nasce la biblioteca digitale online

Le ricchezze culturali del mondo raccolte in un solo sito, alla portata di tutti.
È questo l’obiettivo principale che ha portato alla nascita della World Digital Library.
La neonata biblioteca digitale online è un progetto portato avanti dalla statunitense Library of Congress con il supporto dell’Unesco.
Raccoglie contributi da tutto il mondo, significativi per ricchezza e varietà culturale.
Il materiale disponibile comprende manoscritti, mappe, libri rari, registrazioni, film, stampe, fotografie e disegni architettonici.
I documenti sono disponibili gratuitamente e possono essere ricercati a partire da riferimenti di luogo o tempo, per argomento e tipologia di contributo o inserendo l’istituzione che ha reso il singolo apporto disponibile online.
Gli strumenti di navigazione e le descrizioni dei contenuti presenti possono essere visualizzati nelle lingue dell’Unesco (arabo, cinese, inglese, francese, russo, spagnolo) e in portoghese, dato il grande contributo del Brasile nella fase di realizzazione del progetto.
È stata presa in considerazione la possibilità di fornire anche altre lingue, ma, quanto meno per il momento, non è tra le priorità del progetto.
I singoli contenuti, invece, non sono stati tradotti e sono quindi accessibili solo nella lingua originale.
Per rendere possibile la digitalizzazione di materiale proveniente da tutto il mondo, sono stati creati dei centri appositi dotati delle tecnologie necessarie a disposizione delle istituzioni, come nel caso di Brasile, Egitto, Iraq e Russia.
L’inaugurazione del sito web è un passo importante, ma non segna la conclusione del progetto.
Ci si sta infatti muovendo per continuare ad estendere la quantità di materiale digitalizzato e disponibile online, in modo da comprendere un giorno materiali di tutti i paesi in tutte le lingue.
World Digital Library http://www.wdl.org/en/

