Il classico va bene ma solo se è di moda

In sede di consuntivo, gli esperti del mondo editoriale hanno concordemente cantato vittoria:  l’edizione 2009 della Fiera del libro di Torino ha registrato un successo superiore a ogni previsione.
Il vento tempestoso della crisi economico-produttiva non è filtrato attraverso le ampie vetrate che delimitano i padiglioni del Lingotto, non ha investito gli stand degli oltre 1.400 espositori, né spazzato le quasi trenta sale adibite ad affollati convegni.
Al contrario.
Una brezza tonificante ha restituito un pizzico di fiducia a editori, distributori, librai.
Nonostante la chiusura di molte librerie di piccole e medie dimensioni, solo in parte controbilanciata dall’estendersi delle grandi catene, l’impressione è che in Italia la domanda di prodotti editoriali non conosca flessioni (vero è che risulta comunque stabilizzata da anni su livelli di retroguardia mondiale).
Del resto, al “botteghino” torinese le cifre ufficiose danno ragione e soddisfazione agli organizzatori:  307.000 visitatori, il 5% in più rispetto al 2008, mentre le vendite hanno goduto di un’impennata pari al 35%, probabilmente grazie anche a un incremento di promozioni e incentivi.
Sarebbe interessante poter estrapolare da questi dati complessivi qualche elemento puntato in modo specifico sull’afflusso e sui comportamenti d’acquisto del pubblico giovane, compreso all’incirca tra i 15 e i 25 anni:  quel segmento di consumatori di libri dalla cui “tenuta”, dipendono le future sorti non soltanto dell’editoria ma più in generale della produzione culturale in Italia e in Europa.
In questo senso, secondo gli addetti ai lavori resta vitale, strategico, il rapporto dei giovani lettori con i classici.
Un intellettuale che di classici se ne intendeva come pochi Giuseppe Pontiggia – scomparso nel 2003 – fissò lucidamente i termini del problema in una conferenza del 1994:  “Spesso i giovani hanno la sensazione che i classici siano degli idoli sopravvissuti a migliaia di anni, che la scuola li abbia trasmessi e che loro debbano occuparsene perché è tradizionale occuparsene.
Invece noi li studiamo perché questi testi continuano ad agire nella mente delle persone”.
Non costituisce certo un’inaudita rivelazione la fondamentale importanza della scuola media superiore, e poi dell’università, nell’accostamento ai classici da parte di adolescenti e ventenni.
E tuttavia è una realtà mai sufficientemente sottolineata.
Se gli insegnanti di lingue e letterature antiche o moderne riescono a comunicare, con passione temperata da una professionale razionalità, la consapevolezza che “la lettura dei classici, per chi la sa mettere a frutto, può essere una ricchezza straordinaria – sono ancora parole di Pontiggia – i loro allievi saranno in grado, almeno in una certa percentuale, di scavalcare i limiti delle nozioni di base, delle versioni dal greco o dal latino, dei compiti in classe, degli assaggi antologici, per avventurarsi nel mare aperto delle libere scorribande sui testi integrali”.
Diversamente, la conoscenza di quel patrimonio resterà frammentaria, faticosa e superficiale.
La grande letteratura universale, la Weltliteratur, non diventerà maestra di vita, strumento di crescita interiore, cibo nutriente per lo spirito.
Tutt’al più, alle soglie dell’estate vedremo ricomparire nelle classifiche dei bestseller, colonna dei tascabili, i soliti romanzi tradizionalmente raccomandati come letture per le vacanze:  Il fu Mattia Pascal di Pirandello, Il deserto dei Tartari di Buzzati, Il barone rampante di Calvino, e così via. Fenomeno vistoso, certo positivo, ma effimero come la fioritura dei papaveri nei campi di grano.
In conclusione:  avremo giovani lettori appassionati di classici finché avremo un corpo docente – non importa quanto minoritario – che dei classici sappia trasmettere, con modalità didattiche coinvolgenti, la perenne lezione intellettuale e morale.
In ogni caso, la disponibilità di volumi commisurati alle esigenze, ai gusti e alle tasche giovanili è tutt’altro che scarsa.
L’offerta di edizioni accurate, fondate sul puntuale accostamento di testi e traduzioni, corredate di apparati e sussidi tali da consentire ogni tipo di fruizione – specialistica o dilettantesca – delle grandi opere “canoniche” e di molte altre “minori”, risulta oggi, sul mercato italiano, più che mai abbondante e variegata.
Anche se in genere non vengono più alimentate con lo stesso elevato numero di novità che le ha arricchite negli ultimi due decenni del secolo scorso, le collane “storiche” riservate ai classici seguitano a occupare spazi rilevanti nell’economia delle librerie.
Se ne poteva avere conferma a prima vista anche aggirandosi fra gli stand di Torino.
Mettiamo pure tra parentesi le collezioni più pregiate, come i “Meridiani” (Mondadori), gli “Scrittori greci e latini” (Fondazione Lorenzo Valla / Mondadori), i “Millenni” e la “Biblioteca della Pléiade” (Einaudi), i “Classici” della Utet.
Supponiamo, cioè, che l’alta fascia di prezzo ponga questi raffinati volumi fuori dalla portata di studenti liceali e universitari (senza escludere, però, qualche loro prelievo da biblioteche di genitori collezionisti).
Rimangono comunque, a prezzi decisamente convenienti e con dignitose copertine spesso ristilizzate in occasione delle ristampe, le gloriose, foltissime schiere di paperback targati Oscar Classici, Classici Bur, Grandi Libri Garzanti, Tascabili Einaudi, Universale Economica Feltrinelli, Grande Universale Mursia, Newton Compton, e così via.
La concorrenza è accanita, ma i risultati non sono esaltanti.
Duole constatare, infatti, come tutte queste accessibili collane evidenzino una certa sofferenza rispetto a un recente passato.
Una sofferenza su cui le opzioni dei giovani lettori hanno un peso notevole.
Giuliano Vigini, direttore dell’Editrice Bibliografica, si dice convinto che, nel disorientamento di fronte al diluvio di novità immesse sul mercato al ritmo di 180 al giorno, i giovani reagiscono con scelte frammentarie e occasionali, fatalmente influenzate dal marketing, dalla pubblicità, dal passaparola, dai premi letterari.
Di qui i durevoli trionfi (non solo giovanili, beninteso) di bestseller, anzi “megaseller”, quali Gomorra e La solitudine dei numeri primi.
A tutto detrimento dei classici, entrati purtroppo in una fase di appannamento.
Come avviare, allora, un circolo virtuoso che ristabilisca un miglior equilibrio fra l’antico e il moderno? La soluzione prospettata da Vigini prevede una più stretta cooperazione fra agenzie educative (scuola, famiglia, chiesa) e istituzioni culturali (case editrici, associazioni, enti pubblici e privati) che dovrebbero convergere sulla progettazione di percorsi di lettura “guidati” attraverso l’universo classico, calibrandoli attentamente in rapporto ai problemi, agli interessi, alle aspettative dell’età evolutiva.
Non più un girovagare disordinato e dispersivo, ma un cammino rettilineo, organizzato e in definitiva gratificante.
(©L’Osservatore Romano – 28 maggio 2009)

