Credo che l’editoriale di questo numero di OP sia quasi scontato e che si debba concentrare sui cosiddetti «decreti Gelmini».
Sarebbe, però, riduttivo limitarsi solo a queste misure che, tra l’altro, non sono una riforma ma solo una razionalizzazione dell’esistente, promossa peraltro anche dall’intero governo di cui il ministro Gelmini fa parte; pertanto, farò riferimento a tutto il disegno complessivo del Governo e del Ministro, stando anche a quello che emerge dalle sue dichiarazioni programmatiche del 10 giugno del 2008.
Trattandosi di un editoriale mi concentrerò sulle problema-tiche essenziali, rimanendo nei limiti dello spazio a esso concesso nella nostra rivista.
Nel suo intervento programmatico, il Ministro correttamente richiamava tutti a superare vi-sioni ideologiche contrapposte, a lasciare lo scontro politico fuori della scuola, ad adottare soluzioni condivise.
Al contrario ci si dovrebbe far guidare dal pragmatismo e puntare sulla buona ammini-strazione e sul buon governo.
L’invito a una politica della scuola «bipartisan» e al buon senso è senz’alto giusto perché è in gioco il futuro della nostra gioventù, la risorsa più importante del Paese; sfortunatamente il Ministro sembra averlo dimenticato appena qualche mese dopo, proprio in occa-sione dell’approvazione delle misure estive sulla scuola, anche se non si può ignorare che l’opposizione non è stata da meno e ha preferito il muro contro muro.
Un clima più “bipartisan” si è creato nell’iter di approvazione delle misure sull’università, anche se è intervenuto dopo un periodo di grandi manifestazioni di piazza e di violenta contestazione: in questo caso diversi emendamenti dell’opposizione sono stati accolti, sebbene il suo voto finale sia stato negativo perché il provvedi-mento è stato giudicato manchevole e minimale, mentre la Conferenza dei Rettori, Crui, ne ha ap-prezzato gli elementi di positività.
Sul merito del testo ricordo le disposizioni volte a colpire la fi-nanza allegra di università che spendono troppo e male, ma anche a premiare le università virtuose, quelle mirate a colpire i «baroni» che non producono lavori scientifici e quelle finalizzate ad aiutare gli studenti veramente meritevoli con borse di studio e alloggi più numerosi..
A parere della Gelmini – e non lo si può contestare – il sistema educativo di istruzione e di formazione si presenta mediocre nei risultati, un sistema in cui sembra tramontata la cultura del me-rito e che ha assunto sotto molto aspetti le caratteristiche di ammortizzatore sociale.
Due logiche perverse hanno alimentato questa situazione: per favorire gli studenti si è ritenuto opportuno abbas-sare il livello della qualità dei processi di apprendimento-insegnamento e si è creduto che una mag-giore sicurezza potesse consentire di pagare poco i docenti e potesse compensare lo scadimento del loro ruolo e dello loro status senza tenere presente che uno Stato che retribuisce malamente i suoi insegnanti, non può esigere molto da loro in termini di qualità dell’educazione offerta.
Come il Ministro ha affermato nelle dichiarazioni programmatiche, queste derive pericolose vanno ribaltate, puntando alla rivalutazione delle funzioni degli insegnanti, a iniziare dal completo riconoscimento della loro condizione professionale.
Questo tra l’altro richiede l’identificazione di nuove risorse attraverso uno sforzo di riqualificazione della spesa pubblica che, non bisogna dimen-ticarlo, si pone in un contesto di gravi difficoltà economiche e finanziarie.
Inevitabilmente il Ministro ha collegato i suoi interventi al piano triennale di contenimento delle spese promosso dal suo governo.
Non si può neppure ignorare che il rapporto insegnan-ti/alunni che si riscontra in Italia è uno dei più bassi in Europa, cioè è evidente l’eccedenza di do-centi rispetto al corpo studentesco: pertanto, dal punto di vista del Ministro la riduzione degli inse-gnanti deve essere considerata come un allineamento del rapporto docenti/studenti alle medie euro-pee in modo da salvare risorse da impiegare al servizio di una più elevata qualità educativa; al con-trario, dagli oppositori tale intervento è visto come una grave riduzione del corpo insegnante con pericolo per l’efficacia dell’azione della scuola.
Tuttavia l’entità della razionalizzazione della rete scolastica e del ridimensionamento del numero dei docenti, l’aver previsto il reinvestimento nell’istruzione solo di un 30% dei risparmi e non di tutto il risparmio e il non aver chiarito le finalità in positivo dei tagli hanno scatenato le contestazioni dei sindacati e della piazza.
Un’altra delle misure che ha trovato molta opposizione riguarda il ritorno alla figura del ma-estro unico nelle primarie, anche se sarà affiancato dai docenti di inglese e di religione.
Gli opposi-tori hanno fatto notare che nel contesto della crescita enorme del sapere una figura unica di docente sembra un vero impoverimento; inoltre, essendo le elementari italiane l’unico ordine e grado di scuole riconosciuto valido anche a livello internazionale, pare del tutto illogico abbandonare il si-stema di una pluralità di docenti, che sembra aver dato buoni risultati negli ultimi diciotto anni.
Per il Ministro, al contrario, il suo provvedimento favorirebbe l’unitarietà dell’insegnamento e le rela-zioni tra scuola e famiglia in quanto sia l’alunno sia la famiglia sentirebbero il bisogno di una figura unica di riferimento con cui instaurare un rapporto continuo e diretto.
A essere completi va pure precisato che l’attivazione di classi affidate a un unico docente e funzionanti per un orario di 24 ore settimanali non è la sola opzione organizzativa possibile, ma rimangono percorribili anche quella delle 27 ore con esclusione però delle attività opzionali facoltative, e quella delle 30 ore comprensi-va dell’orario opzionale facoltativo.
Probabilmente la questione «maestro unico o pluralità di mae-stri» poteva essere risolta facendo perno sull’autonomia delle scuole e stabilendo solo degli stan-dard minimi e massimi.
Le intenzioni del Ministro sono condivisibili quando si tratta di rafforzare la gestione delle scuole, di attribuire loro poteri, competenze e risorse adeguate e fare dell’autonomia il perno del si-stema di valutazione.
A sua volta, questa rinvia a una valutazione che attesti in maniera trasparente i modi in cui vengono utilizzate le risorse economiche di tutti e gli obiettivi che sono raggiunti.
La valutazione richiede la responsabilizzazione dell’istituto e dei vari attori: altrimenti i risultati non possono essere attribuiti in bene o in male a persone e a gruppi.
Come si sa, i «decreti Gelmini» hanno ripristinato la valutazione del comportamento com-plessivo tenuto durante l’anno scolastico da parte dello studente.
Tale disposizione potrebbe contri-buire a superare la logica della separazione tra l’aspetto conoscitivo e la complessiva maturazione della personalità.
Ma occorrerà pensare e trattare la cosa nella intrinseca connessione degli aspetti, magari nella linea di una teoria dell’apprendimento che coniuga in maniera valida ed efficace cono-scenza e azione, comportamenti e atteggiamenti, individualità e socialità, personalizzazione e colla-borazione; e in un quadro di scuola-comunità democratica dell’apprendimento, qual è prefigurata nello Statuto degli studenti.
Il medesimo provvedimento ha reintrodotto i voti numerici espressi in decimi.
In questo caso molto dipenderà dall’equilibrio che verrà raggiunto tra questo strumento di valutazione e il giudizio analitico sul livello globale di maturazione dell’alunno.
I dati mettono in evidenza che la mobilità sociale in Italia è limitata e che la scuola tende a svolgere una funzione riproduttiva delle diseguaglianze piuttosto che di lotta alle disparità sociali.
Una prima strategia per affrontare questo nodo problematico consiste nell’assicurare a tutti gli stu-denti i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali in tema di istruzione e di formazione.
Nella società della conoscenza questo non può che consistere nella elevazione della preparazione di base a livello di diritto-dovere di istruzione e di formazione e di obbligo di istruzio-ne; al tempo stesso è necessario evitare lo spezzettamento dei saperi.
Un’altra strategia fa capo alla personalizzazione del processo di insegnamento-apprendimento.
Quanto al nodo del secondo ciclo del sistema educativo di istruzione e di formazione, la fi-nalità pienamente condivisibile del Ministro è di elevare tutta l’offerta alla «serie A».
Il dibattito tanto accesso sulla scelta precoce a 14 anni tra secondaria di 2° grado da una parte e istruzione e formazione professionale dall’altra dovrebbe evitare le contrapposizioni ideologiche e misurarsi in maniera convergente con la sfida di elaborare percorsi capaci di aiutare tutti gli studenti a trovare la strada più adeguata.
La soluzione del Ministro è di dare a ogni allievo la sua scuola in modo che ogni persona trovi nella sua scuola le ragioni per frequentarla con profitto perché l’indifferenziazione dei percorsi è la strada più sicura verso gli abbandoni e le ripetenze.
Tale orientamento del Ministro ha trovato da subito un’attuazione importante.
Uno dei suoi primi interventi è consistito nella conferma della presenza di un canale di istruzione e formazione professionale nel nuovo obbligo di istruzione elevato di due anni (fino cioè a 16).
Il problema è che a oggi non ci sono nella Legge Finanziaria le cifre necessarie per realizzare questa misura del tutto positiva.
Riguardo alla libertà di scelta educativa, il Ministro parte correttamente dalla legge n.
60/00 e richiama la novità fondamentale di una normativa che ha sancito il principio di un sistema nazio-nale di istruzione del quale sono parte integrante scuola statale e non statale e in cui le paritarie svolgono un servizio pubblico.
Da questi principi scaturiscono però solo degli impegni piuttosto vaghi e, anche se all’ultimo momento è stata evitata (ma mentre scrivo, non del tutto) l’illogicità della legge finanziaria per il 2009 che prevedeva tagli per 133,4 milioni di euro, pari al 25% in me-no rispetto al 2008 (534 milioni rispetto agli oltre 6 miliardi che le paritarie fanno risparmiare allo Stato con le loro scuole), tuttavia non si sono volute aumentare le risorse ferme ai livelli del 2000; inoltre, per i comportamenti negativi non solo del centro-destra, ma anche del centro-sinistra, si è trasformato un obbligo di finanziamento strutturale come quello previsto dalla 60/00 in una benevo-la concessione del governo di turno.
Guglielmo Malizia
Categoria: IRC
Il segreto del tempio di Raffaello
In occasione del bicentenario della Pinacoteca di Brera il 19 marzo viene presentato il restauro dello Sposalizio della Vergine di Raffaello.
Sulla storia e le caratteristiche del dipinto pubblichiamo stralci di un testo scritto nel 1992 da uno degli autori del catalogo (edizioni Electa) che illustra l’intervento di recupero del capolavoro dell’urbinate.
Brera rappresenta con punte assai alte la cultura di quella Urbino che nel 1504 Raffaello lasciava preceduto da una lettera di Giovanna Feltria della Rovere a Pier Soderini, gonfaloniere di Firenze.
Urbino era stata il grande laboratorio di sperimentazione e ricerca che riuniva pittura e architettura.
Nella pala dello Sposalizio, non solo il tempio s’impone per la sua superba invenzione architettonica, ma irradia un’energia che costringe tutti i volumi – persone singole o gruppi – a disporsi in uno spazio razionale.
E ci rendiamo conto di come il colore squillante dell’edificio, quasi evocazione d’un fondo oro, che il restauro ha ora messo in piena luce, non abbia meno potenza della sapientissima costruzione prospettica.
Non ci si stancherà mai di confrontare il dipinto di Brera con il suo modello, ovvero con la pala del Perugino dello stesso tema, già a Perugia e trasferita, col déplacement napoleonico, a Caen.
Sembra anzi che una distanza di decenni separi le due opere, mentre, sappiamo, il Perugino non aveva ancora terminato la sua nel dicembre del 1503.
È allora impressionante la rivoluzione che compie Raffaello rispetto allo sfondo architettonico, già di per sé innovativo, immaginato dal Perugino.
Il fatto è che nel dipinto di Brera il tempio non è più fondale, ma volume collocato nello stesso spazio dei protagonisti.
Tanto che solo a un’attenta osservazione ci accorgiamo che le lastre che pavimentano la piazza non partono a raggiera dai gradini del tempio, ma corrono parallele in prospettiva.
Raffaello non è intervenuto soltanto sulla disposizione delle figure rispetto ad uno spazio architettonicamente definito; ha insistito sull’avvenimento, e ce ne ha fatti testimoni.
È emozionante osservare come, dall’esempio ancora non compiuto, il giovane maestro estragga figure che vi apparivano secondarie, portandole alla ribalta e traendone una forza plastica impensata.
Si veda la figura del pretendente deluso che spezza la verga, dal Perugino posta verso il fondo e distante dal centro della storia e inspiegabilmente accompagnata da un personaggio seminudo – reminiscenza, forse, di altre composizioni classicheggianti dello stesso Perugino.
Raffaello porta il pretendente in primo piano, gli dà il rilievo e il peso d’una scultura e fa sì che la sua ombra sia proiettata in diagonale sino a fondersi con le ombre di Giuseppe e del sacerdote.
