Aveva ragione Socrate, il filosofo impertinente, ammonendo gli scienziati con il suo «so di non sapere», che stupiva e irritava l’establishment ateniese.
Gli scienziati (e in particolare i matematici) di oggi se ne stanno rendendo conto, con una meraviglia crescente.
Il «so di non sapere» rappresenta per difetto il paradossale stato che oggi caratterizza la conoscenza scientifica.
«Man mano che andiamo avanti, scopriamo sempre più cose, ma quello che scopriamo veramente è quanto aumenti, di continuo, tutto ciò che non conosciamo » dice Mario Girardi, ordinario di Analisi matematica all’Università Roma Tre, dove è stato per 13 anni, fino a due mesi fa, preside di Facoltà (e da 40 anni pratica uno sport, il volo in aliante, che sembra una metafora della conoscenza).
Come se non bastasse l’ansia socratica, i ricercatori non riescono proprio a capire come mai la madre di tutte le scienze, la matematica, possa funzionare in modo rigoroso anche se non può dimostrare, con puri metodi logici o con metodi elementari, la propria coerenza scientifica (vedi Kurt Godel e il suo «teorema di incompletezza »).
L’intervista a Mario Girardi Professore, si può dire che più conosciamo e più diventa difficile raggiungere la verità scientifica, data la sua galoppante complessità? «La scienza moderna s’imbatte in un’infinità di problemi, ha una visione molto più ampia della complessità.
Appena conosciamo un pezzettino in più, ci si apre uno sterminato orizzonte di questioni che neanche immaginavamo.
Lo può notare qualsiasi scienziato.
Facciamo un esempio.
Prima che venisse studiato il genoma umano, nemmeno si sospettava l’enorme vastità dei problemi che avrebbe dischiuso.
Scoprire dove sono collocati i geni non vuol dire avere scoperto la fitta rete di interrelazioni tra i geni.
Nella matematica poi esistono questioni classiche, a volte molto semplici nella formulazione, la cui soluzione, quando si raggiunge, è molto complessa (si pensi al Teorema di Fermat).
Tutta questa complessità che ci circonda suscita meraviglia e va in parallelo con la profonda sorpresa che provano i matematici».
Ma perché alla matematica manca la solidità dei fondamenti? «Abbiamo una scienza matematica così bella, rigorosa sul piano formale, ma i suoi fondamenti non sono affatto solidi.
E tutto questo, secondo me, da un certo punto di vista è un’indicazione molto precisa della nostra insufficienza, cioè della necessità che ci sia un qualche altro substrato».
E quali sono i fondamenti? «Le regole della logica formale che garantiscono tutto, e la struttura di base dei numeri naturali.
Ora non c’è una dimostrazione logica o una dimostrazione matematica elementare che la teoria dei numeri naturali sia ‘coerente’.
Questo è un termine tecnico.
Si dice che una teoria è coerente quando non può dimostrare che sia vera un’affermazione e anche il suo contrario.
Viceversa una teoria incoerente vìola le leggi fondamentali della logica.
Accade se io posso dimostrare come vera sia la proposizione ‘A’ sia la negazione della proposizione ‘A’.
Si ha cioè incoerenza quando una teoria sostiene che una proposizione è vera ed è falsa.
Noi dovremmo riuscire a dimostrare, con la sola logica o con metodi matematici elementari, che la teoria dei numeri naturali, quelli che usiamo tutti i giorni, è coeren- te.
Ma, in virtù del teorema di Godel, non lo possiamo fare».
Eppure i numeri salvano vite, fanno correre i treni e volare gli aerei.
«Non è possibile dimostrare la coerenza della matematica, ma questa “funziona”, ha successo.
E la cosa è quasi incredibile, è una caratteristica straordinaria».
Ma è vero che, per essere bravi matematici, bisogna essere atei? «Ovviamente no.
La domanda è priva di senso (in termini più precisi, dovrei dire che è mal posta).
Chi abbina matematica e ateismo cerca di confondere i piani.
Non si limita ad affermare “So di non sapere”.
Fa una professione di fede a rovescio.
In proposito vorrei invece sottolineare che, a mio avviso, chiunque faccia scienza non può che rimanere sorpreso e stupefatto di fronte alla realtà da conoscere.
Nonostante le difficoltà e i problemi sui fondamenti, esistono tutta una serie di segnali, che non possiamo ignorare.
C’è da domandarsi: può essere soltanto un caso che tutto funzioni in questa maniera? Esistono una serie di indicazioni molto precise – segni, segnali e “puntatori” – sparse dovunque, che danno un altro significato a tutto quello che troviamo e vediamo.
Non ci danno certezze scientifiche: siamo stati lasciati liberi di poter interpretare, oppure no, questi segnali che ci circondano.
Ma basta sapersi guardare intorno».
I mass media attribuiscono grande valore scientifico all’esperimento in corso al Cern di Ginevra con il Large Hadron Collider.
L’obiettivo è trovare il bosone di Higgs, che il Nobel Leon Max Lederman ha definito «la particella di Dio».
Porterà a scoprire l’intima struttura della materia? «Direi che ormai abbiamo perso completamente l’idea che sia possibile conoscere l’intima struttura della realtà che ci circonda.
L’obiettivo dell’esperimento è la validazione di un modello che comprenda tutto quello che sappiamo, che abbiamo scoperto con un lungo percorso nell’ambito delle particelle elementari, che parte dalla fisica classica per proseguire con la relativistica e con quella quantistica.
Se verrà trovata questa particella finora mai osservata, si darà una sistemazione a tutto ciò che è noto fino ad ora sulla struttura della materia».
Non ci si spinge più in là? «Si unifica quello che si sa, ma poi si farà qualche altro passo avanti nella conoscenza e si scopriranno un abisso di cose in più che sono sconosciute.
Se nel super-acceleratore si riesce a dimostrare che quella particella esiste, allora vorrà dire che il modello standard (che mette insieme tutto ciò che si è appreso finora ) è un modello coerente.
Se non si scopre, siamo al punto di prima.
Stephen Hawking ha detto: “Come tutti gli scienziati, spero che si trovi il bosone di Higgs; Luigi Dell’Aglio
Categoria: IRC
Narrare la fede… coi gialli /2
“Ridere ci avvicina alla grazia di Dio” (Karl Barth) I Simpson fanno ridere, sono sarcastici, spesso irriverenti, talvolta cinici: si potrebbe quindi avere il dubbio che sia un rischio proporli nel nostro gruppo in parrocchia.
Certo, il buonsenso ci fa sottolineare una doverosa verità: i Simpson non sono un cartone animato per bambini, in quanto i vari tipi di comicità presenti potrebbero risultare per lo più incomprensibili o addirittura urtare la sensibilità dei più piccoli.
Ma un giovane delle superiori possiede già diverse chiavi con cui poter affrontare una rilettura di certe battute e, forte della comicità –spesso contorta– di altri programmi che già segue, possiede gli strumenti per cogliere le sfumature più sottili e ha l’esperienza per carpire certi riferimenti e allusioni, andando oltre la semplice gag.
Inoltre, al di là di quello che comunemente si pensa, la volgarità non è così frequente in questa serie animata e anche per quanto concerne il turpiloquio, solamente in alcune (pochissime) puntate c’è qualche parola che va oltre le righe.
Nei Simpson c’è una satira molto stratificata: si va dalla semplice scenetta con “botta e risposta”, alle parodie di altre serie tv o programmi (alcune a dire il vero per noi incomprensibili, in quanto riferite al palinsesto statunitense), ci sono le allusioni alla cultura alta come a quella popolare e poi doppi sensi, umorismo autoreferenziale, battute che più che ridere fanno sorridere e pensare…
tutte comicità che accendono la mente degli spettatori e che riescono a sintonizzarsi molto bene col linguaggio dei giovani (anch’esso oggi fatto di riferimenti, battute, allusioni…).
E poi spesso una battuta resta molto più impressa nella mente di qualsiasi discorso “serio”: se si ride si sta bene e si sta bene e più facile ascoltare, dialogare, aprirsi.
Allora simpsonizziamoci e parliamo di fede In realtà l’idea di utilizzare questo cartone animato come strumento per parlare di Dio non è nuova: su internet –e non solo– se ne sta discutendo già da diverso tempo e vi sono accreditati sostenitori della tesi che dietro i Simpson ci sia una vera e propria teologia, ossia un modo di condurre l’argomento “Dio e gli uomini” con una serie di tecniche e linguaggi propri del pubblico che li sta osservando.
Questo cartoon ha una valida struttura portante che merita di essere ripresa per qualche riflessione: a riprova di questo fatto abbiamo diversi testi usciti in questi ultimi anni nelle librerie, come “Da Bart a Barth: per una teologia all’altezza dei Simpson” di Brunetto Salvarani, ma anche “I Simpson e la filosofia”, traduzione di un testo pubblicato negli States.
Qualche consiglio su come poter utilizzare questo strumento: Guardiamoci innanzitutto la puntata (20 minuti) per conto nostro: non da subito con gli occhi dell’educatore che deve riproporla ai ragazzi; inizialmente godiamocela per quello che è…
poi ne trarremo le conclusioni e penseremo a come proporla, come giocarla per poi ricavarne eventualmente un’attività.