Meticciato e dialogo tra culture

L’intento è mostrare alcuni concetti fondamentali che hanno caratterizzato la riflessione sul “culturalmente altro” (molte le sorprese per il lettore non specialista: dal Kant precursore di Hitler nel teorizzare la superiorità delle razze pure a un Voltaire affascinato dalla Sacra Scrittura) per superare lo stallo di una sterile retorica delle differenze, che celebra acriticamente la fine delle identità e un “miscuglio culturale, che, non si capisce per quale motivo, dovrebbe essere per tutti automaticamente liberante”.
“Questo fatto non deve essere equivocato.
Da processo in atto – scrive Gomarasca – il meticciato non può in alcun modo diventare una strategia politica paragonabile a quella peraltro rivelatasi fallimentare del multiculturalismo; oltre tutto, il fenomeno della mescolanza non sempre avviene in modo pacifico.
Ciò che è umanamente decisivo non è che le persone e le culture si mescolino – cosa del tutto contingente – bensì il fatto che tra persone e culture si stabiliscano relazioni di riconoscimento reciproco.
Riconoscimento che, quando manca, disumanizza persone e culture.
Si tratta allora di capire se i luoghi dove concretamente si genera il bene del riconoscimento sono in grado di ospitare processi di meticciato che ne arricchiscono l’intrinseco potenziale relazionale”.
Se le culture sono in contatto (e, storicamente, lo sono sempre state, anche se con diverse modalità di interazione e integrazione) ciò significa che il meticciato è una metafora che tocca un punto antropologico fondamentale: l’essere del soggetto umano non è chiuso in se stesso ma costitutivamente aperto al legame con l’altro.
È a questo punto che l’autore introduce il concetto di “filiazione”, “una questione troppo delicata per essere lasciata totalmente nelle nostre mani”.
Per questo “vale la pena di lasciarsi istruire dal testo biblico, il racconto della torre di Babele”.
Abitualmente citato come metafora della fiera delle differenze culturali, l’episodio biblico di Babele va visto – come spiega bene Derrida – come una questione paterna.
Del resto già Voltaire si chiese, con un certo stupore, come mai nessuno si fosse accorto che Babele non vuole soltanto dire confusione, ma anche padre, più precisamente il nome di Dio come nome di padre.
“Se questo è vero, allora dobbiamo dire che quando Dio punisce gli uomini imponendo a tutti la confusione, impone anche il suo nome di padre”.
Che significa? Derrida sembra cogliere la finezza del racconto e, infatti, si chiede: perché Dio punisce i costruttori della torre? Per aver voluto costruire fino all’altezza dei cieli? È molto probabile, ma anche “per aver voluto “farsi un nome”, scegliersi il proprio nome, costruirlo da sé”.
L'”auto-nominazione” di Derrida assomiglia all’auto-riconoscimento dello spirito assoluto descritto da Hegel; è insomma la pretesa di mettersi al posto dell’origine per non dover dipendere, per non dover riconoscere che esistiamo in relazione agli altri.
“Ciò equivale – continua Gomarasca – al colonialismo: in fondo i costruttori delle terre vogliono riunire tutti gli uomini in un solo nome, in una lingua universale perché univoca, perfettamente trasparente.
Quando Dio impone e oppone loro il proprio nome, rompe la trasparenza razionale, ma interrompe anche la violenza colonialista o l’imperialismo linguistico.
Li destina alla traduzione”.
La proibizione dell’univocità è dunque un gesto paterno di protezione che ci ripara dalla violenza dell’auto-nominazione, senza però lasciarci in balìa dell’equivoco: l’universale c’è, ma, fortunatamente, non è esclusiva proprietà di nessuno.
La traduzione è allora l’unica strada per essere autenticamente figli, eredi di un nome che è proprio per ciascuno solo in quanto è ricevuto.
“È quindi facile immaginare che, traducendosi, i mondi di vita particolari – fatti di persone, lingue, culture – potrebbero anche “meticciarsi” scoprendo inaspettate zone di contatto e di sovrapposizione.
Del resto niente di ciò che è proprio, secondo una dinamica di filiazione, può mai equivalere all’esclusivo, nel senso dell’escludere l’altro”.
L’auspicio, conclude Gomarasca, è che questi possibili esiti “esproprianti” ci ricordino con maggiore evidenza la nostra origine comune e la convenienza umana di continuare a tradurre; con Babele Dio, sembra suggerire l’autore, ha regalato all’uomo la bellezza complessa e dialogica di un mondo polifonico per salvarlo da uno sterile (e alla lunga noioso) ruolo da solista.
(©L’Osservatore Romano – 22-23 maggio 2009) Attenzione al vuoto che si nasconde dietro gli slogan, alla retorica di una tolleranza che, come l’etimologia del termine stesso suggerisce, implica il rischio di tollerare l’altro senza un reale desiderio di incontrarlo; lo scopo del libro Meticciato: convivenza o confusione di Paolo Gomarasca (Venezia, Marcianum press, 2009, pagine 216, euro 20) è ripensare il processo di incontro e fusione di culture diverse – tema centrale del progetto Oasis lanciato nel settembre 2004 dal patriarca di Venezia Angelo Scola – non limitandosi a descrivere a livello storiografico la genesi di un fenomeno che ha cambiato il volto a interi continenti (l’esempio più significativo resta sempre il métissage del Nuovo Mondo) ma individuando le categorie antropologiche che possono contribuire a rivelarne le reali potenzialità.

La competenza linguistica dei 15enni europei ed italiani

Nel 2000 si era convenuto che per la competenza degli adolescenti europei nell’interpretazione dei testi linguistici (literacy) fosse tollerabile avere non più del 17% di quindicenni fermi ai livelli minimi, cioè a quello che le ricerche PISA fissano alla capacità inferiore, livello 1.
Nel 2000 la media dell’Unione era attestata al 21,3%.
Si trattava di scendere di poco più di quattro punti con l’apporto, s’intende, di tutti i Paesi membri.
L’Italia nel 2000 era a poco meno di due punti dal benchmark 2010 del 17%.
Ma le cose in questi sette anni (2000-2007) sono andate ben diversamente dal previsto e molti Paesi, anziché migliorare i propri livelli medi di competenza linguistica dei 15enni, hanno elevato i livelli di incompetenza, tanto che la media europea, anziché scendere, è salita di 2,8 punti, passando dal 21,3% del 2000 al 24,1% del 2006.
Hanno peggiorato i precedenti livelli di competenza linguistica del 2000 la Francia (salita da un buon 15,2% ad un mediocre 21,7%), la Gran Bretagna (salita dal 12,8% al 19%), l’Olanda (peggiorata anch’essa risalendo da un buonissimo 9,5% al 15,1%) e la Spagna (risalita addirittura dal 16,3% al 25,5).
E l’Italia che nel 2000 era così vicina alla meta finale? Male anch’essa, perché è risalita al 26,4%: un livello che registra una diffusa scarsa competenza linguistica tra i nostri quindicenni per un ragazzo ogni quattro: un peggioramento di 7,5 punti.
Un livello tra i peggiori in ambito europeo (26,4%): peggio di noi soltanto la Grecia, la Bulgaria e la Romania.
Tuttoscuola avanza un’ipotesi interpretativa del dato Rispetto all’obiettivo fissato a Lisbona per contenere al 2010 il deficit di competenza linguistica dei quindicenni al 17%, nella rilevazione intermedia del 2007 è emerso che hanno migliorato il proprio livello, anche senza raggiungere l’obiettivo fissato del 17%, la Polonia, la Germania, l’Ungheria, il Lussemburgo, la Lettonia, la Danimarca e la solita Finlandia.
Proprio il Paese scandinavo, ormai noto per le sue performances in campo formativo e scolastico, ha fatto registrare, oltre all’abbassamento di oltre due punti di quel già buon livello del 7% raggiunto nel 2000, la miglior posizione in assoluto tra i Paesi Europei, attestandosi sul 4,8% di scarsa competenza linguistica tra i suoi quindicenni, che è come dire che più del 95% di quei ragazzi ha una buona o buonissima competenza linguistica: una condizione di base per conseguire ulteriori elevati traguardi in campo scolastico e formativo.
L’Italia, peggiorando la sua situazione del 2000, si è attestata al 26,4%.
  C’è da chiedersi quale è la ragione per un diffuso peggioramento delle competenze linguistiche registrato tra tanti quindicenni europei nell’arco di sei anni o poco più.
Un peggioramento che non si registra in termini così generalizzati per altri indicatori sui livelli di istruzione rilevati dall’Unione.
Non è facile trovare risposte, ma si possono avanzare alcune ipotesi per cercare di capire un fenomeno “strano” che vede molti Paesi peggiorare la propria situazione o, comunque, faticare più del previsto, per avvicinarsi all’obiettivo prefissato.
Se la competenza linguistica dei nostri (e di tanti altri) quindicenni è peggiorata, è causa soltanto del sistema di istruzione oppure ha altri fattori agenti esterni fortemente incidenti nei cui confronti la scuola non ha capacità di contrasto? Ci sentiamo di avanzare l’ipotesi che il crescente e diffuso ricorso a strumentazione telematica e tecnologica nella comunicazione quotidiana di cui si avvalgono i giovanissimi (internet, cellulari, blog, ecc.) stia inducendo semplificazioni del linguaggio comunicativo che risulta alla fine più funzionale e immediato, ma lessicalmente impoverito e ridotto.
E la scuola sembra subire la situazione in atto senza efficaci interventi di contrasto che richiedono un’azione di formazione linguistica strutturale che affonda le radici nella scuola primaria e che ha bisogno di essere mantenuta e integrata in modo sistematico nella scuola secondaria di I grado.

Droga e minori

RELAZIONE 2008 La droga continua ad uccidere, nonostante l’impegno delle forze dell’ordine.
E l’Italia resta tra i principali poli europei sia come area di transito che di consumo.
Il nostro è un Paese dove domanda e offerta restano elevate e dove operano le mafie che non solo controllano i traffici internazionali, ma hanno cominciato a produrre la droga in proprio.
È l’allarme che arriva dalla la Direzione centrale dei servizi antidroga (Dcsa) del Viminale, nella sua relazione annuale.
Dal 1973, quasi 22mila vittime.
Nel 2008 è morta per droga più di una persona al giorno.
Vittime che si vanno a sommare ai quasi 22mila morti dal 1973 (l’anno in cui cominciarono le rilevazioni) ad oggi.
Le vittime, 502 nel 2008, sono comunque meno rispetto alle 606 del 2007, con un calo del 17%.
La droga che uccide di più resta l’eroina: 209 vittime contro le 37 attribuite alla cocaina.
I più colpiti sono gli uomini (450, l’89% del totale) a partire dai 25 anni per raggiungere i picchi massimi nella fascia superiore ai 40.
Nella relazione si segnala però che anche tra i giovanissimi si sono registrate vittime: 14 ragazzi tra i 15 e i 19 anni e un adolescente sotto i 15.
Aumentano i minori coinvolti.
E proprio quello sui i minori è uno dei dati che preoccupa di più gli investigatori: nel 2008, infatti, è salito il numero di quelli coinvolti nei traffici di droga.
L’anno scorso ne sono stati denunciati 1.124 (76 arrestati), con un incremento rispetto al 2007 dell’8%.
Quanto alle donne, ne sono state denunciate 3.054, con un calo del 4% dal 2007.
Oltre 28mila le persone arrestateIl contrasto messo in atto dalle forze di polizia ha comunque prodotto risultati importanti.
Delle 35.097 segnalazioni all’autorità giudiziaria, che hanno portato a 28.522 arresti (il 3,18% in più rispetto al 2007), la maggioranza riguarda cittadini italiani (23.691 persone, pari al 67%).
Vi è anche un consistente numero di stranieri: 11.406, il 32% del totale con un incremento del 6% rispetto al 2007.
Boom dei sequestri di hashish.
Nel complesso sono stati sequestrati nel 2008 42.196 chili di droga e le operazioni antidroga sono state 22.470 (+ 1,63 rispetto al 2007).
A fronte di un calo dei sequestri di eroina (-30,22%) e marijuana (-47,69%) si è però registrato un forte aumento di quelli di hashish (70,24%).
Anche i sequestri di cocaina crescono, anche se in misura meno rilevante (4,66%).
Le mafie ora producono in proprio.
È la novità accertata dalle inchieste: la coltivazione diretta «garantisce guadagni maggiori e meno rischi per il trasporto» tanto che, dice la relazione, la produzione di cannabis sta diventando «l’oro verde del capitalismo criminale».
Per il resto la ’Ndrangheta si conferma «una delle grandi holding della droga», capace di far diventare l’Italia negli ultimi 20 anni «il centro strategico del mercato globale della cocaina, instaurando contatti diretti con i narcos della Colombia e detenendo il monopolio del traffico in Europa».