Quello che la Bibbia non ha mai raccontato

La Pasqua secondo gli apocrifi.
Giuda, Pilato, Maria di Gianfranco Ravasi È paradossale, ma non è impresa difficile quella di ordinare una mostra che abbia come filo conduttore i vangeli apocrifi, come appunto è testimoniato dalla grandiosa esposizione che si è aperta il 24 aprile a Illegio in Friuli, cittadina divenuta nota per i suoi straordinari eventi artistici.
Questa letteratura ebbe, infatti, uno straordinario successo proprio nell’arte e nella tradizione popolare.
Sotto il termine di “apocrifi” – letteralmente, dal greco, i libri “nascosti” – si stende, infatti, un’immensa produzione letteraria e religiosa, anche di bassa qualità, che corre parallela ma autonoma rispetto all’Antico e al Nuovo Testamento i quali contengono invece i libri “canonici”, ossia quelli riconosciuti dall’ebraismo e dal cristianesimo come testi sacri, ispirati da Dio.
Questi documenti si distribuiscono anche nell’ultima fase dell’ebraismo anticotestamentario e costituiscono un capitolo della stessa letteratura religiosa giudaica.
Gli apocrifi giudaici sono almeno 65 testi diversi, composti a partire dal III secolo prima dell’era cristiana fino al II secolo, riconducibili ad ambiti e generi diversi.
Importanti, ad esempio, sono certi scritti apocalittici come i tre diversi libri di Enoch che offrono una testimonianza variegata ma decisiva di molte concezioni del giudaismo.
Significativi sono anche i “testamenti” messi in bocca a vari personaggi biblici come i vari patriarchi, oppure Giobbe, Mosè o Salomone.
C’è, poi, una serie di opere di taglio filosofico o sapienziale, come l’antico racconto di Achikar, di origine babilonese, adottato e trasformato dal mondo giudaico e divenuto molto popolare.
Non mancano, inoltre, preghiere, odi, salmi, alcuni venuti alla luce a Qumran, sulla costa del mar Morto, in una delle più celebri scoperte del secolo scorso.
Sono da registrare anche aggiunte o approfondimenti liberi di testi biblici come la “Vita di Adamo ed Eva” o la storia d’amore tra Giuseppe e Asenet.
La mostra di Illegio, però, mette in scena rappresentazioni artistiche legate agli apocrifi cristiani che puntano a ricreare, spesso molto liberamente, la vita di Gesù dando origine a nuovi Vangeli – non mancano però Apocalissi o Atti di vari apostoli e lettere sul modello di quelle paoline.
Si tratta di una massa rilevante di scritti cristiani, nati soprattutto dalla pietà popolare ma anche da ambiti colti: pensiamo agli scritti gnostici egiziani.
Essi furono ben presto contestati, nonostante rivendicassero il desiderio di allinearsi e di completare i libri canonici.
Questa esclusione, per altro spesso motivata a causa della loro qualità teologica discutibile e della loro fantasiosa creatività storica, non ne impedì l’ingresso nella devozione popolare, nella stessa storia della teologia, nella liturgia e soprattutto nella tradizione artistica dei secoli successivi.
Entriamo, dunque, anche noi come viandanti stupiti in questa selva di pagine, di immagini, di colpi di scena, di simboli, di fantasie.
Qui appaiono, ad esempio, le “divine malefatte” di un Gesù ragazzo che fa morire e risorgere o mutare in capretti i compagni di giuoco, che paralizza il maestro che sta per picchiarlo a causa della sua sapienza troppo saccente, ma che sa guarire dai morsi di vipera e estrae prodigiosamente bimbi caduti in forni o pozzi, che aggiusta senza fatica manuale un letto sghembo uscito dalla falegnameria di Giuseppe.
Tra le decine di percorsi che si aprono davanti a noi in tale foresta letteraria ne scegliamo uno che ci conduca all’evento della Pasqua di Cristo, il periodo liturgico che ci sta accompagnando.
Un’enorme massa di racconti segue, infatti, le ore della settimana che verrà poi chiamata “santa”.
Inseguiremo solo alcuni attori di quei giorni oscuri e gloriosi, prescindendo quindi dai vari soggetti esposti nella mostra friulana.
*** Il primo a venirci incontro è Giuda Iscariota, il traditore, un personaggio che ha continuato a generare nuovi “apocrifi” fino ai nostri giorni con vari romanzi e opere di autori diversi moderni.
Per gli apocrifi antichi la storia del traditore di Gesù ha radici remote e molto fantasiose.
Figlio del sacerdote Caifa, fin da piccolo Giuda – secondo il “Vangelo arabo dell’infanzia del Salvatore”, un apocrifo carissimo ai cristiani d’Oriente e persino ai musulmani – dava segni di possessione diabolica.
Sua moglie, stando invece a un testo copto egiziano, aveva accolto presso di sé per allattarlo il figlio neonato di Giuseppe d’Arimatea, colui che avrebbe offerto la tomba di famiglia per deporvi il cadavere di Gesù.
Ebbene, quando Giuda tornò a casa stringendo in mano i trenta denari del tradimento, quel neonato non volle più succhiare il latte.
Venne, allora, convocato suo padre Giuseppe: appena il piccolo lo vide, prodigiosamente si mise a gridare: “Vieni, padre mio, portami via dalle mani di questa donna che è una bestia selvatica.
Ieri, nell’ora nona, hanno preso il prezzo del sangue del Giusto”.
Infatti sempre secondo i testi apocrifi, era stata la moglie a spingere Giuda al tradimento per venalità: costringeva già da tempo il marito a rubare alla cassa comune dei discepoli che, come si legge nel Vangelo canonico di Giovanni (12, 6), era appunto gestita da Giuda.
Ma la scena più clamorosa è narrata dalle Memorie o Vangelo di Nicodemo, un famoso apocrifo greco, giunto a noi anche in versione copta e latina, forse dell’inizio del II secolo.
Giuda, dopo aver tradito Gesù, si ritira a casa sua, cupo e deciso al suicidio.
Sua moglie cerca di convincerlo a non impiccarsi, certa che Cristo non potrà mai risorgere.
La donna sta arrostendo un gallo per il pranzo e scommette con il marito: “Nello stesso modo in cui questo gallo arrostito può cantare, così Gesù potrà risorgere.
Ma, proprio mentre stava parlando, quel gallo allargò le ali e cantò tre volte.
Giuda, allora, del tutto convinto, con la corda fece un capestro e andò a impiccarsi”.
È evidente la ripresa in forma surreale ed esasperata del tema evangelico del gallo che canta al momento del tradimento di Pietro.
Altri apocrifi dipingeranno la morte di Giuda, invece, come un’esplosione dopo che il suo corpo si era gonfiato a dismisura – c’è un libero riferimento ad Atti degli Apostoli 1, 18 – e rappresenteranno la sua anima mentre vaga disperata nell’Amenti, cioè negli inferi.
*** Non poteva mancare una fioritura apocrifa anche attorno a un altro attore del racconto evangelico delle ultime ore terrene di Gesù: il procuratore romano Ponzio Pilato.
Lo scrittore e martire cristiano Giustino nel 155 circa chiamava “Atti di Pilato” quelle Memorie di Nicodemo a cui abbiamo appena accennato.
Esse, infatti, contengono una vivace sceneggiatura del processo romano di Cristo, nei confronti del quale vengono avanzati come capi di imputazione la nascita impura da fornicazione e la violazione della legge, soprattutto quella del riposo sabbatico.
Ma lasciamo la parola all’antico narratore che già esalta la grandezza sovrumana di Cristo.
“Pilato chiamò un messo e gli ordinò: Mi sia condotto qui Gesù, ma con gentilezza! Il messo uscì e, quando riconobbe Gesù, lo adorò, stese a terra il sudario che aveva in mano e gli disse: Signore, cammina qui sopra e vieni perché il governatore ti chiama.
[…] Quando Gesù entrò da Pilato, le immagini che i vessilliferi reggevano sulle insegne si inchinarono da sole e adorarono Gesù”.
Sfilano poi davanti a Pilato i testimoni a discarico: ciechi, paralitici, un gobbo, l’emorroissa, tutti guariti da Gesù, e Nicodemo, membro del Sinedrio giudaico.
Qui entra in scena la moglie stessa del procuratore della quale i vari apocrifi offrono anche il nome, Claudia Procula, o Procla: “Sapete che mia moglie – dice Pilato agli accusatori di Gesù – simpatizza con voi riguardo al giudaismo.
Gli ebrei risposero: Sì, lo sappiamo! Pilato: Ecco, mia moglie mi ha mandato a dire: Non ci sia nulla tra te e quest’uomo giusto! Questa notte, infatti, ho sofferto molto a causa sua.
Gli ebrei, allora, replicarono a Pilato: Non ti abbiamo forse detto che è un mago? È lui che ha inviato a tua moglie i fantasmi dei sogni”.
È evidente anche in tal caso come la base narrativa del Vangelo canonico di Matteo (27, 19) venga ampliata con aggiunte di colore.
A questo punto Pilato – stando al Vangelo di Pietro che è stato definito “il più antico racconto non canonico della Passione di Cristo” (scritto attorno al 100 e ritrovato solo nel 1887 in Alto Egitto nella tomba di un monaco) – “si alzò; nessuno degli ebrei si lavò le mani, né Erode né alcuno dei suoi giudici”.
Solo Pilato, dunque, si lava le mani dichiarando simbolicamente la sua innocenza.
Poi, sempre secondo le Memorie di Nicodemo, “ordinò che fosse tirato il velo davanti alla sedia curule e disse a Gesù: Il tuo popolo ti accusa di assumere il titolo di re.
Perciò ho decretato che, in ossequio alla legge dei pii imperatori, tu sia prima flagellato e poi appeso alla croce nel giardino dove sei stato catturato.
Disma e Gesta, entrambi malfattori, saranno crocifissi con te”.
Appaiono così anche i nomi improbabili dei due compagni di crocifissione di Gesù, anonimi secondo Luca 23, 39-43.
È, però, soprattutto sulla vita successiva di Pilato che si scatenerà la fantasia apocrifa, compresa quella moderna: pensiamo al “Procuratore di Giudea” di Anatole France, a “Il punto di vista di Ponzio Pilato” di Paul Claudel, alla “Moglie di Pilato” di Gertrud von Le Fort, al “Ponzio Pilato” di Roger Caillois, al “Pilato” di Friedrich Dürrenmatt, al “Maestro e Margherita” di Michail A.
Bulgakov e così via.
Ci è giunta dall’antichità cristiana una relazione apocrifa inviata da Pilato agli imperatori Tiberio e Claudio con i riscontri dei destinatari, una lettera di Pilato a Erode e una “Paradosi” di Pilato, cioè un’ipotetica “tradizione” storica delle sue vicende.
C’erano persino apocrifi pagani su di lui, tant’è vero che lo storico cristiano Eusebio di Cesarea lamentava che l’imperatore Massimino Daia nel 311 avesse fatto distribuire nelle scuole delle false memorie di Pilato “piene di empietà contro Cristo” e avesse ordinato che i ragazzi le imparassero a memoria per istigarli all’odio contro il cristianesimo.
Ma gli apocrifi cristiani si accaniranno in particolare sulla morte di Pilato con esiti antitetici.
Da un lato, la citata “Paradosi” descrive una fine tragica durante una partita di caccia con l’imperatore.
“Un giorno Tiberio, andando a caccia, stava inseguendo una gazzella; ma, quando questa giunse davanti alla porta di una caverna, si fermò.
Pilato si spinse a vedere.
Tiberio lanciò nel frattempo una freccia per colpire l’animale, ma essa attraversò l’ingresso della caverna e uccise Pilato”.
Più impressionante è la fine narrata da un altro testo e divenuta popolare nel Medioevo, secondo cui Pilato morì suicida a Roma con un colpo del suo prezioso pugnale.
Gettato con un peso nel Tevere, il cadavere dovette essere ripescato perché attirava gli spiriti maligni rendendo pericolosa la navigazione sul fiume.
Traslato a Vienne in Francia e immerso nel Rodano, dovette essere recuperato per la stessa ragione e sepolto a Losanna.
Ma anche qui, a causa del suo corpo infestato di demoni, lo si dovette riesumare e scaraventare in un pozzo naturale, in alta montagna.
D’altro lato, la tradizione apocrifa cristiana esalta invece la conversione di Pilato che muore come martire, decapitato per ordine di Tiberio, e viene accolto in cielo da Cristo.
Non per nulla la Chiesa etiopica venera come santo nel suo calendario liturgico il procuratore romano.
La stessa sorte toccherà a sua moglie Claudia Procula.
Ecco, infatti, un’altra versione della fine di Pilato secondo la “Paradosi” che abbiamo sopra citato.
“Il comandante Labio, incaricato dell’esecuzione capitale, troncò la testa di Pilato e un angelo del Signore la raccolse.
Sua moglie Procula, vedendo l’angelo giunto a prendere la testa del marito, ebbe un trasporto di gioia ed emise l’ultimo respiro.
Fu, così, sepolta con suo marito Pilato per volere e benevolenza del Signore nostro Gesù Cristo”.
La conversione del procuratore era avvenuta in coincidenza della risurrezione di Cristo, secondo il Vangelo di Gamaliele, opera copta del V secolo.
Infatti, “entrato nella tomba di Cristo, Pilato prese le bende mortuarie, le abbracciò e per la gran gioia scoppiò in lacrime.