Cogliamo qui la sicurezza con cui Raffaello punta dritto al nucleo narrativo della storia.
Poiché ora davvero nulla può distrarci dal raccoglimento di quella dextrarum junctio.
Raffaello lo portò dunque in primo piano e lo ritrasse speculare rispetto al modello.
Se era il modello…
Infatti è dimostrato come in quegli anni vi fosse uno scambio di cartoni tra il Perugino e Raffaello e dunque non è affatto improbabile che la figuretta dipinta dal Perugino non sia che la versione ridotta, la flebile eco, di una figura molto più elaborata e forte di Raffaello.
Konrad Oberhuber ha giustamente scritto di “limpidezza statuaria delle figure” nello Sposalizio di Brera.
E notiamo anche, nel volto del giovane, una concentrazione che ci rammenta una delle creazioni più famose dell’antichità, lo Spinario trasferito dal Laterano in Campidoglio.
L’aveva già visto, Raffaello? È la stessa domanda che ci si pone per il destriero posto lontano, oltre il tempio, sulla sinistra della pala di Brera – cui il restauro dà ora la giusta evidenza -, o per la comparsa della torre delle Milizie sullo sfondo della piccola tavola con san Giorgio che Raffaello dipinse poco dopo il 1504, in occasione della nomina di Guidubaldo di Montefeltro a cavaliere dell’Ordine della giarrettiera.
Gli argomenti addotti da John Shearman provano, al di là di ogni possibile dubbio, il passaggio di Raffaello a Roma intorno al 1502-1503, all’epoca della sua collaborazione con Pinturicchio per gli affreschi nella biblioteca Piccolomini a Siena.
Sicuramente Raffaello visitava Roma con ricordi precisi di quanto aveva appreso a Urbino, specie da Francesco di Giorgio.
Il tempio a pianta centrale dello Sposalizio è infatti in debito con le invenzioni di Francesco di Giorgio.
Ma a Roma incontrava un altro urbinate, un concittadino con una lunga esperienza lombarda, Bramante.
Le volute che ingentiliscono i contrafforti del tempio riprendono le ricerche di Bramante sul duomo di Pavia e forse sono in debito con altri incontri con architetti di tradizione bramantesca, che poterono avvenire nella stessa Città di Castello.
Ma è comunque sia inevitabile pensare a un incontro di grande significato nello studio di Bramante a Roma.
E forse il colloquio con Bramante avrà persuaso Raffaello a costruire un modellino tridimensionale del tempio.
Se è impensabile, il tempio, senza un previo studio in pianta, così certamente senza un modello tridimensionale Raffaello non avrebbe studiare il gioco delle volte nel portico, né quello delle luci sui ricci dei contrafforti.
Sulla sinistra la luce li colpisce con tale forza da farli apparire di metallo battuto, mentre man mano che si procede verso sinistra si smorza, attraversa una zona intermedia di oro caldo per finire dove i ricci si profilano scuri, plumbei, sul cielo vespertino.
Mettere per prima cosa un volume in pianta era un’operazione ben nota a Raffaello, poiché l’aveva raccomandata Piero della Francesca nel trattato sulla prospettiva conservato nella biblioteca ducale.
E come per Piero, così per lui un’architettura dipinta doveva essere chiara e logica, funzionale e pratica.
John Shearman si pose il problema delle funzioni assegnate da Raffaello alla terrazza dell’edificio posto sullo sfondo dell’Incoronazione di Enea Silvio a poeta laureato negli affreschi della biblioteca di Siena: to smelling flowers, to drying the washing, and to beating a wife.
Anche nello Sposalizio, le azioni sono consentanee all’architettura.
Mentre il Perugino lasciava un piccolo mendicante sui gradini del tempio in rassegnata sfiducia, il mendicante di Raffaello è attivo, ha sceso le scale e si è avvicinato a un gruppo di gentiluomini.
Intanto sotto il portico sostano in tutto tre persone: due in conversazione e una che sembra accertarsi della solidità di una colonna.
L’idea di un tempio a pianta centrale, intorno a cui aveva lavorato Francesco di Giorgio, era maturata alla corte di Urbino, dove Federico di Montefeltro voleva erigere per sé un mausoleo nel cortile di Pasquino.
Nei riflessi sulla corazza di Federico, nella pala oggi a Brera, si può osservare come Piero avesse previsto quale sarebbe stato il gioco delle luci all’interno del tempietto, se questo fosse stato edificato.
Raffaello, come scrisse bene Pierluigi De Vecchi, al momento del congedo da Urbino riandava alle proprie origini.
Ma senza superbia, come accertano proprio le riflettografie.
Poiché oggi che sappiamo che il committente dello Sposalizio fu Ser Filippo di Ludovico Albizzini, sappiamo anche che la cappella Albizzini in San Francesco era dedicata a san Giuseppe e al Santo Nome di Gesù.
E allora, non a caso le riflettografie eseguite per la Soprintendenza mettono in luce i ripensamenti di Raffaello proprio sul volto di san Giuseppe.
La collocazione della cappella Albizzini nella chiesa di San Francesco appare significativa anche per l’inversione, che compie Raffaello rispetto al Perugino, delle rispettive posizioni dei due gruppi degli uomini e delle donne.
Poiché la separazione dei due sessi ha una motivazione liturgica, come già si era osservato nella presentazione del 1983, dato che il dipinto del Perugino si trovava in una cappella addossata alla facciata nel duomo di Perugia, nella navata destra, mentre la pala di Raffaello era collocata in una cappella che si affacciava sull’unica navata di San Francesco a Città di Castello.
La cappella di Perugia ospitava la reliquia dell’anello del matrimonio di Maria.
Le fedeli che entravano nella cappella, da destra, per adorare l’importante reliquia, sembravano accodarsi al gruppo delle testimoni delle nozze.
Del tutto diversa era la situazione per la pala di Città di Castello.
Come era d’uso nelle chiese francescane, i due sessi erano distribuiti nell’unica navata, ponendo gli uomini più vicini al coro dei frati e le donne più vicine all’entrata.
Di conseguenza, chi osservava il dipinto di Raffaello, trovando gli uomini a destra, li considerava dalla parte del coro.
In tutti e due i casi i pittori erano stati ben consapevoli del rapporto che le due pale avrebbero istituito con lo spazio liturgico cui erano destinate.
(©L’Osservatore Romano – 19 marzo 2009)
Parte la sperimentazione di Cittadinanza e Costituzione
Portano la data del 4 marzo 2009 le Linee di indirizzo per la sperimentazione dell’insegnamento di “Cittadinanza e Costituzione” (vedi il pdf allegato), emanate dal ministro Gelmini in attuazione dell’art.
1 della legge 169/08 che prevedeva l’introduzione di questo nuovo insegnamento.
Per certi aspetti si potrebbe dire che la montagna ha partorito il topolino, dato che la massiccia campagna mediatica promossa su questa integrazione dei curricoli scolastici (l’unica novità su cui si sia registrato un consenso trasversale tra tutte le forze politiche, nell’opinione pubblica e all’interno del mondo della scuola) lasciava intendere una proposta forte per la nuova disciplina; invece le linee di indirizzo deludono un po’ le attese, ma sono coerenti con il dettato della legge 169/08.
In essa infatti si prevedeva di attivare, fin dal corrente anno scolastico 2008-09, «azioni di sensibilizzazione e di formazione del personale finalizzate all’acquisizione … delle conoscenze e delle competenze relative a “Cittadinanza e Costituzione”».
Accanto ad esse doveva essere inoltre avviata una specifica sperimentazione nazionale.
Sugli organi di informazione invece si era parlato molto di questo nuovo insegnamento soprattutto quale appariva nel primo disegno di legge del 1-8-2008, che prevedeva una nuova «disciplina … oggetto di specifica valutazione».
La proposta era stata poi acquisita nella forma più debole della sperimentazione e sensibilizzazione dal decreto Gelmini, senza però perdere l’iniziale vis educativa, e la prospettiva che si andava delineando era quella di un vera e propria nuova materia scolastica.
L’appuntamento sembra solo rinviato e per ora ci si deve accontentare della fase interlocutoria di sensibilizzazione e sperimentazione che, avviata peraltro a soli tre mesi dalla fine dell’anno scolastico che doveva vederne il decollo, rischia di rimanere solo una pia dichiarazione d’intenti.
Del resto, è nel regolamento del primo ciclo (ormai in dirittura d’arrivo) che troviamo precise indicazioni in materia; e il regolamento andrà in vigore solo col prossimo anno scolastico.
Le Linee di indirizzo propongono quindi un’ampia ricostruzione storica e ideale delle vicende e delle motivazioni che hanno condotto a elaborare l’attuale progetto, chiedendo alle scuole di concorrere a meglio definirne la fisionomia, «in vista di un più maturo assetto ordinamentale della materia».
Dei limiti della vecchia educazione civica sembra superato solo il ridotto carico orario, dato che dalle due ore mensili previste dal Dpr 585/58 si passa a un’ora settimanale; ma per il resto, finché non si avrà una distinta valutazione, sembra difficile immaginare un’incidenza reale per una disciplina non ancora autonoma ma agganciata in forma subordinata all’area storico-geografica o storico-sociale.
È interessante notare lo spazio dedicato dalle Linee di indirizzo alla rafforzata valutazione del comportamento, per sottolineare come entrambe le novità della legge 169/08 intendano rispondere all’esigenza di restituire alla scuola quel compito più globalmente educativo che ultimamente sembrava aver perduto.
Proprio questa attenzione educativa può giustificare l’interesse dello stesso Irc per innovazioni che vanno ad incidere sull’area valoriale dei curricoli scolastici, finora lasciata piuttosto sguarnita e appannaggio quasi esclusivo dell’Idr.
È altresì noto che in Spagna la recente introduzione di un’analoga “Educazione alla cittadinanza” ha suscitato le vivaci proteste della Chiesa cattolica per il sospetto che si voglia fare concorrenza all’Irc attraverso l’insegnamento di una sorta di religione civile nutrita di laicismo ed espressione di uno stato etico.
Un rischio del genere ci sembra da escludere in Italia, non tanto per la diversa provenienza politica della proposta, quanto per la natura dell’insegnamento, che non si ferma alla sola cittadinanza (che presa da sola potrebbe essere equivocamente interpretata come conoscenza e condivisione forzata del sistema etico-giuridico nazionale) ma si arricchisce del fondamentale riferimento alla Costituzione.
Un paragrafo delle Linee di indirizzo è significativamente intitolato “Educare alla cittadinanza secondo Costituzione, in contesti multiculturali”, lasciando intendere che la natura della cittadinanza non possa essere separata dal riferimento fondante alla Costituzione, i cui principi generali sono senz’altro condivisibili e condivisi al di là degli schieramenti ideologici e costituiscono il correttivo di usi strumentali di un concetto unilaterale di cittadinanza (che peraltro va oggi coniugato in prospettiva multiculturale).
La Costituzione è infatti definita «non solo il documento fondativo della democrazia nel nostro Paese, ma anche un “mappa valoriale” utile alla costruzione della propria identità personale, locale, nazionale e umana».
Per ogni ordine e grado di scuola, dall’infanzia alla secondaria di II grado, sono individuati obiettivi di apprendimento e situazioni di compito per la certificazione delle competenze personali.
Queste ultime sono articolate ad ogni livello in quattro distinte aree, che già danno un’idea chiara dei punti di riferimento e dei possibili sviluppi: dignità umana, identità e appartenenza, alterità e relazione, partecipazione.
Spetterà ora alle scuole convalidare o emendare questa proposta per trasformarla in una vera e propria nuova disciplina d’insegnamento.
Il linguaggio nell’educazione religiosa
2.
Il quadro organizzativo.
Lo studio si apre con una panoramica, necessariamente rapida, sul linguaggio, la sua rilevanza nella cultura odierna, su autori e scuole che vi hanno dato rilevanza ed hanno offerto stimoli particolarmente significativi (Marchetto).
In questo quadro di insieme viene richiamata in particolare la novità della riflessione recente proprio in quegli apporti che offrono suggestioni preziose alla ricerca ermeneutica anche in ambito religioso (Freni).
Da quelle premesse muove l’analisi più specifica sul linguaggio religioso, le connotazioni che lo qualificano, le condizioni che rendono possibile l’accesso al mondo della Trascendenza: legittimano il linguaggio su Dio (Trenti).
Il tema del linguaggio viene pure verificato in un tentativo di andare oltre l’ermeneutica per salvaguardare la novità del rapporto con Dio e il primato della sua presenza; confermando forse la logica ermeneutica dal versante opposto a quello consueto (Currò).
Viene insomma esplorato l’orizzonte in cui situare il linguaggio specifico della tradizione religiosa; a cominciare da quella biblica, espressa a grandi linee nella ricchezza e varietà di apporti che offre (Bissoli).
E’ sembrato anche importante riservare almeno un cenno alla grande tradizione orientale, proposta in ciò che ha di più caratterizzante e significativo (De Souza).
E aprire infine uno squarcio sufficientemente avvertito e attento alla grande provocazione che i testi fondanti offrono a documentazione della varietà e profondità della ricerca religiosa, anche oltre la tradizione occidentale (Pajer).