Iconografia del Purgatorio

Secondo il cristianesimo, il destino dell’uomo nell’aldilà dipende dal suo comportamento durante la vita terrena: i «buoni» vivranno eternamente in un luogo di delizie, il Paradiso; i «cattivi» in un luogo di supplizio, l’Inferno.
Questa concezione bipolare dell’aldilà rimane pressoché immutata fino al XII secolo, allorché grandi trasformazioni religiose e sociali sfociano in una nuova concezione del mondo, non soltanto di quello terreno ma anche ultraterreno.
Del resto, già sant’Agostino divideva gli uomini in quattro categorie: oltre ai «del tutto buoni» e ai «del tutto cattivi», destinati rispettivamente al Paradiso e all’Inferno, c’erano i «non del tutto buoni» e i «non del tutto cattivi», la cui collocazione nell’aldilà era fonte di non poche perplessità.
Si ammetteva l’esistenza di peccati «veniali», cioè redimibili, accanto ai peccati mortali, irredimibili per definizione e che conducevano inevitabilmente all’Inferno.
Si credeva che i defunti la cui coscienza fosse gravata soltanto da peccati «leggeri», li avrebbero scontati nell’aldilà sostando in «luoghi purgatori», ove avrebbero subito «pene purgatorie» mediante un «fuoco purgatorio» simile a quello infernale.
Si distinguevano perciò un «Inferno inferiore», dal quale non si usciva mai, e un «Inferno superiore», dal quale, dopo un periodo più o meno lungo di supplizi purgatori, si poteva ascendere al Paradiso.
A partire dal XII secolo, tuttavia, questa geografia dell’aldilà muta radicalmente grazie all’invenzione di un luogo intermedio, il Purgatorio, e di due luoghi complementari, i limbi.
Sono, questi ultimi, speciali luoghi di riposo ove non c’è pena ma neppure la visione beatifica di Dio: il limbo destinato ad accogliere i giusti nati prima di Gesù, e che Egli svuota durante la sua discesa agli Inferi, e il limbo dei bambini morti prima di ricevere il battesimo.
Ma l’istituzione fondamentale è quella del Purgatorio, che diventa a tutti gli effetti il «terzo luogo» dell’aldilà, intermedio fra Paradiso e Inferno, destinato a scomparire al momento del Giudizio finale, quando tutti i suoi abitatori, scontati i peccati «veniali» che pesavano sulle loro coscienze al momento del trapasso, potranno ascendere al cielo.
Il sistema binario dell’aldilà, fondato sulla polarità Inferno-Paradiso, viene così sostituito con un sistema più complesso e flessibile, conforme all’evoluzione della società.
In un’epoca di grande sviluppo commerciale e mercantile, il Purgatorio è all’origine di una concezione, per così dire, «matematica» dei peccati e delle relative penitenze, dando vita a una vera e propria «contabilità dell’aldilà».
La durata della permanenza in Purgatorio, infatti, dipende da tre fattori: dalla quantità di peccati «veniali» commessi in vita dal defunto; dai «suffragi» (preghiere, elemosine, messe) che alcuni vivi, parenti o amici, pagano per abbreviare il tempo di purgatorio del defunto stesso; dalle «indulgenze», cioè il riscatto integrale o parziale del tempo di purgatorio, ottenibile dalla Chiesa dietro pagamento in denaro.
Nel Duecento la Chiesa trasforma l’esistenza del Purgatorio in dogma, e questo fatto, insieme all’obbligatorietà della confessione individuale almeno una volta all’anno promulgata nel 1215 dal concilio Laterano IV, dà un fondamentale contributo alla centralità del giudizio individuale al momento della morte, e dunque al primato dell’individuo rispetto ai gruppi e agli ordini che avevano caratterizzato il Medioevo.

Il papa in Israele.