Ci sono delle affinità di pensiero/comportamento tra alcuni dei personaggi della puntata e i nostri giovani? Un’attività semplice e lineare è quella di proporre la puntata (o lo stralcio di puntata) e, al termine, avviare una discussione nel gruppo.
Ma si potrebbe anche partire dal brano del Vangelo o da una “situazione tipo” e chiedersi come avrebbero commentato la scena i vari Simpson se si fossero trovati a passare di là.
(Un Homer come avrebbe reagito all’invito di Gesù di gettare le reti e seguirlo)? Questo naturalmente richiede una buona conoscenza della serie tv da parte dei ragazzi e degli animatori.
Tutti i “d’oh!” che ci frullano in testa.
Pensiamo al nostro rapporto con Dio, al cammino di fede, alle incoerenze, alle cadute di un Pietro che rinnega il maestro dopo averlo tanto osannato…
Diamo ai ragazzi una serie di fumetti con la scritta “d’oh!” e chiediamo loro di scrivere sul retro situazioni di contraddizione che hanno sperimentato su sé stessi nel contesto della fede.
Affrontiamo i temi e gli stati d’animo che emergono da un brano del Vangelo chiedendo ai ragazzi se trovano dei riscontri in una puntata del cartone animato.
Bibliografia: – Irwin William H., Conard Mark T.
e Skoble Aeon J.
, “I Simpson e la filosofia”, Isbn Edizioni, 2005.
– Salvarani Brunetto, “Da Bart a Barth.
Per una teologia all’altezza dei Simpson”, Claudiana (collana “Nostro tempo”), 2008.
– Salvarani Brunetto, “Dio, Homer e la ciambella”, rivista Jesus, Anno XXX, num.
2, febbraio 2008.
– www.thesimpson.it Qualche consiglio su come poter utilizzare questo strumento: Guardiamoci innanzitutto la puntata (20 minuti) per conto nostro: non da subito con gli occhi dell’educatore che deve riproporla ai ragazzi; inizialmente godiamocela per quello che è…
poi ne trarremo le conclusioni e penseremo a come proporla, come giocarla per poi ricavarne eventualmente un’attività.
Ci sono delle affinità di pensiero/comportamento tra alcuni dei personaggi della puntata e i nostri giovani? Un’attività semplice e lineare è quella di proporre la puntata (o lo stralcio di puntata) e, al termine, avviare una discussione nel gruppo.
Ma si potrebbe anche partire dal brano del Vangelo o da una “situazione tipo” e chiedersi come avrebbero commentato la scena i vari Simpson se si fossero trovati a passare di là.
(Un Homer come avrebbe reagito all’invito di Gesù di gettare le reti e seguirlo)? Questo naturalmente richiede una buona conoscenza della serie tv da parte dei ragazzi e degli animatori.
Tutti i “d’oh!” che ci frullano in testa.
Pensiamo al nostro rapporto con Dio, al cammino di fede, alle incoerenze, alle cadute di un Pietro che rinnega il maestro dopo averlo tanto osannato…
Diamo ai ragazzi una serie di fumetti con la scritta “d’oh!” e chiediamo loro di scrivere sul retro situazioni di contraddizione che hanno sperimentato su sé stessi nel contesto della fede.
Affrontiamo i temi e gli stati d’animo che emergono da un brano del Vangelo chiedendo ai ragazzi se trovano dei riscontri in una puntata del cartone animato.
Allora simpsonizziamoci e parliamo di fede In realtà l’idea di utilizzare questo cartone animato come strumento per parlare di Dio non è nuova: su internet –e non solo– se ne sta discutendo già da diverso tempo e vi sono accreditati sostenitori della tesi che dietro i Simpson ci sia una vera e propria teologia, ossia un modo di condurre l’argomento “Dio e gli uomini” con una serie di tecniche e linguaggi propri del pubblico che li sta osservando.
Questo cartoon ha una valida struttura portante che merita di essere ripresa per qualche riflessione: a riprova di questo fatto abbiamo diversi testi usciti in questi ultimi anni nelle librerie, come “Da Bart a Barth: per una teologia all’altezza dei Simpson” di Brunetto Salvarani, ma anche “I Simpson e la filosofia”, traduzione di un testo pubblicato negli States.
Bibliografia: – Irwin William H., Conard Mark T.
e Skoble Aeon J.
, “I Simpson e la filosofia”, Isbn Edizioni, 2005.
– Salvarani Brunetto, “Da Bart a Barth.
Per una teologia all’altezza dei Simpson”, Claudiana (collana “Nostro tempo”), 2008.
– Salvarani Brunetto, “Dio, Homer e la ciambella”, rivista Jesus, Anno XXX, num.
2, febbraio 2008.
– www.thesimpson.it
Classe prima – Aprile
Seconda fase dell’attività a) L’insegnante propone agli allievi le seguenti attività, seguite dal confronto tra loro e dalle sue conclusioni.
– Confronta le “visioni di Dio” ebraica e islamica: quali sono gli aspetti comuni e quali le divergenze? – Leggi i brani biblici della “storia dei Patriarchi” riguardanti: · la chiamata di Abramo (Gn 12,1-9) e il suo incontro con gli angeli (Gn 18,1-10); · la “ scala” e la “lotta con l’angelo” di Giacobbe (Gn 28,10-12; Gn 32,23-29); · la storia di Giuseppe (Gn 41).
Rispondi.
Quali comportamenti di Dio corrispondono a quelli evidenziati nel primo testo-guida? Per l’inserimento dell’argomento in Unità di Apprendimento articolate, vedere Tiziana Chiamberlando, Sentinelle del Mattino, SEI, Volume per il biennio e Guida.
Unità di Lavoro di approfondimento storico-biblico-teologico Prima parte OSA di riferimento Conoscenze – Ricerca umana e Rivelazione di Dio nella storia: il cristianesimo a confronto con l’ebraismo e le altre religioni.
– Il libro della Bibbia, documento storico-culturale e Parola di Dio.
Abilità – Evidenziare gli elementi specifici della dottrina, del culto e dell’etica delle altre religioni, in particolare dell’ebraismo e dell’islam.
– Individuare il messaggio centrale di alcuni testi biblici, utilizzando informazioni storico-letterarie e seguendo metodi diversi di lettura.
– Riconoscere le caratteristiche della salvezza attuata da Gesù in rapporto ai bisogni e alle attese dell’uomo.
Obiettivi Formativi ipotizzabili Conoscenze e abilità – Conoscere e saper descrivere “il volto di Dio” secondo ebrei, musulmani e cristiani, evidenziando aspetti comuni ed eventuali divergenze.
– Individuare il messaggio centrale di testi biblici inerenti l’argomento trattato.
Competenze di riferimento dell’allievo in prospettiva triennale – Possedere essenziali conoscenze bibliche, storiche e dottrinali inerenti il cristianesimo, soprattutto sulla base della tradizione cattolica.
– Sapersi esprimere nell’ambito del linguaggio specifico.
– Saper cogliere i messaggi fondamentali di passi biblici basilari.
1) Il Dio di Israele: nessuno come Lui Ai tempi dell’Antica Alleanza tra Dio e uomo narrata nell’Antico Testamento, gli ebrei, circondati da popoli politeisti e dediti alla magia, cominciarono a credere, a partire dall’epoca dei Patriarchi, in un Dio che si rivelò unico, Onnipotente, presente nella vita della comunità e degli individui…
senza paragoni presso le antiche civiltà.
In quali modi descriverlo? Gli israeliti non avrebbero potuto descrivere Dio con concetti astratti, assenti nella loro forma mentale; non pretesero di capirne la sostanza, “di cosa fosse fatto”: ne compresero i comportamenti.
Come si conosce un musicista dalle composizioni, conobbero e definirono Dio considerando soprattutto i risultati del suo agire nell’esistenza umana.
– Il Dio di Israele è invisibile: qualsiasi tentativo di raffigurarlo sarebbe per gli ebrei una “riduzione” che lo renderebbe simile agli antichi idoli del politeismo.
– È soprannaturale: al di sopra della natura, suo creatore, non parte di essa.
Dio può essere paragonato a forze naturali in modo soltanto simbolico: «Il Signore, vostro Dio, è come un fuoco che divora….» (Dt 4,24) – È il Dio dell’Alleanza e della Salvezza, un Dio-persona con un’identità precisa, con cui è possibile comunicare; si relaziona attraverso le promesse mantenute, rivela gradualmente all’uomo il proprio volto e il senso della vita attraverso parole profetiche ed eventi.
A partire dall’epoca dei Patriarchi, con Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe Dio si rivela all’uomo (Egli “parla”), si fa conoscere essenzialmente come Colui che chiama all’esistenza e al rapporto con Lui per amore, che desidera un’Alleanza in cui mette in gioco il desiderio di “salvare” l’uomo, proponendo obiettivi da raggiungere all’interno di un grande Progetto, partendo dal piccolo popolo ebraico (dono del figlio ad Abramo, della patria al popolo).
In cambio, Egli chiede la fede-fiducia totale, l’accettazione della sua volontà di bene.
Già nell’Alleanza con Adamo è simboleggiato il suo chiamare ogni singolo essere umano alla vita, alla somiglianza con Lui (Gn 2,5-7)…
Al Sinai, con Mosé, nell’Alleanza Egli mette in gioco il dono di nuove vie, quelle del Decalogo, per rivoluzionare il rapporto con se stessi, gli altri, Lui…
La Legge riflette le qualità di Dio: santità, giustizia, bontà.