Si volse poi a un suo capitano che aveva perso un occhio in guerra e rifletté: Sono sicuro che queste bende restituiranno la luce al suo occhio.
Avvicinò a lui le bende mortuarie e gli disse: Non senti, fratello, il profumo di queste bende? Non è un odore di cadavere ma di porpora regale impregnata di soavi aromi.
[…] Il capitano prese quelle bende e si mise a baciarle dicendo: Sono certo che il corpo che voi avete avvolto è risorto dai morti! Nell’istante in cui il suo volto le toccò, il suo occhio guarì e vide la gioiosa luce del sole come prima.
Fu come se Gesù avesse posto su di lui la mano, proprio come era accaduto al cieco nato”.
*** Un capitolo particolare in molti Vangeli apocrifi è riservato ai testimoni della risurrezione che si moltiplicano rispetto ai Vangeli canonici e che diventano spettatori di epifanie clamorose.
Ecco come lo stesso Pilato narra la sua esperienza secondo il citato Vangelo di Gamaliele: “Vidi Gesù al mio fianco! Il suo splendore superava quello del sole e tutta la città ne era illuminata, ad eccezione della sinagoga degli ebrei.
Egli mi disse: Pilato, piangi forse perché hai fatto flagellare Gesù? Non aver paura! Sono io il Gesù che morì sull’albero della croce e sono io il Gesù che è risorto dai morti.
Questa luce che tu vedi è la gloria della mia risurrezione che irradia di gioia il mondo intero! Corri, dunque, alla mia tomba: troverai le bende mortuarie che sono rimaste là e gli angeli che le custodiscono; gettati davanti ad esse e baciale, diventa assertore della mia risurrezione e vedrai nella mia tomba grandi miracoli: i paralitici camminare, i ciechi vedere e i morti risorgere.
Sii forte, Pilato, per essere illuminato dallo splendore della mia risurrezione che gli ebrei negheranno”.
E di fatti Pilato giunto al sepolcro di Cristo – come si è già visto – passerà di sorpresa in sorpresa, incontrando anche il ladrone risorto.
C’è, dunque, un “altro” Cristo risorto che viene incontro negli scritti apocrifi a una folla di persone, rispetto alla ben più sobria e rigorosa narrazione dei Vangeli canonici.
Un’apparizione è riservata, ad esempio, anche all’apostolo Bartolomeo nell’omonimo vangelo apocrifo: in quell’occasione Gesù svela tutti i segreti dell’Ade, ove aveva trascorso il periodo tra la sua morte e l’alba di Pasqua.
In un altro testo è Giuseppe d’Arimatea a incontrare il Signore risorto.
Arrestato dai giudei per aver offerto a Gesù il sepolcro, egli vede avanzare Gesù con il ladrone pentito nella tenebra della sua cella: “Nella camera risplendette una luce accecante, l’edificio fu sospeso ai quattro angoli verso l’alto, si aprì un passaggio e io uscii.
Ci mettemmo in viaggio per la Galilea, mentre attorno a Gesù brillava una luce insopportabile a occhio umano e dal ladrone emanava un gradito profumo che era quello del paradiso”.
Anche Pietro, al di là delle apparizioni pasquali “canoniche”, ha un incontro straordinario registrato dagli Atti di Pietro, un apocrifo composto tra il 180 e il 190, sulla via di Roma, e divenuto la sostanza del “Quo Vadis?”, il famoso romanzo che il polacco Henryk Sienkiewicz compose tra il 1894 e il 1896.
*** Particolarmente vivace è poi la tradizione apocrifa riguardante la madre di Gesù, Maria.
I Vangeli canonici tacciono sull’incontro del Risorto con lei.
Infatti, dopo la scena del Calvario (Giovanni 19, 25-27) si passa a quella degli Atti degli Apostoli secondo la quale i discepoli di Gesù “sono assidui e concordi nella preghiera” con Maria “al piano superiore della casa [di Gerusalemme] ove abitavano” (1, 13-14) e non si aggiunge nulla sull’incontro tra la Madre e il Risorto.
A questo vuoto suppliscono abbondantemente gli apocrifi.
Riprendiamo tra le mani il Vangelo di Gamaliele.
Maria, prostrata dal dolore, rimane in casa, ed è Giovanni che le riferisce le notizie sulla sepoltura del Figlio.
Essa, tuttavia, non si rassegna a restar lontana dalla tomba di Gesù e, tra le lacrime, dice a Giovanni: “Anche se la tomba di mio Figlio fosse gloriosa come l’arca di Noè, io non ne avrei nessun conforto se non la potessi vedere per versarvi le mie lacrime.
Giovanni le rispose: Come possiamo andarci? Davanti alla tomba sono di guardia quattro soldati dell’esercito del governatore! […] La Vergine, però, non si lasciò trattenere e la domenica, di buon mattino, si recò al sepolcro.
Giunta di corsa, si guardò intorno e fissò lo sguardo sulla pietra: era stata rotolata via dal sepolcro! Allora esclamò: Questo miracolo è avvenuto a favore di mio Figlio! Si sporse in avanti, ma non vide nel sepolcro il corpo del Figlio.
Quando il sole spuntò, mentre il cuore di Maria era malinconico e triste, si sentì penetrare nella tomba dall’esterno un profumo aromatico: sembrava quello dell’albero della vita! La Vergine si voltò e in piedi, presso un cespuglio di incenso, vide Dio vestito con uno splendido abito di porpora celeste”.
Maria, tuttavia, non riconosce in questa figura gloriosa suo Figlio.
Allora inizia un dialogo simile a quello che il Vangelo di Giovanni (20, 11-18) intesse tra Maria Maddalena e il Cristo risorto e alla fine si ha lo scioglimento dell’enigma: “Non smarrirti, Maria, osserva bene il mio volto e convinciti che io sono tuo Figlio”.
E Maria replicherà augurandogli una “felice risurrezione”, inginocchiandosi a adorarlo e a baciargli i piedi.
Un’altra testimonianza, ancor più fastosa, dell’apparizione del Risorto a sua madre è conservata in un frammento copto del V-VII secolo, traduzione di un testo più arcaico.
“Il Salvatore apparve sul grande carro del Padre di tutto il mondo e, nella lingua della sua divinità, esclamò: Maricha, marima, Tiath.
Che significa: Mariam, madre del Figlio di Dio! Mariam ne capiva il senso; perciò si volse e rispose: Rabbuní, Kathiath, Thamioth.
Che significa: Figlio di Dio! Il Salvatore le disse: Salve a te, che hai portato la vita a tutto il mondo! Salve, madre mia, mia santa arca, mia città, mia dimora, mio abito di gloria del quale mi sono vestito venendo al mondo! Salve, mia brocca piena di acqua santa! Tutto il paradiso gioisce per merito tuo.
Ti assicuro, Maria, mia madre: colui che ti ama, ama la vita.
Poi il Salvatore aggiunse: Va’ dai miei fratelli e di’ loro che sono risorto dai morti e che andrò al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro.
[…] Maria disse a suo Figlio: Gesù, mio Signore e mio unico Figlio, prima di andare nei cieli dal tuo Padre, benedicimi perché io sono tua madre, anche se non vuoi che io ti tocchi! E Gesù, vita di tutti noi, le rispose: Tu sarai assisa con me nel mio regno.
Allora, il Figlio di Dio s’innalzò sul suo carro di cherubini, mentre miriadi di angeli cantavano: Alleluia! Il Salvatore stese la mano destra e benedisse la Vergine”.
Ormai con questo testo ci ritroviamo in un’altra regione, quella della devozione mariana, cara soprattutto alle Chiese d’Oriente.
L’accento scivola sulla mariologia, lasciando sullo sfondo il riferimento cristologico.
*** La ricca esemplificazione che abbiamo offerto – sebbene si riferisca a una sola fase della storia di Gesù Cristo – non rende ragione del tutto riguardo alla molteplicità tematica e ai riflessi della varie situazioni ecclesiali che sono rivelati dalle pagine apocrife.
Essa, però, riesce a mostrare in modo inequivocabile la qualità radicalmente differente, sia per attendibilità storica sia per rigore teologico, degli scritti canonici neotestamentari, esempio della loro essenzialità tematica e sobrietà narrativa.
Significativa, per contrasto, è l’elaborazione della “gnosi” – secondo la quale la salvezza è offerta solo dalla conoscenza – diffusa soprattutto in Egitto.
Essa introdurrà, ad esempio, nel Vangelo di Tommaso una collezione di frasi o detti di Gesù evangelici ed extra-evangelici, alcuni di grande interesse storico, ma anche aprirà la stura a discutibili speculazioni teologiche, spesso molto elaborate e sofisticate e fin stravaganti.
In positivo potremmo dire che, però, domina un forte senso della grandezza dell’evento cristologico e una viva coscienza dell’identità cristiana.
In un apocrifo egiziano gnostico, noto come il Vangelo di Filippo, si legge: “Se dici: Sono ebreo! nessuno si commuove.
Se dici: Sono romano! nessuno trema.
Se dici: Greco, barbaro, schiavo, libero! Nessuno si agita.
Ma se dico: Sono cristiano! Il mondo trema”.
Un anno fa misero in mostra la Genesi.
L’anno prima l’Apocalisse.
Ed entrambe le volte richiamarono a Illegio, piccolo borgo di montagna sulle Alpi della Carnia, un gran numero di visitatori, incantati dai capolavori d’arte lì raccolti da importanti musei d’Italia e del mondo.
Fu tale il successo che la mostra sull’Apocalisse fu addirittura replicata a Roma, nei Musei Vaticani.
Quest’anno, dal 24 aprile al 4 ottobre, a Illegio sono in mostra gli Apocrifi.
Cioè le memorie e le leggende non scritte nei libri dell’Antico e del Nuovo Testamento ma entrate nella tradizione cristiana, riprese dall’arte e raffigurate anche in tante chiese.
A cominciare dal bue e dall’asinello accanto al neonato Gesù, sono numerosi gli episodi e i personaggi della storia sacra tramandati al di fuori dei testi canonici della Bibbia.
Ad esempio la nascita e l’infanzia di Maria con i suoi genitori Anna e Gioacchino, il suo sposalizio con Giuseppe, i nomi e le vicende dei Magi, i particolari della fuga in Egitto, la “dormizione” della Madonna e la sua assunzione al cielo.
Sono ottanta le opere raccolte ad Illegio con soggetto gli Apocrifi e con autori di prima grandezza, come Bruegel e Guercino, Dürer e Caravaggio.
Di quest’ultimo, nelle prime settimane della mostra, è esposto lo splendido “Riposo nella fuga in Egitto” conservato nella Galleria Doria Pamphili di Roma.
Con Maria e il Bambino dormienti e un angelo che accompagna al violino un mottetto con parole del Cantico dei Cantici.
Giuseppe regge lo spartito musicale e l’asino guarda ed ascolta, estasiato.
Sulla copertina del catalogo della mostra edito da Skira c’è un dipinto del Guercino del 1628 (vedi sopra) con l’incontro tra Gesù risorto e la madre: anche questo non raccontato dai Vangeli.
La scelta di dedicare la mostra agli Apocrifi non è priva di addentellati con l’uso odierno di alcuni testi extrascritturali.
Dal “Codice da Vinci” alla vicenda di Giuda è oggi tutto un pullulare di libri e di film sostanzialmente mirati a invalidare i Vangeli: libri e film che si presentano come portatori di una “verità nascosta”, occultata dagli stessi Vangeli e dalla Chiesa.
Questo della “verità nascosta” è un carattere che già apparteneva ai testi apocrifi di impronta gnostica dei primi secoli.
Non sorprende che oggi ritrovi successo, con il moderno gnosticismo anticristiano.
Le opere d’arte esposte ad Illegio mostrano invece che larga parte degli Apocrifi hanno avuto e possono continuare ad avere tutt’altra funzione: non di contrastare e invalidare i Vangeli canonici, ma di dilatarne il racconto, di arricchirne la comprensione, di nutrire la devozione, in sostanziale continuità con la trama fondante delle Sacre Scritture.
E questa è una ragione in più per esplorare il vasto insieme degli scritti extracanonici.
È ciò che fa qui di seguito in modo avvincente l’arcivescovo Gianfranco Ravasi, studioso di fama mondiale della Bibbia e della letteratura ad essa connessa, presidente del pontificio consiglio della cultura.
Ravasi è tra quelli che hanno presentato ufficialmente al pubblico la mostra di Illegio sugli Apocrifi, lo scorso 23 aprile, a Roma, nel palazzo dell’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede.
Il suo intervento è uscito anche su “L’Osservatore Romano” del 24 aprile 2009, col titolo: “Il canto del gallo arrostito e la conversione di Ponzio Pilato”.
Ravasi si sofferma soprattutto sugli ampliamenti che gli Apocrifi hanno fatto dei racconti della Passione.
La conversione di Ponzio Pilato è uno di questi sviluppi: entrato a tal punto nella tradizione, che la Chiesa etiopica venera come santo il procuratore romano che condannò a morte Gesù.
Il sito della mostra.
con tutte le informazioni: > Apocrifi.
Memorie e leggende oltre i Vangeli
Promotore della mostra è il Comitato di San Floriano, animato da don Alessio Geretti, viceparroco della pieve e studioso dell’arte cristiana.
__________ Il servizio dedicato da www.chiesa alla precedente mostra sulla Genesi: > Miracolo a Illegio, piccolo borgo di montagna (30.5.2008)