“I loro nomi sono incisi in modo indelebile nella memoria di Dio” di Benedetto XVI “Io concederò nella mia casa e dentro le mie mura un monumento e un nome… darò loro  un nome eterno che non sarà mai cancellato” (Isaia 56, 5).
Questo passo tratto dal libro del profeta Isaia offre le due semplici parole che esprimono in modo solenne il significato profondo di questo luogo venerato: “yad”, memoriale, “shem”, nome.
Sono giunto qui per soffermarmi in silenzio davanti a questo monumento, eretto per onorare la memoria dei milioni di ebrei uccisi nell’orrenda tragedia della Shoah.
Essi persero la propria vita, ma non perderanno mai i loro nomi: questi sono stabilmente incisi nei cuori dei loro cari, dei loro compagni di prigionia, e di quanti sono decisi a non permettere mai più che un simile orrore possa disonorare ancora l’umanità.
I loro nomi, in particolare e soprattutto, sono incisi in modo indelebile nella memoria di Dio Onnipotente.
Uno può derubare il vicino dei suoi possedimenti, delle occasioni favorevoli o della libertà.
Si può intessere una insidiosa rete di bugie per convincere altri che certi gruppi non meritano rispetto.
E tuttavia, per quanto ci si sforzi, non si può mai portar via il nome di un altro essere umano.
La Sacra Scrittura ci insegna l’importanza dei nomi quando viene affidata a qualcuno una missione unica o un dono speciale.
Dio ha chiamato Abram “Abraham” perché doveva diventare il “padre di molti popoli” (Genesi 17, 5).
Giacobbe fu chiamato “Israele” perché aveva “combattuto con Dio e con gli uomini ed aveva vinto” (cfr.
Genesi 32, 29).
I nomi custoditi in questo venerato monumento avranno per sempre un sacro posto fra gli innumerevoli discendenti di Abraham.
Come avvenne per Abraham, anche la loro fede fu provata.
Come per Giacobbe, anch’essi furono immersi nella lotta fra il bene e il male, mentre lottavano per discernere i disegni dell’Onnipotente.
Possano i nomi di queste vittime non perire mai! Possano le loro sofferenze non essere mai negate, sminuite o dimenticate! E possa ogni persona di buona volontà vigilare per sradicare dal cuore dell’uomo qualsiasi cosa capace di portare a tragedie simili a questa! La Chiesa cattolica, impegnata negli insegnamenti di Gesù e protesa ad imitarne l’amore per ogni persona, prova profonda compassione per le vittime qui ricordate.
Alla stessa maniera, essa si schiera accanto a quanti oggi sono soggetti a persecuzioni per causa della razza, del colore, della condizione di vita o della religione: le loro sofferenze sono le sue e sua è la loro speranza di giustizia.
Come vescovo di Roma e successore dell’apostolo Pietro, ribadisco – come i miei predecessori – l’impegno della Chiesa a pregare e ad operare senza stancarsi per assicurare che l’odio non regni mai più nel cuore degli uomini.
Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe è il Dio della pace (cfr.
Salmo 85, 9).
Le Scritture insegnano che è nostro dovere ricordare al mondo che questo Dio vive, anche se talvolta troviamo difficile comprendere le sue misteriose ed imperscrutabili vie.
Egli ha rivelato se stesso e continua ad operare nella storia umana.
Lui solo governa il mondo con giustizia e giudica con equità ogni popolo (cfr.
Salmo 9, 9).
Fissando lo sguardo sui volti riflessi nello specchio d’acqua che si stende silenzioso all’interno di questo memoriale, non si può fare a meno di ricordare come ciascuno di loro rechi un nome.
Posso soltanto immaginare la gioiosa aspettativa dei loro genitori, mentre attendevano con ansia la nascita dei loro bambini.
Quale nome daremo a questo figlio? Che ne sarà di lui o di lei? Chi avrebbe potuto immaginare che sarebbero stati condannati ad un così lacrimevole destino! Mentre siamo qui in silenzio, il loro grido echeggia ancora nei nostri cuori.
È un grido che si leva contro ogni atto di ingiustizia e di violenza.
È una perenne condanna contro lo spargimento di sangue innocente.
È il grido di Abele che sale dalla terra verso l’Onnipotente.
Nel professare la nostra incrollabile fiducia in Dio, diamo voce a quel grido con le parole del libro delle Lamentazioni, così cariche di significato sia per gli ebrei che per i cristiani: “Le grazie del Signore non sono finite, non sono esaurite le sue misericordie; Si rinnovano ogni mattina, grande è la sua fedeltà.
Mia parte è il Signore – io esclamo –, per questo in lui spero.
Buono è il Signore con chi spera in lui, con colui che lo cerca.
È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore” (3, 22-26).
Cari amici, sono profondamente grato a Dio e a voi per l’opportunità che mi è stata data di sostare qui in silenzio: un silenzio per ricordare, un silenzio per sperare.
__________ Il programma, i discorsi, le omelie del viaggio di Benedetto XVI: > Pellegrinaggio in Terra Santa, 8-15 maggio 2009 Appena arrivato lunedì in terra d’Israele, Benedetto XVI ha immediatamente preso di petto le questioni più controverse: prima la pace e la sicurezza, poi la Shoah e l’antisemitismo.
Su entrambi i fronti era atteso al varco.
Sottoposto a pressioni incessanti e non sempre leali.
Per molti suoi critici il copione era già scritto, ed essi aspettavano solo di giudicare se e come il papa l’avrebbe osservato.
Invece Benedetto XVI s’è mosso con sorprendente originalità.
In un caso e nell’altro.
L’avvento della pace l’ha legato indissolubilmente a quel “cercare Dio” che era già stato il tema dominante del suo memorabile discorso di Parigi al mondo della cultura: uno dei discorsi capitali del suo pontificato.
Mentre il tema della sicurezza – nevralgico per Israele – l’ha svolto a partire dalla parola biblica “betah”, che vuol dire sì sicurezza ma anche fiducia: e l’una non può stare senza l’altra.
Nella visita allo Yad Vashem – il memoriale delle vittime della Shoah con incisi i loro nomi a milioni – il papa ha poi illuminato il senso di un’altra parola biblica: il “nome”.
I nomi di tutti “sono incisi in modo indelebile nella memoria di Dio Onnipotente”.
E quindi “non si può mai portar via il nome di un altro essere umano”, nemmeno quando gli si vuol toglier tutto.
Il grido degli uccisi sale dalla terra come dai tempi di Abele, contro ogni spargimento di sangue innocente, e Dio tutti ascolta, perché “non sono esaurite le sue misericordie”.
Queste ultime parole, tratte dal libro delle Lamentazioni, il papa le ha scritte firmando il libro d’onore.
Il discorso di Benedetto XVI allo Yad Vashem, e prima di questo l’altro pronunciato su pace e sicurezza durante la visita al presidente Shimon Peres, sono riprodotti qui di seguito.
Entrambi sono di lunedì 11 maggio 2009, primo giorno della sua visita in Israele.
__________ ”Cercate Dio e la pace vi sarà data” di Benedetto XVI Signor presidente, […] oggi desidero assicurare a lei […] come pure a tutti gli abitanti dello Stato di Israele che il mio pellegrinaggio ai Luoghi Santi è un pellegrinaggio di preghiera in favore del dono prezioso dell’unità e della pace per il Medio Oriente e per tutta l’umanità.
In verità, ogni giorno prego affinché la pace che nasce dalla giustizia ritorni in Terra Santa e nell’intera regione, portando sicurezza e rinnovata speranza per tutti.
La pace è prima di tutto un dono divino.
La pace infatti è la promessa dell’Onnipotente all’intero genere umano e custodisce l’unità.
Nel libro del profeta Geremia leggiamo: “Io conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo – oracolo del Signore – progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza”.
Il profeta ci ricorda la promessa dell’Onnipotente che “si lascerà trovare”, che “ascolterà”, che “ci radunerà insieme”.
Ma vi è anche una condizione: dobbiamo “cercarlo”, e “cercarlo con tutto il cuore” (Geremia 29, 11-14).
Ai leader religiosi oggi presenti vorrei dire che il contributo particolare delle religioni nella ricerca di pace si fonda primariamente sulla ricerca appassionata e concorde di Dio.
Nostro è il compito di proclamare e testimoniare che l’Onnipotente è presente e conoscibile anche quando sembra nascosto alla nostra vista, che Egli agisce nel nostro mondo per il nostro bene, e che il futuro della società è contrassegnato dalla speranza quando vibra in armonia con l’ordine divino.
È la presenza dinamica di Dio che raduna insieme i cuori ed assicura l’unità.
Di fatto, il fondamento ultimo dell’unità tra le persone sta nella perfetta unicità e universalità di Dio, che ha creato l’uomo e la donna a propria immagine e somiglianza per condurci entro la sua vita divina, così che tutti possano essere una cosa sola.
Pertanto, i leader religiosi devono essere coscienti che qualsiasi divisione o tensione, ogni tendenza all’introversione o al sospetto fra credenti o tra le nostre comunità può facilmente condurre ad una contraddizione che oscura l’unicità dell’Onnipotente, tradisce la nostra unità e contraddice l’Unico che rivela se stesso come “ricco di amore e di fedeltà” (Esodo 34, 6; Salmo 138, 2; Salmo 85, 11).
Cari amici, Gerusalemme, che da lungo tempo è stata un crocevia di popoli di diversa origine, è una città che permette ad ebrei, cristiani e musulmani sia di assumersi il dovere che di godere del privilegio di dare insieme testimonianza della pacifica coesistenza a lungo desiderata dagli adoratori dell’unico Dio; di svelare il piano dell’Onnipotente, annunciato ad Abramo, per l’unità della famiglia umana; e di proclamare la vera natura dell’uomo quale cercatore di Dio.
Impegniamoci dunque ad assicurare che, mediante l’ammaestramento e la guida delle nostre rispettive comunità, le sosterremo nell’essere fedeli a ciò che veramente sono come credenti, sempre consapevoli dell’infinita bontà di Dio, dell’inviolabile dignità di ogni essere umano e dell’unità dell’intera famiglia umana.
La Sacra Scrittura ci offre anche una sua comprensione della sicurezza.
Secondo il linguaggio ebraico, sicurezza – “batah” – deriva da fiducia e non si riferisce soltanto all’assenza di minaccia ma anche al sentimento di calma e di confidenza.
Nel libro del profeta Isaia leggiamo di un tempo di benedizione divina: “Infine in noi sarà infuso uno spirito dall’alto; allora il deserto diventerà un giardino e il giardino sarà considerato una selva.
Nel deserto prenderà dimora il diritto e la giustizia regnerà nel giardino.
Praticare la giustizia darà pace, onorare la giustizia darà tranquillità e sicurezza per sempre” (32, 15-17).
Sicurezza, integrità, giustizia e pace: nel disegno di Dio per il mondo esse sono inseparabili.
Lungi dall’essere semplicemente il prodotto dello sforzo umano, esse sono valori che promanano dalla relazione fondamentale di Dio con l’uomo, e risiedono come patrimonio comune nel cuore di ogni individuo.
Vi è una via soltanto per proteggere e promuovere tali valori: esercitarli! viverli! Nessun individuo, nessuna famiglia, nessuna comunità o nazione è esente dal dovere di vivere nella giustizia e di operare per la pace.
Naturalmente, ci si aspetta che i leader civili e politici assicurino una giusta e adeguata sicurezza per il popolo a cui servizio essi sono stati eletti.
Questo obiettivo forma una parte della giusta promozione dei valori comuni all’umanità e pertanto non possono contrastare con l’unità della famiglia umana.
I valori e i fini autentici di una società, che sempre tutelano la dignità umana, sono indivisibili, universali e interdipendenti.
Non si possono pertanto realizzare quando cadono preda di interessi particolari o di politiche frammentarie.
Il vero interesse di una nazione viene sempre servito mediante il perseguimento della giustizia per tutti.
Gentili Signore e Signori, una sicurezza durevole è questione di fiducia, alimentata nella giustizia e nell’integrità, suggellata dalla conversione dei cuori che ci obbliga a guardare l’altro negli occhi e a riconoscere il “tu” come un mio simile, un mio fratello, una mia sorella.
In tale maniera non diventerà forse la società stessa un “giardino ricolmo di frutti” (cfr.
Isaia 32, 15), segnato non da blocchi e ostruzioni, ma dalla coesione e dall’armonia? Non può forse divenire una comunità di nobili aspirazioni, dove a tutti di buon grado viene dato accesso all’educazione, alla dimora familiare, alla possibilità d’impiego, una società pronta ad edificare sulle fondamenta durevoli della speranza? Per concludere, desidero rivolgermi alle comuni famiglie di questa città, di questa terra.
Quali genitori vorrebbero mai violenza, insicurezza o divisione per il loro figlio o per la loro figlia? Quale umano obiettivo politico può mai essere servito attraverso conflitti e violenze? Odo il grido di quanti vivono in questo paese che invocano giustizia, pace, rispetto per la loro dignità, stabile sicurezza, una vita quotidiana libera dalla paura di minacce esterne e di insensata violenza.
So che un numero considerevole di uomini, donne e giovani stanno lavorando per la pace e la solidarietà attraverso programmi culturali e iniziative di sostegno pratico e compassionevole; umili abbastanza per perdonare, essi hanno il coraggio di tener stretto il sogno che è loro diritto.
Signor presidente, la ringrazio per la cortesia dimostratami e la assicuro ancora una volta delle mie preghiere per il governo e per tutti i cittadini di questo Stato.
Possa un’autentica conversione dei cuori di tutti condurre ad un sempre più deciso impegno per la pace e la sicurezza attraverso la giustizia per ciascuno.
Shalom! __________

