. E poco prima della morte, alla fine del suo Diario, nell’ultima riga c’è una frase  folgorante.
È la risposta a quell’attesa: “Pregare Non So Chi. Spero: Gesù Cristo”».
Si ritorna con il Cortile dei Gentili a Firenze, il 17 ottobre. È una tappa obbligatoria di questo progetto. Del resto, sulle rive dell’Arno si realizzò un miracolo culturale, all’epoca di Lorenzo il Magnifico, che è paragonato a quello che avvenne nell’Atene di Pericle. In Palazzo Vecchio, nel Salone dei Cinquecento, Antonio Paolucci, Moni Ovadia, Sergio Givone, Erri De Luca, Antonio Natali e, ovviamente, il cardinal Ravasi, parleranno di «Umanesimo e bellezza ieri e oggi». Sua eminenza ricorda la caratteristica di tale incontro: «L’impegno principale che vorrei realizzare tra arte e  fede è il ritrovare la loro radicale sororità, secondo la convinzione espressa da Paul Klee: “L’arte non rappresenta il visibile, ma l’Invisibile che si cela nel visibile”». E dopo una breve pausa il  porporato precisa: «Questa è anche la meta della fede».
Il 26 ottobre, il giorno precedente l’incontro di Assisi tra il Papa e i rappresentanti delle grandi religioni (al quale sono invitati anche dei non credenti, siano essi atei e agnostici) il Cortile dei Gentili organizza una tavola rotonda all’Università di Roma Tre con Giacomo Marramao. Il tema è legato all’iniziativa del Pontefice. Per tale motivo si risponderà alla domanda: «Perché gli atei  hanno accettato l’invito del Papa?». Interverranno Julia Kristeva, Remo Bodei, il filosofo messicano Guillermo Hurtado, Anthony Graylings (dell’Accademia Reale inglese), Walter Baier (che ha  avuto incarichi nel mondo comunista) oltre al cardinale Ravasi. Il giorno 27 i relatori del Cortile dei Gentili «preparatorio» parteciperanno alla giornata con Benedetto XVI. Quest’anno gli  incontri interreligiosi di Assisi compiono il loro venticinquesimo. Con il tempo sono cresciuti, anzi rappresentano ormai un riferimento non soltanto per il mondo della fede. Il titolo scelto per il  2011 è «Pellegrini della verità, pellegrini della pace».
Il 14 e il 15 novembre sarà la volta di Tirana, ovvero l’inizio di un dialogo con l’Albania. Il Cortile dei Gentili comincerà la sera sul sagrato della cattedrale — un po’ come si era fatto lo scorso  marzo a Notre Dame a Parigi — e affronterà tre temi: «Lavoro», «Spiritualità», «Informazione e comunicazione». Le relazioni, il giorno seguente, si terranno all’Università statale di Tirana e nel pomeriggio in un ateneo privato, l’Università Europea. Tra i nomi non mancheranno lo scrittore Ismail Kadare e l’accademico e scienziato Luan Omari. Ai quali va aggiunto anche uno specialista di storia religiosa, oltre che deputato al parlamento: Mark Marku.
Ravasi riassume il senso dell’incontro: «Ho accettato l’invito che giungeva direttamente dall’Albania per una ragione storica: in epoca moderna questa nazione rappresenta probabilmente l’unico  Stato che poneva l’ateismo come articolo fondante della Costituzione. La richiesta è venuta dal docente di ateismo dell’Università di Tirana. Il quale insegna ancora questa materia, ma egli è  cattolico e teologo». Che dire? Anche nei Paesi dell’ex blocco comunista casi del genere non sono eccezionali.
Ravasi precisa a tale proposito: «Avendo continuamente contatti con persone che ignorano o rifiutano la fede, rimango sempre più convinto della dichiarazione dello scrittore francese Pierre Reverdy, il quale affermava: “Ci sono atei di una asprezza feroce che, tutto sommato, si interessano di Dio molto più di certi credenti frivoli e leggeri”». Ci accommiatiamo da sua eminenza mentre proferisce un’ultima frase, che sarà anch’essa oggetto di riflessione. È di Giorgio Caproni: «Mio Dio perché non esisti? A furia di insistere, cerca di esistere».

 

da: Il dubbio e la fede, la scommessa di Ravasi
in “Corriere della Sera” dell’8 ottobre 2011

Testimoni di Dio

Testimoni di Dio è la proposta per l’Ottobre Missionario e la Giornata Missionaria Mondiale 2011 (domenica 23)

“L’enfasi non è solo sul dovere di essere testimoni – spiega don Gianni Cesena, direttore nazionale di Missio –: senza una personale esperienza di fede e di preghiera, senza una ricezione grata della Buona Notizia e senza la disponibilità ad accogliere misericordia e perdono, non c’è testimonianza. Si è testimoni sì, ma di Dio. Il Dio riconosciuto nella figura di Gesù, segno della misericordia da lui avvertita nell’indignazione per le fragilità, le miserie, le ingiustizie degli uomini, e distribuita a piene mani nelle strade e nei villaggi della sua terra fino al momento supremo della Croce”.

La testimonianza – aggiunge il direttore – è elemento fondante dell’identità del cristiano: Battesimo, Cresima ed Eucaristia lo costituiscono capace di “annunciare la morte del Signore, proclamare la sua risurrezione, finché egli venga”. I missionari e le missionarie a loro volta non possono che essere e sentirsi testimoni di Dio tra i popoli e le culture, confrontandosi spesso con volti di Dio incarnati in altre e diverse espressioni religiose.
Missio intende così partecipare al cammino decennale della Chiesa in Italia sul tema dell’educazione: in ascolto del vero Maestro, tutti sono discepoli e tutti diventano testimoni.
“Non ignorando chi nella Chiesa inquina la testimonianza con scandali ingiustificabili – conclude don Cesena – ricordiamo anche quanti in vari Paesi hanno versato il loro sangue a causa della fede fino al martirio. Mentre diamo sostegno alle Chiese di missione, non mancheremo di leggere nelle loro vicende la forza limpida della testimonianza che esse ci restituiscono giorno per giorno”.

Scarica i sussidi e le proposte di animazione.
dal sito www.missioitalia.it nella sezione “Area download”.

La politica riscopra i valori cristiani

Non è mai stato facile essere un cattolico impegnato in politica se si prendono sul serio i tre termini: «cattolico», «impegnato» e «politica». Ma nella ormai lunga stagione della cosiddetta Seconda Repubblica tutto è sembrato complicarsi ancor di più: non perché è venuto meno il partito dei cattolici, ma perché da quasi due decenni sono stati dimenticati o contraddetti alcuni dati fondamentali che avevano guidato i laici cattolici nel loro servizio alla polis, almeno a partire dalla feconda stagione costituzionale repubblicana. Penso all’autonomia delle scelte politiche, da assumersi rispondendo alla propria coscienza, formatasi alla scuola della dottrina sociale cattolica e alle indicazioni provenienti dai documenti conciliari; o alla perdita di eloquenza dei cristiani adulti, ignorati quando non zittiti o irrisi da chi non perdeva occasione per esprimersi in loro vece; o ancora alla messa in discussione del concetto stesso di attività politica: la mediazione, la negoziazione, la convergenza verso il bene comune che sovente deve accontentarsi di denunciare il male e porvi un limite, scegliendo il bene possibile sempre in obbedienza ai principi della democrazia e della pluralità della società che può esprimersi solo con il criterio della maggioranza.
Ora che le chiare parole della presidenza della Conferenza episcopale italiana – ancora una volta accolte da alcuni come tardive, considerate da altri come interferenze indebite, strumentalizzate  a proprio beneficio da altri ancora – hanno aperto scenari più movimentati, il pensiero di molti commentatori è parso appiattirsi su una sola domanda: si va o no verso un nuovo partito cattolico? Credo che a insistere solo su questo interrogativo si faccia un torto sia ai vescovi, che hanno volutamente mantenuto il discorso in termini prepolitici, sia ad alcuni, pochi invero, laici cattolici che in tutti questi anni non hanno smesso di ricercare una sintesi concreta e affidabile tra la loro fede cristiana e le scelte politiche ed economiche da proporre al Paese intero per una migliore convivenza civile. Questo non nega un’afonia di molti cattolici, incapaci di esprimersi e di mostrarsi come ispirati dal vangelo, non nega la grave incoerenza tra vita politica ed etica cristiana  mostrata da altri cattolici, e soprattutto non nega che molti di essi avrebbero potuto già da tempo uscire dal silenzio con eloquente parresia. Che tristezza sentir confessare solo in questi giorni: «Tre parole in più forse noi cattolici avremmo potuto dirle!».
Il problema è ben più ampio di una scelta di schieramento o di alleanze strategiche: si tratta di una rinnovata assunzione di responsabilità verso la collettività, che tenga conto delle mutate condizioni sociali, economiche, demografiche e storiche in Italia e in occidente, ben lontane dall’essersi stabilizzate. Di fronte alle nuove sfide che la politica in senso alto – cioè la gestione della  polis nel presente con lo sguardo proteso alle future generazioni e la mente memore delle lezioni del passato – pone non solo al nostro Paese ma al villaggio globale di cui ormai siamo parte  consapevole, pare necessario più che mai uno spazio organico di confronto tra cristiani – magari anche non solo cattolici… – in cui cercare di discernere come coniugare le istanze evangeliche con il vissuto quotidiano di una società che ormai è ben lungi dall’essere cristiana nella sua totalità. Un luogo in cui quanti hanno a cuore il bene comune e ritengono di avere delle capacità per servirlo, possano formarsi in vista dell’indispensabile dialogo con chi non condivide le stesse convinzione di fede e dell’altrettanto ineludibile azione comune nella società e per il suo benessere morale e materiale.
Quando il cardinal Bagnasco auspica «un soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica che – coniugando strettamente l’etica sociale con l’etica della vita – sia promettente grembo di futuro, senza nostalgie né ingenue illusioni», dovrebbe essere abbastanza chiaro dalle sue stesse parole che non sta propugnando un partito tanto meno progettando un governo ma, appunto, un interlocutore con la politica: una voce cristiana che, come tale, possa anche manifestarsi articolata e modulata, farsi voce dei senza voce, porre parole e gesti profetici, anche a costo di risultare  sgradita a molti. Da anni segnalo l’esigenza sempre più diffusa tra molti laici cattolici di un «forum», di uno strumento organico dei credenti in cui fare insieme opera di discernimento di  problemi, situazioni critiche e urgenze presenti nella polis, per verificarle alla luce del vangelo e per smascherare al contempo gli «idoli» che sovente seducono anche i cristiani.
Una riflessione che resti tuttavia nell’ambito pre-politico, pre-economico, pre-giuridico: tradurre poi gli aneliti evangelici – realtà ben più esigente dei «valori», a volte così mutevoli nelle loro priorità – in concrete opzioni attraverso leggi e norme spetterà a quanti si impegnano all’interno delle diverse forze politiche, in modo conforme alla propria coscienza, alla storia personale e alla lettura delle vicende che hanno contribuito a rendere il nostro Paese quello che oggi è.
Forse in questo dovremmo essere anche più attenti alle esperienze di altri paesi, europei in particolare, dove la presenza e l’influenza dei cristiani in politica è meno preoccupata di etichette o di certificati di garanzia e più sollecita nell’esprimere i propri convincimenti con un linguaggio e un’azione capaci di essere compresi e condivisi anche al di fuori delle mura confessionali. Non si tratta di ricreare le scuole-quadri, ma di fornire opportunità di riflessione e di formazione di un’opinione il più possibile aderente al messaggio evangelico e al suo farsi carico di ogni essere umano, a partire dal più debole, povero e indifeso.
Sì, per tornare ai tre termini da cui abbiamo preso spunto, il rapporto tra un cattolico e la politica – basato sull’imprescindibile riconoscimento della laicità dello stato – comporta l’impegno, l’assunzione di responsabilità, la scelta consapevole di non ricercare successi o vantaggi personali, di non perseguire privilegi di sorta, nemmeno per conto terzi, ma piuttosto di percorrere giorno dopo giorno, magari mutando il passo e scegliendo nuovi sentieri, il faticoso eppur appassionante «camminare insieme» con tutti gli uomini e le donne di buona volontà, per il bene anche di chi volontà buona ne ha poca o nulla.