La mia Chiesa

(…).
1) La comprensione incondizionata dell’uomo Più che una “dittatura del relativismo”, che potrebbe compromettere ogni ricerca della verità, oggi si avverte uno “spaesamento dei valori” (diritto, doveri, giustizia, libertà, educazione, rispetto, sicurezza sociale, pace).
L’atteggiamento della Chiesa di fronte a queste realtà è molteplice.
È la spettatrice critica di fronte ai processi della società, e magari diventa arcigna e violenta di fronte ai fenomeni giudicati degenerativi della società.
Si pensi come il “magistero” ha inteso la “modernità”.
Essa è stata pensata come una deformazione delle coscienze, quando poteva tradursi in una grande educazione di umanità.
È comprensibile la diffidenza che la Chiesa ha verso la ricerca scientifica? Forse la Chiesa non ha mai voluto ammettere il “date (rendete) a Cesare quel che è di Cesare” e il “date a Dio quel che è di Dio” (Mt.
22, 21).
(…).
Attualmente la Chiesa sembra voler essere l’“autovelox” della morale.
Sta nascosta dietro l’angolo e quando la cultura sfreccia e magari sembra violare, per eccesso di velocità, soprattutto i temi della morale, eleva sanzioni (…).
La Chiesa certamente deve condurre gli uomini alla vita vera.
Ma come fa la madre.
Ella non insegna, ma educa, costruisce, con infinita comprensione, con uno spirito di riconciliazione senza limite.
La sua non è sterile constatazione, o peggio controllo (“inquisizione”), ma sempre lievito, fermento di vita, promozione.
L’umanità è comunque sofferente e bisognosa, al di là di ogni forma di peccato, e la Chiesa, con l’unica sua verità, che è la misericordia di Cristo, ripete: “Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò” (Mt.
11, 28).
Il cap.
15 di Luca potrebbe essere il “manifesto” del comportamento della Chiesa.
Narra le parabole della pecora smarrita, della dramma perduta e del figlio prodigo.
Si capisce in questo manifesto cosa significhi comprendere e amare l’essere umano che è sempre così debole.
I primi sette versetti del capitolo sono di una emotività eccelsa ed estrema.
“Pantes oi telonai cai oi amartoloi – Tutti i pubblicani e i peccatori vanno da lui”.
L’appuntamento di “tutte” le persone sregolate è da Gesù.
È comprensibile lo scandalo delle persone rette, i farisei e gli scribi.
E Gesù, “umile di cuore” anche con loro, dice: “Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova?”.
No, nessuno userebbe questo criterio pastorale.
Ma Gesù insiste e sostiene di essere nella gioia solo quando ritrova la pecora.
E a conferma della arditezza del suo amore, senza parametri umani: “Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore che si converte che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione”.
 2) La “Cattolicità” “Deus vult omnes homines salvos fieri – Dio vuole che tutti gli uomini vengano salvati” (1 Tm.
2,4).
È evidente l’afferma-zione biblica, perché, con l’“incarnazione”, Dio si fa uomo in ogni uomo.
“Non fa preferenze di persona” (At.
10, 34).
Anzi “ogni uomo a qualsiasi popolo appartenga” è bene accetto a Dio” (At.
10, 34).
La consegna agli Apostoli, dopo la risurrezione, è: “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura” (Mc.
16, 15).
Probabilmente l’assicurazione: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt.
28, 20) viene fatta per garantire che la sua Chiesa “avrà le porte sempre aperte” (Ap.
21, 25), per accogliere tutte le genti.
Riservare il cristianesimo alla civiltà occidentale è tradire il Vangelo.
Rivendicare le “radici cristiane” dell’Europa rischia di compromettere l’universalità del Vangelo.
Il Vangelo è incarnazione attiva presso tutte le genti.
Le quali sono chiamate ad esprimere il loro volto cristiano (cf.
Mt.
28, 19).
Gli Apostoli non sono mandati per dare alle genti un cristianesimo occidentale, ma per affidare a tutti il Vangelo quale sorgente di originalità.
Il messaggio del Vangelo rimane genuino e originale presso tutti i popoli: “Costoro che parlano sono tutti Galilei.
E com’è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadocia, del Ponto, e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, stranieri di Roma, Ebrei e proseliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio” (At.
2, 7-11).
(…).
  3) L’Unità L’unità di tutto il genere umano ha per fondamento il Vangelo.
Dio si è incarnato in ogni uomo, rendendo ognuno di noi uguale al fratello.
Non c’è umanità, pertanto, senza l’amore del fratello.
Il quale ha tutti i diritti al mio amore, perché “nessun uomo è profano o immondo” (At.
10, 28).
L’unità, in realtà, non si fa con la dottrina, non si fa con i principi, non si fa con una religione codificata, ma soltanto con l’amore.
Amos Oz riferisce un aneddoto: “Avevo dato all’amico un appuntamento al bar.
Assolsi ad un piccolo impegno d’urgenza e subito raggiunsi l’amico.
Con mia sorpresa vidi già seduto accanto a lui un signore dal nobile aspetto.
Con qualche gesto impercettibile chiesi all’amico chi fosse.
Quegli, con fare circospetto, mi disse: mi pare tanto che sia Dio.
Mi sedetti accanto e, parlando, anch’io ebbi l’impressione che fosse Dio.
Volli allora togliermi una curiosità.
Dissi: da noi qui ci sono tante religioni: la cristiana, l’ebraica, la musulmana.
Qual è quella vera? Rispose: non lo so; io non sono religioso.
Sono venuto sulla terra per amare gli uomini e per salvarli”.
Invece il confronto religioso diventa facilmente violenza, dalla lotta contro gli Albigesi alle “crociate”.
Francesco nella Regula non bullata (cap.
16) ha una pagina di grande significato: “I frati coraggiosi vadano presso gli infedeli e, presentandosi come cristiani, si mettano a servizio di tutti senza mai contrasti e dispute”.
Incantato dalla sua figura, il delegato papale di Damietta Jaques De Gratry riferisce che Francesco si presentò al sultano “sine armis et sine argumentis philosophicis, ma solo con l’amore di Cristo”.
Giovanni XXIII, veramente ispirato, nel discorso di apertura del Concilio, chiedeva a Dio che questo evento portasse alla costituzione dell’unica famiglia umana, “all’unità dei cristiani tra loro, all’unità dei cristiani con gli uomini di altre religioni, all’unità dei credenti con i non credenti”.
L’occasione attuale della miscelatura di tutti i popoli, occidentali e arabi, cinesi e indiani, cristiani e musulmani, offre ai discepoli di Cristo la possibilità di effondere tutto l’amore di Cristo, fino alla costruzione della “Pacem in terris”.
  4) La Carità La carità è la Chiesa: “charitas Christi urget nos”.
I tre Vangeli sinottici sono il poema della carità di Gesù.
Gesù è sempre in attività, per guarire tutti gli ammalati, per dare conforto a tutti i bisognosi.
Sta volentieri con le persone anonime, con le “folle”, che non hanno qualificazioni sociali, che “sono come pecore senza pastore”, e prova pietà per loro: “misereor super turbam”.
Le folle sono particolarmente bisognose, sono di solito affamate.
E Gesù provvede loro con la “moltiplicazione dei pani”.
(…).
La Chiesa pensa oggi alle “masse affamate” del mondo? Oggi, il dramma dei popoli, Iraq, Sudan, ha riscontro nella Chiesa? Gesù scombina anche i rigorosi precetti della legge mosaica, per andare incontro alle necessità dell’uomo: “Il sabato è per l’uomo e non l’uomo per il sabato”.
Con gli Apostoli Gesù percorre tutte le strade della Palestina, non per andare a formare cenacoli e gruppi di preghiera, né per andare a costruire chiese e sinagoghe, ma per “cercare e salvare ciò che era perduto” (Lc.
19, 10).
Sembra quasi trascurare il culto e anche la catechesi, quando raccomanda: “Se fai l’offerta all’altare e ti ricordi che il fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì l’offerta, corri a riconciliarti con il fratello, poi torni e fai l’offerta all’altare” (Mt.
5, 23-24).
Di grande provocazione è il suo identificarsi con il “Buon Samaritano” e trascurare il sacerdote e il levita, ma anche il “dottore della legge”, al quale dice in pratica che non sono necessari né il tempio, né la Torah, quando invece indispensabile è agire come il Samaritano (Lc.
10, 25-37).
Incandescente per me è l’episodio del “battesimo”.
Egli, l’innocenza di Dio, vuole purificarsi come gli altri, apparire un peccatore tra i peccatori.
È chiaro allora che non c’è un reietto che non sia Lui, non c’è una vittima che non sia Lui, non c’è uno straniero che non sia Lui, non c’è un disperato che non sia Lui (cf.
Mt.
25).
  5) Oscuramento di Cristo È certo che credere nel Dio annunciato da Gesù, un Dio umile e nascosto, dischiude problemi nella Chiesa, alla ricerca del suo compito e della sua autorità.
Il rischio della Chiesa di cambiare l’originalità dell’istituzione è grandissimo e sempre incombente.
Da discepola e testimone del Risorto, essa si fa interprete, vicaria e sostituta di Dio.
Si pone come unica titolare e depositaria del divino sulla Terra.
Gesù aveva proclamato la “giustizia superiore” delle “beatitudini”, vincendo le tentazioni della ricchezza, del prestigio e del potere.
La Chiesa invece preferisce tenere in disparte Gesù e sacralizzare questi beni (“La leggenda del Grande Inquisitore”).
L’irrilevanza di Gesù è caratterizzata da quasi tutta la modernità.
E sembra esplicita nella Chiesa.
Nelle recenti dispute con i legislatori italiani e spagnoli e con i costituenti europei, la Chiesa fa appello alla biologia, alla natura, alla storia, alle tradizioni culturali, alla precauzione politica, non al Vangelo.
Anzi ci tiene ad affermare che la sua dottrina, la verità di cui è custode, corrispondono a una visione razionale e umana a tutti comune.
La trascuranza di Cristo sembra così evidente.
Ma “sine me nihil potestis facere” (Gv.
15, 5).
E questo oscuramento del Cristo è la ragione di tutti i nostri smarrimenti.
Per fortuna e per grazia, anche se noi trascuriamo il Signore, egli viene a noi incontro.
“Gesù in persona si accosta a me e con me cammina” (Lc.
24,15).
E mi confida: “Ecco, io sto alla tua porta e busso.
Se tu ascolti la mia voce e mi apri la porta, io vengo da te, ceno con te e tu con me” (Ap.