Un orizzonte dunque piuttosto ambizioso, interpretativo del linguaggio religioso e della sua significatività culturale e pedagogica.
Proprio questa valenza educativa del linguaggio religioso viene sottolineata con l’ ultimo intervento di carattere esplicitamente didattico (Romio).
Corroborato da una breve appendice applicativa.
3.
L’intento Il tema del linguaggio è centrale per ogni ricerca.
Gli studi che lo hanno recentemente rinnovato offrono suggestioni straordinariamente significative per l’incontro con i grandi temi della ricerca umana, anche là dove incrocia la pista che ha da sempre qualificato la riflessione religiosa.
Dire Dio, chiamarlo per nome, è aspirazione che attraversa la ‘presunzione umana’ fin dal suo nascere alla cultura, dai primi inni vedici.
L’apporto singolare offerto dalla riflessione ermeneutica ci ha resi avvertiti di quanto dire Dio può risultare illuminante e risolutivo anche per dire uomo.
La traccia religiosa non è dunque una pausa di riposo, un’oasi felice nella corsa all’incontro con noi stessi; ne è una condizione straordinariamente rivelativa appena ci si interroghi su chi siamo e sull’approdo cui siamo incamminati.
Donde il richiamo esplicito alla sua valenza educativa, spesso richiamata in ciascuno dei contributi, esplicitamente suggerita nella parte conclusiva.
Cfr.
TRENTI Z.
( a cura ), Il linguaggio nell’educazione religiosa, Leumann, Elledici, 2008, pp.
7-8.
PS.
Per gentile concessione dell’Editore pubblichiamo, man mano, ampi stralci di uno studio, appena apparso in Libreria; tende a far e il punto sugli aspetti più significativi del linguaggio in ambito educativo, soprattutto giovanile.
Gli Autori intendono far opera di stimolo e di richiamo su un aspetto provocante dell’educazione religiosa attuale.
La Redazione della Rivista ringrazia per ogni indicazione, suggerimento e magari contributo che Collaboratori e Lettori vogliano farle pervenire.
1.
L’attenzione al linguaggio L’importanza che il linguaggio assume nella ricerca attuale è un fatto sorprendente, ma allo stesso tempo comprensibile; documenta la situazione tipica del nostro tempo, carico di provocazioni e fervido di novità.
Il prenderne coscienza in maniera lucida è urgenza perentoria ed avvertita.
Tanto più quando l’esperienza lascia presagire l’orma misteriosa e sollecitante della trascendenza.
Il linguaggio si porta al cuore dell’esplorazione esistenziale: si piega sulla vita, anche nella sua quotidianità, tende e a decifrarla in tutti i suoi richiami, quello religioso compreso.
Anzi la riflessione religiosa muove per lo più da interrogativi profondi e appassionanti: si sforza di darvi comprensione e risposta.
Va quindi forgiando un linguaggio singolarmente affinato e pertinente, di cui gli interventi che proponiamo offrono ampia documentazione.
Il quadro organizzativo globale dello Studio ha privilegiato la riflessione ermeneutica per la rilevanza e autorevolezza che gode nel panorama culturale odierno; dovuta anche al fatto che vi sono approdati studiosi e pensatori eminenti: hanno contribuito e contribuiscono a decifrare l’esperienza umana anche nel presagio che la rapporta alla Trascendenza.
Annuario Pontificio del 2009
Benedetto XVI ha mostrato vivo interesse per i dati illustrati e ha ringraziato per l’omaggio tutti coloro che hanno collaborato alla nuova edizione dell’Annuario.
Numerose le notizie sulla vita delle 2.936 circoscrizioni ecclesiastiche di tutto il mondo, contenute nel volume.
Il numero dei vescovi ad esempio è passato, dal 2006 al 2007, da 4.898 a 4.946, con un aumento dell’1%.
Il continente con maggiore incremento è l’Oceania (+ 4,7%), seguito da Africa (+ 3,0%) e da Asia (+ 1,7%), mentre al di sotto della media complessiva risulta l’Europa (+ 0,8%).
Nello stesso periodo l’America registra una flessione dello 0,1%, mentre il peso delle varie aree geografiche è rimasto sostanzialmente invariato nel tempo, con Europa ed America che, da sole, continuano ad aggirarsi attorno al 70% del totale.
Anche il numero dei sacerdoti si mantiene sul trend di crescita moderata inaugurato nel 2000, dopo oltre un ventennio piuttosto deludente.
I preti, infatti, sono aumentati nel corso degli ultimi otto anni, passando da 405.178 nel 2000 a 407.262 nel 2006 e a 408.024 nel 2007.
Il contributo delle varie aree geografiche al dato complessivo appare diversificato.
Se Africa e Asia mostrano nel periodo 2000-2007 una dinamica assai sostenuta (+ 27,6% e 21,2%) e l’America si mantiene pressoché stazionaria, Europa e Oceania registrano, invece, nello stesso periodo, tassi di crescita negativi: meno 6,8% e meno 5,5% rispettivamente.
In espansione pure il numero dei diaconi permanenti.
Aumentano nel 2007, di oltre il 4,1% rispetto al 2006, passando da 34.520 a 35.942.
La consistenza dei diaconi migliora a ritmi sostenuti in Africa, Asia e Oceania, dove il loro numero non raggiunge ancora il 2% del totale mondiale, ma anche in aree dove la loro presenza è quantitativamente più rilevante.
In America ed in Europa, dove risiede circa il 98% della popolazione complessiva, i diaconi sono aumentati, dal 2006 al 2007, del 4,0%.
Più o meno stabile, invece, il numero dei seminaristi, passato da 115.480 nel 2006 a 115.919 nel 2007, con un incremento dello 0,4%, e un’evoluzione differente nei vari continenti.
Mentre, infatti, Africa e Asia hanno mostrato una sensibile crescita, nello stesso periodo l’Europa e l’America hanno registrato una contrazione.
Mimmo Muolo Da Avvenire 01 03 2009 I dati statistici riferiti all’anno 2007 forniscono un’analisi sintetica delle principali dinamiche riguardanti la Chiesa Cattolica nelle 2.936 circoscrizioni ecclesiastiche del pianeta.
Nel corso degli ultimi due anni, la presenza dei fedeli battezzati nel mondo rimane stabile attorno al 17,3% , quale risultato dell’espansione del numero dei cattolici (1,4%) a ritmo sostanzialmente assimilabile a quello della popolazione mondiale nello stesso periodo (1,1%).
Nel 2007, si contano poco meno di 1.147 milioni di cattolici, a fronte dei 1.131 milioni circa nel 2006.
Il numero dei vescovi nel mondo è passato, dal 2006 al 2007, da 4.898 a 4.946, con un aumento dell’1%.
Il continente con maggiore incremento è quello dell’Oceania (+4,7%), seguito da Africa (+3,0%) e da Asia (+1,7%), mentre al di sotto della media complessiva risulta l’Europa (+0,8%).
Nello stesso periodo l’America registra un tasso di variazione di 0,1%, mentre il peso delle varie aree geografiche è rimasto sostanzialmente invariato nel tempo, con Europa ed America che, da sole, continuano ad aggirarsi attorno al 70% del totale.
Il numero dei sacerdoti si mantiene sul trend di crescita moderata inaugurato nel 2000, dopo oltre un ventennio di performance piuttosto deludente.
I sacerdoti, infatti, sono aumentati nel corso degli ultimi otto anni, passando da 405.178 nel 2000 a 407.262 nel 2006 e a 408.024 nel 2007.
Il contributo delle varie aree geografiche al dato complessivo appare diversificato.
Se Africa e Asia mostrano nel periodo 2000-2007 una dinamica assai sostenuta (+27,6% e 21,2%) e l’America si mantiene pressoché stazionaria, Europa e Oceania registrano, invece, nello stesso periodo, tassi di crescita negativi, del 6,8%e del 5,5%.
Il numero dei diaconi permanenti continua a mostrare una significativa dinamica evolutiva.
Aumentano, al 2007, di oltre il 4,1%, rispetto al 2006, passando da 34.520 a 35.942.
La consistenza dei diaconi migliora a ritmi sostenuti sia in Africa, Asia e Oceania, dove essi non raggiungono ancora il 2% del totale, sia in aree dove la loro presenza è quantitativamente più rilevante.
In America ed in Europa, dove al 2007 risiede circa il 98% della popolazione complessiva, i diaconi sono aumentati, dal 2006 al 2007, del 4,0% .
A livello globale, il numero dei candidati al sacerdozio è aumentato, passando da 115.480 nel 2006 a 115.919 nel 2007, con un incremento dello 0,4%, e un’evoluzione differente nei vari continenti.
Mentre, infatti, Africa e Asia hanno mostrato una sensibile crescita, nello stesso periodo l’Europa e l’America hanno registrato una contrazione, rispettivamente, del 2,1 e dell’1 per cento.
(©L’Osservatore Romano – 1 marzo 2009) È stabile nel mondo la presenza dei cattolici.
Poco meno di un miliardo e 147 milioni di persone distribuite nei cinque continenti.
Anzi, si può dire che il loro numero cresce con lo stesso trend di crescita della popolazione mondiale, per cui i fedeli della Chiesa di Roma rappresentano il 17,3 per cento degli abitanti del pianeta.
I dati, riferiti all’anno 2007, sono contenuti nell’Annuario Pontificio del 2009, presentato ieri al Papa dal cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone e dal sostituto della segretaria di Stato, monsignor Fernando Filoni, alla presenza dei curatori dell’opera (monsignor Vittorio Formenti ed Enrico Nenna dell’Ufficio centrale di statistica della Chiesa), che è stata stampata dalla Tipografia Vaticana e che sarà tra breve in vendita nelle librerie.
Laicità in pericolo.
Bianchi è personaggio con largo seguito, in Italia e in altri paesi.
È autore di libri di grande diffusione, predica ritiri a sacerdoti e vescovi, scrive su giornali laici ma anche su “Avvenire”, il giornale della conferenza episcopale italiana, il più impegnato nella campagna in difesa della vita di Eluana, e quindi anche il maggiore imputato di “indegnità”.
Alle tesi di Enzo Bianchi ha replicato implicitamente – senza farne il nome – il patriarca di Venezia, cardinale Angelo Scola, in un editoriale su “Avvenire” del 20 febbraio.
Ma in questo stesso editoriale il cardinale Scola ha analizzato la questione della “laicità” a più largo raggio, in quanto rapporto generale tra la Chiesa e la sfera pubblica.
E lo stesso ha fatto nei medesimi giorni – nella forma più estesa e più argomentata di una conferenza – un altro cardinale di spicco della Chiesa italiana, Camillo Ruini, già presidente della CEI e vicario del papa per la diocesi di Roma dal 1991 al 2007.
Sulla rivista sono pubblicati (nella rubrica: sapere religioso) , integrali, entrambi gli interventi: l’editoriale del cardinale Scola su “Avvenire” del 20 febbraio e la conferenza tenuta dal cardinale Ruini a Genova il 18 febbraio.
Sulla questione della “laicità” – con le variazioni intervenute negli ultimi tempi – i due testi sono quanto di più autorevole e rappresentativo si possa leggere oggi da parte di due alti uomini di Chiesa, entrambi culturalmente molto vicini a papa Joseph Ratzinger.
In più, il lettore italiano troverà di seguito altri due testi su una questione strettamente connessa: la configurazione concreta che ha preso in Italia il dialogo tra laici e cattolici.
A giudizio del professor Ernesto Galli della Loggia questo dialogo ha avuto un momento felice agli inizi degli anni Novanta, ma poi è praticamente fallito.
Mentre a giudizio del professor Pietro De Marco le cose non stanno affatto così.
Ha aperto la disputa Galli della Loggia con un editoriale sul “Corriere della Sera” del 15 febbraio.
E De Marco gli ha replicato sul giornale on line “l’Occidentale”.
Mercoledì 18 febbraio, al termine dell’udienza generale, Benedetto XVI ha incontrato brevemente Nancy Pelosi.
Pelosi è cattolica, e ha tenuto a rimarcarlo: ha mostrato al papa le foto di una sua visita con i genitori in Vaticano negli anni Cinquanta e si è complimentata per l’azione della Chiesa nel combattere la fame e la povertà.
Ma al termine dell’incontro, il comunicato diffuso dalla sala stampa vaticana è stato di tutt’altro tenore: “Il papa ha colto l’occasione per illustrare che la legge morale naturale e il costante insegnamento della Chiesa sulla dignità della vita umana dal concepimento alla morte naturale impongono a tutti i cattolici, e specialmente ai legislatori, ai giuristi e ai responsabili del bene comune della società, di cooperare con tutti gli uomini e le donne di buona volontà per promuovere un ordinamento giuridico giusto, inteso a proteggere la vita umana in ogni suo momento”.
Nancy Pelosi, infatti, come altri cattolici della nuova amministrazione americana, è attiva sostenitrice di politiche pro aborto.
E il papa non ha esitato a rivolgerle questo richiamo pubblico, incurante di dare esca con ciò alle ricorrenti accuse di “invadenza” del campo politico che tanti difensori della “laicità” lanciano contro la Chiesa.