– È un Dio-Provvidenza per l’intera umanità.
I termini consegnati a Mosé, “Io sono” e “Io sono Colui che è”, indicano un Dio immutabile e fedele, sempre attivo nel sostenere gli uomini (Es 9,1-15).
«Ti proteggerò dovunque andrai», dice Dio a Giacobbe.
Liberati dalla schiavitù d’Egitto, gli israeliti vengono dissetati, nutriti e continuamente salvati durante il loro peregrinare in terre selvagge…
Nonostante i loro tradimenti dell’Alleanza, Dio si comporta come un Genitore che non abbandona il figlio scapestrato, come lo sposo fedele del profeta Osea, che perdona le infedeltà…
Gli stanno a cuore le vicende e le esigenze del popolo e degli individui, uno per uno.
«Sei stato un rifugio per il debole, un sostegno per il povero nell’angoscia, un riparo contro la tempesta, un’ombra contro il calore infuocato del giorno» (Is 25,4).
Scelti da Dio per primi, gli ebrei talvolta non si accorsero dell’ampiezza del suo progetto: se ne accorsero i Profeti, che parlarono di Lui come del Dio di tutti gli uomini.
– È un Dio grande ed è la forza e la perfezione del bene e della giustizia.
All’epoca di Davide e Salomone, un nuovo senso della grandezza di Dio traspare dal tempio e dalla liturgia, soprattutto nei Salmi: Egli è “il Dio potente” e ciò viene proclamato con esultanza: «Il Signore è re! Terra, rallegrati! Gioite, o isole dei mari!» La grandezza dei re terreni è vista come un pallido riflesso della sua grandezza.
Il suo potere è inteso, nei Salmi, come un’immensa forza di bene: Egli “è” Bene, “è” Verità.
– È il Dio del cammino: conduce la storia dei singoli e delle comunità a un risultato di salvezza, proponendo un percorso.
– È un Dio che affida missioni a individui e gruppi, che “lavora con l’uomo”.
– È un Dio educatore, talvolta severo nel consentire prove e difficoltà come mezzi per maturare (per esempio, l’esilio di cinquant’anni in Babilonia…) e per scoprire i valori autentici.
Con il tempo e l’evoluzione del pensiero, gli ebrei avrebbero considerato in quest’ottica anche le punizioni e le sconfitte subite dai loro nemici, abbandonando l’idea di un Dio vendicatore alla maniera umana: pensiamo alle “dieci piaghe d’Egitto”…
Nell’attuale ebraismo, l’uomo di fede si sente…
nella stessa situazione di Abramo: è in ascolto dell’Unico Dio e vive nella speranza di un definitivo trionfo della giustizia e della pace, legato soprattutto alla venuta di un Messia: gli ebrei non hanno riconosciuto Gesù come tale e lo aspettano ancora.
Prima fase dell’attività L’insegnante presenta i “testi-guida” riguardanti l’Antico Testamento e il pensiero islamico.
2) Dio nell’islam «In nome di Allah, il Compassionevole, il Misericordioso…» La parola “Allah” è il riflesso dell’unico concetto che l’islam associ a Dio.
È un termine indeclinabile, senza plurale o genere, inapplicabile a qualsiasi altra entità.
Per un musulmano, Allah è l’Onnipotente, il Creatore e il Sostenitore dell’universo, niente è simile a Lui e nessuno è paragonabile a Lui: nei 114 capitoli del Corano, viene anche continuamente ricordata la sua misericordia.
In uno dei detti del profeta Maometto, si dice: «Dio è più misericordioso verso i suoi servitori di una madre verso l’amato figlio».
Tuttavia, Dio è anche il Giusto: nella vita dopo la morte, i peccatori devono avere la punizione che spetta loro e i virtuosi la legittima ricompensa, in seguito a un inflessibile giudizio di Allah.
– Dio è eterno, autosufficiente, Colui che “si prende cura”.
«Non c’è animale sulla terra, cui Allah non provveda il cibo: Egli riconosce la sua tana e il suo rifugio, perché tutto è scritto nel Libro chiarissimo» (Corano 11,6).
La natura del Creatore deve essere diversa da quella della creatura; nulla è simile a Lui.
Oltre a creare, Dio “conserva” ciò che crea.
– Dio vuole «la fede del cuore, dimostrata negli atti» (Maometto); vuole la gratitudine, che è la migliore forma dell’adorazione.
Abramo è un esempio perfetto di fedele che seppe abbandonarsi alla volontà di Dio.
Per quanto riguarda Gesù, i musulmani affermano, in contrasto con il cristianesimo, che Dio «non ha generato»: essi rifiutano il concetto di “Trinità”, ritenendolo in contraddizione con una visione religiosa monoteista.
Tuttavia, ritengono Gesù il più grande profeta escluso Maometto; la Vergine Maria è onorata come la Benedetta e rappresenta un modello di comportamento per le persone di fede.
L’islam accetta l’annunciazione angelica e la nascita miracolosa di Gesù; i musulmani ritengono i suoi miracoli reali e voluti da Dio e ritengono ispirata la sua predicazione; non lo accettano come Figlio di Dio, Dio e Uomo, né accettano la resurrezione: ritengono addirittura che un altro uomo sia morto sulla croce al posto di Gesù.
Il 91% degli alunni sceglie l’ora di religione
Avvenire, il quotidiano della CEI, riporta i dati del 2007-2008 relativi al numero di studenti italiani che si avvalgono dell’insegnamento della religione cattolica.
“Con la crescita della presenza di studenti con cittadinanza non italiana – osserva il quotidiano cattolico – il dato totale di chi sceglie l’Irc registra una costante erosione complessiva, pur rimanendo su livelli elevatissimi”.
Nelle scuole dell’infanzia la percentuale di bambini che si avvalgono dell’insegnamento della religione cattolica è pari al 94,1%; nella scuola primaria è addirittura del 94,6%.
Gli studenti della secondaria di I grado se ne avvalgono nel 92,7% dei casi, ma quelli delle superiori optano, più degli altri, per soluzioni alternative, tanto che mediamente solo l’84,5% sceglie l’ora di religione (nei professionali la media scende all’82,9%).
La percentuale più bassa di studenti degli istituti superiori che scelgono religione è imputabile – secondo Avvenire – a diversi fattori, tra cui l’assenza di una vera e propria ora alternativa e un carico orario maggiore.
Sono ipotesi, queste ultime, che, a nostro avviso, dovrebbero invece rinforzare anziché indebolire la scelta della religione.
Il quotidiano cattolico, oltre a riportate in via esclusiva i dati (che non possiede nemmeno il Miur) sugli studenti che scelgono l’insegnamento della religione, raccoglie una serie di episodi dai quali si ricava un generale rapporto poco sereno dei docenti nei confronti del collega di religione, spesso vittima di pregiudizi.
Gli insegnanti denunciano, secondo Avvenire, una campagna ostile nei loro confronti.
“Contro di noi – sostengono – solo bugie; offesa la nostra dignità”.
Non sappiamo quanto davvero sia diffuso nelle scuole questo atteggiamento ostile o pregiudiziale verso gli insegnanti di religione, ma non vi è dubbio che, se davvero vi è questo poco felice rapporto, l’atteggiamento di scarsa simpatia tenderà ad aumentare nel momento in cui gli altri docenti, colpiti dalla manovra finanziaria degli organici, constateranno che i colleghi di religione, unici tra tutti, saranno esclusi da qualsiasi contrazione di posti.
Classe seconda – Aprile
2) Liturgia e preghiera in musica Dalle origini al gregoriano Il termine greco “leiturghia”, nella “Bibbia dei Settanta” (la più antica raccolta, in greco, di testi dell’Antico Testamento) traduce un termine ebraico che significa “culto prestato a Dio”.
La liturgia cristiana comprende tutti i mezzi della comunità per comunicare con Dio, lodarlo, lasciarsi trasformare da Lui.
È un incontro trasformante tra il Risorto, invisibile ma presente, e la sua Chiesa attraverso i Sacramenti, la preghiera comunitaria, la Messa con il rinnovarsi dell’Eucaristia.
Il Risorto dona lo Spirito, Forza di Dio per amare e vincere il male nel quotidiano…
Le origini del rapporto tra liturgia cristiana e musica risalgono all’usanza ebraica di eseguire canti durante le cerimonie religiose; tale usanza, o meglio tale esigenza di pregare con maggiore intensità e coinvolgimento popolare, venne confermata presso i primi cristiani, come già attestano alcuni passi degli “Atti degli Apostoli” e delle Lettere di San Paolo.
L’espansione del cristianesimo vide affermarsi una musica liturgica unicamente vocale, memorizzata e influenzata da tradizioni mediorientali; soprattutto l’ordine monastico benedettino avrebbe conservato gli inni più antichi, costruiti ancora in base alle teorie musicali greche secondo un sistema di otto “modi” o scale, ispirati agli antichissimi “tetracordi”.
Quando, dopo Costantino, il culto divenne più solenne, il canto non si limitò alla recitazione cantata dei Salmi biblici e ad alcuni inni che esprimevano lode e semplici sintesi della dottrina: entrò anche nelle parti delle cerimonie liturgiche dedicate alla lettura del Vangelo, per sfociare in esuberanti vocalizzi sulla parola “Alleluia” (Lodate Dio).