3, 20).
  6) Il “principio speranza” “Noi diamo ragione della speranza che palpita nel nostro cuore”, perché abbiamo il Vangelo.
E il Vangelo è tutta la speranza.
Il Vangelo è una proiezione infinita di luce, è l’apertura e la libertà della vita, è “pieno di immortalità”.
“Gesù è colui che vive e più non muore” (Ap.
1, 18).
È lui il destino dell’uomo e quindi è la sua speranza infinita.
Anche la Chiesa non ha nessuna verità da dare.
Ha unicamente l’“amore eterno” (Ger.
31, 3), da comunicare a tutti.
(…).
  Esercizi di nonviolenza – L’evangelizzazione oggi sembra asfittica.
Occorre annunziare di nuovo le Beatitudini e il Magnificat.
Se Gesù ci chiede di superare le tentazioni della ricchezza, del potere, del prestigio, il Magnificat ci assicura che lui rovescia i potenti dai troni e innalza gli umili.
– Recuperare la memoria del Concilio: non dimenticare le salutari avanguardie che hanno aperto nuovi percorsi; riconoscere, come papa Giovanni XXIII, che “Ecclesia sempre reformanda”; proclamare il valore dell’Ecumenismo ad ogni costo; credere nella scelta preferenziale dei poveri; la solidarietà della Gaudium et spes: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo” (n.
5.1).
– Superare la neutralità: un giovane non può rimanere neutrale tra dittatura e democrazia, tra libertà e fascismo, tra pace e guerra, tra obiezione di coscienza e militarismo, tra accoglienza degli stranieri e razzismo.
– Recuperare la memoria dei Profeti: don Mazzolari, don Milani, p.
Balducci, p.
Turoldo, p.
Dossetti, La Pira, Lazzati, Bachelet, Moro, Dorothy Day, M.L.
King, mons.
Romero, mons.
Camara…
È necessario raccontarli per poterli rivivere.
– Resistere ai “vitelli d’oro”: consumismo, telecrazia…, non rifiuto acritico, ma ragionato.
Reagire al neo-nazismo, al neo-liberismo, alla xenofobia, al nazionalismo.
Combattere l’integralismo e difendere la laicità della politica.
– La libertà.
È una parola difficile e non deve creare equivoci.
A me hanno insegnato ad amare questa parola Gandhi, Martin Luther King, Oscar Romero e Madre Teresa di Calcutta.
Libertà non è liberismo sfrenato, è liberazione dall’oppressione, dalla tirannia, difesa del pluralismo, della tolleranza, dell’ascolto, del dialogo.
Libertà è difesa delle minoranze politiche, religiose, culturali, sociali, etniche.
– Educazione alla condivisione delle risorse, alla redistribuzione delle risorse, per ridurre il fossato Nord-Sud, per affrontare la questione dei flussi migratori inarrestabili.
– Impegno di lotta senza quartiere contro le mafie e le camorre.
Rivoltarsi contro le sottoculture dell’illegalità.
Studiare catechismi di solidarietà.
– Rifondare il sindacato di tutti, non solo dei “protetti”, ma anche degli “esclusi”.
– Lotta per la libertà dell’informazione.
Impegno per la crescita delle voci non omologate, locali e nazionali.
Sostenere l’informazione libera e la comunicazione conviviale.
– Scelta di campo per i poveri.
Non solo interiore, teologica, emotiva, ma concreta sul territorio.
(…).
– Accoglienza dell’altro.
Dell’immigrato e del rom.
Questi dovrebbero essere accolti non dalle polizie, ma dalle amministrazioni locali o da istituzioni a ciò preposte.
(…).
  Amo la mia gente con le opere di Misericordia Gesù è l’uomo per gli altri.
Anch’io, suo apostolo, devo essere l’uomo per gli altri.
Sono personalmente convinto che oggi la Chiesa sia fortemente ancorata alla liturgia e alla evangelizzazione e meno sensibile alla carità, all’amore verso tutti gli uomini.
Sogno una Chiesa piena di vangelo, che rende Gesù visibile dovunque.
Gesù parla poco di questioni morali, mentre la sua condotta sembra “eccessivamente” misericordiosa.
Non insiste mai sui precetti e sulle ideologie giustificatrici.
Presentandosi come “Figlio dell’uomo”, non appare certo come il Dio dei poteri, delle istituzioni e dei sistemi, che creano le vittime e gli sfiduciati.
Ma sta con coloro che piangono e che “hanno fame e sete di giustizia”.
Non cerca i grandi templi, con lo scopo di onorare Dio, ma gli bastano “lo spirito e la verità” (Gv.
4,23).
Oggi una Chiesa autoreferenziale confonde facilmente i suoi fini con i suoi interessi.
Sembra si debba pensare che Dio è nella Chiesa e pertanto il mondo esista per servire la Chiesa e questa per difendere ad ogni costo se stessa.
Invece Dio è nel mondo e la Chiesa esiste per servire il mondo, creato da Dio e amato, e redento e perdonato da Lui.
Questo mondo è il nostro mondo, è quello che Dio ci ha dato da amare.
Non siamo qui per giudicarlo, ma per annunciargli il Vangelo, cioè la salvezza e la felicità.
Per Gesù i sabati, i templi, le filatterie, i precetti diventano totalmente secondari di fronte al dolore degli uomini.
Gesù lascia le curie del potere e va nell’“orto”, dove egli suda il sangue dei poveri.
L’opzione della Chiesa dovrebbe ancora essere il predicare un cristianesimo di sequela, piuttosto che un cristianesimo di consumo.
Non si può pensare che con più praticanti si salvano più uomini.
Se non esagero, vorrei proporre oggi una Chiesa di frontiera.
La frontiera è fuori dal tempio.
La frontiera è un luogo esposto.
È il luogo degli arrivi e delle partenze.
È il luogo dell’imprevisto, dell’inedito.
È il luogo dell’originale.
È il luogo dell’uomo sempre nuovo e sempre in attesa di una patria.
Ma è anche il luogo di Cristo.
Non si può pensare qualcosa di più urgente e di più precario della Capanna della sua nascita.
La Chiesa è artigiana della pace, non solo della pace dei cuori, ma anche della pace che passa attraverso l’azione politica.
Deve pregare per la pace, ma anche difendere l’uomo dal dominio incontrollato delle istituzioni e delle corporazioni, che rischiano di renderlo puro strumento della loro volontà di potenza.
Deve intervenire per allargare gli ordinamenti democratici, che esprimono la sovranità popolare, per rendere attiva sempre la libertà personale.
Deve difendere l’uguaglianza tra gli uomini, impedire lo sfruttamento di una sull’altra, di un popolo su un altro e combattere apertamente l’onnipotenza del capitale e del profitto, della mafia e della camorra.
Deve denunciare quelle scelte politiche che procurano la corsa agli armamenti e deve sostenere il disarmo progressivo.
Deve solidarizzare con coloro che pongono gesti di doverosa protesta: obiezione di coscienza, marce per la pace, giudizi di illegalità per le spese militari.
Deve combattere l’autoritarismo, le forme molteplici di violenza, la chiusura ideologica.
L’esaltazione dei condottieri, il disprezzo per i vinti, il culto della razza, la magnificenza della patria, l’eurocentrismo non sono certamente elementi che rendono maturo e idoneo l’uomo del villaggio globale.
La denuncia delle inadempienze radicali degli uomini e delle intollerabili povertà di certe categorie sociali non è sufficiente.
È necessario che la Chiesa difenda i diritti e le attese dei poveri e dei bisognosi, intervenendo nelle forme più attente ed efficaci.
Gesù con la “moltiplicazione dei pani” nutre le folle e le fa vivere nella speranza.
La Chiesa o è carità o è falsità.
La Chiesa è sempre e solo amare la gente.
(…).
  Responsabilità verso la Camorra La camorra, in Campania, impedisce le riforme strutturali, indispensabili per organizzare la speranza del futuro.
Procura le dimissioni di ogni imprenditoria intelligente e produttiva.
Una politica che crea progetti, stabilisca obiettivi, dia la spinta alla soluzione dei problemi è impensabile.
E le dirigenze di ogni tipo confondono facilmente il bene comune con l’interesse privato.
Il degrado, il sottosviluppo e la disoccupazione fanno sì che l’emigrazione dei giovani volenterosi sia enorme.
I talenti migliori salgono al Nord, privando le nostre terre di quella propulsività fatta di promozione e di progresso.
Ritengo che, in particolare nel meridione, la Chiesa deve esercitare la sua forza istitutrice di etica e di civiltà.
Purtroppo, l’esempio fulgido di un don Peppino Diana, che viene ucciso dopo quel documento salutare, Per amore del mio popolo non tacerò, rimane ancora controllato e isolato.
Le gerarchie ecclesiastiche sono molto preoccupate di difendersi dai nemici “ideologici”, massoni, comunisti, laicisti di ogni genere, e sottovalutano l’inquinamento morale e civile causato dai poteri illegali.
I camorristi, che pure sradicano il Vangelo dal cuore della nostra gente, negando ogni forma di amore del prossimo, diventano facilmente promotori delle iniziative della ritualità religiosa e della collettività.
Proteggono un certo ordine stabilito, e quindi vengono corteggiati dalle istituzioni.
E, per un falso amore di pace, la Chiesa tace.
(…) La storia della Campania, come la sua cronaca contemporanea, non si spiega senza tenere nel debito conto l’influenza della Chiesa.
Si osserva quindi che le espressioni religiose, soprattutto quelle enfatiche, e la camorra non sono due fenomeni indipendenti.
Fortunatamente non si arriva mai alla complicità.
Non si può tuttavia rimanere in disparte, scaricando la realtà criminale alla competenza dello Stato.
L’esercizio del potere nel mondo della camorra si prefigge l’infiltrazione nelle istituzioni per gestirle in maniera privatistica e clientelare.
E se la camorra diventa mentalità di popolo, il messaggio d’amore di Cristo non può avere vita.
Per cominciare, nelle parrocchie si devono superare supporti che possono configurarsi come camorristi: gli atteggiamenti autoritari, la violenza di un potere costituito, la precettistica morale imposta come inquisizione delle coscienze, la mancanza di democrazia nella gestione comunitaria, gli accordi unidirezionali che producono i gruppi fra loro conflittuali.
La Chiesa è di tutti ed è essenziale che si mantenga libera dal potere politico e di casta, e lasci trasparire lo stile di un servizio incondizionato all’uomo, “senza preferenze di persone” o di categorie sociali.
Insisto perché nelle parrocchie si faccia il catechismo della legalità.
  Archivio anno 2009-  Adista documenti n.
5 Adista, 12 gennaio ’09