Il secondo fatto è di dimensioni più ampie.
Ed è la sorte inflitta in Italia a Eluana Englaro, una giovane donna in stato vegetativo persistente, privata di cibo e di acqua per sentenza di tribunale e così fatta morire, lo scorso 9 febbraio.
Come quattro anni fa per Terri Schiavo negli Stati Uniti, anche per Eluana c’è stato in Italia un crescendo di azioni tese a salvarne la vita, sia da parte di cattolici che di non credenti, sia sul terreno religioso che su quello civile e politico.
La battaglia ha naturalmente portato a una fase acuta la polemica sulla “laicità”.
Da più parti si è accusata la Chiesa di prevaricare sulla libertà delle scelte individuali.
Ma non solo.
La polemica ha diviso anche il campo cattolico.
Per alcuni, il parlare e l’agire in difesa della vita di Eluana erano “indegni dello stile cristiano”, uno stile che dovrebbe essere fatto di silenzio, di riserbo, di misericordia, di non invasione dello spazio più intimo e personale di ciascuno.
La voce più emblematica di questa tendenza è stata quella del fondatore e priore del monastero di Bose, Enzo Bianchi, in un articolo sul quotidiano “La Stampa” di domenica 15 febbraio: > Vivere e morire secondo il Vangelo Il dovere dei laici: misurarsi col cattolicesimo nella sua integrità di Pietro De Marco Improvvisamente, almeno per me (ve ne saranno state avvisaglie, ma mi sono sfuggite), Ernesto Galli della Loggia ha annunciato il tramonto della “stagione che è andata sotto il nome di incontro o dialogo tra laici e cattolici”.
L’ha fatto sul “Corriere della Sera” di domenica 15 febbraio.
Si tratta naturalmente di una prognosi ragionata, su cui vorrei anch’io ragionare.
Galli della Loggia evoca due date: i primi anni Novanta (per comodità, la scomparsa della DC storica) e l’11 settembre 2001, come acceleratore del convergere dialogico.
Eventi e soglie storiche che “aprirono o catalizzarono una serie di interrogativi…
riguardanti l’Italia e il mondo”, dalla rivoluzione delle tecnoscienze alle nuove situazioni geopolitiche, tali da far “immaginare una nuova collocazione e una nuova missione politica”, per i cattolici e per quei laici.
Una nuova libertà nel rivolgersi ai problemi critici accomunava quei cattolici e laici; per la prima volta nella storia italiana, l’intreccio tra “la tradizione liberale e il cristianesimo cattolico” vi è stato, e produttivo.
Galli della Loggia rileva però, da un lato, stanchezza e ripetitività, dall’altro il sopraggiungere, congiunturale ma potenzialmente distruttivo, di “nuove ostilità” tra le parti.
Così appare a lui irraggiungibile, oggi più di ieri, l’obiettivo di “una cultura civica capace di coniugare quotidianamente, senza contrasti ultimativi, una dimensione pubblica della religione e un ethos democratico condiviso”.
Quello che a Galli della Loggia sembra una seria crisi avrebbe, però, origine interna, il che spiegherebbe la vulnerabilità dell’incontro tra laici e cattolici nella recente congiuntura bioetica (qualcuno dice piuttosto biopolitica).
Cos’è avvenuto? A suo giudizio, sul lato cattolico gli interlocutori sono stati, nel laicato, prevalentemente i “giovani intellettuali dei movimenti”, spesso radicali e instabili nel loro contributo al dialogo.
Sarebbe prevalsa in effetti una partnership ecclesiastica, gerarchica.
Galli della Loggia non fa nomi, ma tutti pensiamo al ruolo di primo rilievo, in questo “incontro”, del cardinale Camillo Ruini.
La prevalente partnership gerarchica avrebbe implicato due effetti negativi per l’incontro: non avrebbe ricevuto “l’apporto di energie vaste e profonde”, fatte salve appunto quelle ecclesiastiche, e lo avrebbe trasformato in un confronto diretto con la Chiesa, etichettabile come politico e tale da suscitare un fuoco di interdizione (che Galli della Loggia giudica “alla fine efficace”) da settori del mondo cattolico e dalle sinistre.
Devo proseguire la mia parafrasi, perché possono sfuggire al lettore dei passaggi importanti dell’argomentazione.
Il ruolo preponderante assunto nel dialogo dalla Chiesa come tale, dice Galli della Loggia, in realtà da pochi uomini della gerarchia cattolica, sarebbe sintomo di un “ulteriore fattore negativo”: “l’autoreferenzialità con la quale il mondo cattolico è abituato da un paio di secoli ad improntare il suo rapporto con chi non ne fa parte storicamente”.
L’autoreferenzialità si manifesterebbe nella troppo variabile e contraddittoria disponibilità della gerarchia ora a colloquiare con i “laici di orientamento liberale”, ora a dare visibilità e voce in convegni e giornali (persino con maggiore convinzione, pensa Galli della Loggia) ai loro aspri critici ed avversari di sinistra, critici ed avversari dei laici liberali proprio per il loro dialogo con la Chiesa! Avversari trasversali, potrei aggiungere, perché ad essi si sommano dei cattolici, e non solo entro il laicato, critici della stessa gerarchia coinvolta nel dialogo.
Tale “autoreferenzialità”, indotta dalle condizioni di storica separatezza della Chiesa e del “retroterra sociale che fa capo ad essa” nella società nazionale, avrebbe oggi una evidenza ed un costo proprio nella manifesta impossibilità della stessa Chiesa “di fare politica davvero, cioè di avere una visione strategica, di fare scelte nette e conseguenti, di scegliere chi sono i propri amici culturali e chi no”.
Su questa mancata scelta della Chiesa a favore di un mondo laico (quello liberale, dialogico e favorevole) rispetto ad un altro (ostile e scarsamente dialogico), una mancata scelta che all’editorialista del “Corriere” pare anzitutto espressione di spregiudicatezza politica, il dialogo tra cattolici e laici liberali starebbe naufragando.
La diagnosi e la prognosi di Galli della Loggia mi trovano, una volta tanto, in dissenso.
Potrei essere d’accordo su dettagli che però, rispetto alla questione centrale, ritengo poco rilevanti, o contingenti.
Propongo quindi un mio riesame dei termini, che riguardi, nei seguenti tre punti: il laicato cattolico italiano, la Chiesa come “societas” e nella società, e i laici liberali e la loro precomprensione dell’interlocutore cattolico.
1.
IL LAICATO CATTOLICO ITALIANO Negli anni Novanta, la formula dell’incontro tra laici e cattolici si presentava, concettualmente, ambiziosa e indeterminata.
Lo dico avendo seguito la vicenda in riviste, incontri, libri.
Se la chiamata non poteva non essere per tutti, forze e uomini in campo erano ben circoscritti.
Penso alla terna composta da Ferdinando Adornato, Galli Della Loggia, Giorgio Rumi, e agli interlocutori delle prime annate di “Liberal”.
Si trattava di alcuni laici liberali e di alcuni cattolici, dunque, prevalentemente uomini di cultura.
E quelli che avevano accolto l’iniziativa e frequentato gli spazi di “Liberal” erano singoli cattolici “conservatori” (nel senso di Roger Scruton), non “i cattolici” in senso lato.
Galli della Loggia sa bene, ma non dà alla cosa giusto peso nell’articolo, che i cattolici eredi delle antiche sinistre, di quella già democristiana come di quella già del partito comunista (i numerosi cattolici “berlingueriani”), giudicarono gli intellettuali e le tesi di “Liberal”, come le personali tesi di Galli della Loggia, marcate a destra, “revisionistiche”, confinanti e presto coincidenti con lo spirito del nuovo centrodestra politico.
Il compianto Rumi collaborava a “Liberal” per la sua grande libertà e intelligenza, coraggioso outsider.
In quell’incontro tra laici e cattolici, di fatto tra due minoranze uscite a fatica da maggioranze molto condizionanti, operò una comune geometria di distacchi e di revisioni.
Per i cattolici il distacco dall’eredità democristiana, l’emancipazione dalle derive culturali del postconcilio, l’affinità col programma di Giovanni Paolo II; per i laici liberali l’emancipazione da mezzo secolo di Italia repubblicana a metamorfica dominante gramsciana (nel senso di Augusto Del Noce).
Ma un dialogo tra queste minoranze, dotate di una insorgente forza critica, poteva ragionevolmente porsi obiettivi di breve periodo? Galli della Loggia attribuisce il “fallimento” dell’incontro al mancato intervento del laicato intellettuale cattolico e alla spregiudicatezza della parte ecclesiastica.
Ma chiedo: le attese laico-liberali, ed anche quelle in certo modo cattolico-liberali presenti, erano per parte loro ben registrate sulla complessità cattolica? Devo insistere su un chiarimento (ne ho scritto in www.chiesa dell’11 settembre 2008).
Se per “laici cattolici” si intendono i quadri del laicato di Azione Cattolica o simili, non era pensabile, proprio allora, in quegli anni Novanta di mobilitazione per la “difesa della costituzione” e di risorgente dossettismo, trovare in essi dei dialoganti con Galli della Loggia o con Adornato, o con iniziative autonome ma non divergenti, come quelle di Marcello Pera! In più, e più profondamente, va ricordato che l’incontro del laicato cattolico “qualificato” con la laicità dei tempi moderni, avviato negli anni del Concilio, si era già consumato negli anni Settanta, sotto i traumi e i vincoli del dopo Sessantotto.
Sappiamo tutti, e non fu mai nascosto, che per tanti cattolici il riconoscimento dei valori laici ebbe allora i caratteri della scoperta dei “valori moderni” e dell’immersione in essi.
Le opzioni prevalenti ed esemplari di quel laicato furono sempre a sinistra, entro, fuori e oltre la DC, prima e dopo della sua scomparsa.
Per questo laicato la proposta di “Liberal”, l’incontro tra liberali e cattolici erano e appaiono tuttora anacronistici, e segnati per di più dall’incombere di un nuovo “rischio di destra”.
Ma il laicato cattolico non è esclusivamente quel laicato “qualificato”, ordinariamente definito da un rapporto di collaborazione unitaria, diretta, organizzata, con i pastori.
E non tanto perché vi sono altre forme di pratica cattolica intensa, di comunità, di movimenti.
Ma perché, costitutivamente, il laicato cattolico è la totalità dei “christifideles”, sia militanti (nel senso di un’attiva disponibilità e mobilitazione) che non militanti.
La maggioranza degli italiani costituisce tuttora il laicato; o, se si preferisce, una costellazione di laicati cattolici “sui generis”, composti o meno di “virtuosi” (nel senso weberiano) comunque diversi tra loro, ma portatori di pratica, spiritualità e ethos cattolici.
Da questa costellazione, che permea la stratificazione sociale e generazionale, vengono anche gli uomini e donne che sono oggi fulcro del voto di centrodestra.
Sono, naturalmente, gli “strani cristiani” deprecati dalle sinistre anticlericali; ma la ricerca sociologica sulla religiosità degli italiani, se non viene messa a servizio della sindrome “minoritaria”, parla diversamente.
Per gli “strani cristiani”, un orizzonte di “nuovi compiti per cattolici e laici” (parole di Galli della Loggia) diversi da quelli della stagione democristiana e del dissenso cattolico è, infatti, banco di prova dell’avvenuta emancipazione dal blocco culturale dell’Italia postbellica.
Ma, osserverebbe Galli della Loggia, questi laicati cattolici non conformi alla tipologia “catto-comunista”, questi cattolici non “clericali” (nel senso che tale parola ha in Del Noce) e non “progressisti”, come si manifestano? Ai fini del dialogo appaiono a lui assenti.
A ben vedere, no.
Direi anzitutto: non sono questo laicato cattolico “sui generis” molti uomini e donne dei quadri politici e intellettuali del centrodestra? Non sono cattolici, e quindi laicato, parte degli uomini e delle donne che operano con “Magna Carta”, che scrivono su “il Foglio”, sull’attuale “Liberal” e su vari altri periodici oppure scrivono, intervengono, dibattono sui tanti forum on line? Senza contare la morfologia di piccoli gruppi, centri di cultura, associazioni, riviste, bollettini, che confermano l’originalità storica con cui l’ecclesiosfera (bella formula di Émile Poulat) si dispone negli interstizi delle società complesse.
Questo mondo è laicato cattolico attivo e permeabile nell’incontro che sta a cuore a Galli della Loggia.
Questo differenziato interlocutore, nelle sue varietà estranee alla classica formazione di Azione Cattolica ma spesso anche a quella di altri movimenti o associazioni, è oggi capace di esistere politicamente e di conservare una conformità cattolica fuori dell’unità politica e associativa dei cattolici “qualificati”.
Ma va saputo riconoscere e legittimare come interlocutore.
Ho arrischiato altrove il giudizio che queste culture e generazioni, questi soggetti dell’ecclesiosfera, sono spesso più in sintonia con l’episcopato e con Roma dei laicati “virtuosi” che prestano opera nelle parrocchie, plasmati nei decenni dalla “vague” postconciliare; dei laicati, cioè, che si alimentano alla diuturna lettura di Enzo Bianchi o del cardinale Carlo Maria Martini.