Così si espresse S.
Agostino ricordando momenti di musica e preghiera: «Le voci fluivano e la verità penetrava nel cuore.
Allora traboccava l’agitarsi della mia fede e scorrevano le lacrime; mi sentivo benedetto nel mio intimo».
La Chiesa, consapevole della sua missione universale, volle unificare il culto stabilendo una lingua comune, il latino; diede un vasto repertorio di libri sacri cui attingere per preghiere e meditazioni e cercò di dare a tutti i fedeli le stesse melodie con cui cantare le lodi del Signore; il canto venne delegato a cantori ben istruiti e organizzati.
Il papa S.
Gregorio Magno, monaco benedettino, fu pontefice nel 590 d.C.: fu una figura straordinaria di uomo contemporaneamente attivo e contemplativo; fondò monasteri, distribuì ai poveri i suoi beni e fu un grandissimo riformatore e coordinatore della liturgia musicale cristiana.
Nell’“Antifonarium Cento” raccolse gli inni ordinando la difficile materia della musica liturgica in forme nuove; il canto gregoriano ebbe enorme diffusione per otto secoli.
Unicamente vocale e monodico, voleva elevare l’uomo a Dio, staccandolo da ogni passione negativa; la parola era sovrana, la musica era al suo servizio per esaltarla; la leggerezza e la fusione delle voci e la solennità della melodia avevano il compito di trasportare l’uditore in una dimensione priva di spazio e tempo, che avvicinasse a Dio e lasciasse emergere la parte migliore, spirituale e interiore, della persona.
La coralità era espressione di profonda unione dei cuori, della stessa comunità Chiesa.
Nacquero i canti strofici, con variazione delle strofe del testo su una melodia sempre uguale; i canti salmodici, su testi a versi liberi in cui la prima parte di ogni frase viene ripetuta; i canti commatici, su testi liberi e i canti “a dialogo” tra celebrante e coro o fedeli (Litanie)…
Lo studio accanito dei maestri di gregoriano fece sì che si giungesse alla “musica scritta”: alla notazione “neumatica”, basata sugli accenti, si sostituì la notazione “quadrata”, che già teneva conto della durata delle note e del ritmo.
Il monaco benedettino Guido d’Arezzo (997-1050 d.C.) diffuse il primo rigo musicale (tetragramma) e sempre a lui si deve l’attribuzione dei nomi moderni alle note.
Dai tempi della prima polifonia all’epoca del Concilio Vaticano II Presso la scuola di Notre Dame di Parigi, nacquero melodie ricche e complesse…
quanto, in architettura, le cattedrali gotiche.
Le preghiere in musica invariabili della Messa rimasero nei secoli il genere più prestigioso tra le composizioni di musica sacra; la polifonia divenne sontuosa, maestosa grazie anche alla presenza di strumenti a fiato accanto all’organo, utilizzato a partire dal Medioevo come strumento liturgico per eccellenza.
In ambiente protestante luterano fiorirono i “lieder”, canti spirituali popolari in tedesco e le “cantate”, vere brevi rappresentazioni drammatiche con soli, coro e strumenti.
I grandi compositori tedeschi del periodo barocco lasciarono un patrimonio di “arte spirituale” straordinario: ricordiamo Bach! Le sue “cantate” valorizzano l’elemento narrativo attraverso brevi rappresentazioni di episodi biblici, esaltando la vocalità di solisti e coro e utilizzando un’orchestrazione molto varia.
La sua musica sacra ebbe un respiro vertiginoso, fu perfetta nell’equilibrio di ogni elemento ma quasi “popolare” nel vigore drammatico.
Egli seppe esaltare musicalmente gli elementi essenziali del cristianesimo, sintetizzandoli nel suo messaggio musicale (ricordiamo le “Passioni” secondo San Matteo e San Giovanni…).
Già dopo il Concilio di Trento (1546-63) la Chiesa cattolica aveva indicato la necessità di eliminare dalla musica liturgica un’eccessiva grandiosità che la rendeva sempre più concertistica e sempre meno spirituale; il grande Palestrina ritrovò lo spirito gregoriano utilizzando contemporaneamente le possibilità tecniche del suo tempo: ottenne melodie serene e distese, la fusione anche di cinque o sei voci, una bellezza nuovamente al servizio della preghiera.
Ancora con il “movimento ceciliano” ottocentesco della Chiesa cattolica italiana, tedesca e francese si tentò di porre un freno allo stile concertistico utilizzato in chiesa e si ebbero personalità come il direttore della Cappella Sistina, Lorenzo Perosi, sacerdote, che nelle sue “Messe” e in tutte le sue composizioni introdusse spunti “veristi” abbinati a una toccante esaltazione dei sentimenti migliori dell’uomo.
Nella tradizione della musica sacra “non liturgica” risalta l’“oratorio”, fin dai tempi del grande Haendel.
Si tratta di una specie di melodramma sacro, privo di scenografia ma estremamente coinvolgente per gli uditori.
La Costituzione del Concilio Vaticano II (grande momento di rinnovamento della Chiesa cattolica che approfondirai nel terzo anno) “Sacrosanctum Concilium” è dedicata alla musica sacra, definita “un patrimonio di inestimabile valore”; il canto sacro è “parte necessaria e integrante della liturgia” come espressione di preghiera intensa, soprattutto comunitaria, capace di far emergere ciò che, dell’animo umano, le sole parole non possono esprimere; è mezzo per arricchire di solennità i riti…
Occorrono, tuttavia, alcune condizioni: le lingue nazionali devono trovare più ampio spazio accanto al latino; è necessario il maggior coinvolgimento possibile dei fedeli nel canto, pur senza rinunciare alla ricerca di “bellezza “ nelle esecuzioni, con il supporto di maestri, cantori e strumentisti (soprattutto organisti) ben preparati.
Musica classica e nuove composizioni, opera di autori sensibili e attenti alle esigenze della liturgia, possono coesistere in momenti opportuni.
(Nella seconda parte: attività di ascolto e approfondimento inerenti specifici brani musicali) Per l’inserimento dell’argomento in Unità di Apprendimento articolate, vedere Tiziana Chiamberlando, Sentinelle del Mattino, SEI, Volume per il biennio e Guida Unità di Lavoro di approfondimento interdisciplinare (religione, educazione musicale).
Prima parte OSA di riferimento (Irc) Conoscenze – Conoscere e saper descrivere vari modi di interpretare il messaggio di Gesù nell’arte.
– Conoscere e saper descrivere dati, inerenti la storia della musica, di supporto allo studio sulla storia e l’“identità” della Chiesa (aspetti liturgici).
Obiettivi Formativi ipotizzabili (Irc, educazione musicale) – Conoscere e saper descrivere elementi basilari di storia della musica sacra e il loro significato religioso.
– Conoscere le “intenzioni espressive” di alcuni compositori di musica sacra.
– Dopo averli ascoltati, descrivere i messaggi spirituali di alcuni brani di musica sacra, cogliendo in modo personale il collegamento tra espressione musicale e sentimento religioso.
Competenze di riferimento dell’allievo in prospettiva triennale: – Comprendere e/o utilizzare espressioni artistiche in relazione all’esperienza e alla ricerca religiosa.
Prima fase dell’attività L’insegnante di religione presenta i testi-guida unitamente all’insegnante di educazione musicale; quest’ultimo potrà approfondire alcuni aspetti tecnici riguardanti la musica sacra, mentre l’insegnante di religione approfondirà gli aspetti teologico-spirituali.
1) Il linguaggio musicale e l’esperienza umana L’arte può essere definita perfezione raggiunta in un campo, compatibilmente con i limiti umani.
Tramite il linguaggio verbale (pensiamo alla poesia) e non verbale (arti figurative, musica), l’artista “produce bellezza”, porta alla luce con la sua opera la verità del suo essere – e la verità non può che essere bella – comunicando ciò che per lui è importante condividere sul senso della vita.
Egli comunica sentimenti ed emozioni – gioia, dolore –, desideri fondamentali, addirittura convinzioni sul bene e sul male.
Ascoltando un brano di musica che ci coinvolge, aggiungiamo a quelli dell’autore i nostri sentimenti, le nostre certezze, i nostri desideri…
tutto è destato in noi dal “racconto musicale” che a un certo punto sembra raccontare tutto anche di noi.
Proviamo gioia nel ritrovarci in quella melodia, nel ritrovare descritta con le note, per esempio, una nostra grande speranza, narrato “quel” nostro sogno che ci fa battere il cuore…
La musica, come le altre arti, può facilitare la ricerca di pace e fratellanza perché esprime sentimenti, speranze e intuizioni comuni a tutti gli esseri umani, in ogni tempo.
Per questo, la musica esprime anche e soprattutto il sentimento religioso, racconta l’esperienza del rapporto con Dio: la gratitudine della creatura amata da Lui, la lode, la ricerca del suo sostegno, speranza e certezze.
La musica narra comunque e sempre la sete di Bellezza, Verità e Infinito della persona umana.
In questa sete può esistere anche inconsapevolmente la ricerca di Qualcuno a cui affidarsi.