 

in “La Stampa” del 2 ottobre 2011

La creazione non è un istante ma una trama incompiuta

Pubblichiamo il testo dell’intervento con cui Haim Baharier, studioso ebreo di esegesi biblica, apre oggi il suo dialogo con Alberto Melloni sul tema «Bereshìt / In principio» nell’ambito della giornata conclusiva del festival Torino Spiritualità.

 

Rabbi Zadoq Hakohen, maestro hassidico, sosteneva: «La verità va perseguita e l’intelligenza deve essere al servizio della verità. Quando però l’intelligenza contraddice la verità, l’intelligenza non  va né piegata né soffocata. Occorre dire non so, e studiare». Spaccati tra creazionisti e anticreazionisti, gli studiosi di fine Ottocento non raccolsero la lezione di Zadoq come battuta riconciliante. La diatriba perdura ancora oggi. Ogni serio studioso sa bene che il problema non è considerare il testo biblico verità o meno. È invece scorgere un percorso tra le boe senza mai considerarle punti fermi, acquisiti una volta per tutte. Si può annegare nelle certezze o aprirsi alla pluralità. Nel testo  della Creazione ciò che sorprende è che né Dio né l’uomo si pongono come entità sfumate; anzi, si presentano come due evidenze che si confermano a vicenda. Quasi volessero deviare il nostro interesse verso ciò che la tradizione ebraica considera l’enigma più grande nell’ambito della creazione: il mondo. Un mondo che nasce prima di tutto come tempo, non come luogo. Secondo la Torah,  cieli e terra vengono poi, una materialità successiva a quel «in principio» (Genesi , 1,1) che è innanzitutto accensione del tempo. A contropelo rispetto al primo impulso del pensiero che lega a maglie strette spazio e tempo, la Torah viene a dirci che tra il tempo prima e lo spazio dopo, si annida (o si estende, non lo sappiamo poiché lo spazio è ancora di là da venire!) la volontà creatrice.
Chi crea libera per fare posto, si stringe, si ritira. Perché è lo spazio concesso che permette all’altro di vivere in dignità. Si dona l’essere all’altro da sé. Tra tempo e luogo germina non una legge metafisica, ma un imperativo morale. Potremmo spiegare che la Genesi biblica, Bereshìt in ebraico, custodisce questo principio nella sua lettera iniziale Bet, che ha valore di due: da assumere  prima come un due temporale, poi spaziale, in quanto numero minimo per dare un confine, per avere un vicino… Concetto non facile da digerire e che è anche suggerito da una mishnà secondo la quale il mondo è stato creato con dieci dire. Perché dieci dire, quando – ci immaginiamo – sarebbe bastato un solo colpo d’ interruttore? Si parla del Creatore e Lui non dovrebbe avere di questi  problemi.
Intuiamo dalle parole parsimoniose della Bibbia quanto poco Egli sprechi. La mishnà avverte che questi dire molteplici non esprimono una vicinanza tra la parola e l’effetto di questa parola,  bensì una distanza tra la parola e ciò che succede a seguito di questa parola, una presa di distanza rispetto a quello che si materializza dal dire. In questa distanza che separa il dire dal fare, lì siamo  noi.
Perché? È una forma di protezione della creazione: questa distanza da una parte allontana gli incoscienti, coloro che vogliono distruggere la creazione, costringendoli a percorrere distanze infinite, mentre dall’altra serve ai giusti come percorso: percorso conoscitivo. Distanza che contempla due aspetti: positivo per il giusto che può avvicinarsi alla parola e ai suoi effetti, può interiorizzarli ed elaborarli; cautelativo nei confronti dell’incosciente che, tenuto alla larga, non riesce a combinare tutto il male che vorrebbe. Il nostro habitat è una distanza «di sicurezza». Dunque creare non è mai una gettata a presa rapida; esiste un pensiero che smaglia e allarga le trame in virtù del quale anche ciò che in apparenza è già fatto, già creato, ci appare incompiuto…
Penso a quel mutamento di identità che la Torah attribuisce ad Adamo quando diventa nefesh haià, persona vivente. Dopo che nelle sue narici viene insufflato il vento. Solo allora l’uomo diventa  una persona. Si può essere un uomo e anche un vivente, e non essere una persona, dice la Torah.
Bisogna essere attraversati dal vento. Qui sta secondo me la chiave dell’accoglienza: quando scopro che l’altro non è soltanto un essere vivente ma è una persona, quando conosco l’alito che lo muove,  sogni che lo fanno vivere, solo in quel momento accolgo.

 

in “Corriere della Sera” del 2 ottobre 2011

«Forum delle Persone e delle Associazioni di ispirazione cattolica nel mondo del lavoro»

 

 

Seminario a Todi il 17 ottobre

 

L’unità ritrovata dei cattolici In campo 16 milioni di iscritti
di Paolo Conti
in “Corriere della Sera” del 1° ottobre 2011

«Perché siamo così tanti? Perché il mondo cattolico, se non è impegnato nel settore ecclesiale e mistico dedito alla preghiera e alla meditazione, si mette a lavorare in silenzio. L’assistenza ai meno abbienti, i patronati, la difesa dei lavoratori, le missioni anche in Italia. E le cooperative, come nel nostro caso: abbiamo creato la più grande realtà d’Italia e forse d’Europa nel settore». Luigi Marino, presidente di Confcooperative, non è un personaggio da talk-show. Però guida una nave ammiraglia da 3 milioni e 100 mila iscritti che (articolo i dello Statuto) si richiama «ai principi e  alla tradizione della dottrina sociale della Chiesa». Solo uno dei tasselli del vasto associazionismo cattolico «che nasce ed è innervato dal basso», come ha detto il segretario della Cisl Raffaele  Bonanni in una recente intervista al Corriere della Sera.
Quanto di più lontano dai riflettori della politica spettacolo. Quanto di più vicino a ciò che i partiti organizzati hanno smarrito: il legame col territorio, l’ascolto della base, la conoscenza e  l’analisi dei problemi quotidiani del lavoro, delle famiglie, dei giovani. Qualche cifra? Proprio la Cisl, con 4 milioni e mezzo di iscritti, è radicata in 1800 sedi sparse sul territorio. O la Coldiretti  presieduta da Sergio Marini, per parlare di un’altra realtà molto corposa. In quanto alle Acli, un milione di iscritti, le strutture territoriali ammontano a ben 8.100.
È lì che guarda il presidente della Conferenza episcopale italiana, cardinale Angelo Bagnasco, quando descrive «una sorta di incubazione» e quindi «la possibilità di un soggetto culturale e sociale  di interlocuzione con la politica che sia promettente grembo di futuro». Il mondo cattolico italiano si prepara al seminario convocato a Todi il 17 ottobre che si coagulerà intorno al «Forum delle  Persone e delle Associazioni di ispirazione cattolica nel mondo del lavoro» (11 milioni circa di associati complessivi) coordinato da Natale Forlani e attorno a «Retinopera», circa 5 milioni di italiani, l’associazionismo di base e del volontariato, a sua volta coordinato da Franco Pasquali.

Altre realtà importanti, ricche di storia. Basterà citare la Comunità di Sant’Egidio, fondata da Andrea Riccardi, con il suo prestigio internazionalmente riconosciuto anche nei teatri di guerra. E l’Azione Cattolica, gli scout dell’Agesci, Rinnovamento nello Spirito Santo, Movimento dei Focolari. E sono solo alcune sigle.
L’attesa per Todi è palpabile. Spiega Carlo Costalli, presidente del Movimento cristiano dei lavoratori: «Per la prima volta dal Concilio Vaticano II l’associazionismo cattolico si presenta unito  rispetto alle scadenze e alla crisi del Paese. In passato siamo stati fin troppo lacerati, e ciò è stato motivo di scandalo. Ora siamo chiamati ad essere propositivi per poter contare. C’è bisogno di discontinuità per scomporre ciò che sta finendo e poi ricomporre un’alleanza tra chi ha lavorato bene per il Paese e chi è rimasto fuori perché non si è sentito rappresentato».
La crisi del sistema politico italiano ha costituito una spinta all’intesa insieme agli inviti di Benedetto XVI e del cardinal Bagnasco a un rinnovato impegno dei cattolici nella vita sociale italiana.  Natale Forlani, coordinatore del Forum: «In un clima simile, senza i valori cattolici non si va da nessuna parte. Ha ragione Ernesto Galli della Loggia quando sostiene che la politica  intesa solo come gestione della spesa pubblica e scambio di interessi è definitivamente morta. Occorrono, dice, nuove idealità e nuovi modelli. Tutto ciò coincide proprio con i nostri valori e il  nostro lavoro: responsabilità sociale, spirito di sacrificio, senso di appartenenza alla comunità, sussidiarietà.