Insomma, è una ecclesiosfera (meglio, un vasto sottoinsieme della ecclesiosfera totale) al di là del movimento cattolico.
Ritenere che questo laicato cattolico non abbia consistenza intellettuale, non faccia cultura, non partecipi al dibattito pubblico, è un errore simmetrico a quello dei “cattolici democratici”, anzi, indotto dalla loro diagnosi: secondo la quale ci sarebbe un generale “silenzio del laicato” che in realtà è solo il loro silenzio, conseguenza della loro perdita di autorità e influenza.
La stessa gerarchia ecclesiastica non ha sempre il polso di questa complessità cattolica.
I dati delle ricerche socioreligiose vengono letti con le lenti di un pastoralismo pessimistico associato a dubbie ecclesiologie microcomunitarie, che considerano il praticante discontinuo e di modesta formazione religiosa qualcosa come un’entità non più cattolica, perduta.
Con la conseguenza di indurre i vescovi a muoversi nella direzione di una specie di nichilismo minoritarista.
Come non bastasse lo spettacolo delle rovine di quelle grandi Chiese nazionali europee che hanno battuto questa strada.
Forse l’incontro tra cattolici e laici liberali può servire anche su questo fronte.
2.
LA CHIESA COME “SOCIETAS” E NELLA SOCIETÀ Se la configurazione del laicato cattolico risulta complicata, un’altra dimensione del ragionamento autorizza ad un giudizio inequivoco.
Galli della Loggia ritiene che una secolare autoreferenzialità strategica e tattica renda ancora oggi impossibile alla Chiesa una decisa, univoca, scelta di strategia culturale e politica.
Direi di no.
Anzitutto, quella che egli chiama autoreferenzialità e che sarebbe in corso “da due secoli” è forse piuttosto la condizione di fatto e di diritto di un corpo ecclesiastico spinto dagli ordinamenti e dalle ideologie moderne verso una condizione formale di marginalità rispetto all’ordinamento statuale, ai suoi poteri e valori, nell’attesa che tale marginalità, dettata unilateralmente da un ordinamento, divenisse un fatto.
Questo tentativo della modernità politico-giuridica non ha avuto successo con la Chiesa cattolica, che non solo ha conservato la sua “perfectio” e la sua peculiare giurisdizione sui fedeli, sviluppando contemporaneamente l’alta dottrina dello “ius ecclesiasticum publicum”, ma ha nel tempo stesso ridefinito e rafforzato la sua missione universale, “erga omnes”.
Anche per ragioni sostanziali, dunque, il termine “autoreferenziale” non va.
Se la Chiesa cattolica degli ultimi due secoli si riconfigura come una vasta forma militante certamente coesa e gerarchica, vigile su quanto avviene al proprio interno, la sua azione resta essenzialmente ordinata “ad extra”.
La stessa Chiesa militante di Pio XI e Pio XII, le cui fondazioni sono nell’età di Leone XIII e di Pio X, è sotto questo aspetto tutt’altro che rivolta su di sé.
Appare molto più autoreferenziale, piuttosto, la Chiesa delle insofferenti autonomie parrocchiali di oggi.
La contemporanea condizione ecclesiastica è cosciente di sé, ordinata e ordinante, universalistica.
La fine della stagione del partito e del movimento cattolico ha liberato la Chiesa anche dalla pressione proveniente da una sua cultura interna, la quale, negli anni Settanta e oltre, la spingeva a presentarsi illuministicamente come una forza mondiale di progresso e giustizia, magari di rivoluzione: una suggestiva drammatica tentazione alla perdita di sé.
L’uscita dal Novecento ha rafforzato entro l’ecclesiosfera la manifestazione della varietà, quella che insisto a chiamare, con i classici, la “complexio oppositorum” cattolica, che è tutt’altra cosa dal pluralismo istituzionale, che in linea di diritto è incompatibile con la natura della Chiesa.
Siamo oggi a mio avviso in una imprevista situazione di nuova cristianità: una cristianità postmilitante (almeno finché non vengano dal moderno sovrano attentati ai princìpi), entro una società complessa ossia ad alta differenziazione sociale.
È una tale recuperata “complexio” cattolica sul terreno sociale e politico-religioso che richiede alla gerarchia la riproposizione pubblica diretta e immediata di paradigmi di fede, criteri di giudizio, implicazioni di condotta, a “christifideles” così variamente radicati nella fede cattolica e diversi (o in conflitto) tra di loro nello spazio pubblico.
Le implicazioni di questo modello sul ragionamento di Galli della Loggia mi paiono evidenti.
Poiché né lui né io siamo interessati all’aneddotica, non importa veramente chi e in quali contesti particolari abbia oggi promosso il dialogo tra cattolici e laici liberali e domani dato voce ai suoi oppositori, siano questi laici anticlericali oppure provenienti dal laicato cattolico e ideologicamente parenti dei primi (i cattolici, ad esempio, che nella discussione pubblica militano dal lato di Eugenio Scalfari e Gustavo Zagrebelsky).
Importa, piuttosto, capire quanto sia incompatibile con la struttura profonda della Chiesa l’obbligo di darsi un’unica “visione strategica” nella sfera pubblica, consistente nel “fare scelte nette e conseguenti”, nello “scegliere chi sono i propri amici culturali e chi no”, per usare le parole stesse di Galli della Loggia.
Persino la Chiesa di Pio XII, dotata per vitale necessità di visione strategica unitaria e di nette alleanze, non fu univoca nello scegliere “i propri amici culturali”.
Quanto ai recenti, critici, anni Novanta e oltre, Galli della Loggia sa che neppure la grande personalità che ha guidato l’episcopato italiano nella transizione, cioè il cardinale Ruini, ha scelto univocamente.
Ha invece aperto innovativamente la riflessione cattolica anche ad “amici culturali” nuovi, quali appunto i laici liberali non legati alle “sociétés de pensée” laiciste e di sinistra.
Lo stesso Galli della Loggia e altri sono stati e sono oggi ascoltati con attenzione.
Così il lavoro di Giuliano Ferrara è seguito e accolto spesso con ammirazione.
Ad alti livelli il dialogo tra Joseph Ratzinger, cardinale poi papa, e Marcello Pera è stato davvero importante.
Tutto questo non è senza conseguenze, già avvertibili, nella formazione dell’ethos cattolico.
Ce ne danno prova, in negativo, i modi sprezzanti, assieme alla mancata riflessione teorica e storica, con cui i laici liberali aperti al dialogo sono stati trattati dai due fronti d’avanguardia del cattolicesimo della conclusa stagione del secondo Novecento, quello sociale-politico e quello “critico” della milizia postconciliare.
Un trattamento di disprezzo che si è mosso in parallelo con l’opposizione al governo del cardinale Ruini, col festeggiamento della presunta “irreversibile fine” della stagione ruiniana della Chiesa italiana, insomma, con la complessiva “damnatio” di quanto ho descritto fino qui.
3.
I LAICI LIBERALI E LA LORO PRECOMPRENSIONE DELL’INTERLOCUTORE CATTOLICO Un ultimo punto, appena un poco “ad hominem”.
Galli della Loggia perdonerà, conosce la mia stima.
Avvezzo com’ero a un sostanziale accordo con lui, mi colpì un suo intervento sul “Corriere della Sera” del 23 marzo del 2000, dal titolo “Il mea culpa dimenticato”.
L’editoriale si rammaricava di una mancata richiesta di perdono (nella congiuntura giubilare del grande rito del mea culpa, celebrato da Giovanni Paolo II il 12 marzo) per la condanna nel 1907 dei modernisti, e riprendeva con accenti personali un giudizio non nuovo sulle conseguenze di quella condanna: “L’Italia [cui aveva attribuito, qualche riga prima, una ‘povertà di vita religiosa e il suo essere storicamente soverchiata dalla gerarchia’] è rimasta un paese privo di una vera cultura religiosa, dove a lungo la coscienza moderna si è fatta un vanto di sottrarsi all’indispensabile dialogo con la voce misteriosa che viene dal fondo dei tempi e che pretende all’eterno”.
Ho trovato sintomatica in Galli della Loggia, nonostante l’esibito realismo storiografico, questa valorizzazione delle potenzialità dei modernismi cattolici e di una “riforma religiosa” (che giudico una ancora inguaribile sindrome dei liberali, laici e cattolici).
Conosco l’autorità e l’influenza del modello di Arturo Carlo Jemolo: “riforma religiosa e laicità dello stato”, anche se dubito sia pertinente invocarlo oggi (di Jemolo l’editrice Morcelliana ha riproposto di recente in un piccolo volume, “Coscienza laica”, a cura di Carlo Fantappiè, pagine importanti e poco accessibili).
Ma l’incontro con i cattolici non può pretendere la “riforma” della Chiesa: non lo può pretendere di diritto, ovviamente, ma nemmeno di fatto, e questo è per uno storico l’argomento principe.
Il dialogo con un cristianesimo riformato è già avvenuto, ed è stato quello del liberalismo con il protestantesimo nelle sue diverse espressioni.
Quella vicenda è conclusa, e possiamo giudicarla: le eredità protestanti liberali sono oggi indistinguibili dalle laicità etico-politiche agnostiche; il loro richiamo a Cristo e alla Chiesa è talmente impoverito nei suoi fondamenti cristologici e trinitari (sono una “fides qua” senza “fides quae”) da poter essere condiviso da chiunque senza conseguenze che dichiarino la differenza cristiana.
A conclusione del percorso si dovrebbe dire: “reformata reformanda”.
Quando nei titoli di un giornale laico come “la Repubblica” si vede comparire la formula polemica: “la Chiesa del dogma”, come se il rimando al canone della fede fosse una strana reviviscenza di qualcosa andato in desuetudine, non si può non sorridere.
Cosa ha autorizzato questi laici a pensare che la Chiesa cattolica abbia abbandonato il Credo, la tradizione dei Concili, la dottrina dei suoi dottori (intelletti tra i più alti della storia mondiale) e dei suoi spirituali? E credono davvero questi laici che sarebbe stato meglio così? Che ne è dell’Europa protestante e della cattolica che ne segue le tracce, dove i cristiani balbettano solo il credo del politicamente corretto e dei diritti individuali? Galli della Loggia non ha niente a che fare col pensiero di Scalfari e Zagrebelsky, né con la concezione ottocentesca di una Chiesa che nel suo stesso esistere, come istituzione e dottrina, tradirebbe la predicazione di Gesù.
Ma nell’elogio delle istanze modernistiche pare non intendere, neppure lui, la necessità cristiana della “Chiesa del dogma”.
Infatti, è essenzialmente sul fronte del dogma, della “fides quae”, che i seguaci odierni della battaglia modernistica appaiono disorientati e vulnerabili; così come i loro maestri (i Tyrrell, i Loisy) furono decisamente nell’errore.
Condannandoli, Pio X fece ciò che doveva, secondo l’imperativo della funzione di Pietro: il “confirma fratres tuos”.
Il dialogo con i cattolici, quindi, non può oggi essere condotto dai laici nell’attesa di trovarsi ancora di fronte cattolici “della riforma”, ennesimi “sempiterni riformatori”, come scriveva tra ironia e irritazione Delio Cantimori, di fronte a questo inguaribile topos storiografico, concomitante con quello ideologico della “riforma mancata”.
Non perché dei “sempiterni riformatori” in campo cattolico non ve ne siano; hanno anzi influenzato la cultura ecclesiale per decenni.
Ma proprio perché cattolici di questo tipo non hanno alcun interesse a dialogare con dei laici liberali.
Sono loro i primi ad essere ostili, come lo è sempre stata la cultura laica di sinistra, a ciò che Galli della Loggia va proponendo da decenni.
Più a fondo, se vuole dialogare, la modernità liberale deve darsi il compito nuovo, cui si è sottratta negli ultimi due secoli, di misurarsi sul cattolicesimo nella sua ingtegrità, che è anche la compiutezza del canone occidentale; non sulle sue semplificazioni modernizzanti.
Deve misurarsi su di un cristianesimo che è Tradizione e “confessio fidei” pubblica, con un patrimonio di fede determinato e fondante, non “liquido”, e con una gerarchia che presiede alla trasmissione e interpretazione autentica.
Deve misurarsi su enunciati di fede che sono enunciati di realtà, congeniali al “Logos” e non bei simboli e buoni sentimenti.
È naturalmente un impegno che si può desiderar di evitare, poiché esige un riesame critico della struttura profonda del paradigma liberale moderno.
Ma è l’unico impegno utile, e credo vitale, per il liberalismo presente e per il suo futuro.
Tutto il resto è già stato sperimentato, e nei laici delle correnti radicali ha come pietrificato obiettivi e convincimenti irreversibili.
La strada di Galli della Loggia e di altri è aperta e promettente, per tutti.
Ma dobbiamo tornare, nell’incontro tra laici e cattolici, sulla frattura moderna più insidiosa, che individuo nella “Lettera sulla tolleranza” di Locke.
Là dove si affianca, e di fatto si condiziona, la neutralità del magistrato al carattere congregazionale (“a free and voluntary society”) di una Chiesa e alla sua “innocuità” sociale, di cui il magistrato civile sarebbe giudice.
