La Chiesa e la nuova realtà dell’Africa che non è il mendicante

Si è aperto il Sinodo dei vescovi per l’Africa.
Dopo il viaggio di Benedetto XVI in Camerun e Angola lo scorso marzo, la Chiesa convoca ora i suoi stati generali sul «continente malato».
Qui il cattolicesimo ha conosciuto una crescita imponente nel Novecento.
I cattolici sono passati da meno di due milioni del 1900 a oltre 160 milioni di oggi.
Il tempo del colonialismo è stato anche quello di un’intensa stagione missionaria.
La Chiesa non se n’è andata dal continente a seguito delle potenze coloniali.
Dagli anni 50 ha africanizzato i suo quadri, assumendo un volto africano.
Eppure ha conosciuto gravi difficoltà e persecuzioni.
Non solo i cattolici.
Il patriarca ortodosso di Etiopia, Paulos (invitato a parlare al Sinodo), ha conosciuto la dura repressione del dittatore Menghistu, che ha lo ha incarcerato e ha assassinato tanti religiosi.
Negli anni 90, la Chiesa in Africa ha avuto un ruolo centrale nelle transizioni dalla dittatura alla democrazia.
Grandi figure di cattolici si sono imposte fin dall’indipendenza, come il senegalese Senghor (uno dei pochi leader del suo tempo a lasciare spontaneamente il potere) o il presidente Nyerere della Tanzania.
E oggi? Il cattolicesimo è in una condizione di passaggio, pur continuando a essere una delle più grandi risorse umane dell’Africa.
Ma in che senso? La Chiesa è sfidata dalla vitalità dell’islam, talvolta radicale.
Ma anche da un messaggio cristiano alternativo: Chiese libere, sette, propongono un cristianesimo, caldo, miracolistico, sentimentale.
Benedetto XVI ha parlato dei rischi del «fondamentalismo religioso, mischiato con interessi politici ed economici»: «Gruppi che si rifanno a diverse appartenenze religiose — ha detto ieri — si stanno diffondendo nel continente africano; lo fanno nel nome di Dio… insegnando e praticando non l’amore e il rispetto della libertà, ma l’intolleranza e la violenza».
La Chiesa risente della diminuzione e dell’invecchiamento dei missionari dell’Occidente.
In Africa le chiese cattoliche sono sempre piene, ma in alcuni Paesi il cattolicesimo ha una posizione meno centrale di ieri ed è maggiormente sfidato dal pluralismo religioso e culturale.
Sono problemi chiari a Benedetto XVI che, nell’anno sacerdotale, guarda con attenzione ai 34 mila preti africani.
L’Africa conta su preti giovani, coraggiosi, generosi ma talvolta tentati dall’esercizio di un «potere» clericale.
Non si può generalizzare, ma lo stile del potere, tipico delle società africane, può contagiare vescovi e preti.
Questa situazione ha una ricaduta sui laici cattolici.
Le grandi figure di «laici» (Nyerere o Senghor) sono tramontate.
I laici (e le religiose), decisivi nella vita della Chiesa, in Africa sono spesso solo i collaboratori del prete.
Lo si vede dall’assenza dei cattolici in molte classi dirigenti.
Il Sinodo africano darà vitalità alla Chiesa nel continente in tutte le sue componenti? Papa Ratzinger ha proposto, da subito, non aggiustamenti strutturali, ma la «misura alta della vita cristiana, cioè la santità».
Di fronte ai vescovi si apre lo scenario delle guerre, delle pandemie e della povertà del continente.
Ma l’Africa non è tutta «nera».
Malgrado le crisi, torna al centro dell’interesse mondiale.
Lo si vede dalla politica attiva della Cina.
In un recente convegno, promosso dalla Fondazione Banco di Sicilia e da Ambrosetti, è stato rilevato come l’Africa sia una grande opportunità per l’impresa europea.
Ben 33 Paesi africani crescono da un punto di vista economico.
Sta emergendo una giovane generazione, pronta a cogliere le occasioni della globalizzazione, con un orizzonte culturale diverso da quello tradizionale.
Quando si parla di cultura africana bisogna stare attenti, perché il discorso sull’autenticità africana rischia di rivelarsi una costruzione ideologica e passatista.
La cultura africana oggi è più moderna delle rappresentazioni etnico-folcloristiche o tradizionali, fatte da europei o africani.
La comprensione dell’Africa deve essere più articolata che quella dolorosa ma semplificata del tempo delle dittature.
La società, fattasi complessa, non è più così naturalmente religiosa, come si è tanto detto.
Se larghe masse sono ancora in bilico tra passato e futuro, tanti africani hanno compiuto un salto in avanti.
Per la rapidità dei cambiamenti, forse i vescovi cattolici dovranno rileggere la realtà e non affidarsi a stereotipi, per capire meglio il mondo dei loro fedeli.
Ne ha dato l’esempio il Papa, parlando di forza attrattiva del «materialismo pratico».
Persistono gravi situazioni di miseria, guerra e malattie.
La cura dell’Aids necessita di importanti risorse.
L’Africa da sola non ce la fa.
Richiede aiuto, investimento, inserimento nella rete mondiale.
Può, però, dare molto a tutti i livelli.
Non è il mendicante del mondo.
È significativo che, nell’anno della crisi economica, la Chiesa ponga l’Africa al centro: «L’Africa rappresenta un immenso polmone spirituale, per un’umanità che appare in crisi di fede e di speranza», ha detto il Papa.
Ma questo polmone può ammalarsi.
I vescovi cattolici non possono gestire solo un grande patrimonio religioso, ma andare in profondità e rischiare la via del futuro.
in “Corriere della Sera” del 5 ottobre 2009

Dibattito sul Bullismo

Il ministro inglese dell’istruzione, il laburista Ed Balls, all’indomani del recente discorso tenuto dal primo ministro Gordon Brown ai membri del proprio partito, in occasione dell’avvio della campagna elettorale che porterà alle urne i cittadini britannici alla fine della prossima primavera, è tornato su uno dei punti cruciali del programma che i laburisti intendono proporre e che riguarda problematiche educative nelle scuole.