Classe terza – Aprile
Quarta fase dell’attività L’insegnante propone agli allievi le seguenti attività.
a) Scegli la “frase d’autore” che ti convince maggiormente; motiva la tua scelta.
– «Niente vale quanto la preghiera: essa rende possibile ciò che è impossibile, facile ciò che è difficile» (S.
Giovanni Crisostomo) – «Meglio pregare con il cuore senza trovare le parole, che trovare belle parole senza metterci il cuore» (Gandhi) – «Coloro che pregano sono più utili al mondo di coloro che combattono; se il mondo va di male in peggio, è perché ci sono più guerre che preghiere!» (D.
Cortes) b) Dividetevi in i piccoli gruppi (due-tre persone) con un portavoce e inventate brevi racconti in cui compaiano esperienze di preghiera (di ascolto, domanda, intercessione, pentimento, adorazione …) che conducano al cambiamento positivo di persone e situazioni.
Il portavoce leggerà il racconto del gruppo alla classe, fornendo le dovute spiegazioni.
c) Descrivi in breve, con parole tue, le varie forme di preghiera presentate.
Per l’inserimento dell’argomento in Unità di Apprendimento articolate, vedere Tiziana Chiamberlando, Sentinelle del Mattino, SEI, Volume per la classe terza e Guida.
Seconda fase dell’attività L’insegnante propone agli allievi il seguente questionario, seguito da confronto e dibattito, dopo la lettura dei testi-guida della prima parte.
– Quali sono gli insegnamenti di Gesù come “Maestro di preghiera”? – In che senso il rapporto con Lui è il primo modo di pregare, per un cristiano? – Leggi la “parabola dell’amico importuno” (Lc 11,5-13) e quella della “vedova importuna” (Lc 18,2-8) – “In diretta dai Vangeli” Come deve avvenire una “preghiera di domanda”? Con quali aspettative? – Leggi “Marta e Maria” (Lc 10,38-42).
Qual è la “parte migliore” scelta da Maria? – Leggi la parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-14).
Perché la “preghiera di ringraziamento” del fariseo non può essere gradita a Dio? Quale atteggiamento del pubblicano ottiene invece, per lui, il perdono? Che cosa può significare “esaltarsi” e “umiliarsi”? 6) Forme di preghiera – Chiedere Talvolta pare assurdo “chiedere” a Dio: non ci conosce forse, non provvede già a noi nel modo migliore? Eppure, se Gesù “chiede” al Padre, chiedere è giusto.
Chi chiede qualcosa a Dio, si mette nelle sue mani perché ciò che è “il meglio” avvenga; esprime anche la propria disponibilità a collaborare perché ciò si realizzi.
Se ciò che a noi sembra giusto chiedere non viene concesso, certamente il meglio per noi è altro…
e ci verrà dato, perché Gesù ha detto: «Bussate, e vi sarà aperto».
La risposta potrà essere diversa da quella che ci si aspetta: sarà importante cercarla con attenzione negli incontri, negli avvenimenti.
Il cristiano convinto non sta fermo a lamentarsi, se una porta si chiude: va dietro l’angolo, dove il Signore gli ha preparato un portone da aprire.
Si può chiedere a Dio per se stessi e per gli altri, con la preghiera di intercessione che è anche una personale decisione di impegno nell’aiuto.
– Adorare e ringraziare Dio dona gratuitamente e abbondantemente, secondo i cristiani: veste addirittura i gigli del campo, rinvigorisce i fili d’erba (Lc 12,13-21).
Saper ricevere i suoi doni significa riconoscere, pieni di sollievo, di essere fragili, ma anche di essere…
in buone mani! Avvicina a Dio pensare con stupore alla sua forza e alla sua bellezza, alle meraviglie della sua creazione, riconoscere la grandezza delle sue opere…
«Oggi abbiamo parlato, ascoltato, guardato, camminato con tutta naturalezza.
Ma è difficile che abbiamo detto grazie per il dono della parola, dell’udito, della vista, della salute.
Ogni cosa che toccano le nostre mani, ogni cosa che vedono i nostri occhi, ogni oggetto raggiunto dai nostri sensi, è un dono di Dio.
In ogni cosa su cui si ferma un attimo la fantasia c’è un dono di Dio.
Ogni oggetto del mio pensiero è un dono di Dio.
Ogni battito dei miei polsi, ogni respiro dei miei polmoni…» Soprattutto, si può ringraziare Dio per le persone che ci fanno crescere, per gli avvenimenti lieti o duri che ci fanno imparare, maturare…
«Ogni volta che la bontà di Dio occupa i nostri pensieri più di quanto la occupino le nostre preoccupazioni, noi sbocciamo maggiormente alla realtà della fede.
La preghiera di ringraziamento ha proprio questo ruolo: spostare il nostro centro d’interesse da noi a Dio…» (Padre Andrea Gasparino) – Pentirsi, riconoscere gli errori, rivedere la propria vita mettendocela tutta, con l’aiuto di Dio, per sconfiggere l’egoismo con le sue schiavitù, i “lati oscuri”…
7) Ascolto e Bibbia «La pretesa che Dio ci ascolti cresce con l’età; Dio deve ascoltare le nostre delusioni, i nostri tradimenti, le offese ricevute e quelle restituite, la paura di diventare grandi, l’emozione di esperienze nuove e tutto ciò che il nostro cuore è capace di contenere.
Pregare, però, non è solo rivolgersi a Gesù per affidargli tutti i nostri guai; è vero, il Signore ascolta e accoglie ogni secondo della nostra vita.
Ma chi prega è soprattutto l’amico a cui Dio vuole parlare: secondo i cristiani, Egli chiede il nostro ascolto soprattutto; non vuole solo la preghiera del “Signore, girati qui che ti devo parlare”, ma anche quella di Samuele il profeta: “Parla, Signore, il tuo servo ti ascolta” (a cura dell’Azione Cattolica Ragazzi, Marta e Maria, Ed Ave, p.
28, Collana “Il seme della Parola”) I cristiani chiedono a Dio: “Che cosa vuoi che faccia?” Essi sentono che soltanto chi ci ha voluti vivi e ci conosce perfettamente potrà svelarci il nostro mistero di persone, quali siano per ciascuno il bene e il male, quale compito portato a termine ci farà gustare il sapore dell’esistenza.
Qual è la sua volontà per ciascuno di noi? La preghiera di ascolto è il tentativo del cristiano di fare silenzio in sé…
per lasciar parlare Lui.
«Nella preghiera porto tutta la mia realtà di cattiveria e di bontà, di superficialità e di profondità e questo lo dico al Signore, lo faccio presente, lo accetto.
Allora sono “vero” di fronte a lui e divento discepolo, gli faccio spazio.
Vedo poi i fratelli in modo diverso, gli antipatici in modo diverso.
Non vuol dire che cambierò subito…
Vuol dire che comincerà a insinuarsi in me lo Spirito del Signore, che è spirito di pacificazione, amore, servizio…
Continuando e perseverando nel cammino di preghiera, le idee si fanno chiare e si agisce in modo diverso» (Padre F.
Peyron).
Ponendosi in un atteggiamento di ascolto, si potrà leggere la Sacra Scrittura mettendo da parte le proprie idee e le proprie emozioni, facendo tacere l’Io in uno spazio di silenzio che Dio possa riempire.
Dio non ci chiede di essere nuovi Mosé, ma di diventare noi stessi, affrontando il “nostro” Esodo.
Pregare con la Bibbia e in particolare con i Vangeli, per il cristiano, significa lasciarsi interpellare personalmente dalla Parola.
Guidato da Sacerdoti e da libri e “veicoli” che possano aiutare a comprendere il significato fondamentale dei testi, il cristiano cerca di comprendere il messaggio della Parola “per lui” in particolare, ponendosi di fronte a Gesù come gli Apostoli, i miracolati, il popolo che lo ascoltava e lo seguiva…
Terza fase dell’attività L’insegnante presenta i seguenti testi-guida.
8) Le conseguenze della preghiera Pregare significa dunque coltivare una “vita interiore”, mirando a un rapporto personale con Dio, mantenendo aperto un “canale interiore” di comunicazione con Lui.
Come un atleta che si allena sistematicamente, la persona che coltiva la preghiera con costanza ottiene dei risultati: – il suo “orecchio interiore” avverte la Presenza di Dio, i suoi consigli che orientano la vita, la sua tenerezza che riempie la solitudine e consola; – si abitua a essere sincera e senza maschere di fronte al Dio con cui non si può mentire; più facilmente lo sarà anche con gli altri.
– impara ad affrontare situazioni, rapporti, difficoltà ponendosi “dal punto di vista di Dio”: in quest’ottica, la vita è un’avventura sensata ed entusiasmante, inserita in un grande Progetto; – di fronte alle difficoltà, riceve forza e le affronta con coraggio; – il rapporto con Dio-Amore insegna soprattutto…
a mettere l’amore al primo posto.
5) Giovani voci tra disimpegno e nostalgia Gloria: «Studio tutto il giorno e alla sera sono stanca morta.
Non ho certo voglia di pregare…
ma poi, per pregare bisognerebbe trovare il posto giusto, il momento giusto…» Giovanna: «Al mattino sono sempre di corsa.
Faccio fatica ad alzarmi e ad arrivare puntuale a scuola…
E poi per pregare bisognerebbe ripensare tutto il mio rapporto con Dio, che oggi è il grande assente della mia vita, anche se una volta o l’altra dovrò pensarci».