Quei ragazzi privi di educatori

Isabella Bossi Fedrigotti, editorialista del Corriere e nota scrittrice, traccia un quadro preoccupante dei ragazzi d’oggi e, in particolare, di quella parte di loro (e non sono pochi) che con freddezza, cinismo e indifferenza salgono quotidianamente agli onori delle cronache per fatti criminosi, segnati da incredibile violenza.
Di loro, dei ragazzi, quando li arrestano, – osserva la giornalista – si co­glie per lo più la freddez­za e l’indifferenza, non so­lo per le vittime ma an­che per i propri cari e il proprio destino, quasi che qualsiasi cosa – com­preso il carcere – fosse preferibile all’insopporta­bile noia che li affligge.
La giornalista svolge una lunga analisi sui comportamenti di tanti giovani, sul loro ambiguo conformismo, sulla loro vita priva di progetti e di speranze per il futuro; poi si chiede: Ma da dove vengono e chi sono questi alieni crudeli e indifferenti? La risposta è disarmante: Da case normali per lo più; anche dal degrado, dalla miseria e dall’emargina­zione, ma altrettanto, da case belle, quartieri buo­ni e famiglie per bene.
Po­trebbero essere figli di tut­ti noi, incappati per insi­curezza, per solitudine, per noia nell’amico più forte, nel gruppo sbaglia­to; e si sa che il gruppo or­mai conta più della fami­glia, per il semplice fatto che la famiglia, nonostan­te il gran parlare che se ne fa, è oggi più debole che mai.
I ragazzi sono privi della costante ed equilibrante presenza di entrambi i genitori, la famiglia non è più come un tempo affiancata e sostenuta nel suo magistero dagli inse­gnanti e da altre figure di educatori come, per esempio, i parroci.
Poveri ragazzi – conclude l’editorialista – però è questo il piatto che abbiamo preparato per loro, gli esempi che abbiamo fornito, i modelli che abbiamo fabbricato.
Ed è un serpente che si morde la coda perché se famiglia, scuola e istituzioni varie oggi si rivelano così deboli, così inascoltate e incapaci di educare è anche perché per prime sembrano aver smarrito nel tempo le ragioni forti del loro essere.
I maestri, insomma, i tanto invocati maestri grandemente scarseggiano perché non credono più al loro magistero.
I RAGAZZI E I SILENZI DEGLI ADULTI I nostri figli senza maestri di Isabella Bossi Fedrigotti Della politica, di ogni suo minimo sussulto, controversia o screzio, si discute per giorni, si ragiona, si polemizza.
Dei giovani e giovanissimi, dei loro problemi, dei loro allarmi, della loro violenza, dei terrificanti crimini che riescono a commettere quando ancora, almeno in teoria, devono rispettare l’orario di rientro dettato dai genitori, dopo un momentaneo commento incredulo e sbigottito, si tende, invece, a tacere.
E così gli accoltellamenti, le rapine, le aggressioni, gli stupri di gruppo, gli assassini per opera di adolescenti o poco più transitano veloci, giorno dopo giorno, negli spazi delle cronache nere senza che ci prendiamo la briga di riflettere davvero su cosa sta succedendo nella nostra società.
Di loro, dei ragazzi, quando li arrestano, si coglie per lo più la freddezza e l’indifferenza, non solo per le vittime ma anche per i propri cari e il proprio destino, quasi che qualsiasi cosa—compreso il carcere — fosse preferibile all’insopportabile noia che li affligge.
E sembra specchiarsi, quest’indifferenza, nel loro abbigliamento, sempre uguale, jeans, scarpe sportive e felpa, del tutto indifferente a diversi luoghi e occasioni: casa, scuola, lavoro, pub, sport oppure discoteca.
Vanno e rubano, vanno e accoltellano, vanno e dan fuoco a un barbone, vanno e uccidono un compagno di scorribande, quasi sempre in gruppo, per farsi forza, naturalmente, perché da soli forse non oserebbero; e noi ce la sbrighiamo parlando di «fenomeno delle baby gang», come se il termine straniero minimizzasse la tragicità dei fatti.
Ma da dove vengono e chi sono questi alieni crudeli e indifferenti? Da case normali per lo più; anche dal degrado, dalla miseria e dall’emarginazione, ma altrettanto, da case belle, quartieri buoni e famiglie per bene.
Potrebbero essere figli di tutti noi, incappati per insicurezza, per solitudine, per noia nell’amico più forte, nel gruppo sbagliato; e si sa che il gruppo ormai conta più della famiglia, per il semplice fatto che la famiglia, nonostante il gran parlare che se ne fa, è oggi più debole che mai.
Oltre a essere spesso dimezzata, per cui i ragazzi sono privi della costante ed equilibrante presenza di entrambi i genitori, non è più come un tempo affiancata e sostenuta nel suo magistero dagli insegnanti e da altre figure di educatori come, per esempio, i parroci, per ragioni che a volte risalgono paradossalmente proprio alla famiglia.
Se, infatti, padri e madri—come spesso succede — prendono sistematicamente le parti dei figli contro maestri e professori, è difficile che si crei quell’alleanza di intenti preziosa per l’educazione.
E rinunciare a qualsiasi forma di istruzione religiosa è, ovviamente, una scelta rispettabilissima che però priva la famiglia di un supporto non indifferente.
Moltissimi sono naturalmente i padri e le madri forti abbastanza per farcela da soli a insegnare ai figli cos’è bene e cos’è male, ma molti sono anche quelli che, invece, non ce la fanno.
Ma c’è dell’altro, ed è la profondissima infelicità dei giovani.
Perché è certo che sono infelici, lo gridano dietro i loro indecifrabili silenzi, che non sempre riflettono soltanto il comodo, rilassante oppure stanco silenzio degli adulti.
È un’infelicità chiusa e senza desideri, peraltro, secondo il geniale titolo del romanzo di Peter Handke, perché non può esserci desiderio dove non c’è speranza.
Ecco, quel che atterra i nostri figli, quel che toglie loro qualsiasi energia positiva, quel che li rende tetri e annoiati e, dunque, disponibili alle trasgressioni più atroci, è la mancanza di speranze condivise.
Speranze che molto prima di essere di natura economica sono di natura ideale, nutrimento e carburante indispensabile per i giovani.
Anche per noi adulti, ovviamente, perché l’uomo non può vivere senza aspettarsi per domani una sia pur minuscola luce, ma in modo molto meno assoluto e radicale, perché abbiamo ormai imparato bene a difenderci dal vuoto.
Speranze —condivise — che una volta riguardavano la politica, per esempio, oppure la religione o la cultura e che adesso, mediamente, s’innalzano fino ai successi della squadra di calcio del cuore o al sogno di finire in tv oppure alla conquista di un certo tipo di abbigliamento firmato e uniforme.
Poveri ragazzi, viene da dire, però è questo il piatto che abbiamo preparato per loro, gli esempi che abbiamo fornito, i modelli che abbiamo fabbricato.
Ed è un serpente che si morde la coda perché se famiglia, scuola e istituzioni varie oggi si rivelano così deboli, così inascoltate e incapaci di educare è anche perché per prime sembrano aver smarrito nel tempo le ragioni forti del loro essere.
I maestri, insomma, i tanto invocati maestri grandemente scarseggiano perché non credono più al loro magistero.
Corriere  della sera 30 aprile 2009