Soprattutto quest’ultima si rivelerà essenziale in uno Stato chiamato a ridurre sempre di più l’apparato pubblico. Occorrerà rivitalizzare la famiglia, il mondo del lavoro, l’impresa e, appunto, la sussidiarietà. Temi tipici della Dottrina sociale della Chiesa». Forlani propone un esempio: «Cosa accadrebbe se chiudessero improvvisamente tutti gli asili nido gestiti dalle organizzazioni  religiose o dalle parrocchie?». In uno slogan, Forlani? «Può l’Italia rinunciare, anche nella contemporaneità, all’umanesimo cristiano? No. Naturalmente non c’è alcuna pretesa né desiderio di  ricomporre un partito cattolico. Siamo ben consapevoli che dovremo trovare un punto d’incontro con altre esperienze e altre curiosità».
Franco Pasquali, coordinatore di «Retinopera»: «Siamo chiamati a leggere ciò che abbiamo di fronte con lenti nuove e la Dottrina sociale della Chiesa può offrire un forte contributo a riportare il Paese al ruolo che gli compete, anche in campo globale. Si è messa da parte una certa autoreferenzialità, tra noi delle associazioni, e si è elaborato un lessico comune. E con l’esplosione della crisi questo percorso trova una sua ragione, e una sua responsabilità, ben più forti. Dobbiamo testimoniare un atteggiamento completamente diverso…»

Ma tutto questo universo perché è poco «visibile»? Come mai certi numeri rimangono mediaticamente sommersi? Risponde Andrea Olivero, presidente delle Acli: «In effetti c’è una grande  vivacità delle associazioni, accompagnata da un impegno molto forte, che non sono ben rappresentati. E tutto questo rappresenta un problema, mostra uno scollamento tra la realtà che rappresentiamo e la percezione da parte della collettività». Forse Todi servirà anche a questo? «Io penso che di fronte alla gravissima crisi del mondo politico sia giusto ricorrere al nostro  serbatoio di responsabilità e di partecipazione civica. Dovremo avere una interlocuzione con tutte le forze politiche ma uno dei primi passaggi per far sì che il mondo dei cattolici sia di nuovo  presente ed efficace sarà il cambiamento delle regole di accesso. Non saremo disponibili a fare da specchietto per le allodole come è accaduto, fin troppo, in passato». Conclude Bernhard Scholz,  presidente della  Compagnia delle Opere che si rivolge già direttamente alla politica: «Le associazioni cattoliche sono una ricca fonte di esperienze capaci di contribuire a rinnovare la società  civile, valorizzare la famiglia, riconoscere il significato vero del lavoro e dell’economia e di promuovere la formazione dei giovani. Approfondire insieme questi e altri temi con la massima  apertura e competenza a Todi è decisivo per incidere maggiormente sul futuro del Paese. In base a questo impegno è necessario che la politica, al di là degli schieramenti, sappia realizzare le  urgenti riforme del sistema fiscale e del welfare per permettere una crescita sostenibile e solidale. A questo proposito spiace che il dibattito seguito al discorso del cardinal Bagnasco non abbia  recepito molte sue osservazioni, in particolare quella sulla libertà di educazione». Come si vede, i fronti sono tanti. E non tutti risolti.

 


Lo spirito di Assisi

 

due libri delle Edizioni Qiqajon:
– Il dialogo cambia la fede? di Jean-Marie Ploux, e Insieme per pregare. Le religioni nello «spirito di Assisi»
cura di Matteo Nicolini Zani

 

 

Sono trascorsi venticinque anni da quando papa Giovanni Paolo II, sorprendendo molti, anche tra i suoi più stretti collaboratori, promosse «un incontro di preghiera per la pace» da tenersi ad Assisi, luogo divenuto grazie a san Francesco «centro di fraternità universale». L’annuncio delle «consultazioni con i responsabili non solo di varie chiese e comunioni cristiane, ma anche di altre religioni del mondo» venne dato a Roma a conclusione dell’ottavario per l’unità dei cristiani. Ora, a distanza di un quarto di secolo, Benedetto XVI rilancia lo «spirito di Assisi» invitando anche  «tutti gli uomini di buona volontà» per una giornata di pellegrinaggio, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo.
Ma cosa si intende davveroper «spirito di Assisi»? Le Edizioni Qiqajon hanno pubblicato due volumi che permettono di sviscerarne il significato profondo: il primo – Il dialogo cambia la fede? di Jean-Marie Ploux, (pp. 290, € 25) – analizza le implicazioni del dialogo interreligioso nella vita e nella testimonianza della chiesa, mentre il più recente Insieme per pregare. Le religioni nello «spirito di Assisi» (a cura di Matteo Nicolini Zani, pp. 168, €16) ripercorre i testi che in questo ampio lasso di tempo, attraversato da eventi storici di grande portata, hanno alimentato la riflessione dei cristiani sui loro rapporti con le altre religioni e sul loro atteggiamento verso la pace e la giustizia. Vi troviamo innanzitutto uno spaccato delle motivazioni all’origine dell’iniziativa e una raccolta degli appelli e dei discorsi che ne precisarono il senso e il contesto.
Una seconda parte analizza le sfide che la preghiera «interreligiosa» pone, attraverso i documenti ecumenici che hanno affrontato teologicamente i vari aspetti del problema. Una rilettura del magistero di Benedetto XVI su questa tematica così decisiva per la testimonianza dei credenti nel mondo di oggi e lo status quaestionis attuale ad opera di uno dei più acuti interpreti cattolici del dialogo interreligioso, il vescovo Michael Fitzgerald chiudono la raccolta.

Dalle pagine emerge il consenso sulla possibilità di trovarsi «insieme perpregare» – cosa diversa dal più coinvolgente e impraticabile «pregare insieme» – e l’arricchimento che nasce da un sincero dialogo tra credenti. La fede non viene scossa dall’aprirsi agli altri, ma riceve anzi risorse per narrarsi in un linguaggio più comprensibile e per tradursi in un operare fecondo. Il dialogo, infatti, «non cambia la fede»: non porta cioè a un tradimento delle proprie radici, ma può mutare l’espressione e la consapevolezza del credere, a beneficio non solo di chi il dialogo lo pratica, ma anche di quanti ne raccolgono i frutti, dentro e fuori l’ambito delle singole religioni.
Perché, come ha avuto modo di scrivere il card. Etchegaray, tra i protagonisti del primo incontro: «Assisi ha fatto fare alla chiesa uno straordinario balzo in avanti verso le religioni non cristiane…

Ha permesso a uomini e donne di testimoniare, nella preghiera, un’esperienza autentica di Dio al cuore delle loro religioni». Ravvivare lo «spirito di Assisi» in un mondo disorientato e alla ricerca di senso è allora un servizio che i cristiani, insieme tra loro e con i credenti di altre religioni, possono offrire ai loro fratelli e alle loro sorelle in umanità.

 

in “La Stampa” del 1° ottobre 2011

L’ecumenismo secondo Benedetto XVI

Molte erano le aspettative dalla visita del papa in Germania sul capitolo dell’ecumenismo. In un luogo simbolico, il convento degli agostiniani di Erfurt, dove il giovane Martin Lutero fu monaco e
prete della Chiesa cattolica, e davanti alle autorità della potente chiesa evangelica tedesca, Benedetto XVI ha ridefinito a suo modo la posta in gioco del dialogo ecumenico.
Si possono leggere le grandi linee della sua posizione, che diverge in parte da quella del suopredecessore, nell’attacco inatteso contro altri cristiani.
Evocando «una forma nuova di cristianesimo, che si diffonde con immenso dinamismo missionario» – nel quale si possono riconoscere le correnti evangeliche pentecostali -, il papa opera una requisitoria feroce.
Questa corrente è tacciata di «cristianesimo di debole densità istituzionale, con poca consistenza razionale e ancor meno consistenza dogmatica e anche con poca stabilità». Ci metterebbe, afferma il papa, «nuovamente di fronte alla questione di sapere ciò che resta sempre valido, e ciò che può e deve essere cambiato».


Criteri


Dietro l’esigenza istituzionale esposta da Benedetto XVI appare l’imperativo di situarsi in una storia e, soprattutto, in una tradizione, cosa che di solito manca a comunità che spuntano come funghi attorno al carisma di un solo uomo e che rivendicano la loro indipendenza.
Non si può qui dimenticare il testo Dominus Jesus del 2001, nel quale il cardinal Ratzinger considerava la successione apostolica (la trasmissione ininterrotta da vescovi a vescovi) come una condizione necessaria per essere una vera chiesa.
Anche se i luterani rispondono solo in parte a questo esigente criterio, il papa, a Erfurt, ha preferito non tornare su quel testo, accolto molto male all’epoca in ambiente protestante.
La seconda critica – la debolezza della consistenza razionale – fa eco ad una affermazione abituale di Benedetto XVI che non cessa di martellare sul fatto che la fede cristiana deve essere edificata sulla ragione, la quale conduce naturalmente a Cristo e a Dio. La forte presenza dell’emozione nel rito, con pratiche nelle quali il corpo sembra prevalere sullo spirito, è in questa prospettiva molto sospetta al vescovo di Roma.
In terzo luogo i pentecostali mancherebbero di struttura dogmatica. È incontestabile, ma è anche la ragione del loro successo. Il rilievo si applica ugualmente a tutti coloro che vorrebbero  liberarsi da regole giudicate secondarie o troppo repressive nelle attuali società occidentali.
Vissute timidamente nel cattolicesimo o esibite apertamente presso i riformati più liberali, le velleità moderniste dei gruppi più attenti ai valori cristiani che non alle esigenze ecclesiali, sono qui prese di mira. Al di fuori di uno stretto inquadramento non c’è salvezza, dice il papa.


Instabilità


L’ultimo rilievo indirizzato alle correnti cristiane pentecostali riguarda la loro instabilità. Nella tradizione protestante, qualunque divergenza può essere pretesto per un’uscita e per la  reazione di una nuova chiesa.
Nel contesto cattolico, l’insistenza del papa su questo punto è un segnale di fronte ai progetti dichiarati di indipendenza, in Austria e altrove, e di fronte ai promotori di evoluzioni interne.
Ma il richiamo alla stabilità mette anche in discussione i percorsi di avvicinamento e di piccoli passi che hanno lungamente ritmato il cammino ecumenico. Così, Benedetto XVI qualifica il “dono ecumenico dell’ospite”, dietro il quale si può vedere l’ospitalità eucaristica (accoglienza alla comunione di fedeli luterano-riformati) come «cattiva comprensione politica della fede e dell’ecumenismo».
Di fronte «all’assenza di Dio nelle nostre società (che) si fa più pesante», il «compito ecumenico centrale» consisterebbe ormai nel ripensare la fede, non edulcorandola, ma vivendola «integralmente nel nostro oggi».
Ciò che seguirà a questo discorso fondatore ci dirà se i nuovi binari ecumenici, nei quali gli ortodossi si immetteranno senza difficoltà, incontreranno il favore di tutta la galassia dei fedeli.


in “www.temoignagechretien.fr” del 28 settembre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)

 

Progetto di «prassi cristiana con i giovani»

 

 

Ripensare la pastorale giovanile

José Luis Moral

 

 

La società e le comunità cristiane, nel loro rapporto con i giovani, più che «in–segnare» (mettere cioè in segni, più o meno fissi, quello che sanno), «si–educano», ossia, maturano e crescono ricreando i simboli della vita e della fede. Purtroppo, la relazione della società e della Chiesa con i ragazzi, troppo spesso si è concentrata più sull’insegnare che sull’educare: all’insegnamento corrisponde l’istruzione – decifrare, catalogare e rinnovare segni già saputi –; all’educazione, invece, corrisponde l’iniziazione, ovvero, l’avvicinarsi ai simboli per scoprire i fili dell’esistenza, i vincoli e le relazioni antiche e nuove che ci fanno essere persone.