Secondo biennio – Maggio/Giugno

 IX unità di apprendimento:  ”Chi sono i missionari?”  OBIETTIVI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO  Conoscenze  Abilità  * La Chiesa popolo di Dio nel mondo: avvenimenti, persone e strutture.
* Rendersi conto che nella comunità ecclesiale c’è una varietà di doni, che si manifesta in diverse vocazioni e ministeri.
OBIETTIVI FORMATIVI • Scoprire l’origine derlla missione • Comprendere che ogni cristiano è un “missionario” • Conoscere la vita e le attività di alcuni missionari di ieri e di oggi  Suggerimenti operativi   • Leggere il brano evangelico dell’invio degli apostoli e poi il brano della conversione di Saulo.
Attraverso la figura di Paolo avvicinarsi all’idea di missionario, l’”apostolo dei gentili”.
• Scoprire che con il sacramento del battesimo ogni cristiano diventa “missionario” nel proprio ambito di vita, anche senza percorrere migliaia di chilometri.
• Su un cartellone compilare insieme “la carta d’identità” di ogni missionario (aiutare, far conoscere Gesù, incontrare…), far riflettere i bambini prima in gruppi piccoli di 4 o 5 e poi ogni gruppetto spiegherà alla classe le proprie idee.
• Svolgere una ricerca su alcuni missionari (madre Teresa, Daniele Comboni, Giuseppe Allamano…) grazie all’aiuto di internet (a scuola o come compito a casa).
Scegliere il materiale a disposizione e costruire un libretto da lasciare in biblioteca con le informazioni raccolte.
• Se possibile, invitare a scuola un missionario per far raccontare la sua esperienza.
I bambini potrebbero preparare una vera e propria intervista.
Evidenziare le differenze/somiglianze fra la vita di un bambino di altri paesi e quella di uno italiano.
Sottolineare che si diventa missionari per seguire Gesù e per farlo conoscere agli altri, riprendere l’idea che ogni cristiano è missionario.  Raccordi con altre discipline Italiano, ed.
alla convivenza, ed.
all’immagine, informatica, storia, geografia.
Riferimento al tema “Per i diritti di tutti” “Convenzione sui diritti dell’infanzia”:  Art.
2: ogni bambino ha dei diritti, non importa il colore della pelle, chi sono i suoi genitori, la religione che professa…
Art.
3: ogni bambino ha il diritto di essere amato.
Art.
14: ogni bambino ha il diritto di seguire la propria religione.

Primo biennio – Maggio/Giugno

 IX unità di apprendimento:  ”Quante regole!”  OBIETTIVI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO  Conoscenze  Abilità  * Gesù, il Messia, compimento delle promesse di Dio.
* La Chiesa, il suo credo e la sua missione.
* Ricostruire le principali tappe della storia della salvezza, anche attraverso figure significative.  * Cogliere, attraverso alcune pagine evangeliche, come Gesù viene incontro alle attese di perdono e di pace, di giustizia e di vita eterna.
OBIETTIVI FORMATIVI • Riconoscere che in ogni momento della vita sono necessarie delle regole • Comprendere la nuova alleanza fra Dio e il suo popolo attraverso il Decalogo • Scoprire che Gesù ha riassunto i 10 Comandamenti nel “comandamento dell’amore”  Suggerimenti operativi   • Portare in classe il tabellone di un gioco da tavolo (gioco dell’oca, cluedo, tabù…) e dire ai bambini di iniziare a giocare.
Alcuni proveranno, altri resteranno un po’ stupiti…
alla fine è importante arrivare a scoprire che senza regole condivise non è possibile giocare.
• Scoprire che le regole sono indispensabili nella vita di ogni giorno, in tutti gli ambienti di vita.
Discutere collettivamente sulle regole di un ambiente a scelta: la famiglia, la scuola, lo sport…
• Leggere il racconto di Mosè e il decalogo da una Bibbia per bambini (con un linguaggio semplificato); sottolineare che Dio con i Comandamenti stabilisce una nuova alleanza con il popolo ebraico.
Scoprire che per i cristiani non si tratta di divieti, ma di un patto di amicizia con le persone.
• Attualizzare le parole dei Comandamenti con un linguaggio più semplice, ricercare il messaggio che trasmettono ancora oggi.
• Scrivere al computer un messaggio segreto da decifrare (utilizzare l’alfabeto symbol); alla fine, risolvendo il gioco, i bambini leggeranno la frase: “ama Dio e le altre persone”.
Riflettere su questa frase e sottolineare che riassume tutto il Decalogo.
• Ricercare esempi di cristiani che si impegnano nel mettere in pratica il “comandamento dell’amore” nei vari ambiti della loro vita.   Raccordi con altre discipline Italiano, storia, ed.
alla convivenza, informatica.
Riferimento al tema “Per i diritti di tutti” “Convenzione sui diritti dell’infanzia”: Art.
14: Ogni bambino ha il diritto di seguire la propria religione.  Art.
17: Ogni bambino ha il diritto di ricevere informazioni dai libri. 

Classe prima – Maggio/Giugno

 IX unità di apprendimento:  ”I cristiani: gli amici di Gesù”  OBIETTIVI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO  Conoscenze  Abilità  * La Chiesa, comunità dei cristiani aperta a tutti i popoli.   * Riconoscere la Chiesa come famiglia di Dio che fa memoria di Gesù e del suo messaggio.
OBIETTIVI FORMATIVI • Scoprire che i cristiani sono la comunità di persone riunite nel nome di Gesù  • Comprendere che la famiglia dei cristiani si ritrova in una “casa speciale”: la chiesa • Individuare i luoghi di incontro per i credenti di altre religioni  Suggerimenti operativi   • Riflettere sui luoghi di vita di ogni giorno: la famiglia, la scuola, il gruppo sportivo.
Far comprendere ai bambini che sono “insiemi di persone”, cioè comunità, riunite per un determinato scopo.
Disegnare sul quaderno degli insiemi con le persone che fanno parte delle varie comunità.
• Le comunità in cui si vive la quotidianità hanno un luogo di ritrovo; con una discussione collettiva scoprire in quali luoghi trascorriamo il nostro tempo, sottolineare somiglianze e differenze.
A lato degli insiemi costruiti in precedenza aggiungere il disegno del luogo di ritrovo specifico.
• Far comprendere ai bambini come anche le persone che credono in Gesù, fanno parte di una comunità: i cristiani.
Il luogo di ritrovo degli amici di Gesù è la chiesa, una casa speciale fra le altre casa di una città o di un paese.
Chiedere agli alunni se sanno dove si trova la chiesa vicina alla scuola o alla loro casa.
In una discussione collettiva scoprire se sono già entrati in una chiesa e sottolineare gli elementi che si possono trovare al suo interno.
•  Ricercare attraverso internet l’immagine di una chiesa con gli elementi essenziali e darne una fotocopia a ogni bambino, da colorare e incollare sul quaderno.
•  Scoprire che le religioni del mondo hanno luoghi diversi in cui le persone si riuniscono per pregare Dio.
Procurare immagini di una sinagoga e di una moschea per notare alcune differenze con la chiesa (naturalmente soffermarsi su elementi semplici da cogliere anche per bambini così piccoli).
Se in classe ci sono bambini di altre religioni chiedere a loro di dare informazioni ai compagni e individuare su un planisfero il luogo del mondo di cui sono originari e di cui parlano.
Raccordi con altre discipline Italiano, informatica, ed.
alla convivenza, ed.
all’immagine.
Riferimento al tema “Per i diritti di tutti” “Convenzione sui diritti dell’infanzia”: Art.
14: ogni bambino ha diritto di seguire la propria religione. 