A fronte del fatto che una scuola inglese su 5 è stata al centro di episodi di comportamento antisociale da parte dei suoi studenti, l’amministrazione ha intenzione di lanciare una vera e propria sfida per ricondurre i comportamenti dei ragazzi a livelli accettabili.
All’associazione dei genitori che si rifà al partito laburista è stato ricordato il dovere di sostenere il lavoro della scuola, specialmente ora che si sta aprendo un nuovo, inquietante fronte legato alle attività di gruppi razzisti, in grado di influenzare pericolosamente i giovani.
Il prossimo gennaio è infatti attesa la presentazione di una relazione chiesta dal ministro per l’istruzione al responsabile del servizio ispettivo centrata su alcuni punti chiave: -se le misure di salvaguardia contro il diffondersi della mentalità razzista fra i giovani siano sufficienti, -se siano necessarie ulteriori misure per aumentare, nell’opinione pubblica, la fiducia negli insegnanti, al fine di proteggere i giovani dai rischi dell’indottrinamento e della discriminazione, in particolare tramite l’affiliazione ad associazioni di stampo razzista, -se le attuali misure di salvaguardia debbano essere più ampiamente diffuse nel paese attraverso i lavoratori della scuola.
Il problema appare tanto più pressante alla luce dei risultati di recenti inchieste in cui sembrano coinvolti un numero imprecisato di docenti, i cui nominativi non sono conosciuti, i quali sarebbero a loro volta affiliati ad organizzazioni razziste.
Al riguardo, l’amministrazione sta prendendo in considerazione l’opzione di sollevarli dall’insegnamento, non appena vengano identificati.

Testamento biologico: ragioni, nodi critici e prospettive

La questione del testamento biologico è divenuta, in questi ultimi anni, di grande attualità anche nel nostro Paese, a seguito soprattutto dell’esplosione di casi, come quelli di Welby e della Englaro, che hanno scosso profondamente l’opinione pubblica.
Non si può sottovalutare, tuttavia, il rischio che, proprio per questo motivo, le reazioni emotive prevalgano sulle argomentazioni razionali, favorendo pronunciamenti affrettati e improduttivi.
A questo genere di pronunciamenti va ascritto anche il testo relativo alle «dichiarazioni anticipate di trattamento», approvato dal Senato il 26 marzo dell’anno in corso e ripreso (e ci auguriamo largamente rivisto) dalla Camera probabilmente nel prossimo autunno.
La riflessione sul testamento biologico riveste – va detto fin dall’inizio – particolare importanza sul piano etico soprattutto per la varietà dei temi che attorno ad esso si condensano e che hanno a che fare con le frontiere della vita e della morte: dall’autodeterminazione del paziente nei confronti delle cure al ruolo del medico (e del personale sanitario in genere), dalle cure palliative alla terapia del dolore, dall’eutanasia all’accanimento terapeutico.
Si tratta di una sorta di crocevia, in cui convergono i più significativi nodi critici riguardanti le situazioni esistenziali di fine-vita.
Le rapide note, che qui svilupperemo, prendono anzitutto avvio da una sintetica rilevazione delle ragioni strutturali e culturali, che hanno fatto emergere in questi anni, in termini sempre più insistiti, la richiesta di dare statuto giuridico al testamento biologico; per mettere, successivamente, in evidenza le problematiche più rilevanti legate alla sua stesura e alla sua applicazione; e delineare, infine, alcuni orientamenti volti a favorirne una corretta utilizzazione.
Alla base della richiesta di legalizzazione del testamento biologico, in quanto strumento destinato a far valere le proprie volontà circa i trattamenti cui essere o non essere sottoposti nella fase di finevita qualora ci si trovi in stato di incoscienza, vi è senz’altro l’accresciuta consapevolezza della dignità della persona, e dunque del rispetto dei diritti che ad essa fanno capo lungo l’intero arco della sua esistenza.
La modernità è infatti coincisa con lo sviluppo della civiltà dei diritti, il cui raggio di esercizio è venuto progressivamente dilatandosi, soprattutto a partire dall’ultimo dopoguerra.
Le Costituzioni degli Stati democratici e le Carte delle istituzioni internazionali – è sufficiente ricordare qui la Carta dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite del 1948 – hanno assunto, come perno della vita collettiva e come limite all’intervento degli Stati, la salvaguardia dell’autonomia della persona e il riconoscimento (nonché la possibilità di espressione) dei suoi fondamentali diritti.
In questo contesto deve essere dunque inserito il «diritto a morire dignitosamente», diritto che implica particolare attenzione alla qualità del morire in quanto momento supremo dell’esistere.
E, in questo contesto, acquista soprattutto sempre maggiore consistenza il bisogno di decidere, in modo autonomo, a quali cure si desidera essere o non essere sottoposti.
ambivalenza del progresso tecnico A sollecitare tale attenzione e tale bisogno hanno contribuito, in misura determinante, gli sviluppi della tecnologia in campo biomedico; essa, accanto ad esiti altamente positivi – si pensi ai grandi successi ottenuti in campo terapeutico con la sconfitta di malattie un tempo letali – fa registrare l’emergenza di nuovi rischi, primo fra tutti quello dell’accanimento terapeutico.
La possibilità di prolungare oltre misura la vita biologica, mediante interventi sempre più sofisticati e pervasivi, provoca spesso la dequalificazione della vita personale con grave attentato alla dignità umana.
E ciò soprattutto in presenza di una cultura, nella quale l’enorme successo della tecnica alimenta la tentazione del tecnicismo abusivo; mentre, a sua volta, il dilagare della mentalità scientista spinge a coltivare una concezione rigidamente «biologica» della vita.