Intendo parlare in quest’articolo di un «progetto di prassi cristiana con i giovani» sviluppato attraverso tre libri[1], che giustamente inseguono le sorgenti simboliche e, a mio avviso, consentono di ripensare la pastorale giovanile, evitando la trappola di trasformare i simboli della vita in segni posseduti di cui impadronirci. Infatti, il primo volume – Giovani senza fede? Manuale di pronto soccorso per ricostruire con i giovani la fede e la religione – cerca di interpretare lo stato attuale delle risorse simboliche che tanto la cultura come la fede cristiana devono trasferire ai giovani; nel secondo – Giovani, fede e comunicazione. Raccontare ai giovani l’incredibile fede di Dio nell’uomo – provo a far emergere la vera e propria fonte di tutti i simboli, narrando storie sull’amore incondizionato e gratuito di Dio; il terzo – Giovani e Chiesa. Ripensare la prassi cristiana con i giovani –, infine, si sofferma su come concretizzare una nuova relazione tra i giovani e la Chiesa, attraverso la proposta di una prassi cristiana alternativa.

Ecco di seguito una breve sintesi di ciascun libro. Interpretare, raccontare e attuare sono rispettivamente le prospettive delle tre opere che, nel ripensare la prassi cristiana con i giovani, cercano un’alleanza effettiva con loro: interpretare (1), per definire l’orizzonte antropologico-culturale; raccontare o fare «teo-logica» (2), per cercare di sintonizzare tale orizzonte con quello teologico; infine (3) attuare, con il disegno di uno «schema-modello» a partire dal quale si possa progettare la prassi nella propria situazione concreta e particolare.

 

 

§ Libro 1: Giovani senza fede?

 

L’opera analizza la situazione contemporanea e il suo orizzonte antropologico-culturale in tre direzioni. Inizia con la constatazione che la modernità ha portato con sé un cambiamento radicale del prototipo culturale, dal quale deriva un nuovo stato di coscienza dell’essere umano, mentre, da parte sua, il cristianesimo continua ad incontrare grosse difficoltà nel rivivere la propria esperienza in consonanza con tale contesto. I ragazzi, figli di questo nuovo modo di essere e vivere, incrociano troppe interferenze nel sintonizzarsi con la religione.

Per questo motivo – ed è un ulteriore passaggio –, diventa obbligato l’impegno per una «nuova alleanza con le giovani generazioni» che ricostruisca con esse quello che da sempre – e specialmente nella vita, morte e risurrezione di Gesù, il Cristo – Dio vuole comunicarci. Non solo perché, nel bene o nel male, il futuro del cattolicesimo passa per i giovani, ma anche perché essi – più che rifiutare – sono forse arrivati al punto di capire poco o nulla del senso e valore dell’esperienza cristiana.

Infine, i ragazzi oltre che rappresentare una metafora eloquente, costituiscono una vera profezia, un’opportunità incomparabile per disimparare teologia ed esercitare la «teo–logica»: vale a dire, per entrare con decisione nella logica di Dio, per «praticare Dio», per vivere «con spirito» ed «educar–ci» con i giovani, ricreando quella genuina comunità reale di comunicazione che è la Chiesa, sulla spinta della comunità ideale di comunicazione costituita  dal Regno.

 

 

§ Libro 2: Giovani, fede e comunicazione

 

Scritto in dialogo con i giovani, questo libro tenta di ridisegnare l’orizzonte teologico. Ci troviamo di fronte un Dio che, per primo, crede nell’uomo e la cui fede in noi precede la nostra in Lui; tale consapevolezza, tra le altre cose, consente di ricostruire l’esperienza cristiana in sintonia con l’esperienza umana odierna. È questa la tematica della prima parte del volume, dove i ragazzi manifestano il bisogno di scoprire un Dio che dimostri e dia prova di noi.

Ammirando Dio come quella meravigliosa maniera infinita di essere uomo, si narra poi la «teo-logica» della creazione attraverso l’amore e la salvezza. Davanti a tutto ciò, i giovani s’interrogano sul come fare per capire questo nostro essere stati «creati creatori», quale rapporto esista tra natura e «grazia» o tra naturale e soprannaturale, che cosa significhi «fare esperienza di Dio» e, infine, come mettere in relazione teologia, comunicazione, fede, religione e Chiesa.

Dopo aver compreso l’uomo quale maniera finita di essere Dio, nonostante il peccato lo faccia cadere in «dis-Grazia», si racconta di come questa argilla frantumata venga ri-creata con un «eccesso» che gli permette di «vivere in stato di grazia». La fantasia giovanile, di fronte a un tale scenario, si scatena in mille domande sul peccato originale, il demonio e l’inferno; e, non contenta, avanza quesiti sulla comunicazione nella liturgia, sui documenti del magistero e sulla relazione tra Chiesa e mezzi di comunicazione.

 

 

§ Libro 3: Giovani e Chiesa

 

L’inizio del testo (Imparare a conoscere: Ricostruire la comunicazione), presenta il pluralismo come la «cifra» e la chiave interpretativa della situazione attuale. Ci vuole, dunque, una «prassi ermeneutica» in grado di ascoltare Dio nella realizzazione dell’uomo e, nel contempo, di ricostruire la comunicazione fra i giovani e la Chiesa.

La seconda parte (Imparare ad essere e a vivere insieme: Ripensare l’identità e l’orientamento), collocandosi sui binari della ricerca di senso, aspira a presentare un’identità umano-cristiana con cui vivere e proporre la fede senza dover fare a meno dello stato di coscienza delle donne e degli uomini, dei ragazzi contemporanei. La strada è questa perché la fede va educata dentro i dinamismi storici della crescita umana: il tutto poggia, da un lato, sulla «qualità-senso» della vita e, dall’altro, sulla «liberazione–salvezza» che Dio ci dona in Gesù Cristo.

Già nella terza parte (Imparare a fare: Ripristinare l’azione, progettare la prassi), una volta afferrato che Dio provoca la nostra libertà con un progetto di amore radicato nell’intimo di ogni esistenza umana – per cui il «sì alla vita», al senso più profondo della propria umanità è un «sì a Dio» –, arriva il momento dell’azione propriamente detta: il momento cioè della progettazione e programmazione della prassi cristiana con i giovani, entrambe finalizzate alla costruzione di veri cittadini e cristiani giovani, che affrontino la vita con lo Spirito di Gesù e accolgano la salvezza di Dio non soltanto nella ricerca del senso, ma anche – e soprattutto – nella lotta per la giustizia.

 

 

  1. 1. Prassi cristiana con i giovani

 

Si tratta, quindi, di ripensare la pastorale giovanile; il sottotitolo di queste riflessioni ne indica l’esito: disegnare una prassi in grado di far sì che i giovani diventino «cittadini nella Chiesa» e «cristiani nel mondo». Prima di entrare nel tema, però, si rende necessaria una precisazione circa lo stesso cambiamento terminologico. Infatti, opto per l’espressione «teologia della prassi cristiana» al posto della tradizionale teologia pastorale o pratica e, conseguentemente, rinomino «prassi cristiana con i giovani» quanto è abitualmente identificato con pastorale giovanile.

 

1.1. Teologia della prassi e prassi cristiana con i giovani

 

Non vorrei entrare in una inutile guerra di parole. Alla base delle modifiche linguistiche esiste un intento fermo di ricostruire la teologia pastorale o pratica in termini di «teologia della prassi cristiana», intesa quale riflessione e confronto critico dell’esperienza cristiana della comunità ecclesiale (e la sua costituzione come comunità di comunicazione nella vita interna e nell’annuncio esterno della salvezza) con l’esperienza umana attuale, alla ricerca di una realtà sociale più giusta ed umanizzante; l’obiettivo di questa specifica correlazione critica è quello di portare alla verifica della propria identità religiosa (in quanto cristiani) e dell’inserimento e collaborazione negli impegni comuni (in quanto cittadini) per dare senso alla vita e alla storia dell’umanità.

Supera le possibilità di queste righe entrare nei dettagli che, ad ogni modo, ho cercato di giustificare in un altro lavoro più tecnico[2]. Comunque, mi sembra ormai condiviso che la breve e travagliata storia della teologia pastorale continua a collocarci in un presente incerto e ci pone davanti un futuro ambiguo. Intendo reagire con un duplice spostamento: il primo, attraverso una specie di scossa simbolica legata alla modificazione dell’appellativo; il secondo, con una (corrispondente) nuova definizione dell’identità.

Il cambio nominale, da una parte, permette eliminare tanto il significato esclusivamente interno della parola «pastorale», come il tono generico e vago del termine «pratica»; dall’altra, da il via ad una nuova carica simbolica che, pur ruotando attorno a un’espressione usata in tutte le lingue (prassi), conserva i tratti originali della sua peculiarità[3].

Tuttavia il quid risiede nella definizione con cui aprivo questo punto. L’identità classica della teologia pastorale – per così dire e semplificando – gira attorno alla Chiesa, il che comporta il rischio di non mettere sufficientemente a fuoco il vero centro di tutto, cioè, il Regno di Dio. La mia proposta cerca di andare incontro vuoi a questo pericolo vuoi ad altri derivati da possibili dualismi (esperienza umana ed esperienza cristiana, comunità sociale e comunità ecclesiale, ecc), con una teologia della prassi cristiana in grado di intrecciare profondamente la costruzione del cittadino e del cristiano, della Chiesa e della società nell’orizzonte convergente del Regno, della salvezza e del senso.

Da ciò deriva la correlativa trasformazione della pastorale giovanile in «prassi cristiana con i giovani». Nonostante le concretizzazioni specifiche, servono anche le ragioni precedenti per giustificare questa seconda scelta. A ciò, si aggiunge la carica inedita dell’articolazione della parola prassi nelle due accezioni con cui si usa: nella prima – teologia della prassi – il soggetto o il sostantivo principale è la teologia; nella seconda – prassi cristiana con i giovani – è la prassi ad essere sostantivo e soggetto centrale, allargato in un rapporto di specificità («con») ineludibile. Questi aspetti sono sostanziali: nel caso della teologia della prassi, indichiamo che la chiave della sua identità ricade nelle esigenze della teologia, mentre, quando trattiamo della prassi cristiana con i giovani, il perno si sposta sulla prassi concreta dei giovani fatta o vissuta con loro[4].