La pari dignità degli insegnanti di religione.

Le dichiarazioni del ministro Gelmini al meeting degli insegnanti di religione cattolica promosso a Roma dalla Conferenza Episcopale Italiana (CEI), secondo cui “l’insegnamento della religione deve avere la stessa dignità delle altre materie”, possono avere anche un valore concreto che travalica le questioni di principio.
Di valutazione dell’insegnamento della religione cattolica non si è parlato, ma potrebbe essere una delle conseguenze di quelle dichiarazioni.
Prima dell’emanazione della legge 169/2008 che ha reintrodotto la valutazione con voto in decimi, la religione, per esplicita previsione normativa (art.
309 del Testo Unico sulle norme per l’istruzione) era valutata con un giudizio sintetico.
Ma dopo sono sorti dubbi: voto o giudizio? In occasione dell’espressione di parere sullo schema di regolamento per il coordinamento delle norme sulla valutazione, il Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione (CNPI) nel dicembre scorso è intervenuto nel merito della valutazione delle diverse discipline di studio affermando che “Il CNPI rivendica, altresì, la necessità di garantire la pari dignità di tutti gli insegnanti, concorrendo ciascuno alla crescita dello studente nel rispetto delle sue vocazioni ed attitudini , in modo da evitare inaccettabili differenziazioni, tra gli insegnanti di educazione fisica e religione e gli altri insegnanti”.
Nello schema definitivo di regolamento sulla valutazione – attualmente al vaglio del Consiglio di Stato – la questione del voto in decimi per l’insegnamento della religione cattolica è rinviato ad apposita intesa, a meno che il ministro Gelmini, in coerenza con quanto affermato, non ne voglia anticipare l’applicazione correggendo subito il testo del regolamento.
TuttoscuolaFOCUS lunedì 27 aprile 2009

Istituti professionali

Il modello elaborato dalla commissione De Toni, confermata dal ministro Gelmini, si fondava su una netta distinzione di identità e ruolo tra gli istituti tecnici – tutti confermati nei loro indirizzi fondamentali – e quelli professionali, drasticamente sfrondati nel numero (sei in tutto) e soprattutto relegati a compiti di tipo marcatamente operativo, quasi “serventi” nei confronti dei compiti riservati ai diplomati degli istituti tecnici nelle macroaree professionali individuate.
La nuova bozza di regolamento conferma in pieno questa impostazione, che prevede una forte flessibilità dei piani di studio degli IP (dal 25% del primo biennio al 40% del quinto anno), in funzione delle caratteristiche del territorio, e definisce in termini spesso generici – probabilmente per la stessa ragione – il contenuto dei vari laboratori e tecnologie.
In questo modo la futura IP si troverà a svolgere essenzialmente un “ruolo integrativo e complementare rispetto al sistema di istruzione e formazione professionale”, come si afferma nella bozza, e potrà rilasciare qualifiche (al terzo anno) e diplomi (al quarto) in regime di sussidiarietà, “sulla base di specifici accordi stipulati dal MIUR e le singole Regioni”.
In questa prospettiva si colloca l’accordo stipulato con la Lombardia, con la sottoscrizione di una formale Intesa, operativa già dal 2009-2010.
Se il modello lombardo, per ora sperimentale, si consoliderà e si estenderà, nascerà in Italia sull’anomalo asse Prodi-Berlusconi (Fioroni-Gelmini), che ha scolarizzato e centralizzato l’istruzione professionale, il sistema di istruzione e formazione di competenza esclusiva delle Regioni, alternativo ai licei, che la Moratti aveva teorizzato, ma non realizzato.
——————————————————————————– TuttoscuolaFOCUS domenica 26 aprile 2009 Dopo una prima versione di cui si era avuta notizia alla fine dell’anno scorso, mai ufficializzata dal Ministero, torna ora a circolare una bozza di regolamento per gli Istituti professionali, anch’essa ufficiosa.
L’impostazione del regolamento è rimasta la stessa, e discende dal modello messo a punto dalla commissione De Toni, istituita a suo tempo dal governo Prodi nell’ambito delle procedure di attuazione della legge n.
40/2007 (Bersani), il cui art.
13 aveva provveduto a sopprimere i licei tecnologico ed economico della riforma Moratti e a ripristinare gli istituti tecnici e quelli professionali.

“Nuove tecnologie, nuove relazioni”