«Non trovare il momento giusto» indica in realtà la tendenza a rimandare…
la propria crescita; a non prendere in mano la propria vita decidendo sulle «cose importanti» e dirigendola verso una meta.
Pino: «A volte si sente un gran bisogno di pregare.
Quasi sempre per chiedere, non tanto per lodare o ringraziare Dio.
Ma si deve pregare per conservare la fede…
Chi non prega rischia di perdere la fede.» Daniele: «Fino a qualche anno fa i miei mi trascinavano in chiesa contro voglia.
E guardavo quella gente che pregava senz’anima.
Ripeteva formule, canti, si alzava e si sedeva…
ma non vedevo nel volto di nessuno la gioia di incontrarsi con Dio.
Adesso non prego più, ma se dovessi tornare a pregare, vorrei che prendesse tutta la mia vita».
Pino e Daniele si sono «persi per strada», ma hanno nostalgia di una preghiera sincera e autentica, che trasformi realmente l’esistenza.
(Esperienze in Dossier Adolescenti «Ma perché pregare?», U.
De Vanna, Ed Elledici, pp.
2-3) Unità di Lavoro-Riflessione sull’esperienza, con approfondimenti biblici e teologici Seconda parte OSA di riferimento Conoscenze – La fede, alleanza tra Dio e l’uomo, vocazione e progetto di vita.
– Gesù, via, verità e vita per l’umanità.
Abilità – Riconoscere le dimensioni fondamentali dell’esperienza di fede.
– Individuare l’originalità della speranza cristiana.
Obiettivi Formativi ipotizzabili Conoscenze e abilità – Conoscere e saper descrivere aspetti vari della preghiera cristiana.
– Conoscere e saper descrivere l’azione trasformante della preghiera secondo i credenti.
– Conoscere e saper spiegare il significato essenziale di alcuni passi biblici riguardanti la preghiera.
– Elaborare e saper esprimere opinioni personali motivate inerenti l’importanza della preghiera nell’esperienza umana.
Competenze di riferimento dell’allievo in prospettiva triennale – Consolidare o almeno avviare percorsi di introspezione, in vista di una sempre più approfondita conoscenza di sé e dello sviluppo di opinioni personali.
– Prendere in considerazione il progetto di vita cristiano e la visione cristiana dell’esistenza.
– Possedere essenziali conoscenze bibliche e dottrinali inerenti il cristianesimo.
Il patibolo e la tomba vuota
Se, infatti, possiamo considerare come un’eccezione singolare l’affresco del cimitero di Pretestato con una coronazione di spine, relativo alla prima metà del iii secolo, soltanto dagli anni centrali del secolo seguente appaiono alcuni sarcofagi cosiddetti di passione o dell’anàstasis, con l’arresto dei principi degli apostoli, del Cristo, il giudizio di Pilato e ancora la coronazione di spine, mentre un originale affresco della seconda metà del iv secolo, nell’ipogeo di via Dino Compagni, rappresenta i soldati romani che si giocano le vesti di Cristo e, di lì a qualche anno, nella celebre lipsanoteca eburnea di Brescia, si fa ancora esplicito riferimento all’arresto del Salvatore e alla drammatica fine di Giuda Iscariota.
Ma per incontrare la prima rappresentazione della crocifissione dobbiamo attendere i pontificati di Celestino i (422-432) e di Sisto iii (432-440), quando fu scolpita la porta lignea della monumentale basilica titolare di Santa Sabina, sull’Aventino.
Nella splendida porta, miracolosamente giunta sino ai nostri giorni, seppure non in maniera integrale e provata da una serie infinita di restauri, si avvicendano episodi del Vecchio e del Nuovo Testamento, con l’intento di realizzare una sorta di concordia biblica, che trova il suo apex semantico in una formella, che vuole rappresentare il trionfo della Chiesa, raffigurata come una matrona orante fra i principi degli apostoli, in un contesto fortemente apocalittico.
Il grande casellario ligneo prende proprio avvio da una formella, che rappresenta il momento drammatico della crocifissione, collocata contro una parete continua in opera isodoma, caratterizzata da tre timpani, che definiscono le silhouettes dei tre giustiziati, nudi, se si esclude l’esiguo subligaculum, che cinge loro i fianchi.
Le tre figure del Cristo e dei ladroni sono proiettate in primo piano e mostrano un atteggiamento expansis manibus, senza che si intraveda il legno trasversale della croce, mentre soltanto i ladroni presentano le mani inchiodate.
Il Cristo supera, per dimensioni, i due uomini posti ai lati di oltre un terzo, ha gli occhi spalancati, la barba e le chiome fluenti; il suo corpo, come quello dei due ladroni, è atletico e, nonostante la resa fortemente schiacciata del rilievo, rispetta i canoni della plastica classica romana.
Questa redazione trionfale della crocifissione, nel senso che i giustiziati, con l’atteggiamento di orante, esprimono il trionfo della risurrezione, invece del dramma pietoso della morte violenta, rispetta coerentemente la tendenza della cultura figurativa romana, improntata a una visione positiva delle storie evangeliche, che è, comunque, infranta da una tavoletta eburnea del British Museum di Londra, riferibile proprio al 420-430 e prodotta da un atelier romano.
Qui, l’evento del Golgota è rievocato nei momenti salienti della morte e della risurrezione del Cristo.
Nella scena della crocifissione, Gesù è rappresentato nudo, issato e inchiodato alla croce – sebbene vivens – e l’iscrizione rex Iudeorum sormonta il patibolo, ai piedi del quale si dispongono i comprimari del dramma: Maria, Giovanni e Longino.
Nel margine sinistro dell’avorio è rappresentata, in simultanea, la fine di Giuda Iscariota, appeso all’albero, con la borsa dei denari gettata a terra.
La tavoletta eburnea è costituita da quattro formelle e, oltre alla scena di crocifissione, riporta rispettivamente un riquadro che concentra il giudizio di Pilato, il Cristo che porta la croce e la negazione di Pietro; un altro riquadro che rievoca l’incredulità di Tommaso; un ultimo pannello che raffigura il Santo Sepolcro; con la porta semiaperta, che lascia intravedere il sarcofago vuoto, le Marie e due soldati che dormono vicino all’edificio.
La rappresentazione del Santo Sepolcro entra precocemente nel repertorio paleocristiano per tradurre in figura il racconto evangelico di Matteo (28, 1-8), Marco (16, 1-8) e Luca (24, 1-10) nell’ambito del contesto narrativo in cui si svolge la scena della visita delle pie donne, come succede nell’antico affresco del battistero della domus ecclesiae di Dura Europos, allestita nella prima metà del iii secolo, nella colonia romana situata in un’ansa dell’Eufrate, nell’attuale Siria.
Qui, le figure femminili, munite di torce, passano attraverso una porta e giungono al sepolcro, che è rappresentato come una grande arca, fornita di un coperchio, che, ai lati, presenta due grandi stelle di luce, per alludere al mistero della risurrezione.
Dal momento costantiniano, il santo sepolcro viene raffigurato in maniera realistica e puntualmente aderente alla struttura che l’imperatore aveva fatto costruire, tra il 325 e il 336, sulla tomba di Cristo, isolando la roccia nella quale era scavata.
Quest’ultimo elemento diventa il nucleo principale della grande basilica e viene caratterizzato da un’edicola, che suggerisce un edificio a pianta centrale, con un deambulatorio, delimitato da colonne, la cosiddetta Anàstasis, collegata, verso oriente, a un atrio che si allaccia a sua volta al martyrium, ossia a una monumentale basilica a cinque navate, cui si accedeva attraverso un’ampia scalinata e un portico trapezoidale.
La restituzione architettonica del monumento, meticolosamente definita dal padre Virgilio C.
Corbo dello Studium Biblicum Franciscanum, risponde perfettamente alle descrizioni di Eusebio di Cesarea (Vita Constantini, 3, 25-40), di Cirillo di Gerusalemme (Catechesi 14, 9) e della pellegrina Egeria (Peregrinatio Etheriae 24-35).
Nell’arte paleocristiana viene rappresentata spesso la Rotonda dell’Anàstasis, anche se in maniera assai sintetica, a cominciare da un gruppo di sarcofagi provenzali del tardo iv secolo, ma trova le sue manifestazioni più particolareggiate in alcuni avori, tra i quali emerge il cosiddetto dittico Trivulzio, conservato al Castello Sforzesco di Milano e datato agli esordi del v secolo.
L’unica valva superstite è suddivisa in due pannelli: nel quadro superiore è proprio rappresentato il Santo Sepolcro, come una struttura circolare finestrata e sormontata dai simboli degli evangelisti Matteo (l’angelo) e Luca (il toro), mentre due soldati romani, in primo piano, sono addormentati; nel registro inferiore l’angelo nimbato è seduto su una roccia, mentre annuncia alle due Marie la risurrezione di Cristo.
Quest’ultima scena si svolge dinanzi alla porta semiaperta del sepolcro, i cui battenti sono decorati con formelle che riproducono tre episodi evangelici, ovvero la risurrezione di Lazzaro, la chiamata di Zaccheo e la guarigione dell’emorroissa.