Irc e regolamento della valutazione

L’anno scolastico è ormai in dirittura d’arrivo ma non si vede all’orizzonte il regolamento della valutazione che dovrebbe fornire indispensabili istruzioni per lo svolgimento degli scrutini finali.
Il 13 marzo scorso il Consiglio dei Ministri ha approvato in prima lettura uno schema di regolamento che è stato trasmesso al Consiglio di Stato per il prescritto parere e che deve poi essere approvato definitivamente in seconda lettura dal Consiglio dei Ministri per passare alla firma del Presidente della Repubblica e al visto della Corte dei Conti.
Se siamo ancora fermi alla seconda tappa (il Consiglio di Stato ha dato parere favorevole lo scorso 8 maggio), appare difficile che il sospirato regolamento possa arrivare in tempo per gli scrutini finali.
Per certi aspetti, il regolamento potrebbe anche essere inutile, dato che la legge 169/08 ne ha prevista l’emanazione per il solo «coordinamento delle norme vigenti per la valutazione degli alunni» (art.
3.5): se le norme sono già vigenti, anche senza regolamento potranno e dovranno essere applicate.
Ma la legge attribuisce al regolamento anche il compito di stabilire «eventuali ulteriori modalità applicative del presente articolo».
È in questione, per esempio, la partecipazione del voto di comportamento alla media dei voti.
È in questione anche l’adozione del voto numerico per l’Irc.
Come è noto, rispetto alla prima versione, che dedicava alla valutazione dell’Irc un intero articolo, lo schema attualmente in esame riserva all’Irc solo un comma, ripetuto una volta per il primo e una volta per il secondo ciclo di istruzione (artt.
2.4 e 4.3).
Questo il testo: «La valutazione dell’insegnamento della religione cattolica resta disciplinata dall’articolo 309 del decreto legislativo 16 aprile 1994, n.
297, ed è comunque espressa senza attribuzione di voto numerico, fatte salve eventuali modifiche all’intesa di cui al punto 5 del Protocollo addizionale alla legge 25 marzo 1985, n.
121».
Il sintetico testo dice due sole cose: 1) la valutazione dell’Irc non può essere espressa con voto numerico; 2) la situazione potrebbe cambiare con una modifica all’Intesa Cei-Mpi del 1985.
Sul primo punto è ineccepibile che l’art.
309 del Testo Unico di legislazione scolastica sia in vigore e quindi costituisca un riferimento vincolante.
Ma è ugualmente in vigore anche l’art.
304 del Testo Unico, che esclude il voto di educazione fisica dalla media per l’ammissione agli esami, e questo articolo viene espressamente abrogato dallo schema di regolamento, dato che solo ora ci si è accorti della sopravvivenza di una norma contraddetta da una prassi generalizzata e da specifiche disposizioni ministeriali circa il conteggio del voto di educazione fisica nella media per la definizione del credito scolastico negli esami di stato di scuola superiore.
Se il regolamento può abrogare l’art.
304 (la cosa è tecnicamente discutibile, ma il Consiglio di Stato non ha fatto obiezioni), perché allora non abrogare anche l’art.
309? La giustificazione sarebbe fornita dalla ratio della legge 169/08, che prevede l’uso del voto numerico per «la valutazione periodica ed annuale degli apprendimenti degli alunni e la certificazione delle competenze da essi acquisite», senza alcuna limitazione o esclusione.
Sarebbe perciò coerente intervenire anche sull’art.
309 per evitare una disparità di trattamento che potrebbe essere letta come una di quelle forme di discriminazione, escluse proprio dal Concordato.
La restrizione applicata al solo Irc vorrebbe essere giustificata con la riserva contenuta nella seconda parte del comma citato, che invoca la natura concordataria delle modalità valutative dell’Irc.
Ma proprio l’Intesa, nell’affrontare incidentalmente la materia valutativa (punto 2.7), mantiene «fermo quanto previsto dalla normativa statale in ordine al profitto e alla valutazione per tale insegnamento».
La valutazione dell’Irc non è quindi materia pattizia e il riferimento all’Intesa contenuto nello schema di regolamento è semplicemente un errore o un goffo tentativo di spostare altrove la responsabilità di una decisione probabilmente imbarazzante.
L’iter del regolamento è tale che, se anche dovesse riuscire a completare il suo percorso e comparire in Gazzetta Ufficiale prima degli scrutini di giugno, per l’Irc rimarranno comunque le incomprensibili disposizioni che fin dal 1930 escludono per esso la possibilità di ricorrere al voto numerico.
Ma il caso non può risolversi definitivamente così e la competenza a decidere spetta al Ministero.
Sarebbe assai strano che lo Stato volesse rinunciare ad una sua specifica prerogativa trasformando in pattizio un argomento che è unicamente attribuito alla sua decisione.
C’è chi potrebbe parlare di ferita alla laicità dello Stato.
E proprio il livello concordatario potrebbe rivelarsi un boomerang, dopo che la Cei ha fatto conoscere il proprio gradimento ad una soluzione uniforme che integri la valutazione dell’Irc nelle modalità previste per le altre discipline.
Anche se la sede più propria era il regolamento della valutazione, ancora altri regolamenti attendono di essere emanati: per esempio c’è quello per il secondo ciclo, che è stato momentaneamente accantonato per lo slittamento di un anno nell’attuazione della riforma, ma il 2010 è vicino e questo potrebbe comunque essere l’ultimo anno in cui l’Irc sarà ancora valutato mediante giudizi.
    P.S.: I guai per lo schema di regolamento non finiscono qui.
Sempre in relazione all’Irc c’è la questione della valutazione delle attività alternative, che sono state inopinatamente declassate a contributo di valore solo consultivo in sede di scrutinio, contro le disposizioni ministeriali che fin dal 1987 (CM 136) avevano attribuito all’insegnante che le curava gli stessi diritti e doveri degli Idr «anche ai fini della partecipazione a pieno titolo ai lavori di tutti gli organi collegiali della scuola, ivi comprese le operazioni relative alla valutazione periodica e finale».
Si può obiettare che una circolare non è una legge, ma la disparità di trattamento è evidente e qualche avvocato sta già scrivendo il ricorso.

“Secondo le Scritture”.