Pubblichiamo ampi stralci della relazione del direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali e sottosegretario della Conferenza episcopale italiana, tenuta presso la Pontificia Università Lateranense nell’ambito del convegno “Nuove tecnologie, nuove relazioni”.
”Quando nel 1854 il commodoro Perry regalò una locomotiva a vapore allo shogun Ieyasu per celebrare l’apertura ufficiale degli scambi commerciali americano-nipponici – racconta Derrick De Kerckhove ne La pelle della cultura lo shogun mandò il suo artista di corte perché riproducesse la locomotiva su un dipinto dato che gli era impossibile andare a vederla di persona.
L’artista giapponese trovò così difficile rappresentare il nuovo oggetto che aggiunse un poscritto per l’imperatore: “Temo di avere fatto molti errori nel mio schizzo”.
Noi tendiamo a trovare sorpassati o buffi questi episodi che avvengono al punto di incrocio di culture diverse, ma non va dimenticato che quando una nuova tecnologia viene introdotta, essa ingaggia una guerra sotterranea con la cultura preesistente”.
L’ammissione dell’artista giapponese sembra fotografare l’incertezza diffusa che si sperimenta di fronte all’incalzante cambiamento che la tecnologia sta producendo sotto i nostri occhi.
Un ritmo che diventa insostenibile per chi proviene da ben altre velocità e che rischia di trasformarsi in un handicap culturale perché impedisce la descrizione esatta di questo oggetto misterioso dalle dimensioni e dalle prospettive indefinite.
Non si riesce a fare senza errori uno schizzo del mondo, ai tempi del web 2.0, perché la realtà della comunicazione sembra sfuggire da ogni lato, quasi che ogni sua rappresentazione sia carente.
L’uscita di sicurezza da questo imbarazzante stato di cose è – come sempre – dissimulare tutto: atteggiandoci a ingenui spettatori o a critici pregiudiziali, apocalittici o integrati.
In entrambi i casi, non dovendo esprimersi in modo circostanziato perché o già d’accordo o solo contrari, si manifesta la sostanziale incapacità di reagire all’altezza delle sfide.
Ma non è questo, a mio parere, il danno più cospicuo.
Quel che è più grave e che sfugge la questione decisiva che è poi sempre la stessa e cioè: ogni cambio tecnologico ha qualcosa di “gattopardesco” nei suoi esiti.
Cambia tutto in effetti, ma per rispondere agli stessi bisogni di sempre dell’uomo.
La guerra che si ingaggia prelude a un modo nuovo di rispondere ai bisogni di sempre.
Questa convinzione, che dà corpo a un atteggiamento né ingenuo né pregiudiziale ma criticamente aperto, mi pare ben interpretata da Benedetto XVI, per il quale le nuove tecnologie rispondono al desiderio fondamentale delle persone di entrare in rapporto le une con le altre.
Questo desiderio di comunicazione e amicizia è per altro radicato nella nostra stessa natura di esseri umani.
Anzi scrive in uno dei passaggi-chiave del suo Messaggio per la xliii giornata mondiale delle comunicazioni sociali: “Il desiderio di connessione e l’istinto di comunicazione, che sono così scontati nella cultura contemporanea, non sono in verità che manifestazioni moderne della fondamentale e costante propensione degli esseri umani ad andare oltre se stessi per entrare in rapporto con gli altri”.
Niente di nuovo sotto il sole? Non propriamente, perché il cambio è epocale; tuttavia potrebbe anche solo trattarsi dell’ennesima trasformazione che cambia la pelle, ma non il cuore che va comunque alla ricerca dei bisogni di sempre.
Una cosa è certa: il dialogo, il rispetto e l’amicizia sono valori assolutamente antichi che oggi chiedono di essere vissuti in forme inedite a motivo dell’ambiente mass-mediale che è stato così radicalmente trasformato.
Per attenuare l’impatto del nuovo che rischia di annullare le nostre capacità di reazione, dobbiamo forse rimuovere anche un diffuso pregiudizio che fa del virtuale l’equivalente di ciò che non è reale.
La ricorrente guerra tra virtuale e reale rischia di inscenare una farsa che allontana dalla vita spicciola della gente, specie dei giovani, in nome di un fatale fraintendimento.
Forse ci può essere di aiuto Pierre Lévy che nei suoi studi – prima ancora dell’esplosione del web 2.0 – nel volume intitolato Il virtuale definisce come segue questa realtà: “La parola virtuale proviene dal latino medievale virtualis, derivato a sua volta, da virtus, forza, potenza.
Nella filosofia scolastica virtuale è ciò che esiste in potenza e non in atto.
Il virtuale tende ad attualizzarsi, senza essere tuttavia passato a una concretizzazione effettiva o formale (…) il virtuale non si contrappone al reale ma all’attuale: virtualità e attualità sono solo due diversi modi di essere”.
Dunque il virtuale – o se si preferisce alludervi mediante la sua controparte tecnica, il digitale – non crea una nuova umanità (o sociologia, o antropologia, o biofisiologia), ma amplifica e potenzia quella esistente.
Ciò significa che approssima le capacità agli obiettivi, e assottiglia il legame che sempre esiste tra possibile e reale: in altri termini, rende approcciabile tutto ciò che confiniamo abitualmente nella sfera del desiderio (usando questo termine come sinonimo di “onirico” e quindi, spesso, di puramente fantastico, evanescente, irraggiungibile e irreale), rende “capaci di ciò che si spera” e, in questo senso, rende la speranza – forse ogni speranza, anche la più ardita e utopica – in un certo senso più solida, più credibile, più vera.
Questa possibilità che è il virtuale spiega pure perché ancora una volta il discorso da intraprendere non sia asettico o puramente tecnologico, ma sempre legato a doppio filo alla libertà e alla responsabilità dell’uomo.
È l’uomo quello che fa la differenza e che decide del passaggio dal virtuale al reale, sta nella scelta di ciascuno rendere possibile questo slittamento.
Per questa ragione – se è lecita una piccola digressione – nel manifesto per la prossima Giornata mondiale delle comunicazioni sociali (24 maggio) che viene recapitato in questi giorni a tutte e 26.000 le parrocchie italiane si è scelto di mettere al centro un giovane scalatore di fronte a una parete.
Accessoriato come si deve: scarpette e un sacchetto di magnesio per facilitare le mani nude nella presa.
E soprattutto proteso visibilmente nel suo sforzo fisico.
Al di là delle tecniche e degli ausilii tecnici, che sono certo un grosso potenziale, di cui non si potrebbe fare a meno, ciò che conta è la forza di volontà che si trasforma in energia, resistenza, agilità.
E rende possibile la scalata.
Accanto a questa possibilità così intesa c’è pure una possibilità problematica da considerare con realismo.
Non vi è dubbio infatti che le nuove tecnologie informatiche possono deformare, possono causare dipendenza, possono creare effetti di ritorno nel momento in cui – cessato il loro effetto di alterazione – sbalzano il soggetto nel mondo reale e ne lasciano percepire, per contrasto, la durezza e la limitatezza; possono in questo senso indurre distorsioni percettive e perdita del controllo nelle fasi critiche.
Ma al di là di tutte queste possibilità, la domanda valida in tutti i casi esplicativi della relazionalità umana non è se questa cosa sia buona o cattiva, ma se siamo in grado di controllarla o se rischiamo di esserne sopraffatti.
Siamo consapevoli dei suoi effetti collaterali o al pari di un drogato o di un ubriaco ce ne accorgiamo solo a sbornia o a effetto finiti? Come si intuisce resta all’uomo il compito di colmare il divario tra virtuale e reale, trasformando il potenziale tecnologico in una effettiva crescita umana.
Non senza tenere conto, nel caso di internet, la sua estrema versatilità, che “si presta in egual misura a una partecipazione attiva e a un assorbimento passivo in un mondo di stimoli narcisistico e autoreferenziale, sì da poter essere utilizzata per rompere l’isolamento degli individui e dei gruppi oppure per intensificarlo” (Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali, Etica in internet, 22 febbraio 2002, 7).
Venendo ora nello specifico ai tre grandi valori che Benedetto XVI evoca per declinare l’umano da risvegliare dentro il nuovo contesto massmediale, l’amicizia si impone da subito come una sfida esigente.
La questione si gioca attorno al rapporto tra connettività e riconoscimento dell’identità.
Nessuno può negare che le protesi informatiche fungano da facilitatori dell’amicizia, ma si può anche dire che Msn, Facebook, Linkedin, riconoscano e facciamo realisticamente conoscere tra loro i partner? O sono solo espedienti e catalizzatori di un incontro più accelerato, agevole (in quanto abbattono le barriere comunicative e i preliminari classici della relazionalità) ma non per questo esente da ambiguità? In altre parole: i media offrono amicizia, o solo nuove opportunità di amicizia? Sono ovviamente per la seconda possibilità.
E non solo per realismo, ma per rispetto dei linguaggi che non possono sostituirsi alla libera elezione umana che fa dell’amicizia non una scelta semplicemente indotta, ma una scelta gelosamente personale.
Così è sempre stato e credo che non si possa fare diversamente neanche oggi.
Nel concreto, mentre da un lato la multimedialità è in grado di metterci in comunicazione con tanti volti che altrimenti non avremmo mai incontrato, dandocene una rappresentazione immensamente più efficace di qualunque strumento di comunicazione, dall’altro è proprio l’essenziale – cioè la forza spiazzante – del volto che rischia di essere eliminato o ridotto a inoffensivo spettacolo.
Tornino i volti e non semplicemente le facce, vuol dire confrontarsi con l’altro da sé e non semplicemente con una sua riproduzione addomesticata.
Occorre di conseguenza guardarsi da facili scorciatoie che tendono a esasperare false intimità in relazioni virtuali e rispettare invece i tempi e le forme reali dell’amicizia.
Quello del tempo è obiettivamente un indicatore con cui fare i conti per non essere sopraffatti dalla velocizzazione che toglie al ritmo interpersonale la sua condizione di possibilità.
Se ciò accade non è impossibile allora “promuovere l’amicizia” secondo l’auspicio del Papa.
Infatti nelle tipologie estremamente varie di comunità che nascono in rete, la condivisione più importante è il self sharing.
Al di là degli interessi infatti la motivazione più forte alla base delle relazioni virtuali sembra essere quella di condividere emotivamente i propri vissuti.
Si tratta di un’urgenza accresciuta dall’assenza del corpo, per cui alla fine lo strumento di espressione sono le parole che in rete si trasformano in atti.
Forse per questo, secondo Manuel Castells, internet costituisce un mezzo attraverso cui si va diffondendo un nuovo modello di socialità, la cui nascita è anteriore a quella della rete e va rintracciata nelle trasformazioni che hanno segnato la fine della modernità.
La nuova forma di socializzazione che internet permette di rappresentare è definita dal sociologo spagnolo, trapiantato in America, networked individualism.
Si tratta di un nuovo modello di interazione sociale che ha come cellula minima non più il gruppo, ma l’individuo e che si struttura attraverso la messa in rete di singoli soggetti che sempre meno hanno una comunità tradizionale di riferimento, ma non per questo vivono in maniera isolata.
Il pontificato di Benedetto XVI coincide di fatto con una evoluzione ulteriore del mondo della rete: la sua decisa trasformazione in un network sociale.
Internet non è più un agglomerato di siti web isolati e indipendenti tra loro, ma sempre più un luogo di partecipazione e di condivisione.
Tutta la grande stampa ha enfatizzato l’approccio positivo del Papa nel suo Messaggio, rafforzato anche dall’annuncio del suo “sbarco” su “youtube”.
Probabilmente non ha colto a sufficienza che tra psychè e tèchne, tra reale e virtuale non c’è necessariamente uno scontro, se di mezzo si inserisce la persona umana, cioè quella tensione etica a essere se stessi, senza lasciarsi manipolare.
Sarà per questo che con fiducia Papa Ratzinger si rivolge proprio ai giovani, cui affida il compito di evangelizzare il continente digitale, consapevole che la comunicazione ben fatta è una via per avvicinarsi a Dio, anzi – per dirla con le sue stesse parole: “Un riflesso della nostra partecipazione al comunicativo e unificante amore di Dio, che vuol fare dell’intera umanità un’unica famiglia”.
(©L’Osservatore Romano – 25 aprile 2009)

Il primo annuncio nella comunità cristiana delle origini

La Chiesa ha bisogno continuo di ritrovare la sua identità, soprattutto quando la situazione storica diventa per essa una sfida che mette in gioco la sua capacità di realizzare i propri compiti e dunque la sua stessa legittimità di Chiesa.
Per la Chiesa la memoria delle radici diventa perciò una memoria vitale.
Quindi la rilettura delle sue origini, non è un lusso; non è nemmeno pura ricerca archeologica, ma un atto di memoria vitale (un memoriale), con notevoli ripercussioni dogmatiche e pastorali.
È in quest’ottica che si pone questa ricerca, con l’intento di chiarire meglio le idee, di superare stereotipi circolanti, esaminando con cura le fonti.
per la consultazione del contributo: Il primo annuncio nella comunità cristiana delle origini da Catechesi 2008 numero 93