Il nostro itinerario attraverso le testimonianze iconografiche relative alle prime rappresentazioni della crocifissione e della risurrezione si può chiudere analizzando le decorazione delle fiaschette metalliche per pellegrini, conservate a Monza, offerte, secondo la tradizione, da Papa Gregorio Magno a Teodolinda, regina longobarda di professione cattolica romana, che si datano tra la metà del vi secolo e gli esordi del vii.
Queste ampolle contenevano gli olii delle lampade che ardevano nei santuari dei luoghi santi e rappresentano, a stampo, i simboli degli episodi che hanno ispirato la costruzione di tali complessi monumentali.
Così, in alcune di queste ampolle, vengono raffigurate simultaneamente l’anàstasis, ovvero l’annuncio dell’angelo alle donne giunte al sepolcro reso nelle forme dell’edicola costantiniana e la crocifissione, con la croce a tronco di palma, sul monte da cui sgorgano i quattro fiumi paradisiaci.
Nella sommità della croce appare il Cristo barbato, con lunghi capelli e nimbo crucigero, affiancato dai simboli del sole e della luna, per sottolineare l’atmosfera epocale che avvolge l’episodio.
Ai lati della croce, sono inginocchiati due personaggi devoti che tendono le braccia verso il simbolo centrale, mentre, a destra e a sinistra, secondo la sceneggiatura della crocifissione, si dispongono i due ladroni, seminudi e appesi al loro patibolo, e, alle estremità, si riconoscono Maria e Giovanni.
Queste rappresentazioni dimostrano come, nelle più antiche raffigurazioni della passione e della risurrezione, il concetto del dramma evocato dal patibulum è eliso dalla natura stessa della croce, che si identifica con l’albero della vita, in perfetta sintonia con la concezione trionfale che vede nell’episodio cruento della crocifissione l’antefatto e la prefigurazione della risurrezione del Cristo, evocata da quel sepolcro vuoto verso cui corrono le Marie per incontrare l’angelo che proclama il termine della storia terrena dell’Uomo, chiudendo un cerchio che si apre e che si conclude con l’annuncio dell’angelo.
(©L’Osservatore Romano – 6-7 aprile 2009) La cultura figurativa paleocristiana, proverbialmente positiva e tesa a esprimere i risvolti soterici della passio Christi, non produce, nei primi secoli, un repertorio che si soffermi, se non con rare allusioni, sulle ultime tappe della vita terrena del Salvatore e anzi, non viene neppure affrontato, dal punto di vista iconografico, il tema del martirio ordinario, tanto che per venire a contatto con le prime immagini dei campioni della fede, dobbiamo attendere il momento della pace costantiniana.
Irc e insegnante di classe nella primaria
UNITÀ 3 UN VOLTO PER DIO Schema Per introdurci 1.
l’esperienza Elaborazione. Battiato: E ti vengo a cercare – integrazioni degli Autori Venditti: Stella – integrazioni dei collaboratori OF 2.
L’interpretazione Cielo: Eliade Notte stellata: Van Gog – integrazioni degli Autori megaliti di Stonehenge – integrazioni dei collaboratori 3.
suggestioni per un progetto Vado in cerca di Dio: Slamo 42 Per un bilancio – integrazioni degli Autori Salmo 92: Il Signore rende stabile il mondo – integrazioni dei collaboratori 4.
Integrazioni proposte nel testo – integrazioni degli Autori – integrazioni dei collaboratori 5.
Osservazioni, suggerimenti, critiche all’elaborazione proposta Come è noto, nella scuola primaria l’Irc può essere impartito non solo dall’Idr specialista ma anche dall’insegnante di classe che si sia dichiarato disponibile a farlo e sia stato riconosciuto idoneo dalla competente autorità ecclesiastica.
Si tratta di un residuo della riforma Gentile, che aveva introdotto, ancor prima del Concordato del 1929, l’insegnamento di religione nelle scuole elementari affidandolo ordinariamente all’insegnante della classe.
Quella prassi è stata conservata anche dal nuovo Concordato, sia per continuità con il vecchio regime, sia per fronteggiare in prima applicazione la richiesta di Idr specialisti qualificati.
Col tempo l’affidamento dell’Irc all’insegnante di classe si è rivelato sempre più residuale, soprattutto da quando l’abolizione dell’istituto magistrale negli anni Novanta ha fatto mancare il corso di studi che – almeno formalmente – preparava i futuri maestri anche all’Irc attraverso un doppio orario di insegnamento motivato proprio dall’esigenza di fornire anche le competenze didattiche per insegnare religione.
È evidente che, al di là di lodevoli eccezioni, l’Idr specialista risulta formato in maniera più specifica e completa rispetto all’insegnante di classe, anche se l’attribuzione dell’Irc a chi insegna altre materie può evitare varie forme di emarginazione della disciplina.
D’altra parte va anche riconosciuto che affidare l’Irc a un insegnante comune sottopone al rischio di veder ridurre talvolta l’orario di Irc per via dell’urgenza di altre materie “più importanti”.
Per questi motivi e per una generica apertura alla presenza di altri insegnanti nella scuola, si era quindi diffusa la prassi di non dare la propria disponibilità all’Irc (in soli venti anni si è passati da zero a oltre il 70% di ore di Irc coperte da Idr specialisti nella primaria e da zero a oltre l’85% nella scuola dell’infanzia).
Ma negli ultimi mesi i provvedimenti ministeriali sull’organico del personale hanno prodotto una rapida inversione di tendenza.
Per un’equivoca interpretazione di quelle disposizioni tantissimi insegnanti di scuola primaria hanno fornito nuovamente la loro disponibilità all’Irc presumendo di poter rientrare automaticamente in questo servizio in virtù dell’idoneità ricevuta anni prima e mai revocata.
Tuttavia le cose non sono così semplici e si è creata parecchia confusione sull’argomento.
Alcuni hanno ritenuto che le ore di Irc fossero determinanti per la definizione dell’organico, temendo di poter andare in esubero proprio per via della mancata disponibilità all’Irc (ogni undici insegnanti non disponibili all’Irc si costituisce un posto di insegnamento che poteva essere tagliato).
Ma la CM 38 del 2 aprile scorso sugli organici ha rassicurato tutti chiarendo che l’organico è calcolato come se ogni docente insegni anche religione, a prescindere dalla sua effettiva condizione; quindi l’indisponibilità all’Irc, anziché sottrarre ore, crea nuova disponibilità per la scuola, perché le ore così avanzate potranno servire ad ampliare l’offerta formativa.
È a questo punto che intervengono altre preoccupazioni, di meno nobile natura.
Rassicurati sul fronte degli organici, gli insegnanti preferirebbero comunque tornare all’Irc per non dover completare il proprio orario di servizio in altre classi.
Ma si è già detto che il ritorno non è un diritto automatico e non è privo di effetti sui controinteressati, cioè gli Idr specialisti che finora hanno assicurato il servizio.
In primo luogo va ricordato che non c’è alcuna norma che stabilisca la precedenza dell’insegnante di classe sullo specialista (anzi, la CM 374/98 esplicitamente si appellava al principio della continuità didattica per limitare il rientro del docente comune nell’Irc solo all’inizio di un ciclo didattico e non anche nelle classi intermedie).
In secondo luogo va ricordato che l’idoneità a suo tempo ricevuta (dal 1990 l’idoneità è rilasciata a tempo indeterminato) non è un certificato che non perda mai di validità.
Proprio perché soggetta a revoca, essa attesta una relazione di fiducia e di appartenenza ecclesiale che può naturalmente evolversi nel tempo.
È quindi legittimo e necessario che gli ordinari diocesani verifichino, nelle forme ritenute più opportune ed efficaci, il sussistere delle condizioni che hanno consentito il primo riconoscimento di idoneità.
Gli insegnanti di classe dovevano dare la propria disponibilità entro lo scorso 15 marzo.
Di fronte a numeri talora cospicui di richieste, alcune diocesi stanno correndo ai ripari predisponendo una serie di accertamenti nei confronti dei richiedenti, con i quali è mancato negli ultimi anni quel rapporto di comunicazione che invece è stato presente con gli Idr specialisti, i quali normalmente partecipano a tutte le iniziative di formazione e animazione promosse periodicamente dalla diocesi.
Senza voler fare un processo alle intenzioni (ma con la consapevolezza che il sospetto nei confronti degli insegnanti nuovamente disponibili all’Irc è legittimo quanto meno per l’insolita quantità di richieste), è dovere dell’ordinario diocesano tutelare prima di tutto la qualità dell’Irc; ed è fuori di dubbio che un Idr specialista possieda titoli di studio e continuità nel servizio tali da assicurare quella qualità.
È altresì evidente che la formazione iniziale richiesta agli insegnanti di classe sia del tutto sproporzionata rispetto a quella degli specialisti (poche ore di Irc nel corso degli studi magistrali rispetto alla prassi più diffusa di un diploma almeno triennale di scienze religiose) e quindi sembra opportuno cercare di innalzare il livello di preparazione di chi insegna religione, pretendendo per esempio la frequenza di corsi di formazione lunghi e impegnativi.
Infine, non va trascurata la guerra tra poveri che così si è venuta a creare.
È ormai assodato che l’Idr specialista non è un supplente dell’insegnante di classe ed oggi è spesso anche di ruolo; quindi non può essere scalzato da un altro insegnante solo sulla base di una sua improvvisa dichiarazione.