La Chiesa cattolica non è questo per essenza, né è riducibile a questo; né come mistero dell’incorporazione in Cristo (il dono trinitario della “historia salutis” non dipende davvero dalla nostra “libera volontà”), né come istituzione conforme alla sua originaria chiamata universalistica.
Non lo è stata quando ha innervato di sé l’Europa e l’Occidente, non lo è divenuta dopo Lutero o dopo Locke, né dopo la Rivoluzione francese o sotto la minaccia delle religioni politiche e delle rivoluzioni totali del Novecento.
Non lo è oggi, con un’evidenza tanto più forte quanto più alcuni sviluppi postconciliari volgerebbero, senza il saldo governo di Roma, verso “autonomie” congregazionalistiche e privatistiche.
Attenzione, dunque, al paradosso per cui i cattolici che dispiacciono a Galli della Loggia sono per l’appunto i cattolici più ratzingeriani e sono ad un tempo quelli che già hanno dialogato con i liberali.
Altri cattolici, i più “laici” ad esempio sul fronte della legislazione in materie bioetiche, non hanno interesse al dialogo da lui proposto.
Non si tratta del “fallimento” del dialogo; si tratta di capire che i cattolici con cui dialogare non possono essere dei neomodernisti; né si può accettare che la norma del credere sia un “bonum” sociale definito da altri (che è il significato autentico della “religione civile” di Locke e Rousseau).
Si tratta di capire, anche, che un certo attraente neomodernismo cristiano odierno non è liberale ma “laico” alla maniera delle grandi firme di “la Repubblica” e sostanzialmente invisibile nella sfera pubblica.
La “ratio” di un dialogo con esso è già risolta, dissolta.
È preferibile attraversare francamente il terreno indicato dal patriarca di Venezia, Angelo Scola, anche in questi giorni.
__________ Il giornale on line su cui Pietro De Marco ha pubblicato, con alcune varianti, la sua replica a Ernesto Galli della Loggia: > L’Occidentale __________ 23.2.2009 Due fatti recenti hanno riacceso la controversia sulla “laicità”, ossia sull’azione dei cristiani nella società civile.
Due fatti accomunati da un’identica questione, riguardante la vita umana “dal concepimento alla morte naturale”.
Il primo di questi fatti, apparentemente minore, è l’incontro al termine dell’udienza generale, tra Benedetto XVI e Nancy Pelosi speaker della camera dei rappresentanti degli Stati Uniti, e il secondo è la grande mobilitazione contro la morte di Eluana Englaro per sentenza di un tribunale.
La battaglia ha naturalmente portato a una fase acuta la polemica sulla “laicità”.
Da più parti si è accusata la Chiesa di prevaricare sulla libertà delle scelte individuali.
Ma non solo.
La polemica ha diviso anche il campo cattolico.
L’INCONTRO TRA LAICI E CATTOLICI Una stagione al tramonto di Ernesto Galli della Loggia Tutto sembra indicare che una stagione italiana sta finendo: la stagione che è andata sotto il nome di incontro o dialogo tra laici e cattolici.
Si capisce a quale stagione, a quale incontro mi riferisco: a quella che si aprì intorno agli inizi degli anni Novanta, nel momento della crisi della Prima Repubblica e con essa della Democrazia cristiana, del centro sinistra, ma anche del Partito comunista colpito a morte dalla fine dell’Urss, e che ricevette una spinta decisiva dall’attentato newyorkese dell’11 settembre.
Quegli eventi, nonché la sensazione più generale che si stesse chiudendo un’intera epoca storica, aprirono o catalizzarono una serie di interrogativi e di problemi riguardanti l’Italia e il mondo: immaginare una nuova collocazione e una nuova «missione» politica sia per i cattolici che per le forze laiche non attratte nell’ orbita del vecchio Partito comunista; elaborare l’avvicinarsi di una temperie culturale nuova aperta dai progressi impressionanti della tecnoscienza in settori quali l’ingegneria genetica; affrontare le inedite tensioni geopolitiche, vieppiù dominate da componenti fondamentalistiche, che sembravano imporre un ripensamento/rilancio della categoria di Occidente.
Dunque un dialogo tra laici e cattolici che però aveva poco a che fare con quello tradizionale della storia politica italiana, a suo tempo avviato dal Pci togliattiano, e proseguito per decenni, con la sinistra cattolica poi ribattezzata con il nome di «cattolicesimo democratico».
Diversi i contenuti, ancora più diversi i protagonisti.
I risultati non sono mancati: soprattutto, direi, la nascita di quotidiani, riviste, libri, iniziative culturali varie, dove, per la prima volta in modo così continuo e sistematico nella storia italiana, la tradizione liberale e il cristianesimo cattolico hanno intrecciato analisi, rilevato coincidenze e scambiato punti di vista; dove si sono stabiliti importanti rapporti e consuetudini anche personali.
Da tempo però tutto sembra avviato verso una ripetitività sempre più stanca, i contenuti non si rinnovano, non si aggiungono energie nuove mentre all’opposto si sommano nuove ostilità.
E mentre continua ad apparire sempre assai lontano, quasi irraggiungibile, il traguardo della nascita nel nostro Paese di una cultura civica capace di coniugare quotidianamente, senza contrasti ultimativi, una dimensione pubblica della religione e un ethos democratico condiviso.
Qui mi limiterò a indicare alcuni motivi che a mio giudizio hanno reso sempre più difficile e sempre meno produttivo il dialogo di cui sto dicendo.
Innanzi tutto tale dialogo, che aveva una natura sostanzialmente culturale (anche se con possibili, evidenti, conseguenze politiche), si è trovato fortemente squilibrato per la scarsissima presenza in campo cattolico di un’opinione pubblica colta non orientata a sinistra.
Sul versante cattolico i pochi interlocutori disponibili sono stati perlopiù figure di giovani intellettuali, quasi sempre cresciuti nei movimenti, e alcuni di quegli stessi movimenti (penso specialmente a Comunione e Liberazione).
Dominati tuttavia, gli uni e gli altri, da un fortissimo spirito di parte, orientati a un forte radicalismo, pronti assai spesso a perdere repentinamente interesse, e magari a guardare con sospetto, proprio coloro dell’altro campo con i quali fino al giorno prima si erano trovati a discutere insieme.
E’ accaduto così che il dialogo ha finito per vedere protagonisti, da parte cattolica, soprattutto gli esponenti della gerarchia, la Chiesa.
Molti prelati vi hanno visto un’occasione, nel caso migliore per uscire dal proprio ruolo intellettualmente non troppo appagante, nel caso peggiore per mettersi in mostra, per acquistare un’immagine pubblica di maggior rilievo.
Ne sono derivate due conseguenze negative intrecciate insieme.
Che l’incontro tra laici e cattolici, non avendo visto alcun impegno di parti significative del laicato cattolico, non ha potuto ricevere l’apporto di energie culturali vaste e profonde che non fossero quelle di qualche vescovo o cardinale (pochi per la verità, ben pochi!).
Con il che, però, esso è divenuto di fatto un incontro con la Chiesa, caricandosi in tal modo di un significato immediatamente e inevitabilmente politico, o comunque potendo facilmente essere così etichettato.
E dunque facilmente suscitando, da parte dei laici intransigenti e della sinistra, un fuoco d’interdizione rivelatosi alla fine efficace.
Il ruolo assunto dalla Chiesa ha evidenziato un ulteriore fattore negativo.
Ha infatti reso ancora più chiara l’autoreferenzialità con la quale il mondo cattolico è abituato da un paio di secoli a improntare il suo rapporto con chi non ne fa parte storicamente, e che nel caso dell’organizzazione ecclesiastica raggiunge l’apice.
Autoreferenzialità significa difficoltà di stabilire rapporti realmente paritari con chi è fuori da quel mondo, difficoltà di farsi persuaso che perché ci sia una reale interlocuzione con chiunque è necessario dare nella stessa misura in cui si riceve, non lesinare riconoscimento e visibilità, capire che se si vogliono conseguire obiettivi di rilievo non si può prendere come bussola solo se stessi, solo il proprio immediato tornaconto.
E’ così accaduto tante volte, per esempio, che pur mostrandosi molto interessata al dialogo con i laici di orientamento liberale la Chiesa e i suoi esponenti fossero pronti, però, con lo stesso interesse (anzi assai spesso di più), a incontrarsi con i più aspri avversari di quelli, con quei laici intransigenti che magari vituperavano gli altri proprio a causa — colmo dei paradossi — del dialogo da essi intrattenuto con il mondo cattolico: fossero pronti a invitarli, a scrivere sui loro giornali, a chiederne la collaborazione.
Forse qualcuno potrebbe giudicare tutto ciò una manifestazione di quella malizia e spregiudicatezza talvolta considerate proprie della più sofisticata abilità politica.
Sono convinto del contrario.
A ben vedere, infatti, l’autoreferenzialità — di cui tanto spesso la Chiesa e il suo mondo ancora non riescono a liberarsi, e che è emersa con chiarezza nel dialogo con i laici interessati ad avviare un rapporto nuovo con il cattolicesimo — non è che la conseguenza della separatezza a cui la vicenda storica ha costretto la Chiesa stessa insieme al retroterra sociale che fa capo ad essa.
Una separatezza che costituisce un grave ostacolo proprio rispetto alla possibilità di fare politica davvero, cioè di avere una visione strategica, di fare scelte nette e conseguenti, di scegliere chi sono i propri amici culturali e chi no, magari perfino di farsi arricchire da essi (non oso dire cambiare).
E’ su questi scogli che il dialogo tra laici e cattolici si è incagliato e forse sta naufragando.
Di sicuro non sarà qualche progetto di legge disposto a recepire per intero il punto di vista della Santa Sede che cambierà le cose.
EDITORIALE DEL “CORRIERE DELLA SERA” DEL 15 FEBBRAIO 2009
Numeri e fede/7: L’infinito è logico? L’aritmetica dice di sì
La matematica permette di indagare con successo gli aspetti logico- razionali della realtà.
«Offre alla scienza il modo di scoprire, ad ogni passo, straordinarie strutture logiche nell’universo, che fanno luce su armonie inattese e mostrano legami profondi fra fatti e fenomeni che a volte ci sembrano del tutto estranei fra loro.
Chi crede, chi ha già fatto qualche passo nel cammino della fede, non trova contrasto fra questi risultati scientifici e la propria fede, ma anzi un’armonica, bellissima consonanza.
La matematica ci costringe ad alzare lo sguardo: per ogni problema ci fa cercare una logica che lo inquadri e ne renda conto.
E questo porta a prospettive impreviste e sempre più elevate» .
È il pensiero del professor Antonio Marino, ordinario di Analisi matematica all’Università di Pisa.
Marino si rifà a Ennio De Giorgi, uno fra i maggiori matematici del ’ 900.
De Giorgi aveva messo in risalto uno degli aspetti più sorprendenti della scienza di Pitagora e di Euclide: «… per studiare le cose più concrete, bisogna passare attraverso la riflessione su concetti che sembrano superare la nostra esperienza sensibile».
L’intervista Tramite la matematica, dunque, la scienza ci può spiegare l’Universo? «La matematica è lo strumento logico che permette di studiare ‘ come’ si svolgono certi fenomeni.
Quando si dice che la Scienza spiega il “come” e il “perché” delle cose, bisogna stare attenti ai termini: in sintesi la scienza dice il “come” ma non il “perché”.
Per fare un esempio, consideriamo la forza di gravità: alla base dell’analisi scientifica classica dei fenomeni che riconduciamo al concetto di forza di gravità, abbiamo la legge di gravitazione universale e la legge fondamentale della dinamica newtoniana.
Entrambe sono formulate in termini matematici, anzi Isaac Newton inventò apposta – a modo suo e in concorrenza con Pierre Simon de Laplace – gli elementi fondamentali di quello che chiamiamo ‘ calcolo differenziale’, senza il quale le leggi della dinamica non possono essere espresse e direi nemmeno pensate».
Che cosa ci dice questo esempio? «Anzitutto il fenomeno che consideriamo ha una struttura logico- razionale che ci permette di studiarlo, così razionale da essere esprimibile solo in termini matematici.
In secondo luogo, grazie a questa analisi fisicomatematica, possiamo dire “come” si comportano due corpi “dotati di massa” esposti alla reciproca attrazione ( il Sole e la Terra o la Terra e una mela, come quella mitica che sarebbe caduta sulla testa di Newton).
La scienza ci dice “come”, con quali leggi, certi fenomeni si svolgono, almeno dal punto di vista che lo scienziato di volta in volta si propone.
E quelle leggi, esprimibili solo in formule logicomatematiche, permettono alla scienza di svolgere un suo compito essenziale: fare previsioni, a volte deterministiche a volte solo probabilistiche.
In questo senso diciamo che la scienza “spiega”».
Ed è sufficiente? «La scienza getta sguardi luminosi sull’universo.
A volte è in grado di ricondurre tante leggi particolari ad una più semplice legge generale.
E questo è un altro bellissimo scorcio sulla razionalità del creato.