“Per aprire i tesori della Scrittura al mondo di oggi e a tutti noi” di Benedetto XVI Cari fratelli e sorelle, il lavoro per il mio libro su Gesù offre ampiamente l’occasione per vedere tutto il bene che ci viene dall’esegesi moderna, ma anche per riconoscerne i problemi e i rischi.
La [costituzione conciliare] “Dei Verbum” 12 offre due indicazioni metodologiche per un adeguato lavoro esegetico.
In primo luogo, conferma la necessità dell’uso del metodo storico-critico, di cui descrive brevemente gli elementi essenziali.
Questa necessità è la conseguenza del principio cristiano formulato in Giovanni 1, 14: “Verbum caro factum est”.
Il fatto storico è una dimensione costitutiva della fede cristiana.
La storia della salvezza non è una mitologia, ma una vera storia ed è perciò da studiare con i metodi della seria ricerca storica.
Tuttavia, questa storia ha un’altra dimensione, quella dell’azione divina.
Di conseguenza la “Dei Verbum” parla di un secondo livello metodologico necessario per una interpretazione giusta delle parole, che sono nello stesso tempo parole umane e Parola divina.
Il Concilio dice, seguendo una regola fondamentale di ogni interpretazione di un testo letterario, che la Scrittura è da interpretare nello stesso spirito nel quale è stata scritta ed indica di conseguenza tre elementi metodologici fondamentali al fine di tener conto della dimensione divina, pneumatologica della Bibbia.
Si deve cioè: 1) interpretare il testo tenendo presente l’unità di tutta la Scrittura; questo oggi si chiama esegesi canonica; al tempo del Concilio questo termine non era stato ancora creato, ma il Concilio dice la stessa cosa: occorre tener presente l’unità di tutta la Scrittura; 2) si deve poi tener presente la viva tradizione di tutta la Chiesa, e finalmente 3) bisogna osservare l’analogia della fede.
Solo dove i due livelli metodologici, quello storico-critico e quello teologico, sono osservati, si può parlare di una esegesi teologica, di una esegesi adeguata a questo Libro.
Mentre circa il primo livello l’attuale esegesi accademica lavora ad un altissimo livello e ci dona realmente aiuto, la stessa cosa non si può dire circa l’altro livello.
Spesso questo secondo livello, il livello costituito dai tre elementi teologici indicati dalla “Dei Verbum”, appare quasi assente.
E questo ha conseguenze piuttosto gravi.
La prima conseguenza dell’assenza di questo secondo livello metodologico è che la Bibbia diventa un libro solo del passato.
Si possono trarre da esso conseguenze morali, si può imparare la storia, ma il Libro come tale parla solo del passato e l’esegesi non è più realmente teologica, ma diventa pura storiografia, storia della letteratura.
Questa è la prima conseguenza: la Bibbia resta nel passato, parla solo del passato.
C’è anche una seconda conseguenza ancora più grave: dove scompare l’ermeneutica della fede indicata dalla “Dei Verbum”, appare necessariamente un altro tipo di ermeneutica, un’ermeneutica secolarizzata, positivista, la cui chiave fondamentale è la convinzione che il Divino non appare nella storia umana.
Secondo tale ermeneutica, quando sembra che vi sia un elemento divino, si deve spiegare da dove viene tale impressione e ridurre tutto all’elemento umano.
Di conseguenza, si propongono interpretazioni che negano la storicità degli elementi divini.
Oggi il cosiddetto “mainstream” dell’esegesi in Germania nega, per esempio, che il Signore abbia istituito la Santa Eucaristia e dice che la salma di Gesù sarebbe rimasta nella tomba.
La Resurrezione non sarebbe un avvenimento storico, ma una visione teologica.
Questo avviene perché manca un’ermeneutica della fede: si afferma allora un’ermeneutica filosofica profana, che nega la possibilità dell’ingresso e della presenza reale del Divino nella storia.
La conseguenza dell’assenza del secondo livello metodologico è che si è creato un profondo fossato tra esegesi scientifica e “Lectio divina”.
Proprio di qui scaturisce a volte una forma di perplessità anche nella preparazione delle omelie.
Dove l’esegesi non è teologia, la Scrittura non può essere l’anima della teologia e, viceversa, dove la teologia non è essenzialmente interpretazione della Scrittura nella Chiesa, questa teologia non ha più fondamento.
Perciò per la vita e per la missione della Chiesa, per il futuro della fede, è assolutamente necessario superare questo dualismo tra esegesi e teologia.
La teologia biblica e la teologia sistematica sono due dimensioni di un’unica realtà, che chiamiamo teologia.
Di conseguenza, mi sembra auspicabile che in una delle proposizioni [del sinodo] si parli della necessità di tener presenti nell’esegesi i due livelli metodologici indicati dalla “Dei Verbum” 12, dove si parla della necessità di sviluppare una esegesi non solo storica, ma anche teologica.
Sarà quindi necessario allargare la formazione dei futuri esegeti in questo senso, per aprire realmente i tesori della Scrittura al mondo di oggi e a tutti noi.
 Il 23 aprile 2009 Benedetto XVI ha incontrato la pontificia commissione biblica, riunita per preparare un documento su “Ispirazione e verità nella Bibbia”.
E nell’occasione ha tracciato le linee maestre per la lettura della Sacra Scrittura “nel contesto della tradizione vivente di tutta la Chiesa”.
Il testo integrale del discorso è nel sito del Vaticano: > “La Scrittura si comprende all’interno della Chiesa” Tra pochi giorni il quotidiano “la Repubblica” e il settimanale “L’espresso” offriranno al pubblico italiano, in centinaia di migliaia di copie e a un prezzo di favore, l’intera Bibbia cristiana, nella nuova traduzione curata dalla conferenza episcopale, con un ampio corredo di note e illustrata con i capolavori dell’arte di tutti i tempi.
L’opera sarà in tre volumi: il primo con il Pentateuco e i libri storici; il secondo con i libri sapienziali e i profeti; il terzo con i Vangeli, gli Atti degli Apostoli, le lettere e l’Apocalisse.
L’iniziativa è tanto più sigjnificativa in quanto “la Repubblica” e “L’espresso” sono testate leader dell’opinione laica in Italia, spesso critiche nei confronti della Chiesa cattolica e della stessa fede cristiana.
Ma questo non toglie che, nell’offrire al pubblico i tre volumi, i due giornali presentino la Bibbia come “un libro da avere, da leggere e da vivere”, con in più la “garanzia di autorevolezza” della traduzione ufficiale della Chiesa.
I tre volumi sono introdotti dal cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della CEI, e da Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze e coordinatore dell’impresa della nuova traduzione, durata quasi vent’anni ad opera di insigni studiosi.
Nel risvolto di copertina è citata la celebre frase di san Gregorio Magno: “Le divine parole crescono con chi le legge”.
Qui di seguito, ecco l’articolo con cui “L’espresso” presenta la Bibbia ai suoi lettori e suggerisce come leggerla a chi l’accosta per la prima volta.
Non tutta di seguito ma cominciando dalla Genesi, poi passando subito al Nuovo Testamento con il Vangelo di Marco, poi tornando all’Antico con il libro di Giona, poi…
Questa guida alla lettura è naturalmente opinabile, ma riflette lo stile con cui la Chiesa legge le Scritture nelle sue liturgie.
Subito dopo, in questa stessa pagina, è riportato l’intervento di Benedetto XVI al sinodo dei vescovi su “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa”, la mattina di martedì 14 ottobre 2008.
In quell’occasione papa Joseph Ratzinger, parlando a braccio, spiegò come lui desidera che le Sacre Scritture siano lette, per gustarne il senso autentico e pieno, in un’epoca in cui “si propongono interpretazioni che negano la presenza reale di Dio nella storia”.
”Le divine parole crescono con chi le legge” Per Marc Chagall la Bibbia era l’alfabeto di colori a cui ha attinto tutta l’arte occidentale.
Verissimo.
Secolo dopo secolo, la fortuna artistica delle Sacre Scritture è stata così smisurata che oggi sono molti di più quelli che hanno appreso la storia sacra dalla pittura, dalla scultura, dall’architettura, di quelli che ne hanno letto il testo.
La Bibbia è il libro più venduto al mondo.
Ma che l’abbiano letta per intero sono pochi.
Paul Claudel, poeta francese convertito, diceva che “i cattolici mostrano un così grande rispetto per la Bibbia che se ne stanno il più lontano possibile”.
Errore imperdonabile.
Perché se è vero che Raffaello insegna tante cose, è ancor più vero che le stanze vaticane da lui affrescate restano indecifrabili se non si conosce la trama biblica che le sostanzia, se non si vede ad esempio che i filosofi della “Scuola di Atene” sono in cammino verso la liturgia celeste e terrena della “Disputa del Santissimo Sacramento” dipinta sulla parete di fronte.
La Bibbia è il “grande codice” della cultura occidentale.
Su questo i maggiori critici letterari sono ormai concordi.
Erich Auerbach, in un capitolo memorabile di “Mimesis”, mostrò che la Genesi e i Vangeli, ancor più dell’Odissea di Omero, sono la matrice del realismo della letteratura moderna: “Fu la storia di Cristo, con la sua spregiudicata mescolanza di realtà quotidiana e d’altissima e sublime tragedia, a sopraffare le antiche leggi stilistiche”.
Certo, pochi sanno leggere la Bibbia nel testo originale, ebraico per l’Antico Testamento e greco per il Nuovo.
Ma ora che la conferenza episcopale italiana ha sfornato dopo quasi vent’anni di lavoro da parte di biblisti e letterati la più accurata traduzione italiana della Bibbia di sempre, un motivo in più per leggerla c’è.
Questa nuova traduzione della Bibbia, che “L’espresso” e “la Repubblica” propongono ai loro lettori, è la stessa che si legge ogni domenica a messa.
È fatta quindi anche per essere proclamata, cantata, musicata, illustrata: come la Vulgata di san Girolamo, l’antica traduzione latina delle Scritture che per secoli ha fatto tutt’uno con la grande arte occidentale e, nello stesso tempo, con la vita e il linguaggio quotidiani di miriadi di uomini e donne.
Ma attenzione, la Bibbia cristiana può punire chi vi si avventura alla cieca.
È un libro specialissimo, anzi, un insieme di libri, settantatre in tutto, prodotti in un migliaio d’anni e ripartiti in due grandi collezioni, l’Antico e il Nuovo Testamento, che è vietatissimo separare, pena il non capire più nulla.
La messa insegna.
Non vi si legge mai una pagina del Vangelo senza che prima non si legga una pagina dell’Antico Testamento che l’anticipa “in figura”.
Gesù è incomprensibile senza i profeti.
Se è risorto dai morti, come i Vangeli attestano e il “Credo” proclama, ciò è accaduto “secondo le Scritture”.
Se dal fianco squarciato di Gesù zampillano sangue ed acqua, con Maria e Giovanni ai piedi della croce, è impossibile non pensare al secondo capitolo della Genesi, ad Adamo dormiente dal cui fianco Dio trae Eva, la madre dei viventi.
La croce è il nuovo albero della vita del paradiso, come la magnifica croce fiorita del mosaico della basilica romana di San Clemente.
È la sorgente della Chiesa, è l’inizio della nuova creazione.
Dell’Antico Testamento, per cominciare, si legga la Genesi.
Non ci si stupisca se i racconti della creazione non sono uno ma due, l’uno di seguito all’altro e così diversi di stile e di contenuto.
La Bibbia non vuole dire come il mondo è nato, ma perché.
E anche perché, in un mondo che pure è benedetto da Dio come “buono”, si sprigiona tanto male, non per destino ma per libera scelta volontaria, travolgendo con l’uomo anche la natura.
Da Caino a Lamech, dalla torre di Babele al diluvio, la malvagità invade la terra.
Ma c’è Noè il giusto, nell’arca salvata dalle acque.
Poi c’è la chiamata di un altro giusto, Abramo.
E c’è una giustizia anche al di là del popolo eletto, nel misterioso Melchisedech “senza padre, senza madre, senza genealogia”, come scriverà nel Nuovo Testamento l’autore della lettera agli Ebrei.
E c’è Dio che visita Abramo nella persona dei tre ospiti anonimi che Rublev nel XV secolo dipingerà come icona della Trinità.
E ancora Dio che lotta con Giacobbe sulle rive del torrente Yabbok.
Dio? La Bibbia non lo scrive.
Lo fa intuire.
Forse.
In questo la Bibbia è davvero modernissima.
Non dice mai tutto.
Anzi.
Obbliga il lettore a entrare nella trama e a decidere.
“Le divine parole crescono con chi le legge”, disse papa Gregorio Magno in un’omelia su Ezechiele profeta.
È come se le Scritture dormano, prima che il lettore arrivi a destarle dal sonno.
Sono state scritte così, piene di enigmi, ellissi, salti, penombre.
E l’esegesi rabbinica è così da sempre: il “midrash” è un inesauribile accumulo di letture e riletture, rimontaggi e reinterpretazioni, realtà e visione.
Un dipinto di Chagall ne è illustrazione perfetta.
E così la liturgia cristiana: lì la Parola di Dio non è una lettura libresca, ma diventa realtà vivente nei simboli sacramentali.
Il Verbo di Dio prende corpo e sangue.
C’è un’antifona, nella messa dell’Epifania secondo il rito ambrosiano che si celebra a Milano, che è un inno alla creatività, nell’accostare la Bibbia.
Essa canta: “Oggi al celeste Sposo s’è congiunta la Chiesa, poiché nel Giordano egli ha lavato i suoi peccati.
Accorrono i Magi con doni alle nozze regali e s’allietano i convitati dell’acqua mutata in vino.
Alleluia!”.
Qui i rimandi ai Vangeli sono almeno tre: alla visita dei Magi con i doni al Bambino, al battesimo di Gesù adulto nel Giordano, al miracolo delle nozze di Cana.
Ma l’ordine cronologico è del tutto saltato e la narrazione è stata scomposta e ricomposta.
Le nozze diventano quelle tra Gesù e la Chiesa, le acque battesimali purificano la sposa, i Magi portano i doni alla festa e gli invitati si comunicano bevendo il miracoloso vino procurato dallo stesso Gesù, qui ed ora.
Letta la Genesi, si salti al Nuovo Testamento e si legga Marco, il più antico, il più breve e il più folgorante dei quattro Vangeli.
Tutto imperniato sul “segreto messianico” come trama narrativa, un segreto che fa balenare solo a tratti, dalla penombra, la vera identità di Gesù, e solo alla fine la svela con le parole del centurione romano davanti alla croce: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”.
Altro elemento modernissimo del Vangelo di Marco è il suo finale tronco, in sospeso.
A riconoscere Gesù nella fede è stato un ufficiale pagano, i discepoli sono tutti fuggiti, e le donne che vedono la tomba vuota non dicono niente a nessuno “perché impaurite”.
Punto.
Col leggere un simile finale, come sfuggire dal prendere posizione? Come resistere dall’entrare in scena anche noi? Dispiace che della “Marcus-Passion” di Johann Sebastian Bach sia andata perduta la musica, visti quei capolavori sublimi che egli ha tratto dalla più solenne, ieratica, passione di Matteo, e da quella mistica di Giovanni.
E poi di nuovo si torni all’Antico Testamento.
Si legga il brevissimo libro di Giona, il profeta mandato da Dio a convertire e perdonare la Ninive pagana, ingoiato dal pesce e vomitato vivo il terzo giorno, scintillante racconto tutto intessuto di fine ironia: e allora si capirà perché Gesù si sia identificato nel “segno di Giona” e perché Michelangelo abbia dipinto proprio questo profeta, in forme grandiose, alla sommità della parete d’altare della Cappella Sistina, tra la Creazione e il Giudizio, tra l’inizio e la fine dei tempi.
E poi si legga il libro di Giobbe, grande teologia e poesia altissima.
E il Cantico dei Cantici, incantevole carme d’amore.
E poi di nuovo si apra il Nuovo Testamento, col dittico del Vangelo di Luca e degli Atti degli Apostoli, con le avventure di Paolo che fa naufragio a Malta e infine arriva a Roma.
Non diremo mai più che la Bibbia è noiosa.
Da “L’espresso” n.
18 del 2009