Si afferma così una forma di prometeismo, che ritiene eticamente legittimo (considerandolo umanizzante) tutto quanto è tecnicamente possibile, e che considera positivo ogni prolungamento artificiale della vita, prescindendo dalle pesanti ricadute che spesso l’accompagnano sul piano umano.
Il confronto quotidiano con casi, che rivelano la disumanità di alcuni trattamenti sanitari, rende trasparente l’ambivalenza del progresso tecnico, e concorre ad accentuare il bisogno di esternare la propria volontà circa le cure nel momento in cui ci si venisse a trovare nell’impossibilità di farlo direttamente.
rimozione della morte Accanto a queste motivazioni di grande rilievo sul piano umano va tuttavia aggiunto – e costituisce un elemento tutt’altro che secondario – l’atteggiamento disturbato con cui si vive oggi il rapporto con la morte.
Ad avere il sopravvento è infatti la rimozione della morte, causata da un insieme di fattori, quali la sua radicale separazione dalla vita – si muore sempre più in ospizi ed ospedali, al di fuori cioè dei luoghi nei quali si svolge l’ordinaria esistenza –, la sua spettacolarizzazione – la televisione e internet ci mettono ogni giorno di fronte ad episodi di morte, ma si tratta di eventi spersonalizzati, che determinano scarso coinvolgimento e producono assuefazione –, e infine la perdita del simbolismo, sia religioso che laico, che in passato contribuiva, in qualche misura, a riscattarla.
Rimozione e perdita di significati sono poi ulteriormente accentuati dalla presunzione dell’uomo di aver raggiunto il controllo e il dominio di tutti gli ambiti della realtà con la conseguente percezione della morte come scacco insopportabile, come l’irruzione del non controllabile o del non dominabile; in una parola, di ciò che non può essere razionalizzato.
Da questo punto di vista, eutanasia ed accanimento terapeutico, pur rimanendo fenomeni di segno opposto, possono venire ricondotti a una identica matrice: la volontà dell’uomo di esercitare la propria signoria sulla morte, trasformandola da evento «naturale», di fronte al quale egli risulta del tutto impotente, in evento «culturale» sottoposto alla propria volontà: nel primo caso – quello dell’eutanasia – dandosi la morte, scegliendo cioè il tempo e il modo secondo cui morire; nel secondo – quello dell’accanimento terapeutico – prolungando in maniera illimitata la vita nella (illusoria) speranza di poter vincere la morte.
Paura e rimozione finiscono così per sostenersi reciprocamente, entrando in una sorta di spirale o di circolo vizioso: la paura alimenta infatti la rimozione, la quale, a sua volta, non fa che accentuare la paura.
Se questo rende, da un lato, ragione della richiesta insistita di dare forma legislativa al testamento biologico come tutela della persona, spiega tuttavia, dall’altro, perché dove esso è già stato da tempo introdotto venga scarsamente utilizzato – la percentuale di chi se ne serve si aggira attorno al 10-20% – prevalendo la tendenza, psicologicamente comprensibile ma accentuata dal disagio ricordato, ad allontanare il più possibile il pensiero della propria morte.
i fondamentali nodi critici di ordine etico Le questioni di carattere etico che affiorano in riferimento al testamento biologico sono molte e di diversa consistenza: tre ci sembrano tuttavia quelle di maggiore importanza sulle quali è opportuno soffermarsi.
autodeterminazione ma non solo La prima riguarda anzitutto il principio di autodeterminazione, che è il presupposto in base al quale viene rivendicata l’istituzione del testamento biologico.
L’affermazione di tale principio ha trovato, nell’ambito della bioetica, concreta espressione nel «consenso informato», di cui il testamento biologico altro non è che il logico prolungamento in situazioni nelle quali il paziente si trova a vivere in stato di incoscienza.
Il principio di autodeterminazione è senza dubbio un principio fondamentale di riferimento per affrontare le questioni della bioetica, ma – è importante sottolinearlo – non può essere assunto come criterio esclusivo.
Esistono infatti altri principi – quello di non maleficità, quello di beneficità e quello di giustizia o di equità sociale – ai quali ispirare l’attività di cura.
La tutela dell’autonomia del paziente non può pertanto prescindere dalla ricerca del suo bene, che costituisce l’obiettivo dell’attività del medico, e dall’attenzione al contesto sociale, essendo le risorse a disposizione limitate e dovendole perciò ripartire equamente.
Si tratta, in altri termini, di mediare la libertà con il bene e con la giustizia, pervenendo a scelte, che spettano in ultima analisi al paziente (sia direttamente che attraverso il proprio fiduciario nel caso del testamento biologico) e che devono avere di mira il bene del singolo e quello della collettività.
L’interpretazione rigidamente individualista che talora si dà del principio di autodeterminazione è frutto di una visione liberista, derivante da un contesto come quello degli Usa dove – è bene non dimenticarlo – circa cinquanta milioni di persone sono tuttora escluse da qualsiasi forma di assistenza sanitaria.
chi per me? La seconda questione ha come oggetto la gestione del testamento biologico, cioè le concrete modalità della sua esecuzione.
Vi è, al riguardo, chi ritiene che esso abbia un preciso valore giuridico, e vada pertanto eseguito alla lettera, senza alcuna possibilità di mediazione, escludendo di conseguenza ogni spazio di intervento del medico.
E vi è chi, invece, ritiene che si tratti di indicazioni da tenere in seria considerazione, che vanno tuttavia fatte oggetto di ulteriore valutazione tra il medico e il fiduciario designato dal paziente.
In realtà tanto la stesura del testamento biologico quanto la sua esecuzione non sono (o non dovrebbero essere) atti puramente individuali, ma espressione di un processo che coinvolge il paziente (o chi lo rappresenta), in quanto portatore di bisogni e di diritti, e il medico in ragione della sua specifica competenza.
Il modello cui ispirare la condotta ci sembra possa essere dunque quello della «alleanza terapeutica» la cui attuazione comporta l’instaurarsi di un rapporto di reciproca fiducia, che sfocia nella volontà di collaborare alla comune ricerca del bene del paziente.