 

1.2. Epistemologia, criteriologia e prospettiva educativa della prassi

 

Ovviamente non è possibile raccogliere in alcune poche pagine quanto ho scritto in più di settecento. Quindi cercherò di sottolineare gli elementi che meglio chiariscono la variazione della rotta nella direzione sopra indicata (con tutte le riserve dovute alle necessarie semplificazioni che comporta un lavoro di questo genere).

Il progetto, anzitutto, poggia su una duplice base strutturante: 1/ L’assunzione dell’epistemologia ermeneutica quale paradigma o matrice disciplinare della teologia pratica e, in genere, della prassi cristiana con i giovani; 2/ La collocazione specifica di quest’ultima in una prospettiva educativa. Ermeneutica ed educazione, inoltre, consentono di ridare una profondità coerente all’orizzonte antropologico-culturale e teologico entro il quale viene posizionata la proposta.

Ciò detto, nella situazione attuale tutto preme verso l’impegno di ripensare con i giovani – e dalla parte loro! – la religione e la fede. Insieme a questa fedeltà ai ragazzi, tre sono i criteri fondamentali che, dal punto di vista cristiano, devono guidarci: il principio Incarnazione, la ripresa dell’idea di creazione e il collegamento intrinseco fra salvezza e liberazione (liberazione, presente della salvezza; salvezza, futuro della liberazione). Recupero così l’intera sequenza «creazione–incarnazione–redenzione», riportandola da vicino alla realtà della vita contemporanea.

Al centro rimane il «principio incarnazione», insieme all’annuncio del vangelo della salvezza. Il recupero dell’importanza del concetto di creazione o, meglio, di «creazione dall’amore» permette di capire, da un lato, che ciò che a Dio interessa siamo noi nella nostra interezza – corpo e spirito, individuo e società, cosmo e storia –; dall’altro, che Dio ci ha «creati creatori» (a sua immagine), ossia, la creazione non rimanda a persone e oggetti passivi, bensì ad una realtà infinitamente partecipativa. Le conseguenze di questa centralità sono importanti, perché da questa visione nasce un modo aperto e positivo di situarsi nel mondo in sintonia con lo stato di coscienza dell’uomo contemporaneo (fiero, a ragione, della sua autonomia creativa). Si comprende allora perché, nel pensare l’azione divina e l’azione umana, “il Creatore non deve «venire» nel mondo, perché è già sempre dentro di esso, nella sua più profonda e originaria radice; e non deve ricorrere a interventi puntuali, perché la sua azione, lunghi dall’essere intermittente e sporadica, da sempre e senza tregua sostiene, dinamizza e promuove tutto: il Padre «opera da sempre» (Gv 5,17) nella sua creazione” (A. Torres Queiruga).

Quanto fin qui detto, fa capire subito che la pastorale giovanile odierna deve andare oltre la pur necessaria «mentalità di progetto», verso cioè una mentalità strategica in grado di affrontare il presente e di pensarlo in prospettiva di futuro, mediante l’indicazione di chiavi, priorità e sequenze che si inseriscano nelle dinamiche vitali delle nuove generazioni. In ogni caso, la mia posizione strategica è incentrata sulla ricostruzione dell’esperienza cristiana: tale processo va legato al recupero dell’umanità della fede e della religione, affinché sia possibile «educar–ci» insieme ai giovani accettando il pluralismo e integrando creativamente la secolarizzazione, con la conseguente ricollocazione del cattolicesimo nelle società democratiche occidentali.

La «mentalità ermeneutica» e lo «sguardo educativo», in questo contesto, portano ad una definizione rinnovata dell’obiettivo della prassi cristiana con i giovani – formulato abitualmente in termini di «sintesi tra fede e vita» (con il rischio di dare per scontato quello che si doveva definire, ossia, quale vita e quale fede volevamo unire) – attorno all’umanizzazione, ritenuta la via più adeguata perché fede e vita si armonizzino nel cammino del divenire cittadini e cristiani giovani.

Il linguaggio presenta sempre dei pericoli: consegnare l’obiettivo all’umanizzazione può apparire più dinamico, ma rischia di essere riduttivo; collocarlo nell’ambito della divinizzazione è più completo, ma può risultare astratto e persino vuoto. Nonostante umanizzazione e divinizzazione costituiscano un’unica realtà[5], lo stesso paesaggio visto da sponde diverse, se sottolineiamo eccessivamente l’umanizzazione rischiamo di nascondere l’orizzonte della divinizzazione; mentre, mettendo l’accento su questa, corriamo il pericolo di oscurare la realtà concreta dell’umanizzazione alla quale la stessa divinizzazione deve ancorarsi.

Ma non è soltanto una questione di parole: parlare di umanizzazione – vincolata alla creazione, Incarnazione e salvezza dell’uomo – risulta oggi più significativo e permette di comprendere meglio che Dio è dalla nostra parte, che è così coinvolto nei progetti umani di liberazione da trasformarli – già adesso! – in segni di salvezza che anticipano nella storia la loro realizzazione escatologica.

 

 

  1. 2. Situazione e direzione ermeneutica del progetto

 

Non basta semplicemente guardare la situazione per interpretarla e cercare di comprenderla. Il presente che viviamo è in se stesso una «situazione ermeneutica», il comprendere dipende soprattutto da un processo inserito nella storia degli effetti (o delle determinazioni) che provengono dal passato e costituiscono un «presente spiegato» (situazione ermeneutica) il quale, per essere capito e rendere possibile un futuro autenticamente umano, deve essere reinterpretato. Per questo motivo H.-G. Gadamer afferma che “chi non ha un orizzonte è un uomo che non vede abbastanza lontano e per questo motivo sopravvaluta ciò che gli sta più vicino. […] Il compito della comprensione storica porta con sé l’esigenza di appropriarsi, in ogni singolo caso, dell’orizzonte storico in base a cui ciò che si deve comprendere si presenta nelle sue vere dimensioni. Chi non si preoccupa di collocarsi nell’orizzonte storico a cui il dato appartiene e dal quale ci parla non può capire il significato di tale dato”[6].

 

2.1. Un «cambio epocale»

 

Indubbiamente, il nostro è un «tempo di crisi» e di «cambio epocale». La rivoluzione sociale e culturale viene da lontano. Di conseguenza (questi sono gli effetti fondamentali di cui servirci per l’interpretazione), ci troviamo con un nuovo modello esplicativo generale: la modernità introduce un processo irreversibile le cui ancore sono fissate nell’autonomia della realtà mondana, nella radicalità storica dell’essere umano e in una razionalità antropocentrica che si distende liberamente e creativamente (con non poche sconfitte e problemi, ma anche con tante soluzioni e conquiste!). Infatti, l’evoluzione storica dell’umanità – in particolare negli ultimi tre secoli – e le profonde trasformazioni introdotte tanto dalle scienze empiriche come dalle moderne scienze dell’uomo, non solo prospettano un universo simbolico diverso da quello che servì per formulare la fede e giustificare l’esperienza cristiana, ma soprattutto introducono un inedito paradigma o prototipo interpretativo per comprendere la vita umana, un’autentica rivoluzione dei modi di sentire, pensare, valorizzare e agire.

Qui risiede il punto: ci troviamo con il radicale mutamento della vita e del pensiero umano che una volta servirono per esprimere il contenuto dell’identità e del messaggio cristiani: l’esperienza di fondo continua ad essere la stessa; la cultura però è cambiata sostanzialmente.

Da un parte, quindi, la fede cattolica continua a narrarsi con strutture, forme, linguaggi e simboli antichi, non raramente incomprensibili; dall’altra, la sensibilità e le esperienze umane dei nostri giorni fanno sempre più fatica ad entrare in sintonia con il cristianesimo e la religione in generale. Il risultato è che oggi, in Occidente e dopo numerose vicissitudini, non sono pochi quelli che finiscono per non credere più alla storia raccontata dalla Chiesa, e non sono molti quelli che continuano a fare l’esperienza che sta alla base della fede. Non di rado, gli stessi cristiani si rassegnano ad una specie di doppia vita (la secolare e la religiosa)[7]: l’esperienza umana contemporanea, con tutti i suoi limiti, ci ha trasformati in cittadini coscienti dell’uguaglianza, dell’autonomia, della libertà, generando atteggiamenti critici e democratici; mentre l’esperienza religiosa, a causa dello sfasamento dovuto a interpretazioni premoderne, produce cristiani – mi si consenta la scarna e polarizzata descrizione – in attitudine di (religiosa?) sottomissione.

Ecco dove situo il progetto di prassi cristiana con i giovani: dall’Illuminismo in poi, tutto è stato rimosso, discusso, analizzato e sottomesso al tribunale dell’essere umano. La fede e la religione cristiane non si trovano a loro agio in questo contesto. L’obiettivo dell’ultimo Concilio di offrire un volto vivo e attuale dell’esperienza cristiana è ancora lontano, mentre incalza l’urgenza di ripensarla e ricostruirla con categorie e pratiche che ricreino la vita e vivifichino la speranza degli uomini e delle donne del nostro tempo.

È vero che l’esperienza cristiana sta ancorata alla fede; tuttavia non è meno vero che per credere in Dio c’è bisogno che sia e risulti credibile. La messa in questione dello stampo originario con cui si coniava quell’esperienza, ha rivelato una cultura religiosa preoccupata di custodire una tradizione carica di forme sempre più incomprensibili e ostacolata dal peso di una istituzione in buona parte ancora sacralizzata. Fatalmente, in tale panorama, Dio stesso rischia il discredito.

 

2.2. Quale Chiesa, quali comunità e nuove generazioni di cristiani vogliamo?

 

Bisogna dirla tutta: parecchi ingredienti del complesso percorso che delimitiamo come «modernità» sono stati oggetto di numerose critiche e debbono ancora essere sottoposti, come ogni prodotto umano, a una costante revisione. Segnalo, di seguito, alcuni degli aspetti più negativi che hanno condotto la civiltà occidentale a scontrarsi con due ostacoli pericolosissimi: la frattura culturale (e religiosa) dell’identità-orientamento della vita e la simulazione come gioco vincente nella comunicazione-azione dell’uomo.

L’identità personale e l’orientamento generale e sociale, in primo luogo, sono colpiti dai diversi guai che insediano l’umanità dal XVIII secolo in poi: da una parte, la crescente soggettivazione apre l’abisso dell’individualismo più egoista e chiuso; dall’altra, l’ideale illuminista di una «nuova società» finisce alla mercé della ragione scientifico-tecnica e dell’economia liberal-capitalista come centro produttore di significato sempre più preponderante. Una «società a rischio», dunque, dove aumentano le ingiustizie e le minacce alla stessa sopravvivenza dell’uomo: le disumane condizioni di vita nel «terzo mondo»; le esclusioni in aumento nel primo e nel secondo; la perdita collettiva di senso e direzione nell’esistenza; l’insensata distribuzione della ricchezza e l’assurda carriera consumistica; la manipolazione genetica; l’onnipresente terrorismo e la pretesa di istituzionalizzare la «guerra preventiva» contro di esso; il degrado ecologico e il pericolo delle arme biologiche e chimiche; la disuguaglianza e l’emarginazione fra culture e persone.