Ma il problema del vero “perché” resta: perché Terra e Sole si attraggono? Cioè, perché esiste quella legge fisica? Perché esistono le leggi fisiche? O se si vuole: perché è possibile organizzare parti della nostra conoscenza in formule logiche senza le quali gli oggetti stessi non sono nemmeno concepibili? Questa domanda è filosofica e non ammette risposte scientifiche, non nel senso rigoroso della scienza di oggi.
Tanto meno trova risposte definitive sul piano strettamente logico perché ogni sistema logico parte da assiomi “ragionevoli” ma non dimostrati.
La risposta dipende della proprie inclinazioni.
Si può ad esempio dire che quella razionalità la inventiamo noi ma non c’è davvero, o altre cose, ma non si tratta di affermazioni scientifiche.
Qualcuno dice che è inutile porsi domande alle quali non è possibile rispondere».
E come risponde chi crede? «Trova completa armonia fra la propria fede e il fatto che la mente umana possa cogliere la razionalità nel creato, dato che li pensa entrambi frutto di quello che potremmo chiamare il pensiero creatore di Dio.
Direi che in questo universo logico sembra di scorgere un aspetto del Logos che pervade il creato, qualcosa dell’intelligenza del linguaggio, del Verbo: quell’armonia logica che si scopre nello studio di un problema e conduce poi essa stessa a fare nuove congetture e nuove scoperte.
Ma mi sento di dire che tutti gli studiosi, di qualunque credo o cultura, sono accomunati dalla meraviglia per l’orizzonte scientifico che loro si prospetta, e avvertono il senso di una comune impresa.
Nell’ambito scientifico non trovano posto contrapposizioni filosofiche o religiose».
La matematica fa uso del concetto di infinito nella pratica quotidiana.
Come le riesce possibile? «La matematica fa un uso quasi costante dell’insieme infinito dei numeri.
Il calcolo differenziale e il calcolo integrale ( il “calcolo infinitesimale”) sono fondati sull’intero insieme infinito dei numeri.
Ora gli studi sull’infinito matematico hanno portato a scoperte assai sorprendenti, che sembrano contrastare il senso comune, fra i quali un incredibile risultato: in parole assai grossolane, quale che sia il nostro progresso, l’insieme infinito dei numeri naturali ( 0,1,2, …
) mantiene e manterrà sempre qualcosa che non possiamo compiutamente esprimere in modo formale.
Eppure la matematica si fonda sull’uso di questo infinito».
È questa la risposta all’enigma? «La risposta è solo una ragionevole fiducia.
In questo campo come in tutta la scienza.
Ogni studioso compie un atto di fiducia a priori: egli studia un qualche aspetto dell’universo, fidando in un’organizzazione razionale della natura, in un suo modo di essere esprimibile con delle leggi, e anche nutrendo fiducia nella capacità di conoscere dell’uomo.
È un altro elemento di un comune percorso, nel quale sono coinvolte non solo le qualità strettamente logico- razionali dello studioso, ma altre, forse tutte, le facoltà del suo essere persona pensante».
di Luigi Dell’Aglio
“Cristo nostra Pasqua”
Pubblicato il sussidio liturgico-pastorale per il periodo di Quaresima-Pasqua 2009 degli Uffici e Servizi pastorali e degli organismi collegati della CEI.
Il titolo è “Cristo nostra Pasqua” (1Cor 5,7).
Il sussidio, edito dalla San Paolo, è disponibile in tutte le librerie cattoliche e si apre con la presentazione di S.E.
Mons.
Mariano Crociata, Segretario Generale della CEI.
“Anno dopo anno, il cammino quaresimale viene a chiederci di rivolgere il nostro pensiero a ciò che è davvero essenziale – spiega il Segretario generale della CEI -.
Ecco quindi l’invito alla preghiera e alla carità, l’appello alla conversione e al digiuno dalle cose che appesantiscono il nostro procedere.
Ma tutto ciò è la vita, non la meta.
L’orizzonte, che rende lieto anche un tempo di purificazione qual è la Quaresima, è tutto nelle parole di San Paolo messe nel titolo del sussidio”.
Proprio l’apostolo delle genti, del quale si celebra il bimillenario della nascita ha messo al centro della sua predicazione apostolica il mistero di passione, morte e risurrezione del Signore Gesù, “mistero sul quale si incentra la riflessione del credente particolarmente nei Tempi liturgici di Quaresima e Pasqua – spiega don Domenico Falco, direttore dell’Ufficio liturgico nazionale -.
Presentandosi alla comunità di Corinto, San Paolo afferma di non sapere altro in mezzo a loro “se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso” (1Cor 2,2), anche se la sua educazione farisaica e la sua cultura ellenistica lo rendono ben consapevole che la predicazione della croce “è scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani”(1Cor 1,23)”.
Scopo del Sussidio è offrire alle comunità cristiane (particolarmente ai parroci e ai loro diretti collaboratori) alcune indicazioni pastorali per vivere questo tempo forte dell’anno liturgico, con un riferimento anche all’Anno Paolino indetto dal Santo Padre.
Come già dallo scorso anno, la diffusione del Sussidio è stata affidata alla Periodici San Paolo.
La stessa Casa Editrice si è già preoccupata di inviare a tutti i parroci una comunicazione, dando indicazioni su eventuali prenotazioni di copie.
Il numero verde indicato per eventuali prenotazioni presso la Periodici San Paolo è 800.509645.
Allo stesso tempo, ci sembra utile informare che anche le Suore Pie Discepole hanno preparato una serie di posters per il tempo di Quaresima-Pasqua, corredato di sussidio.
Tra i contenuti del sussidio anche “la preghiera intorno alla mensa” e la testimonianza (preparata dalla Caritas Italiana).
Tornare al Concilio! A quello di Calcedonia del 451
Il testo che segue non è una recensione del libro “Chi ha paura del Vaticano II?”.
Prende però spunto dalla sua pubblicazione per esporre – nella forma di un dialogo – le questioni che la Chiesa di oggi si trova ad affrontare.
Come si vedrà, sono questioni di importanza capitale, che arrivano a toccare le fondamenta del Credo cristiano.
Questioni alle quali hanno dato risposta non solo il Vaticano II ma prima di esso i Concili cristologici dei primi secoli, di Nicea, di Efeso, di Calcedonia.
L’autore, Francesco Arzillo, 49 anni, romano, è magistrato amministrativo di rara competenza in filosofia e teologia.
Breve dialogo sul Concilio, tra un maestro e un allievo di Francesco Arzillo Il maestro (M.) è un professore di teologia sessantenne, moderatamente progressista, disposto a dialogare con tutti; si innervosisce solo con chi appare poco propenso a valorizzare appieno il Concilio della sua giovinezza, che gli ricorda, tra l’altro, i tumultuosi anni del seminario.
L’allievo (A.) è più giovane e non è un chierico; è un po’ irriverente, mai però verso il magistero ecclesiale; molti lo considerano un ultraconservatore; ma anche i tradizionalisti lo criticano perché consulta – anche se con cautela – gli scritti teologici di Henri de Lubac e difende sempre Giovanni XXIII e Paolo VI.
––––– M.
– Ciao! Sempre con un libro in mano.
Vediamo un po’ il tuo ultimo acquisto.
A.
– Eccolo: “Chi ha paura del Vaticano II?”, a cura di Alberto Melloni e Giuseppe Ruggieri.
M.
– Mi sorprendi.
Leggi Melloni e i teologi cattolico-progressisti da te sempre criticati.
Ho capito: il titolo del libro ha fatto leva sul tuo senso di colpa e vuoi espiare.
A.
– Maestro, vedo che non hai perso l’abitudine di sovrapporre la psicoanalisi alla teologia.
Io sensi di colpa non ne ho, almeno su questo punto.
Tu sai che ho sempre accettato con tutto il cuore il Vaticano II.
Come si può parlare oggi della Chiesa senza la “Lumen gentium”? O della Rivelazione divina senza la “Dei Verbum”? O della liturgia senza la “Sacrosanctum Concilium”? M.
– Allora dov’è il problema? A.
– Il problema è in questa interminabile disputa sul Concilio, in questo intricatissimo conflitto delle interpretazioni.
Certo, i saggi contenuti in questo libro sono assai raffinati, contengono spunti interessanti, si confrontano con le indicazioni di Benedetto XVI.
Però… M.
– Però? A.
– Essi mi richiamano alla mente – almeno in parte – ambienti, climi e luoghi comuni di quell’area cattolico-progressista che tende a fare del Concilio un mito.
Ma bada, non voglio etichettare gli autori, uso un indicatore idealtipico e orientativo.
M.
– La verità è che tu dici di accettare il Concilio, ma con una riserva mentale, perché critichi chi si batte per il Concilio.
A.
– Vedi che parli di una battaglia? Ecco, proprio questo è il punto, questa sovraeccitazione di alcuni durante e dopo il Concilio, questo clima di lotta continua, questa “agitation croissante aux alentours du Concile”: parole non mie ma del cardinale Henri de Lubac.
E poi questo modo di raccontarne la storia! La famosa “settimana nera”…
Ma che significa? Qual è il valore euristico di questa espressione? Nessuno! Se leggo le memorie di un aiutante di campo di Napoleone a Waterloo posso comprendere che parli di una “giornata nera”; ma da uno storico contemporaneo mi aspetto un tono più calmo, che mi faccia capire.
Ancora de Lubac, nel suo libro “Entretien autour de Vatican II” pubblicato nel 1985, parla di un “language historico-manichéen, qui sous un mode mineur s’est assez largement répandu”.
O non ti va più bene neppure de Lubac, del quale mi hai sempre parlato con sconfinata ammirazione? M.
– Una storiografia neutrale non esiste.
A.
– Sì, però occorre almeno essere pacati.
E comunque parlo di una sovraeccitazione che non è solo autobiografica e storiografica.
Ma è anche filosofica, oserei dire.
M.
– Cioè? A.
– Vedi, prendiamo ad esempio il problema dello “spirito” e della “lettera”.
M.
– Non mi tirare fuori la storia secondo cui i documenti conciliari andrebbero letti solo secondo la lettera! A.
– Perché vuoi banalizzare il discorso? È vero che la lettera va sempre tenuta in debito conto, ma non è comunque sufficiente per un’ermeneutica completa.
Su questo concordano il giurista romano Celso e san Paolo.
Il che mi basta.
M.
– E allora? A.
– Dipende da cosa intendiamo con “spirito”.
Qui entra in gioco la sovraeccitazione.
Prendi per esempio Hegel a Jena.
Era chiaramente sovraeccitato: in Napoleone vedeva la Storia che passa a cavallo…
Ricordi quel passo delle “Lezioni di Jena”, che non a caso è stato anche citato dal “negativista” Kojève quale esergo della sua “Introduzione alla lettura di Hegel”? Ricordi il tono? “Signori! Ci troviamo in un’epoca importante, in un fermento in cui lo Spirito ha fatto un passo in avanti.
Ha superato la sua precedente forma concreta e ne ha acquisita una nuova…”.
Ecco, quando io leggo certi teologi, certi storici di oggi, non posso fare a meno di pensare a quel tono lì.
M.
– Tu insinui, alludi e non concludi.
Non è mica questione di tono! A.
– Non sta a me dire fino a che punto si tratti soltanto di tono, o di legittima assunzione di spunti teoretici, o di cedimento alle logiche immanentistiche.
Ogni autore è diverso dall’altro.
M.
– Torniamo al Concilio.
Tu citi il giurista romano Celso, insisti sul testo, e trascuri l’evento.
A.
– Altra parola-chiave: l’evento.
Hegel? Heidegger? Pareyson? M.
– Ma lascia stare i filosofi! A.
– Non lascio stare niente! Voi teologi di oggi conoscete poco la filosofia, volete fare una teo-logia senza “logos”, a-filosofica o trans-filosofica.
Ma spesso è solo retorica.
E poi la cosa peggiore è quella di essere influenzati da Hegel senza neppure esserne consapevoli.
Se Hegel fosse qui tra noi sarebbe sorpreso dal gran numero di suoi discendenti intellettuali, di figli e figliastri… E comunque non sapete neppure scrivere i manuali.
È una fatica trovarne uno che non salti da San Tommaso a Rahner, omettendo tutto ciò che vi sta in mezzo! Oggi ci si può diplomare in teologia senza sapere pressoché nulla di Scoto, di Suarez, di Melchior Cano, del Caietano.
Prova a chiedere a dieci neodiplomati se abbiano mai sentito parlare di Scheeben, e dimmi se ne trovi più di un paio che ti rispondano affermativamente.
M.
– Ora stai esagerando.
A.
– Hai ragione.
Mi calmo.
M.
– L’evento! Pensa alla teologia, pensa alla “Dei Verbum”: Dio si rivela attraverso eventi e parole intimamente connessi tra loro…
A.
– Certo che penso alla teologia! Penso che la Rivelazione divina culmina in Cristo, nel quale Dio ci ha detto tutto.
Essa è compiuta, anche se non è ancora completamente esplicitata, come ricorda il Catechismo al paragrafo 66.
E poi al paragrafo 83: la tradizione “viene dagli Apostoli e trasmette ciò che costoro hanno ricevuto dall’insegnamento e dall’esempio e ciò che hanno appreso dallo Spirito Santo”.