La giustificata reazione all’atteggiamento paternalistico del passato si traduce oggi spesso – per reazione – nell’opposta tendenza a fare del medico un mero esecutore tecnico della volontà del paziente, impedendogli di mettere a frutto la propria competenza con conseguente danno per lo stesso paziente.
La mutua cooperazione, oltre ad evitare l’estensione (altrimenti inevitabile) dell’obiezione di coscienza dei medici, consente di verificare con maggiore precisione la reale situazione, prendendo in considerazione le novità nel frattempo intervenute in campo terapeutico e interpretando la volontà del paziente anche in relazione a questi cambiamenti.
nutrizione e idratazione Infine la terza e ultima questione (non ultima in ordine di importanza) concerne il significato che si attribuisce alla nutrizione e all’idratazione, e perciò la possibilità o meno di deciderne la sospensione in alcune situazioni particolari.
Il dibattito, che si è sviluppato, in questo ultimo anno nel nostro Paese (in occasione soprattutto della vicenda di Eluana Englaro) ha visto la discesa in campo di due posizioni contrapposte, con punte a volte di forte tensione ideologica.
Da una parte, vi era chi sosteneva che nutrizione e idratazione in quanto «sostegni vitali» devono essere comunque sempre somministrate; dall’altra, chi, insistendo sulle modalità con cui la somministrazione avviene, riteneva che nutrizione e idratazione possano essere incluse nell’attività di «cura», e debbano pertanto essere in molti casi sospese.
Questa contrapposizione, soprattutto se radicalizzata, risulta, per molti aspetti, artificiosa.
È difficile infatti negare che nutrizione e idratazione siano, in senso antropologico, «sostegno vitale»; ma è altrettanto difficile misconoscere che, in alcune circostanze, siano a tutti gli effetti, per il modo con cui la somministrazione si realizza (intervento chirurgico e preparazione di sostanze chimiche) «atto medico » (e dunque curativo anche se non direttamente terapeutico).
Forse, per affrontare correttamente il problema, bisogna collocarlo in quella area di questioni di frontiera, che stanno sul crinale tra omissione di soccorso (in passato si diceva «eutanasia passiva») e accanimento terapeutico.
Questo implica che si debba di volta in volta decidere, tenendo conto della concretezza delle situazioni, con la consapevolezza che lo stesso intervento può, in taluni casi, se evitato, risultare omissione di soccorso; in altri casi, se effettuato, può invece comportare accanimento terapeutico.
In questa ottica, nutrizione e idratazione devono essere valutate caso per caso, con attenzione alla situazione complessiva del paziente.
L’inserimento del loro rifiuto nel testamento biologico implicherebbe perciò la circoscrizione entro una casistica dettagliata non facilmente definibile a priori; ma (forse) potrebbe bastare – ci sembra questa la via più praticabile, in linea del resto con quella forma di «diritto mite» da molti auspicato – l’espressione da parte del paziente di una generica volontà di rifiuto, che andrebbe poi verificata nella sua applicabilità mediante il confronto tra il proprio fiduciario e il medico.
orientamenti per una corretta utilizzazione L’acquisizione del significato proprio del testamento biologico e la disponibilità al suo corretto utilizzo esigono l’adempimento di alcune condizioni, che costituiscono la cornice entro cui il testamento va collocato.
La prima di tali condizioni consiste nel farsi strada di una concezione relazionale dell’umano.
Si è già detto dei rischi che si corrono quando ci si muove entro un orizzonte radicalmente individualista.
Ogni atto umano si sviluppa all’interno di una rete di relazioni, ed implica pertanto il ricorso a una condivisione di responsabilità che non può essere elusa.
Anche il testamento biologico, tanto nella fase di stesura che in quella esecutiva, comporta il concorso di altri soggetti (il medico di base o quello curante e successivamente il fiduciario) ed esige la convergenza di tutti attorno al bene del paziente.
La seconda condizione è costituita da una sempre maggiore estensione, a tutti i livelli, del concetto di cura proporzionata; concetto che laddove viene praticato, rappresenta il miglior antidoto tanto nei confronti dell’eutanasia che dell’accanimento terapeutico.
Da questo punto di vista, è importante che si potenzino, anche nel nostro Paese, le cosiddette «cure palliative», il cui obiettivo è quello di «prendersi cura» della persona nella sua globalità, offrendole i necessari supporti fisici – si pensi alla terapia del dolore – e psicologici per vivere anche i momenti più drammatici di avvicinamento alla morte con la maggiore serenità possibile.
Infine, la terza (e ultima) condizione è costituita dall’esigenza di dare vita a una nuova «cultura della morte», che ne faccia riscoprire il profondo legame con la vita e, pur senza rinnegare il carattere di tragicità che inevitabilmente la connota, non rinunci a renderne trasparente il significato di compimento dell’esistenza e, per chi crede, di «realtà penultima», che prelude – è questo il senso della speranza cristiana – a una vita che non ha termine.
L’adempimento di queste condizioni è la via per accedere a una visione più umanizzata della malattia e della morte e per togliere al testamento biologico il carattere, oggi prevalente, di strumento difensivo o rivendicativo dei diritti soggettivi, trasformandolo in un vero esercizio di collaborazione all’azione medica, che è tanto più corretta ed efficace quanto più è rispettosa della volontà dei pazienti e quanto più tende, nel contempo, a salvaguardarne, in tutte le fasi della malattia, la dignità umana.

Un ponte tra scuola e lavoro

Il “Piano per l’occupabilità dei giovani”, presentato ieri alla stampa, punta all’integrazione tra apprendimento e lavoro.
Ai giovani «non dobbiamo offrire pesci ma canne per pescare», ha esemplificato Sacconi, e cioé strumenti di formazione effettivamente spendibili nell’impiego.