Altrettanto succede con la comunicazione e l’azione umane: la pretesa della modernità si può riassumere, con M. Weber, catalogandola come «processo di razionalizzazione». Processo che non solo attraversa tutte le realizzazioni intellettuali, artistiche e istituzionali dell’Occidente, ma che si pone anche alla base della conformazione mentale, delle motivazioni e dei comportamenti umani. Lo «spirito moderno» si dispiega come razionalità analitica e critica, formalismo sistematizzatore o procedurale, predisposizione per il calcolo di risultati e la verifica empirica. Inoltre, l’idea di ragione propizia una teoria della conoscenza che demarcherà i territori della scienza, delle credenze e delle superstizioni. Questo tragitto, in sé positivo, finisce però per spaccare la comunicazione e l’azione a causa di tre errori ancora presenti: la frammentazione della ragione, il predominio della razionalità strumentale e l’unidirezionalità empirica della conoscenza. Palesi sono le conseguenze di questi sbagli enormi che, alla fine, sfociano nella sostituzione della realtà con una sua immagine, il «crimine perfetto» secondo J. Baudrillard.

La nascita di un mondo in cui la tecnica s’intronizza come regina assoluta suppone dunque una rottura, non solo con le concezioni tradizionali della scienza (mai riducibile ad un semplice strumento), ma anche con le finalità della vita umana. Approdiamo così ad una sorta di sradicamento del senso per incentrare tutto sul trionfo, sul risultato come unico oggetto di culto, e rimpiazzare la «logica del senso» con la «logica della competenza». Allo stesso modo siamo ormai sopraffatti dalla sensazione che i processi storici riguardanti la nostra vita quotidiana, meccanicamente indotti, si sviluppano ad una velocità sfrenata e, soprattutto, al margine di ogni finalità visibile. Vivere, sopravvivere o realizzarsi sono intercambiabili e, quando non avviene l’insuccesso o il fallimento, sempre ci aspetta la minaccia della banalità, dell’insignificanza e del tedio. È la logica infinita e sprovvista di finalità del mondo della tecnica (e del consumo), e quando meno te lo aspetti, ti butta nelle braccia della noia.

Ma la cortesia non toglie la gagliardia. Di fronte alla razionalità autonoma, alla storicità, alla libertà e secolarizzazione, alla democrazia, ecc, non basta una pur necessaria depurazione critica, e neanche riconoscere semplicemente la loro ineluttabilità: il processo che hanno avviato è ormai irreversibile, in quanto la coscienza umana li ha introiettati nella sua configurazione centrale e d’ora in poi costituiranno il fondamento delle «credenze» che articolano il substrato culturale umano.

Ciò riconosciuto, ecco la questione: quale cristianesimo, quale Chiesa, quali comunità e nuove generazione di cristiani vogliamo? Tutto conduce qui; anzi, tutto dipende da questo interrogativo al quale non riusciamo a dare una risposta adeguata. E, se la teologia in genere si preoccupa della correlazione fra l’identità-esperienza cristiana e quella umana, lo specifico della pastorale – rispetto al resto delle discipline – consiste nel fare della prassi il punto di partenza: nel nostro caso, l’esistenza concreta dei giovani e della comunità cristiana è il «luogo teologico» per eccellenza in cui ascoltare e comprendere tanto la parola immediata di Dio come la risposta ecclesiale più adeguata alla medesima.

Risulta palese che dobbiamo pensare il cristianesimo non solo con e per le nuove generazione, ma anche dal loro punto di vista: in fin dei conti, un’essenziale pietra d’inciampo per misurare il futuro della religione cattolica risiede nella capacità di ripensarla a partire dai giovani, ai quali ovviamente va diretta, come destinatari in grado di confermare o smentire quel futuro. Inoltre, è proprio in questo contesto che si inserisce la mancanza di sintonia: c’è qualcosa che precede l’eventuale disaccordo o rigetto della fede, ed è la comprensione o meno da parte dei ragazzi di quello che diciamo e dell’esperienza che proponiamo. Tante volte il problema risiede a questo livello, per cui neanche si arriva a formulare un vero e proprio rifiuto: semplicemente si abbandona ciò che non si capisce.

Finalmente, una «società a rischio» come la nostra rappresenta sicuramente un «pericolo di vita» per i giovani, anzi, la loro esistenza è regolarmente in situazione di emergenza. C’è bisogno di una prassi cristiana, dunque, in grado di affrontare questa minaccia fondamentale che concerne la vita e la felicità, il senso e la speranza delle nuove generazioni. Una prassi che sia strutturata attorno ai nuclei problematici dell’«identità-orientamento» e della «comunicazione-azione»: nel primo si concentra la sfida del futuro, quella tra umanità o disumanità, tra giustizia o ingiustizia; mentre il secondo nucleo indica la strada del dialogo educativo e degli accordi per rendere possibile un mondo più giusto.

 

 

  1. 3. Orizzonte antropologico-culturale e teologico

 

Vengo, quindi, a sottolineare l’importanza capitale della prospettiva antropologica in questo nostro tempo di mutamento profondo dell’immagine umana; tempo che ci obbliga ugualmente a ripensare numerosi aspetti dell’orizzonte teologico, per tanti versi incapace di sintonizzarsi ed accogliere il nuovo stato di coscienza dell’essere umano odierno. Qualsiasi educazione alla fede che non assuma, con tutte le sue conseguenze, le trasformazioni ormai consolidate nel modo umano di essere e vivere, non solo metterà in grosse difficoltà la crescita e la maturazione dei giovani, ma comporterà anche l’impossibilità di unire la fede cristiana e la vita delle donne e degli uomini contemporanei.

Come accennavo al principio, i due primi volumi del progetto si dedicano maggiormente a precisare l’orizzonte antropologico-culturale (1° ) e l’orizzonte teologico (2°) della prassi cristiana con i giovani.

 

3.1. Oltre la secolarizzazione: la verità nell’orizzonte del pluralismo

 

Se, infatti, la teologia in genere si preoccupa della correlazione fra l’esperienza cristiana – quella originaria, in primis, e la sua manifestazione odierna – e l’esperienza delle donne e degli uomini contemporanei, lo specifico della pastorale consiste nel fare della prassi il punto di partenza: nel nostro caso, la vita delle comunità cristiane e il loro rapporto con i giovani è il «luogo teologico» per eccellenza.

Non entro nel merito di un tema ormai acquisito, ovvero, della prassi della comunità cristiana come luogo teologico centrale per la teologia pastorale. Nel caso della pastorale giovanile, poi, questo è ancora più vero, infatti qui non si tratta inizialmente di pensare alla luce della Scrittura e della Tradizione o di organizzare e indicare dottrine da trasmettere; anzi, e senza voler contrapporre, si potrebbe dire quasi il contrario: è dal contatto diretto con i ragazzi, con il bagaglio delle loro speranze e frustrazioni, dei loro aneliti e contraddizioni… che la comunità deve ripensare la stessa Scrittura e Tradizione, insieme al modo corrispondente di annunciare loro la salvezza, il «vangelo» e le buone notizie che vengono da Dio[8].

In tale prospettiva, senza dubbio, le nuove generazioni più che un problema per le comunità ecclesiali, sono una sfida e un’opportunità: un’eccellente occasione per ripensare l’esperienza cristiana originale e collegarla creativamente con quella umana attuale – adeguandola ai dinamismi antropologici moderni – oltre che una inestimabile occasione per ricostruire la «pratica religiosa».

Lo vogliamo o meno, la modernità e il suo prolungamento critico – lo si chiami postmodernità o postilluminismo – configurano l’habitat delle persone e dei gruppi religiosi, in quanto rappresentano una parte fondamentale del luogo teologico di ogni prassi cristiana. Qui si scorge il profilo dell’orizzonte antropologico-culturale che contiene alcune delle realtà già esposte, come il cambio del paradigma esplicativo generale e la modificazione radicale dell’esperienza umana. Riassumo il resto, semplificando forse un po’ pedestremente ed esageratamente, con una battuta heideggeriana e qualche riflessione attorno al pluralismo.

Heidegger annunciava l’evoluzione dell’antropologia col simbolo del passaggio «dall’essere come struttura all’essere come evento». Infatti, è successo proprio questo (benché da ciò non si debba dedurre la sparizione dell’essere). Ce lo manifestano chiaramente i giovani, anticipando il nuovo modo di essere e vivere che emerge dai cambiamenti sostanziali ancora in corso. Forse l’enunciato di questa anticipazione – dolorosa come qualunque nascita – risulta più chiaro se semplificato con la nota immagine della bussola e del radar. L’uomo-bussola di ieri – in accordo con il quale sono stati educati la maggior parte degli adulti – orienta la sua vita seguendo un nord (più o meno) fisso, sempre lo stesso e (più o meno) uguale per tutti; un nord che esiste a prescindere dal resto e che indica la meta suprema del cammino umano. Al contrario, l’uomo-radar – al quale tutti apparteniamo inevitabilmente, e che già configura la struttura delle giovani generazioni – si orienta attraverso uno schermo personale dal cui centro parte un raggio luminoso e vibrante che ruota a trecentosessanta gradi e reagisce con risposte sempre nuove e cangianti a seconda di quanto incontra sulla sua traiettoria.

L’insicurezza che comportano i mutamenti antropologici e culturali, alle volte, ci spinge a negare l’evidenza del cambio a causa di alcune delle sue conseguenze negative, come il relativismo e il secolarismo che ideologicamente, poi, trasformiamo in categorie essenziali per giudicare la cultura e la società contemporanea. Tutti sappiamo che tale meccanismo si utilizza frequentemente per nascondere due delle certezze acritiche distrutte dal nuovo orizzonte antropologico e culturale: la pretesa di «possedere la verità» e, per ciò stesso, la consapevolezza di avere un ruolo sociale preponderante. Invece, ancora fatichiamo tanto ad ammettere sia la relatività di ogni affermazione umana che la secolarizzazione delle strutture sociopolitiche.