La martire Perpetua

Il primo elemento che colpisce è il fatto che l’autrice sia una donna, una giovane donna di 22 anni, sposata e con un bambino ancora lattante: si tratta di un elemento che non ha paralleli nelle letterature greca e romana e che trova solo analogie parziali con esempi moderni – Perpetua è stata accostata ad Anna Frank e a Sophie Scholl.
Si è talora dubitato che il testo sia stato effettivamente scritto da lei e che non abbia subito interventi redazionali, ma è difficile negare credito alle ripetute e solenni affermazioni del redattore, il quale sottolinea come avesse narrato lei le vicende del suo martirio nel documento che aveva lasciato – dice – “scritto di suo pugno e secondo il suo modo di sentire” (2, 3; cfr.
14).
L’autenticità viene confermata dalle differenze linguistiche e stilistiche delle sezioni autobiografiche rispetto alla parte redazionale nel testo latino della Passio, che secondo l’opinione comune è quello originale (esiste anche una versione greca).
Del resto la martire aveva tutte le capacità di elaborare uno scritto, avendo ricevuto una buona istruzione in conformità con le condizioni elevate della famiglia.
Un altro elemento che rende singolare questo scritto è il contenuto stesso: come nota Auerbach, nel racconto di Perpetua “vengono rappresentate cose che nella letteratura antica non si trovano”, e che raramente sono state descritte in prima persona: le sensazioni di orrore e disagio provate nell’ambiente del carcere, le emozioni contrastanti, di tormento oppure di sollievo e gioia, prodotte dagli incontri con i famigliari, in particolare il rapporto travagliato con il padre rimasto pagano, la pena per il bambino, le confidenze con il fratello.
Osserva ancora Auerbach: “nella letteratura antica c’era Antigone; ma qualche cosa di simile non c’era e non ci poteva essere; non c’era un genus letterario per questa realtà in tanta dignità e sublimità”.
Perpetua non solo racconta di ambienti e circostanze umili e quotidiane, di esperienze personali intime e concrete, ma lo fa con grande semplicità di linguaggio e di stile e insieme con eccezionale capacità espressiva, che raggiunge toni elevati, talora tragici, e non è affatto priva di effetti retorici.
Guardato nel suo complesso, lo scritto di Perpetua non si riesce a classificare in modo soddisfacente.
È stato definito dagli studiosi “memoria” o “autobiografia spirituale” o “diario”.
Ma solo impropriamente si può parlare di “diario” (così come si può parlare di diario di Anna Frank): nella forma in cui ci è pervenuto, non appare compilato giorno per giorno e l’autrice si mostra pienamente consapevole della sorte che la attende, avendone ricevuta una sorta di rivelazione attraverso un sogno, o visione notturna, già nei primi tempi della carcerazione (4, 10).
Inoltre, non scrive soltanto per se stessa, ma per lasciare un messaggio di fede ai fratelli della comunità cristiana.
Indizi di una composizione elaborata e intenzionale sono l’accurata alternanza e i nessi tra i fatti e le visioni, la struttura speculare e concentrica delle visioni, lo sviluppo progressivo della narrazione, che è di segno negativo per quanto riguarda i rapporti col padre e le prospettive della propria esistenza terrena, di segno positivo per quanto riguarda la comprensione del proprio destino sul piano della salvezza spirituale.
Si potrebbe supporre che Perpetua abbia, in una fase di revisione finale, selezionato e ordinato i materiali del suo diario avendo in mente una sorta di progetto.
In particolare hanno un rilievo strategico le visioni, o sogni, che costituiscono la componente più rilevante del testo e sono state oggetto di molta attenzione, ma sono anche state e sono tuttora molto discusse a proposito del loro carattere e del loro significato.
Si tratta di esperienze reali o di artifici letterari? Sono manifestazioni oniriche da interpretare coi metodi della psicologia dell’inconscio o sono costruzioni narrative i cui simboli vanno compresi sulla base del patrimonio religioso di Perpetua? E quale? La tradizione pagana ancora radicata nel profondo o l’immaginario biblico assimilato nella catechesi? Una soluzione equilibrata può essere quella di ammettere che alla base ci siano stati fenomeni effettivi (si possono notare riferimenti alle concrete vicende vissute) e che alcuni particolari apparentemente assurdi si spieghino come tratti onirici, e non va neppure negata a priori la possibilità di una plurivalenza delle immagini.
Ma i sogni, o visioni, che conosciamo sono frutto di una trascrizione effettuata in stato di veglia, in base a un ripensamento intervenuto a posteriori che ne ha colto un significato: non a caso ogni volta i racconti delle visioni si concludono con la formula “e compresi” (intellexi o cognovi) o “comprendemmo” (intelleximus).
Inoltre la volontà di lasciare il documento alla comunità indica un intento comunicativo che non può non aver influenzato la scrittura.
L’ambito di riferimento più chiaro e significativo sono la Bibbia e la fede cristiana.
È evidente un buon numero di allusioni bibliche, che rinviano in particolare alla Genesi, all’Apocalisse, a Paolo; in alcuni casi si tratta di vere e proprie citazioni, come è la frase “gli calcai il capo”, che rinvia a Genesi, 3, 15 e ricorre sia nella prima sia nella quarta visione e viene applicata al dragone (4, 7) e all’avversario egizio (10, 11), entrambi immagini del diavolo.
Ma sono anche riconoscibili in tutte le visioni allusioni di tipo sacramentale.
Anche da questo punto di vista si coglie una progressione, una sorta di via perfectionis.
Del resto anche i racconti di episodi fanno trapelare allusioni simboliche, spesso bibliche, e riferimenti metafisici: ad esempio, nella descrizione del primo incontro col padre, Perpetua assimilando se stessa, come cristiana, a un recipiente che si trova nella cella (3, 1-2) verosimilmente riutilizza un’immagine paolina e alla fine dell’incontro associa i ragionamenti del padre a quelli del diavolo (3, 3).
Si può dire che il diario, nella pluralità e nell’intreccio degli elementi che lo compongono, assolva a diversi obiettivi, personali e comunitari: mira al superamento delle disarmonie e delle ansie dolorose del vissuto presente per ricomporle su di un livello della realtà altro e più vero; addita a sé e agli altri un progetto divino del tutto positivo, già rivelato nella Sacra Scrittura, mostrando che si realizza pienamente al di fuori della storia ma già trova occasioni di compimento nella vita cristiana e nella comunione coi fratelli di fede.
(©L’Osservatore Romano – 1 maggio 2009) Il diario di Perpetua testimonia, insieme a un buon numero di altri scritti, antecedenti e posteriori, quanto il cristianesimo abbia favorito il parlare e raccontare di sé, in misura maggiore e in modalità originali rispetto alla tradizione classica.
Per lo più questo fenomeno è stato riconosciuto a partire dalle Confessioni di Agostino, che si collocano alla fine del iv secolo e sono state considerate il vero inizio dell’autobiografia in senso moderno.
In realtà una produzione di tipo autobiografico compare fin dall’inizio della letteratura cristiana in varie forme e contesti: pensiamo a molte pagine dell’apostolo Paolo, ma anche, per limitarci ad autori del ii secolo precedenti a Perpetua, a Ignazio di Antiochia, a Erma, a Giustino.
Però il suo diario mostra caratteri del tutto eccezionali e si può dire unici per il mondo antico.