Invece in Italia oggi si sommano due patologie: da un lato il precoce abbandono delle attività educative, la dispersione scolastica, dall’altro il tardivo ingresso nel mondo del lavoro.
«Noi vogliamo agire – ha detto – per riempire la vita dei giovani sotto i 25 anni di attività utili al loro futuro.
Basta con la generazione né-né, vale a dire quella di chi né studia proficuamente, né lavora».
Il ministro Gelmini ha sottolineato poi come l’Italia sia in coda in Europa per l’abbandono scolastico: nel 1997 la dispersione in Europa era del 19% e in Italia del 30%, oggi la media Ue è scesa al 10% mentre l’Italia si attesta al 19%.
I dati non sono confortanti neanche per quanto riguarda l’età di uscita dall’università: erano 28 anni con il vecchio ordinamento, sono 27 oggi.
I due ministeri costituiranno una «cabina di regia» (costituita da tre rappresentanti ognuno) con il compito di coordinare le iniziative per l’occupabilità dei giovani e monitorare i risultati.
Ma quali sono le sei linee di intervento messe in cantiere? La prima vuole «facilitare la transizione dalla scuola al lavoro», che rappresenta oggi una delle «principali criticità» del nostro Paese per i suoi tempi troppo lunghi e per le sue modalità «non di rado ai limiti della legalità».
In secondo luogo occorre «rilanciare l’istruzione tecnico-professionale».
Terzo, «rilanciare il contratto di apprendistato».
 Poi bisogna «ripensare l’utilizzo dei tirocini formativi, promuovere le esperienze di lavoro nel corso degli studi, educare alla sicurezza sul lavoro, costruire sin da scuola e Università la tutela pensionistica».
Quindi va «ripensato il ruolo della formazione universitaria».
Infine, sesto e ultimo obiettivo, «aprire i dottorati di ricerca al sistema produttivo e al mercato del lavoro».
Il piano governativo punta a investire sulla mobilità degli studenti, «superando la logica della moltiplicazione delle sedi, ampliando il numero delle borse di studio e delle residenze legate al merito» e mettendo in campo strumenti di finanziamento per gli studenti.
Il tutto con l’obiettivo di superare gradualmente il valore legale del titolo di studio, come ha ripetuto lo stesso ministro dell’Istruzione.
Bisogna voltare pagina, spiegano Sacconi e Gelmini nel documento presentato, perché «i già precari equilibri del mercato del lavoro e del sistema previdenziale saranno sempre più messi in discussione dall’invecchiamento della popolazione e dagli squilibri territoriali che produrranno un aumento della pressione migratoria e un progressivo inurbamento.
«Se non introdurremo correttivi – avvertono – persisteranno gli attuali alti livelli di dispersione scolastica e universitaria che non possiamo più permetterci di tollerare».
Un piano d’azione in sei mosse per ricomporre «la frattura tutta italiana fra istituzioni educative e mercato del lavoro».
Per i ministri del Welfare Maurizio Sacconi e dell’Istruzione, Mariastella Gelmini bisogna cambiare rapidamente rotta: l’obiettivo è ribaltare il pronostico negativo che per il 2020 vede «il nostro Paese in una posizione di grave difficoltà rispetto alle prospettive demografiche, occupazionali e di crescita».
Si prevede, infatti, secondo i due stessi ministri, «una forte carenza di competenze elevate e intermedie legate ai nuovi lavori e un disallineamento complessivo della offerta formativa rispetto alle richieste del mercato del lavoro».
In pratica le imprese troveranno sempre meno le professionalità che cercano e i giovani il lavoro per cui hanno studiato.
Già oggi del resto la situazione è molto seria: sul mercato non si trovano 180mila tecnici intermedi.

Terstimoni del nostro tempo: Adriano Olivetti

“Prima che i popoli dimentichino i crimini, i massacri, le rovine, la desolazione, chi è chiamato a stabilire il nuovo edificio sociale bene si accerti che la metafisica razzista non fu che odio, menzogna, avidità.
Soggiacendo a essa, intere collettività caddero nell’errore e nel peccato”.
Per questo, e altri motivi, sosteneva Adriano Olivetti (Ivrea, 1901- Aigle, 1960) in uno scritto del 1946, “la libertà vive soltanto in una società compiutamente cristiana”.
Lo scritto – con altri testi – figura in appendice alla biografia, oggi rinnovata e ampliata da Valerio Ochetto, che anni fa ne curò una prima versione: Adriano Olivetti, (Venezia, Marsilio, 2009, pagine 356, euro 12) dedicata all’imprenditore eporediese.
Era figlio del più noto Camillo (1868-1943), il fondatore dello storico gruppo industriale che partendo dalla produzione di macchine da scrivere sarebbe giunto a posizioni di assoluta preminenza internazionale nel settore informatico e nell’automazione da ufficio.
Imprenditore, intellettuale, politico, ma soprattutto uomo pratico e di pensiero a un tempo, Adriano Olivetti era dotato d’inventiva fervida e di passione per la giustizia, qualità cementate da un profondo spirito di servizio alla persona e al bene comune.
Nel 1946 egli stava fissando i punti preparatori alla realizzazione del nascituro Movimento Comunità, la sua personale repubblica di Utopia, basata sull’ideale di un’armonia possibile, e comunque sempre da perseguire, tra impresa, territorio e società umana.
Di fatto, nel 1945, aveva scritto L’ordine politico delle Comunità: la base teorica per una concezione federalista di Stato ove per l’appunto le comunità – entità territoriali culturalmente ben definite e in grado di esprimersi autonomamente sul piano economico – garantissero un armonico sviluppo sociale nell’industria come nell’agricoltura, salvaguardando i diritti umani e promuovendo forme di democrazia partecipativa.
La guerra era appena finita e Olivetti, che da antifascista militante aveva vissuto e sofferto in prima persona per la tragedia e per la rovina dell’Italia, avvertiva i rischi di una ricostruzione limitata alla sola dimensione superficiale e materiale.