Infine, la migliore carta d’identità per delimitare l’orizzonte antropologico-culturale (un fatto così ovvio che non vale la pena documentare) è il pluralismo. Tale realtà, in effetti, si presenta come l’autentico perno interpretativo in grado di decifrare il nostro momento storico, costituisce cioè il supporto in cui convivono e persino gareggiano fra di loro, con naturalezza, diverse visioni del mondo. Tale disposizione è il risultato normale che deriva dall’universo simbolico moderno: il pluralismo poggia su una visione antropologica che ritiene l’uomo capace di autodeterminarsi a partire dalla sua ragione e, oltre a rappresentare una questione centrale dello spirito umano, appare come un’esigenza radicata nella natura e nella storia.

Il pluralismo non è tanto frutto dei capricci della modernità quanto il risultato della convergenza e divergenza di numerosi fattori particolari. Manifesta, insomma, la ricchezza universale e, seppure renda più complicato l’orientamento vitale delle persone per il moltiplicarsi delle offerte e delle possibilità, non può essere interpretato riduttivamente come un segnale di confusione o debolezza. Più che difficoltà, il pluralismo è possibilità. Tuttavia, possibilità non è uguale a garanzia, e occorre riconoscere che l’attuale complessità sociale trasforma il pluralismo non solo in un argomento teorico ma anche in un grave problema pratico, che può tradursi in esperienze di disorientamento e persino di caos.

 

3.2. La rivelazione di Dio nella realizzazione dell’essere umano

 

L’orizzonte teologico della prassi cristiana si allaccia strettamente alla consapevolezza che deriva da ciò che riguarda l’orizzonte antropologico-culturale. Sintetizzo, ricorrendo ad una nuova semplificazione: l’esperienza cristiana, la sua narrazione o le formule della fede nascono all’interno di un orizzonte culturale statico. Una concezione astratta (ed essenzialista) della realtà dove tutto era fissato fin dall’inizio, dove pure il movimento era già determinato e non ammetteva deviazioni. Sotto questo aspetto, la creazione e la storia umana erano pensate perfette e complete; in quanto il male e le imperfezioni si ritenevano conseguenze negative successive (il peccato!) o causate da interventi di agenti perversi (il demonio!). Per una cultura così, ogni novità desta sospetti: la perfezione dell’uomo sta al principio (il paradiso!) e ciò che conta è il ritorno a quelle origini o la restaurazione del passato (la redenzione!).

La modernità, all’opposto, ci ha introdotti in una visione dinamica: la perfezione non sta più negli inizi, ma alla fine del cammino evolutivo, e per conoscerla non bisogna tanto volgere lo sguardo indietro quanto guardare in avanti, proiettarsi verso il futuro. Per una visione di questo tipo, il tempo e la storia acquisiscono una valenza straordinaria: più che il luogo dove accadono le cose, configurano la struttura profonda di quanto accade, l’intima realtà dello stesso essere umano. Sicuramente questo punto di vista non nega le verità che conteneva il precedente, tuttavia ci obbliga a ripensarle e a riformularle tutte in questa nuova prospettiva.

La scoperta del carattere storico ed interpretativo dell’esistenza umana o, con altre parole, il transito da una visione statica ad un’altra dinamica, ha anche condotto la teologia a trasformarsi: da scienza occupata a conoscere gli intrecci di un sapere accumulato lungo i secoli (il «deposito della fede» cristiana), a scienza che cerca di comprendere il significato di un’esperienza ancora viva. In poche parole, la teologia è passata dal sapere all’interpretazione[9]. Indubbiamente, il concilio Vaticano II sta alla base di tale conclusione, in quanto ci orientò a capire che la rivelazione di Dio avviene nella realizzazione dell’uomo[10].

Su questo scenario, l’orizzonte teologico proposto nel progetto si distende in una duplice direzione: 1/ Sistemazione dei contenuti della fede cristiana; 2/ Riformulazione dei nuclei tematici dell’antropologia teologica.

Il primo aspetto si avvia sulla meravigliosa piattaforma dell’amore (universale, gratuito, incondizionato e asimmetrico) di Dio, manifestato (Dio nessuno lo ha mai vist0) in un uomo, fatto cioè comprensibile e sperimentabile in Gesù. A partire da tale evento, sappiamo che arrivare a Dio non comporta uscire dall’uomo, ma entrare più intimamente nella propria umanità; che raggiungere Dio non significa perdere noi stessi, ma trovare la nostra più profonda e piena realizzazione. Dopodiché i nuclei teologici si concentrano nella cristologia, pneumatologia ed ecclesiologia.

Gesù, il Cristo, costituisce il modello supremo di ogni esistenza ed esperienza cristiana: in questa prospettiva, possiamo affermare che «Dio Abbà» e il Regno rappresentano le assi portanti di ogni vita e prassi cristiane.

Gesù di Nazaret, poi, non solo svela il volto amoroso di Dio, ci manifesta anche lo Spirito e il dinamismo che questi inserisce nell’essere umano: vivere «con spirito» porta ad affrontare la realtà per restituire vita e dignità, soprattutto a coloro che ne sono stati spogliati e trattati ingiustamente dai propri fratelli (cf. Lc 4,18-21).

D’altra parte, mettendo insieme il problema comunicativo con la sacramentalità e la comunione, con cui definisce il Vaticano II l’ecclesiologia, la prassi cristiana con i giovani dovrà sforzarsi per fare una lettura della Chiesa in termini di «comunità reale di comunicazione», nella quale si presuppone il Regno come «comunità ideale di comunicazione».

Finalmente, il progetto dedica tutto un libro – il secondo – alla riformulazione dell’antropologia teologica. Elenco semplicemente alcuni dei temi analizzati: una creazione fatta per amore e per la salvezza; un’immagine divina di creta o la «dis-Grazia» del peccato; l’«umiltà di Dio» per la grandezza dell’uomo; la giustificazione come umanizzazione per la fede; la filiazione divina e la fraternità umana che culminano nell’eccesso di «cieli e terra nuovi». Dietro questi enunciati stanno le cose concrete, ripensate seguendo il filo rosso delle domane dei ragazzi: Cosa vogliono dirci i racconti della Genesi? La creazione è compatibile con l’evoluzionismo? Che cosa s’intende per salvezza e per peccato? Esistono gli angeli, il demonio, il cielo e l’inferno? Per diventare persone sono necessarie la religione, la fede e la Chiesa? Cosa significa incontrare Dio, incontrare Gesù Cristo?

 

 

  1. 4. Progettare la prassi cristiana con i giovani

 

Dio provoca la nostra libertà con un progetto di amore radicato nell’intimo di ogni esistenza umana; il «sì alla vita», al senso più profondo della propria umanità è un «sì a Dio», è già risposta a Lui e fede dell’uomo in Dio. Benché la prassi cristiana con i giovani non debba fermarsi lì, in quanto indubbiamente aspira alla mèta dell’incontro con Cristo, non potrà mai saltare questo dato di base. In definitiva, dunque, il mistero dell’essere umano “trova vera luce nel mistero del Verbo incarnato. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro e cioè di Cristo, [il quale] svela pienamente l’uomo a se stesso” (GS 22).

Tuttavia, nel cercare di condurre i giovani a Cristo, la prassi cristiana non può avere altro programma che quello di accostarsi alla vita dei ragazzi, all’attualità del mondo, alle gioie, alle tristezze e alle speranze delle nuove generazioni. In questa direzione deve situarsi la mutua implicazione di educazione e fede: maturare e crescere come persone, ossia, in un profondo e umano rapporto con la natura, con gli altri e con l’«Altro», che contiene la possibilità stessa della fede. Così le scienze dell’educazione e la saggezza della fede si fecondano vicendevolmente in un rapporto dialogico permanente. La prassi cristiana con i giovani sa che queste sono pietre miliari del cammino per ricercare la qualità e il senso della vita; la meta però sta più in là, e occorrerà preparare il «salto» da questa base antropologica all’esperienza cristiana della salvezza, attraverso l’incontro con Gesù Cristo e l’adesione alla comunità ecclesiale

 

4.1. Progettare l’azione educativa

 

Una volta scoperte alcune delle chiavi e la prospettiva strategica della proposta, basterà un semplice schema per capire il progetto in questione che, anzitutto si struttura, da un lato, attorno ai «pilastri dell’educazione», secondo la definizione del cosiddetto «rapporto Delors» (imparare a conoscere, imparare ad essere e vivere insieme, imparare a fare); e, dall’altro, ai nuclei problematici del nostro tempo (identità-orientamento della vita, comunicazione-azione umana). Ciò sta a manifestare che si tratta di un «progetto educativo» il quale, inoltre, prende atto del rinnovamento pedagogico in corso[11]: in poche parole, di fronte al classico «oggetto educativo» inteso, per così dire, come sapere istituito ed amministrato, la novità consiste nel costituirsi di un gruppo (animatori e giovani) che studia ed affronta le sfide della situazione: in questo modo si educano, ossia, crescono e costruiscono… insieme.

Il progetto, quindi, intreccia intimamente teologia, educazione ed umanizzazione, che si fondono senza confondersi. E dove «educar-ci» è vivere, esistere, uscire da sé; è conoscere e amare quelle relazioni con la natura, con gli altri e con Dio nelle quali maturiamo. Non è il caso di scendere nei dettagli dell’argomento epistemologico e metodologico che comportano queste affermazioni che, ad ogni modo, vogliono esprimere una chiara posizione interdisciplinare di matrice ermeneutico–prassica.

L’interpretazione, comunque, deve essere guidata dai tre criteri essenziali già segnalati: il dinamismo della creazione, il «principio incarnazione» e uno stretto rapporto fra salvezza e liberazione.

Ciò riconosciuto, subentrano le ultime due chiavi del progetto: 1/ La specificazione degli obiettivi particolari, a partire da quello generale; 2/ Il modello di educazione o, meglio, la direzione e struttura dei processi educativi.

Ho già affermato che la miglior esplicitazione dell’obiettivo della prassi cristiana con i giovani si trova nell’umanizzazione. Tale criterio deve poter essere letto quale «criterio etico» – per indicare la linea di comportamento che rifiuta in radice quanto possa contraddire l’umanità – e, alla pari, quale «criterio mistico» – in quanto integra l’autenticità umana con l’apertura alla trascendenza –. Poi, l’ulteriore concretizzazione degli obiettivi specifici deve avvenire, senz’altro, in un processo di «soluzioni dei problemi», all’interno del quale si fissano i correlativi obiettivi educativi. D’altronde, così come gli obiettivi particolari hanno come punto di riferimento basilare quello generale, si potrebbe dire che l’insieme dei problemi o sfide è anche radicato nel duplice nodo intimidatorio che minaccia il senso della vita dei ragazzi, vale a dire l’identità-orientamento e la comunicazione-azione. L’individuazione degli obiettivi a partire dalle sfide, infine, ha come scopo ultimo la maturazione umana e cristiana dei giovani.

Forse il tutto si chiarisce meglio se mi concentro nella spiegazione del modello educativo che propone il progetto. Esso, anzitutto, si compone a partire dalla tradizione educativa salesiana, da quella di don Milani e dalla pedagogia concrea di P. Freire.