Sarebbe erroneo pensare a un evoluzionismo storicistico.
Non è la realtà rivelata da Dio che si modifica o si evolve; è l’intelligenza credente che cresce approfondendosi.
Se questo è vero, l’Evento unico è Cristo, non esiste un’età dello Spirito che superi quella di Cristo.
M.
– Risparmiami la storia di Gioacchino da Fiore, per favore… A.
– E perché no? Se proprio vogliamo cercare un evento epocale pensiamo a san Francesco! Chi è stato più epocale di lui, per l’intero secondo millennio? Su questo potremmo essere d’accordo tutti, conservatori, progressisti, persino molti non credenti.
Però l’interpretazione di chi vedeva in Francesco l’inaugurazione dell’età dello Spirito fu giustamente respinta.
Francesco stesso ne sarebbe rimasto stupito, lui vedeva solo Cristo e la Trinità, in tutto.
M.
– Però la storiografia francescana è complessa.
Occorre tener conto della politica di san Bonaventura nel narrare la storia del fondatore… A.
– Ma quale politica! Già questo uso del termine, riferito a un ambito che un medievale non avrebbe mai qualificato come “politico”, mi dà fastidio, perché è frutto di una cattiva ermeneutica.
Si leggono gli eventi teologici, filosofici, giuridici di quel tempo con la lente del panpoliticismo moderno, si considera “politico” ogni ambito del reale.
Bel modo di calarsi in un’altra epoca, da parte di chi parla in continuazione di storia e di storicità! M.
– Insomma, dove vuoi andare a parare? A.
– Voglio solo dire che dobbiamo smetterla con questa storia dell’evento epocale.
Non esistono eventi epocali, a stretto rigore logico e teologico.
Quella dell’evento epocale rischia di essere solo una retorica buona per la “mobilitazione”, una forma di cripto-ideologia.
M.
– Ma cosa auspichi, l’eterno ritorno dell’identico? A.
– No.
Agostino ha dimostrato che la ciclicità pagana è superata per sempre.
Si tratta, piuttosto, di saper vedere l’Eterno nel tempo, che interseca un punto del tempo, “quel” punto del tempo, incarnandosi.
M.
– Tu torni indietro…
A.
– Torno alle fonti.
E alla Fonte.
M.
– Ma l’Evento unico rivive oggi o no? A.
– Esso è compiuto.
Il tempo è compiuto, vedi Marco 1, 15.
Anche se ne attendiamo la piena manifestazione.
M.
– E il Concilio Vaticano II? Ti aiuta o no nel cammino? A.
– Certo che mi aiuta! Esso però presuppone l’Evento unico e la sua definizione dogmatica irreversibilmente compiuta nei primi sette Concili ecumenici.
Capisci che non posso pensare a un evento che “de-calcedonizzi” Cristo – cioè gli tolga ciò che di lui è stato definito a Calcedonia – per inculturarlo nella modernità.
M.
– Ma nessuno vuole questo! A.
– Apparentemente quasi nessuno.
Certo non vuole questo il Vaticano II, che non ha inteso innovare la fede, come sostengono specularmente, con opposti scopi, le versioni estreme del tradizionalismo e del progressismo.
Mi chiedo però quanto arianesimo tendenziale e virtuale ci sia oggi in giro, quanto troppo ci si spinga a umanizzare Gesù.
Penso per esempio ai critici della “Dominus Iesus”, che nel 2000 ha dovuto richiamare l’abc della cristologia.
Mi chiedo: chi ha paura dei Concili di Nicea, di Efeso, di Calcedonia? M.
– Il tuo è un suggestivo espediente retorico.
Tu gerarchizzi i Concili per togliere vita in modo subdolo al Vaticano II.
A.
– No.
Però mi sembra che oggi siano in gioco i fondamenti della fede.
Gradirei quindi che si dia evidenza adeguata anche ai convegni su Nicea e su Calcedonia, invece di lasciarli a pochi specialisti eruditi.
M.
– Basta, sono stanco.
Torno a casa e leggo qualcosa dal mio libro più caro, il “Giornale dell’anima” di Angelo Giuseppe Roncalli.
A.
– Che coincidenza, lo sto leggendo anch’io…
__________ Il libro: “Chi ha paura del Vaticano II?”, a cura di Giuseppe Ruggieri e Alberto Melloni, Carocci, Roma, 2009, pp.
152, euro 16,50.
Chi ha paura del Vaticano II? Con questa domanda il teologo Giuseppe Ruggieri e lo storico del cristianesimo Alberto Melloni intitolano un volumetto a più voci da loro curato, uscito pochi giorni fa in Italia.
Il libro non è una novità.
È la ristampa del fascicolo 2 del 2007 di “Cristianesimo nella Storia”, la rivista dell’Istituto per le Scienze Religiose di Bologna, cioè del cenacolo di studiosi che – assieme a collaboratori di vari paesi – ha pubblicato la “Storia del Concilio Vaticano II” più letta al mondo, in cinque volumi completati nel 2001 ed editi in sette lingue.
Una “Storia” d’orientamento molto marcato, che interpreta il Concilio più come “evento epocale” che per i suoi documenti, più nello “spirito” che nella lettera, più come “nuovo inizio” che in continuità con la Chiesa precedente.
Oltre che Ruggieri e Melloni – l’unico ad aggiungere un nuovo capitolo ai testi già noti – gli altri autori del libro sono il francese Christoph Theobald, l’americano Joseph A.
Komonchak e il tedesco Peter Hünermann.
Nella prefazione, Ruggieri e Melloni negano che il libro sia un’apologia della “Storia” bolognese del Concilio Vaticano II.
Ma leggendolo si ricava proprio questo: che sono essi le eroiche sentinelle della giusta interpretazione del Concilio stesso; sono essi quelli che non ne hanno “paura” e ne preservano la vera “novità”; sono essi a fare ciò che neppure Benedetto XVI fa più: troppo cambiato rispetto al giovane Ratzinger che scriveva i discorsi esplosivi letti in Concilio dal cardinale Frings.
Per un’analisi dettagliata dei saggi contenuti nel volume, basta riandare al servizio che vi dedicò www.chiesa dopo che essi erano usciti sulla rivista “Cristianesimo nella Storia”: > Confermato: il Concilio fu “svolta epocale”.
La scuola di Bologna annette il papa (11.12.2007) Mentre l’interpretazione di papa Joseph Ratzinger del Concilio Vaticano II è quella da lui esposta nel memorabile discorso alla curia romana del 22 dicembre 2005: > “Svegliati, uomo…”
Numeri e Fede/6: Beata matematica
L’intervista al professor Maurizio Brunetti, I Faà di Bruno erano una famiglia di scienziati, di religiosi e di eroi.
Francesco era sacerdote, il fratello Giuseppe era un padre Pallottino e si dedicò alle missioni; quanto a Emilio, morì nella sua nave inabissata a Lissa.
«Il nome di Francesco Faà di Bruno è legato a notevoli contributi, soprattutto a un’elegante formula per il calcolo delle derivate di ordine superiore di una funzione composta.
La sua vita fu talmente avventurosa che se ne potrebbe ricavare un film: militare, musicista, architetto, ingegnere – nel 1856, commosso dalla condizione dei non vedenti, lo era anche la sorella Maria Luigia, progettò e brevettò uno scrittoio per ciechi – e, soprattutto, sacerdote e fondatore di un ordine religioso.
Faà di Bruno era stato allievo di Augustin Louis Cauchy, uno dei padri dell’analisi matematica, anche lui uomo di fede vissuta.
Fu infatti tra i fondatori de l’Association pour la Protection de la Religion Catholique e della Societé Catholique de Bons Livres.
Le opere scientifiche di Cauchy sono state raccolte in 27 volumi.
Un grande scienziato, ma anche un grande uomo che si spendeva in innumerevoli opere di carità e di apostolato culturale: “benché oberato da ogni sorta di occupazioni, trovava il tempo e l’animo per andare a visitare i poveri nei loro tuguri” racconta Faà di Bruno.
Il matematico francese aveva molto a cuore anche la santificazione delle feste: grazie alla sue pressioni, molti negozi furono costretti a chiudere nei giorni festivi permettendo così ai dipendenti di andare a Messa».
Non si parla mai di questi personaggi.
«Eppure sono eccezionalmente interessanti.
Penso al matematico svizzero Leonhard Euler, da noi noto come Eulero.
Di religione protestante, tutte le sere riuniva la numerosa famiglia e leggeva un capitolo della Bibbia.
Eulero racconta di aver compiuto molte delle sue scoperte mentre aveva un bambino in braccio e altri marmocchi che si rotolavano ai suoi piedi.
Matematici credenti sono arcinoti a ogni studente alle prese con gli esami di geometria e analisi matematica.
Per esempio, Jacques Binet, Charles Hermite e anche il boemo Bernard Bolzano, proprio quello del teorema Bolzano-Weierstrass, di cui si ricordano i tentativi per dimostrare logicamente che la religione cattolica – rivelata, e quindi depositaria di risposte alle questioni fondamentali – è quella perfetta, non solo fra le religioni che esistono, ma anche fra tutte quelle pensabili.
Per lui, la religione era “la quintessenza di tutte le verità che ci guidano alla virtù e alla felicità”».
Lei è credente? «Sono cresciuto in Alleanza Cattolica, nutrendomi della sua spiritualità ignaziana.
Il mio non è un caso isolato.
Secondo un’indagine condotta negli Usa, i matematici sono la categoria di scienziati in cui la percentuale di atei è più bassa.
Ma, se è vero che la scienza permette solo a volte di trovare Dio, è però certo che è stato Dio a far trovare all’uomo la scienza».
Questo perché la realtà è conoscibile? «Facciamo una considerazione.
Perché a Newton saltasse in mente di formulare un modello matematico per il moto di una mela che cade a terra, era necessario un presupposto certo: credere che una mela sarebbe sempre caduta con le stesse modalità, un minuto, un giorno o cento anni dopo.
È stato proprio questo presupposto sulla logicità del creato, che è condiviso solo dalle culture occidentali, a permettere alla scienza moderna di nascere e svilupparsi.
L’universo ha le sue leggi, non è capriccioso.
Storici della scienza come Edward Grant e Stanley Jaki hanno individuato nell’avvento del cristianesimo una condizione addirittura necessaria – e, col senno di poi, anche sufficiente – per la nascita della scienza moderna, quella cioè che tralascia ogni considerazione di natura non quantitativa, espungendo deduzioni di carattere filosofico e limitandosi a utilizzare gli strumenti della matematica per l’interpretazione dei dati sperimentali».
Una scienza che, quindi, nasce molto prima del secolo XVII e sboccia già nel Medioevo cristiano.
«La matematica, sia quella più astratta e simbolica, sia quella applicata alla fisica, prende il volo in epoche in cui la temperatura religiosa è alta.
L’algebra vide la luce tra l’ottavo e il nono secolo nel mondo islamico e, prima che prevalesse la prospettiva teo-filosofica dei mutakallimum – secondo cui l’enunciazione di una legge fisica sarebbe in contraddizione con l’onnipotenza di Allah -, furono anche pubblicati dei manuali di dinamica dei fluidi.
Nell’Europa medievale cristiana, appartenevano alla matematica due delle quattro discipline del quadrivium, cioè l’aritmetica e la geometria.
La nascita della scienza moderna va perciò anticipata almeno di qualche secolo.
Fino a poco tempo fa, se ne festeggiava il compleanno ricordando la pubblicazione nel 1687 dei Philosophiae Naturalis Principia Mathematica di Isaac Newton.
Certo, quest’opera è in tutti i sensi moderna.
Tuttavia Newton riconobbe, facendo proprio l’aforisma medievale di Bernardo di Chartres, di essere “un nano sulle spalle di giganti”.
Questi giganti, oggi, sono stati identificati: Giordano Nemorario, che nel secolo XIII aveva già formulato le leggi della statica; Nicola Oresme, che aveva risolto l’obiezione più forte contro l’ipotesi di una Terra in movimento; Giovanni Buridano, che formulò la nozione di “forza a distanza”, arrivata a Newton attraverso Alberto di Sassonia, Leonardo da Vinci, Giambattista Benedetti e Galileo Galilei».
Avvenire 9 Gennaio 2009 Luigi Dell’Aglio Una lista di grandissimi matematici della storia, che sono stati credenti in modo fervido e autentico.
Sono tanti, e di loro non si parla quasi mai.
Ecco la risposta argomentata e “sperimentale” che va data a chi dubita che si possa essere, al tempo stesso, matematici e credenti».
Il professor Maurizio Brunetti, matematico specializzatosi in Gran Bretagna e ora docente all’Università Federico II di Napoli, non si ferma a Ennio De Giorgi (1928-1996), genio e trascinante uomo di fede.
Brunetti risale agli ultimi tre secoli.
E va anche più indietro.
Nella lista non include Leibniz, Newton o Cartesio, che certamente non erano atei; nell’elenco iscrive invece quei matematici la cui fede attiva si esprimeva con scelte di vita che la rendevano particolarmente riconoscibile.
E colloca al primo posto il torinese Francesco Faà di Bruno (1825-1888), che la Chiesa ha proclamato beato nel 1988.