Dopo un primo periodo d’interesse per le istanze mussoliniane si era opposto con forza al regime, talvolta in termini molto concreti come quando aveva partecipato con Carlo Rosselli, Ferruccio Parri e Sandro Pertini alla liberazione di Filippo Turati.
Durante il conflitto era stato ricercato per attività sovversiva e si era dovuto rifugiare in Svizzera.
Ora che le armi tacevano si faceva la conta dei danni; non solo quelli materiali.
La devastazione bellica infatti era penetrata nelle fibre del tessuto sociale e non aveva risparmiato le coscienze.
Solo uno spirito autenticamente cristiano, “che è amore, verità, carità”, avrebbe potuto – nei vinti come nei vincitori – essere, un domani, forza animatrice di una civiltà più umana.
Nella visione di Olivetti “la società della Comunità, essenzialmente cristiana, per affermarsi compiutamente” avrebbe quindi dovuto apportare “una frattura definitiva al sistema basato su un duplice assurdo economico e morale: l’economia dei profitti e il regime feudale nell’industria e nell’agricoltura.
(La rivoluzione Francese – diceva Olivetti – proclamò l’uguaglianza, la fraternità, la libertà.
Ma essendole sfuggita quella trasformazione sociale che le imponeva la proclamata fratellanza, non seppe condurre né a vera libertà, né a vera a eguaglianza)”.
E quindi l’imprenditore d’Ivrea sottolineava con lungimiranza come “nemmeno la trasformazione sociale da sola potrebbe creare la libertà se all’egoismo dei pochi si sostituisse l’egoismo dei molti e se la struttura creata per eliminare la dominazione dell’uomo sull’uomo portasse a una dominazione dello Stato sulla persona” (p.
324).
Il primato della morale in economia come in politica doveva essere un punto fermo.
La democrazia basata esclusivamente sulla maggioranza e sul consenso dei molti qualora parta da presupposti egoistici, e vada covando interessi di parte, non può che produrre oppressione e ingiustizia.
La stessa Europa, per Olivetti, non avrebbe potuto accettare una comune legge morale diversa da quella cristiana dichiarandosi certo che “gli uomini politici che sentiranno nella loro vita interiore la luce della grazia e della rivelazione cristiana e agiranno nel suo impulso o accetteranno, pur senza riconoscerne la trascendenza, il contenuto umano e sociale dell’Evangelo, sono destinati ad avere in se stessi dei valori inesauribili e insostituibili” (p.
325).
In realtà l’idea di Comunità in Olivetti aveva radici antiche, ma si era evoluta e precisata proprio negli anni della dittatura e della guerra.
Nato in un contesto familiare dai caratteri culturali ben definiti, con il padre Camillo, ebreo, e socialista, e la madre Luisa Revel, valdese, Adriano Olivetti si era laureato nel 1924 in ingegneria chimica.
Dopo un soggiorno negli Stati Uniti dove aveva studiato pratica aziendale, entrò nella fabbrica familiare.
Prima come semplice operaio, per volontà del padre Camillo (1926); quindi nel 1933 divenne direttore della Società Olivetti e infine presidente, nel 1938.
L’esperienza del Movimento di Comunità nel canavese ebbe concreto inizio a partire dal 1952, quando gradualmente gli amministratori comunitari assunsero la guida di cinque comuni.
Poi, nelle elezioni del 1956, il Movimento Comunità risultò presente in settanta comuni canavesani, in quarantadue dei quali in posizione di maggioranza.
Tre componenti essenzialmente informavano questa realtà: il pensiero socialista e libertario, l’ideale cristiano e la visione personalistica di Emmanuel Mounier e di Jacques Maritain.
L’esperienza di Comunità, com’è noto, sopravvisse di pochi anni al suo fondatore.
Detto questo resta il complesso profilo di un uomo la cui storia – come scrive Ochetto – coincide con quella di discipline e di prospettive culturali che oggi in Italia sono esperienza comune, ma all’indomani della seconda guerra mondiale apparivano stramberie – o “americanate”, come le chiamava Benedetto Croce.
“Stramberie” che Olivetti “lottò per introdurre: la sociologia contemporanea, il management, l’urbanistica, la pianificazione territoriale” (p.
9).
Un dato non va sottovalutato e riguarda la dimensione interiore dell’uomo.
“Nel 1949 – ricorda Ochetto – Adriano si fa battezzare nella Chiesa cattolica”.
Olivetti si sarebbe poi sposato in seconde nozze, avendo ottenuto lo scioglimento da una prima unione matrimoniale contratta col solo rito civile.
Si potrebbe pensare quindi che dietro a questa scelta vi fosse un motivo strumentale: la possibilità di risposarsi, questa volta in chiesa, con la moglie credente.
In realtà la conversione era determinata dalla convinzione maturata della “superiorità teologica della Chiesa cattolica”.
La scelta di Adriano Olivetti veniva da lontano, come ebbe a dire un giorno a un conoscente: “Dopo la morte di mia Madre venne a cessare la ragione sentimentale e umana che mi tratteneva dall’entrare nella Chiesa che da un punto di vista teologico era nella mia coscienza certamente l’unica universale e quindi eterna: la Chiesa Cattolica” (p.
240).
(©L’Osservatore Romano – 24 settembre 2009)

Veri cristiani si diventa nel territorio

Viviamo in un’epoca di profondi e rapidi mutamenti, un mondo in cui il più grave smarrimento deriva dal non riuscire a percepire un orientamento chiaro e lineare nell’evolversi delle situazioni e nel modo di collocarsi in esse anche da parte di istituzioni solitamente capaci di fornire senso e direzione all’agire umano.
In queste ultime settimane un elemento purtroppo quasi assente nel dibattito mediatico attorno alla Chiesa e alla sua presenza nella società italiana è stato quello dei rapporti tra cristiani e territorio vissuti soprattutto attraverso quella entità locale che, con la fine dell’assetto sociale contadino e con l’imporsi della società industriale, ha dovuto cercare – e ancora non ha trovato pienamente – nuove forme per manifestare la collocazione dei cristiani nella polis e per la loro missione: la «parrocchia».