Do per scontato che tutti cerchiamo di fuggire dall’idea che educare sia sinonimo di modellare le nuove generazioni. Così come stanno le cose, perciò, dobbiamo rivedere a fondo i concetti di educazione e di istruzione, distinguerli e persino separarli con cura. Affermando, ovviamente, la loro complementarietà ma cercando tuttavia di smascherare la perniciosa confusione di racchiudere l’educazione nella stessa prospettiva dell’istruzione.

Mentre nell’istruzione o nell’insegnamento sempre c’è un qualcosa che si trasferisce da uno che sa ad un altro che ignora, da uno che ha ad un altro che ne manca, da chi da a chi riceve; nell’educazione, no. Allora, possiamo chiederci, con quali verbi educhiamo? Con gli intransitivi!: vivere, crescere, uscire, sorgere, fiorire, fruttificare… Con questi, l’azione educativa cambia completamente e si capisce meglio che ci educhiamo insieme e, oltre tutto, che «nessuno educa nessuno» perché nessuno cresce nessuno, neppure lo fiorisce, né lo fruttifica[12].

Nessuno educa nessuno, affermava P. Freire, così come neanche nessuno educa se stesso: gli uomini si educano in comunione, un’educazione sempre mediata dal mondo in cui abitano. Ci educhiamo insieme, «nel mezzo e per mezzo del mondo», della vita: la realtà reclama il nostro rapporto con essa ed è lì che tutti ci giochiamo la crescita e lo sviluppo personale. È la realtà vissuta l’unica che, a dire il vero, può essere la nostra educatrice. In definitiva, quindi, ci educhiamo insieme affrontando le sfide della vita collettiva; in questo modo, ciascuno va costruendo, va crescendo come persona nello scoprire, confermare o rielaborare le relazioni che popolano e arricchiscono l’esistenza[13].

Don Bosco compendiava così la finalità del suo «sistema educativo preventivo»: “Fare quel po’ di bene che posso ai giovanetti abbandonati adoperandomi con tutte le forze affinché diventino buoni cristiani in faccia alla religione, onesti cittadini in mezzo alla civile società”[14]. Aveva piena ragione: non è sufficiente che la prassi cristiana si concentri nella crescita di cristiani responsabili, è anche necessario nel contempo fortificare la loro cittadinanza con simile esigenza di responsabilità. Il sistema preventivo, inoltre, può essere ripensato nella direzione sopra indicata, vale a dire: ci educhiamo insieme nell’affrontare le sfide della vita attraverso le relazioni quotidiane.

 

4.2. Cittadini nella Chiesa, cristiani nel mondo

 

La finalità espressa da don Bosco, da tempo, viene vincolata alla proposta e assunzione di valori. Per tanti ragioni – non è il caso di esplicitarle –, oggi appare necessario trovare un nuovo perno educativo che, in questo preciso momento storico, sembra trovarsi nella nozione di cittadinanza. Educar-ci per diventare ciò che siamo si può riassumere nell’esercizio dei valori della cittadinanza: essere un buon cittadino o cittadina esprime fedelmente ciò che ci fa umani. Emerge così la consapevolezza che, inizialmente, rispondere al Dio di Gesù, il Cristo, non è tanto questione di scoperta ed affermazione della divinità (a Lui, poi, interessa di più che gli esseri umani portino avanti il suo progetto che il semplice riconoscimento del suo autore), quanto risposta alla realtà umana primordiale. Sicuramente, non possiamo fermarci qui: i processi della prassi cristiana con i giovani aspirano alla meta dell’incontro con Cristo; ma nemmeno possiamo saltare le tappe previste sia dalla maturazione umana che dall’esperienza cristiana.

La bozza di progettazione e programmazione che si offre nel terzo volume poggia sull’intrinseca connessione fra evangelizzazione ed educazione, ricerca di senso e dono della salvezza. Orbene, questa ricerca di senso si allaccia alla costruzione di una cittadinanza cosmopolita e responsabile, oltre che legata alla propria identità. Proprio per tale strada la ricerca di senso diventa impegno per la giustizia e insieme configurano il camino più indicato per cogliere e accogliere il dono di Dio.

La mèta primaria e comune degli itinerari educativi, per così dire, non può essere altra che la cittadinanza cosmopolita e attiva, radicata nella giustizia; la mèta definitiva, invece, si trova nel rendere possibile il salto da questo senso della vita all’esperienza cristiana della salvezza, ossia, all’incontro con Gesù Cristo e all’inserimento attivo nella comunità ecclesiale.

In questa prospettiva, il progetto delinea una prassi cristiana con i giovani che sia in grado di portare le nuove generazioni a trovare la loro identità nella ricerca della giustizia, come espressione prima della ricerca di senso e, soprattutto, come terreno fertile per incontrare Gesù Cristo e affrontare la vita «con Spirito»… per essere, con tutte le conseguenze, cittadini nella Chiesa e cristiani nel mondo.

 

 


[1] Cf. J.L. Moral, Giovani senza fede? Manuale di pronto soccorso per ricostruire con i giovani la fede e la religione, ElleDiCi, Leumann (To) 2007; Id., Giovani, fede e comunicazione. Raccontare ai giovani l’incredibile fede di Dio nell’uomo, ElleDiCi, Leumann (To) 2008; Id., Giovani e Chiesa. Ripensare la prassi cristiana con i giovani, ElleDiCi, Leumann (To) 2010.

[2] cf. J.L. Moral, Ciudadanos y cristianos. Reconstrucción de la Teología Pastoral como Teología de la Praxis Cristiana, Ed. San Pablo, Madrid 2007.

[3] Inoltre, tanto l’apporto simbolico che la particolarità del vocabolo «prassi» hanno il pregio di rimuovere tutto ciò che il tradizionale nome sottintendeva (teologia pastorale o pratica) come, per esempio, la contrapposizione tra teoria e pratica letta quale distinzione gerarchica fra dogmatica e pastorale. In fin dei conti, la prassi ci ricorda che ogni pratica contiene teorie, allo stesso modo in cui ciascuna teoria implica una o più pratiche, e che – soprattutto – la riflessione e l’attività teoretica sono in se stesse anche una prassi, per cui devono essere confrontate con l’azione che cercano o di fatto stanno promuovendo. La prassi è e segnala, principalmente, atti e attività quotidiane che diventano modelli spontanei attraverso i quali le persone e le comunità cristiane si relazionano e organizzano le loro azioni dentro e fuori lo spazio religioso. Qui risiede la ragione più profonda del cambio terminologico: gli atti che compiamo nella nostra prassi quotidiana danno vita ad una realtà che ci s’impone di maniera immediata alla stregua del linguaggio stesso e, con questo, costituiscono una sorta di presupposto ineludibile nel momento della riflessione teologica.

[4] A ragione, quindi, la prassi cristiana con i giovani non può essere semplicisticamente identificata come «educazione alla fede» (o quale generica catechesi giovanile), perché tante volte – secondo il tipo di problemi – sarà piuttosto «educazione alla carità» oppure «educazione alla speranza». Ad ogni modo (in Occidente), la problematica di base ci insegna che, di fronte a chi tutto assoggetta a Dio (questo qui è niente!) o chi afferma che esiste soltanto quanto si può vedere e toccare (questo qui è tutto!), la prassi cristiana con i giovani deve scegliere la via educativa che cerca di perforare la realtà per scoprire i simboli che si nascondono sotto le cose della vita (questo qui è sacramento… dell’Altro!).

[5] Umanizzazione e divinizzazione costituiscono infatti un’unica realtà. Quando Paolo ci dice che l’essere umano deve svestirsi dell’uomo vecchio per rivestirsi dell’uomo nuovo che è Gesù Cristo (cf. 1Cor 15,49; Rm 13,14), riconosce nell’immagine di Dio la piena umanizzazione. A sua volta, Giovanni più che rimandare all’abito del nuovo Adamo, parte dall’esperienza della pienezza in Cristo (cf. 1Gv 1,1ss.) sostenendo così il linguaggio della divinizzazione.

[6] H.-G. Gadamer, Verità e metodo, Fabri Ed., Milano 1972, 353.

[7] Quale cristiano non sperimenta quella «frattura dualista» della sua coscienza quando sente parlare di un Dio scarsamente credibile, i cui dettati risultano incomprensibili e del tutto imprevedibili – come se si trattasse di enunciati la cui dimostrazione rimane occulta o mandati le cui ragioni Egli tiene solo per sé –; un Dio che, molte volte, rimanda ad una verità astratta – incapace di entrare in rapporto con i processi storici e creativi dell’essere umano – e in permanente competizione con le verità dell’uomo? Chi non ha percepito dolorosamente come, quando si ha a che fare con «esigenze di religione», rimangono frequentemente compromessi alcuni dei tratti più importanti dello stato di coscienza dell’uomo contemporaneo, cioè l’autonomia, la percezione storica, la capacità critica o la libertà? Quanti non hanno avuto l’impressione, in qualche circostanza, che la Chiesa stia invecchiando e stia perdendo i riflessi, fino ad apparire un’istanza da superare, quando non una realtà già superata?

[8] Ed è per lo stesso motivo che la comunità cristiana, prima d’interrogarsi su «quello che deve trasmettere ai giovani», si deve domandare «quale annuncio è rivolto ad essa oggi» (cf. A. Fossion, Ri-cominciare a credere, Edb, Bologna 2004).

[9] Cf. C. Geffré, Credere e interpretare. La svolta ermeneutica della teologia, Queriniana, Brescia 2002.

[10] Cf. A. Torres Queiruga, La rivelazione di Dio nella realizzazione dell’uomo, Borla, Roma 1991.

[11] Se, da una parte, risulta palpabile l’urgenza di nuove formulazioni della fede e della pratica religiosa; dall’altra, non è meno evidente e necessario un profondo rinnovamento pedagogico che possiamo riassumere così: 1/ La novità pedagogica centrale si identifica con la sostituzione dell’oggetto stesso dell’educazione, vale a dire, col passaggio dalla trasmissione di contenuti all’elaborazione di risposte alle sfide della vita quotidiana; 2/ Poi, educare è un compito collettivo dove tutti crescono insieme, per cui l’educazione non può essere ridotta ai semplici ruoli di «educatori» ed «educandi», benché debba mantenersi la logica asimmetria di ogni rapporto educativo.

[12] Cf. J.L. Corzo, Educar es otra cosa, Ed. Popular, Madrid 2007, 53-69.

[13] Cf. P. Freire, Pedagogía del oprimido, Siglo XXI, Madrid 1992, 90ss.

[14] G. Bosco, Memorie dell’Oratorio di S. Francesco di Sales dal 1815 al 1885, Las, Roma 1991, 199s.