Anzi, dovrebbe essere preoccupazione della stessa amministrazione scolastica non creare occasioni di esubero che andrebbero ad aggiungersi a quelle già determinate dai tagli generalizzati di personale.
Quindi, gli Idr specialisti non devono preoccuparsi per la loro sorte nel prossimo anno scolastico e potranno trovare negli interessi distinti ma convergenti dell’ordinario diocesano e dell’amministrazione scolastica la migliore garanzia per il loro futuro.
Numeri e fede/9: I domatori di stelle
L’ntervista al professor Massimo Buscema Che cosa serve per fare un’eccellente matematica? «Immaginazione e rigore analitico.
L’immaginazione è la componente creativa della matematica.
È un portento del cervello, che non conosciamo.
È l’attività tramite la quale si avanzano ipotesi insolite sulla struttura invisibile del mondo, che genera quella visibile.
La capacità analitica consiste nel dimostrare logicamente e sperimentalmente tali ipotesi.
Il rigore analitico permette di raggiungere la verità ma anche di ottenere una ‘democrazia della scienza’, per cui ogni altro ricercatore può ripercorrere i tuoi passi e andare oltre.
Il matematico è come uno che salta su una stella sconosciuta e poi deve verificare se è in grado di costruire – da quella stella, fino al punto della Terra da cui è saltato – una scala che qualunque essere umano (anche non particolarmente dotato) possa percorrere».
La matematica applicata può commettere errori? «Quella che facciamo al ‘Semeion’, nel campo dell’imaging medico, si è dimostrata capace di trasformare nell’informazione-chiave ciò che da altri ricercatori era stato scartato come ‘rumore’ o inutile disturbo.
Ma la scienza non esiste se non fa errori.
Di fronte alla complessità della natura, i pensieri di un uomo di scienza non possono che essere sfumati, flessibili, spesso contraddittori.
Oggi purtroppo alcuni scienziati hanno invece pensieri categorici (e comportamenti ambigui)».
Esistono anche limiti oggettivi.
«La matematica sa individuarli.
Prima di tutto: limiti di computabilità.
Siamo in grado di calcolare l’angolo con cui rimbalza la palla sul bordo rettilineo di un biliardo.
Ma, se il biliardo ha il bordo a cresta di montagna, cioè irregolare, la traiettoria della palla è diversa.
Dopo ‘n’ rimbalzi, la differenza diventa esponenziale e la posizione della palla è sempre più imprevedibile.
Il secondo limite è l’incertezza della misurazione: quando misuro entità molto piccole, interferisco con l’entità stessa.
Un elettrone, prima che io ne verifichi la posizione, è rappresentato come una nube di probabilità, cioè potrebbe essere dovunque in un certo ‘intorno’.
Ma quando lo misuro, lo trovo in un punto specifico.
Qui nasce l’arcano: è come se chi osserva determinasse la posizione dell’elettrone.
È il sistema osservatore-osservato che fa passare un oggetto da pura informazione a materia.
Alcuni teorici hanno immaginato che lo stesso Big Bang sia un collasso della pura informazione in massa-energia.
Allora si può porre la domanda: in quella circostanza chi era l’osservatore? A livello di congettura non dimostrabile, questa domanda è ragionevole».
Che rapporto c’è tra matematica e fede? «È come se mi chiedesse: ‘In casa preferisce una finestra o un televisore?’ La finestra è essenziale per vedere ciò che succede fuori casa.
Il televisore mi serve per sapere che cosa succede nel mondo che non posso vedere dalla finestra.
Nessun architetto obbligherebbe un futuro padrone di casa a scegliere tra finestra e televisore.
Perciò non ha senso sostenere che, se sei credente, non puoi essere un bravo scienziato.
È come dire: ‘poiché hai una casa con finestre, non puoi comprare anche il televisore’.
Per quanto mi riguarda, penso che credere in un Dio-persona, come quello cristiano, mi dia il coraggio di guardare da ogni finestra e di accendere ogni televisore».
Ma allora com’è nata la contrapposizione tra scienza e fede? «La risposta è: a chi giova questa contrapposizione? Non agli scienziati, semmai a quelli che tramite la scienza acquisiscono soldi, fama e potere.
Da una ricerca risulta che credono in un Dio trascendente il 4% dei biologi, il 7% dei fisici e il 14% dei matematici.
Queste percentuali corrispondono, grosso modo, ai rispettivi flussi di finanziamento industriale che arrivano ai vari rami della ricerca.
Le multinazionali che producono tecnologia possono influenzare in maniera crescente il campo biologico e un po’ anche la fisica.
Ma molto meno i matematici.
Chi sforna prodotti ci vuole consumatori, ha interesse a far credere a ogni persona sul globo che l’imperativo è il consumo perché ‘tutto è qui, adesso’, e ‘del doman non v’è certezza’».
È nelle informazioni-chiave dell’universo e del mondo che va cercata la risposta agli interrogativi fondamentali? «Sì, e anche nelle informazioni che riguardano la singola persona.
Dobbiamo pensare all’identità di ognuno come a un’incredibile quantità organizzata di atomi.
Ma durante la sua vita, ogni individuo non fa che cedere vecchi atomi e prenderne nuovi.
È credibile che all’età di 50 anni, io non abbia più neanche un atomo di quelli che avevo a cinque anni.
Ma allora perché mi sento la stessa identità e mi ricordo anche di quando avevo cinque anni, se tutta la materia di cui ero fatto è cambiata? Dove sono stato registrato? Dov’è il disco rigido su cui è stato fatto il backup di me stesso? Non c’è.
E allora perché ho memoria? E’ più probabile che la mia identità non sia fornita dalla mia struttura bio-materiale (che cambia continuamente) ma dalla funzione matematica che connette tutte le traiettorie di qualsiasi mio atomo.
In altri termini: la mia identità è solo un’organizzazione di informazioni, un pensiero.
Ora, se tutta la complessità che esploriamo nasconde un pensiero, e se è così ben congegnato da permetterci di esistere e di formulare una domanda sensata sull’origine del cosmo, è più che ragionevole credere che l’informazione iniziale non sia stata buttata lì a casaccio.
‘Penso quindi esisto’ oppure ‘Esisto perché sono pensato’? Luigi Dell’Aglio «La matematica è l’arte di immaginare e di dimostrare, cogliendo le invarianti più astratte della realtà.
Procedendo solo con un pensiero astratto e con le sue conseguenze logiche, ci si allontana infinitamente dalla realtà ma per trovarsi, alla fine, nel cuore stesso della realtà.
Ecco il prodigio della matematica, arte di trasformare, in maniera analitica, l’impossibile nel possibile».
Questa è oggi la scienza di Euclide e Leibniz, secondo il professor Massimo Buscema, computer scientist di grande successo, che ha conseguito fama internazionale con nuovi modelli e algoritmi di intelligenza artificiale, alcuni dei quali confluiti in 14 brevetti internazionali.
È fondatore e direttore del centro di ricerche «Semeion» ed è il secondo tra gli autori più prolifici, a livello mondiale, nel campo delle reti neurali artificiali (fonte: GoPubMed 2008).
Consulente di New Scotland Yard, con il Progetto Central Drug Trafficking Database ha fornito alla più famosa polizia del mondo il know how per scoprire le rotte del traffico internazionale di droga dal momento dell’entrata e della capillare distribuzione sul territorio britannico.
C’è bisogno di maestri, non di facilitatori
Giorgio Israel, ordinario di matematica alla Sapienza di Roma, intervenendo al IX Forum del Progetto culturale dedicato all’emergenza educativa, ha messo a nudo il ruolo e la figura attuale dell’insegnante nel suo rapporto umano con gli alunni.
Vi è una concezione del ruolo del docente, secondo Israel, che “sembra volerli trasformare sempre più in facilitatori, in animatori culturali, quasi non si avesse più bisogno di maestri, di testimoni della società in cui i giovani stessi si apprestano ad entrare”.
La scuola non sembra essere consapevole del rischio di una visione meccanicistica dell’apprendimento.
L’intervento del prof.
Israel assume maggiore rilievo in considerazione del fatto che egli è coordinatore del gruppo di lavoro costituito con decreto 30 luglio 2008 dal ministro Gelmini per definire requisiti e modalità per la formazione iniziale del personale docente delle istituzioni scolastiche, l’attività procedurale per il suo reclutamento, nonché per definire gli ordinamenti didattici universitari per la formazione degli insegnanti.
Nel documento generale del gruppo, emerge il pensiero del prof.
Israel laddove si afferma che “il futuro insegnante, oltre a possedere sicure e imprescindibili conoscenze delle discipline da insegnare, deve avere l’opportunità di riflettere sulle modalità di trasmissione delle conoscenze e di acquisizione delle competenze e sulle complesse e articolate problematiche della mediazione didattica.
La sua formazione socio-psico-pedagogica deve renderlo capace di orientarsi nelle diverse fasce di età e permettergli di operare al meglio sia nell’ambito dei problemi legati alle relazioni interpersonali a scuola (lavoro di gruppo, rapporti tra studenti, rapporti con le famiglie, ecc.) sia all’individuazione delle modalità educative (motivazioni allo studio, partecipazione, ecc.) adeguate a promuovere il successo didattico”.
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