Il territorio, infatti, non è lo scenario asettico della vita cristiana bensì lo spazio in cui i cristiani ascoltano il mondo – gli uomini e le donne con le loro sofferenze, le speranze e le fatiche; il creato, l’ambiente e la terra…
– vivendo la storia senza evasioni, perseguendo responsabilmente il bene comune insieme con gli altri uomini ed esercitando la propria responsabilità.
Il territorio è il luogo in cui i cristiani sono innestati nella comune vicenda culturale di un popolo e dove devono ogni giorno discernere i «segni dei tempi», che spesso si manifestano anche come «segni dei luoghi».
Oggi si è più consapevoli che lo spazio è, insieme al tempo, una coordinata essenziale, che predispone quanto è necessario all’edificazione di una comunità cristiana nella realtà locale: c’è bisogno di uno spazio per credere, di un luogo in cui diventare cristiani, in cui radicarsi e, con un riferimento a un preciso habitat umano, poter vivere la comunità e accrescere la comunione.
Il sociologo francese Michel Maffesoli osservava che «come la modernità metteva l’accento sul tempo, la post-modernità mette l’accento sullo spazio-territorio».
Ne consegue che occorre reinventare un legame tra comunità cristiana e territorio, tenendo conto che i concetti di spazio e tempo sono in continuo mutamento, a causa dell’universo di Internet, della cultura soggettivista, della pluralità e della complessità di presenze umane, religiose, etiche ed etniche di cui è composta la polis.
Quali possono essere allora le vie di rinnovamento dei legami necessari alla testimonianza della fede e alla costruzione della comunità cristiana? Il primo compito di un cristiano resta quello di conformare la propria vita umana alla vita umana di Gesù, una vita che ha saputo «narrare» Dio nella storia.
Del resto oggi il cammino degli uomini verso la fede non è più quello di qualche decennio fa: un tempo la Chiesa nutriva il fedele e lo faceva crescere fino a quando questi, con maturità, faceva propria la fede ereditata dalle generazioni precedenti e accedeva all’adesione a Dio, quindi a Gesù Cristo.
Oggi per moltissime persone, anche nei paesi di radicata tradizione cristiana come l’Italia, non è più così: Dio è diventata una parola ambigua e a volte scandalosa, sovente «la Chiesa – osservò già quarant’anni fa Joseph Ratzinger – è per molti l’ostacolo principale alla fede», mentre continua a salire dall’umanità quel grido che l’evangelista Giovanni mette in bocca ai greci saliti a Gerusalemme: «Vogliamo vedere Gesù!».
È un grido che chiede a uomini e donne di mostrare Gesù, facendo vedere la loro vita ispirata dal Vangelo e a esso conformata, testimoniando la prassi di servizio, di amore, di riconciliazione e di libertà vissuta da Gesù.
Occorrerebbe allora presentare agli uomini un cammino umano: far vedere Gesù, collocare Gesù in Dio, colui che lo ha inviato, e quindi introdurli progressivamente nella comunità cristiana fino a far loro amare la Chiesa.
Nel far questo non ci si dovrebbe fermare a confini stabiliti in precedenza tra comunità cristiana e battezzati non praticanti o addirittura in contraddizione con la fede: il cristiano deve avere in qualche modo una fede anche per quelli che l’hanno più debole, e deve sentire questa solidarietà profonda in cui può pulsare la grazia battesimale anche quando non è visibilmente operante.
In questo senso un cristiano che cerca di vivere evangelicamente il rapporto con la storia dovrebbe, soprattutto oggi, essere disponibile allo scambio, al confronto, al dialogo all’interno e all’esterno della comunità cristiana: non diffidenza, arroccamento, intransigenza, non lo stare su posizioni difensive, non il cedimento alla tentazione di ripagare con la stessa moneta l’ostilità e il disprezzo da parte della società non cristiana bensì, come diceva Paolo VI, «guardare al mondo con immensa simpatia».
Se il mondo si sente estraneo al cristianesimo, il cristianesimo non si sente estraneo al mondo.
Inoltre occorre ribadire che i cristiani, proprio perché appartenenti alla città e alla società degli uomini, devono essere soggetti responsabili, e la loro coscienza deve essere l’istanza mediatrice tra fede e azione socio-politica.
Noi dovremmo ancora oggi comprendere e progettare la modalità con cui i cristiani, da cittadini veri, leali e solidali con gli altri con-cittadini, possono dare il loro contributo alla polis.
Non ci deve essere alcuna diffidenza o contraddizione rispetto all’appartenenza alla società e alla cittadinanza: essi sono realmente cristiani, discepoli del Signore Gesù Cristo, se si lasciano ispirare dal Vangelo e se, attraverso l’istanza mediatrice della loro coscienza, danno il loro contributo sotto la forma dell’azione politica la quale resta, come già diceva Pio XI, «il campo della più vasta carità».
Come ha più volte ricordato anche Benedetto XVI, «la Chiesa non è né intende essere un agente politico», ma spetta ai cristiani un doveroso impegno in ordine all’umanizzazione della convivenza civile e alla realizzazione di una società sempre più segnata da giustizia, rispetto della dignità della persona, pace.
Dunque per la Chiesa vi è una funzione «mediata» nei confronti della società, soprattutto attraverso la purificazione della ragione e il risveglio di forze morali; per i fedeli laici vi è una funzione «immediata» nel partecipare in prima persona alla vita pubblica senza «abdicare – sono parole dell’enciclica Deus caritas est – alla molteplice e svariata azione economica, sociale, legislativa, amministrativa e culturale, destinata a promuovere il bene comune».
in “La Stampa” del 20 settembre 2009

Lettera ai cercatori di Dio nella prospettiva della educazione religiosa scolastica

CEI – Commissione Episcopale per la Dottrina della Fede, l’Annuncio e la catechesi, Lettera ai cercatori di Dio, ed.
San Paolo, Torino  2009 A modo di premessa, la presentazione della lettura analitica della Lettera ai cercatori di Dio, in tempi di declamata e controversa “emergenza educativa”, intende proporsi con discrezione e pacatezza per un servizio di informazione critica, al fine di favorire l’interesse generale sul rapporto tra cultura religiosa ed educazione-scuola, e specificamente a beneficio degli Insegnanti di Religione (IdR).
Molti degli IdR risultano coinvolti sul piano della ricerca teorica, della sperimentazione didattica e dell’innovazione dei linguaggi, oltre che impegnati in varie attività ed esperienze formative di tipo scolastico, comunitario o associativo, e troppo spesso si vedono paternalisticamente sollecitati ad iniziative continue dall’attivismo degli uffici scuola o investiti da facili ironie e discredito sulla presunta fase di “imborghesimento” e “demotivazione” dopo la immissione in ruolo della categoria.
 In profondità, oltre le ricorrenti polemiche giudiziarie e giornalistiche sull’Insegnamento della Religione Cattolica (IRC) in Italia, vengono chiamati in questione e vanno affrontati alle radici la fragilità della legittimazione giuridica concordataria, una certa indefinitezza epistemologica, la trasformazione in senso pluralistico e multireligioso della società europea, le incertezze della “via” italiana alla “laicità”, la indefinita dinamica tra l’educazione religiosa ecclesiale e del sistema scolastico civile, l’evoluzione del rapporto tra cultura religiosa con le sue scienze di riferimento e progetto educativo pubblico, il “sospetto” ancora gravante sul ruolo della teologia nei saperi e nelle istituzioni culturali pubbliche.
       Il collegamento estrinseco con l’attività dell’IRC emerge dichiaratamente nei “Suggerimenti per l’utilizzazione” forniti da mons.
Bruno Forte, curatore e firmatario nella qualità di Presidente della Commissione CEI, all’annuale Convegno Nazionale degli Uffici Catechistici Diocesani (“Ascoltare le domande, comunicare il Vangelo, condividere l’incontro con il Cristo”, UCN, Reggio Calabria 15-18 giugno 2009), articolati in più direzioni: dove si individua l’IR tra gli interlocutori privilegiati; si sottolinea l’esigenza di “promuoverne la conoscenza tra Catechisti e Insegnanti di Religione”; se ne sottolineano le potenzialità dell’impiego come “strumento sussidiario” nella scuola.
L’utilizzo nell’ambito scolastico s’inquadra poi in orizzonti più ampi, che negli auspici degli estensori possono interessare ad es.
l’apostolato biblico per la riscoperta della Bibbia come “grande codice”; gli itinerari del Catecumenato degli adulti o di preparazione alla Cresima ed al Matrimonio, quali occasioni di nuova evangelizzazione ove si apportino le dovute mediazioni; la diffusione nel mondo universitario e della pastorale della cultura, per il dialogo e l’introduzione alla conoscenza basilare del cristianesimo; un’offerta credibile di strumento per la ricerca personale, da accompagnare con la elaborazione di qualche forma di ipertesto e di collegamento ad altre fonti ed ad altri linguaggi.
 Implicitamente l’Educazione Religiosa scolastica, richiamata più volte – ora positivamente ora criticamente –  dagli interventi in assemblea e nei gruppi di lavoro, viene chiamata in causa sullo sfondo della ricerca e della prassi del “progetto educativo ecclesiale” e del “progetto culturale”; mentre rimane, a parere di molti, da precisare e ridefinire in termini corretti e adeguati ai segni dei tempi nuovi, la natura della relazione (unità dell’oggetto, finalità, strumenti, ambiti, processo, soggetto, persona del destinatario, laicità e confessionalità…) tra “Catechesi” (“testimonianza”, educazione religiosa-cristiana ecclesiale, familiare, associativa…) e Ir (“disciplina”, pedagogia religiosa scolastica), evolutasi storicamente dalla confusione alla correlazione, alla complementarità nella distinzione, alla integrazione…                 Il piccolo Testo,  propedeutico ad ulteriori approfondimenti (ai quali rinvia la sintetica bibliografia in appendice) e non inteso ad esaurire l’integralità del discorso religioso-cristiano, ma a “suggerire, evocare, attrarre”, si indirizza sia ai credenti aperti a domande sempre nuove, che ai non credenti (“pensanti”) che continuano ad interrogarsi sulla fede, sia a “chi non si sente in ricerca” rispettandone con atteggiamento di “amicizia e simpatia” la libertà e la coscienza.
Accostandosi a tutti coloro che chiedono le “ragioni della speranza”,  con la “dolcezza e rispetto” raccomandati dall’Epistola di Pietro 3,15-16.
Volto perciò a provocare reazioni, suscitare nuove domande, integrazioni e critiche, si ispira dichiaratamente al dinamismo della comunicazione interattiva configurandosi, fin dalla intitolazione inconsueta ai “Cercatori”, nella tensione a nuovi approcci fin dalla scelta d’impronta antropologica della categoria culturale applicata ai destinatari, appartenenti ad un orizzonte molto vasto  tendenzialmente di adulti, rispetto alle formulazioni più classiche di “primo annuncio”, “un mondo che cambia”…   Concepito in tre sezioni:  a partire dal terreno umano-sociale comune del vissuto quotidiano-storico sui grandi perché “che ci uniscono”(p.
I);  per proseguire (p.
II) con la proposta (“testimonianza” e “ragioni della speranza”) essenziale del messaggio cristiano e della risposta di fede, imperniata nella chiave cristologica (volto umano del Mistero e della Presenza), di Dio Trinità e relazione d’amore, fino alla Chiesa quale comunità di fratelli e icona dell’amore trinitario, presentati con il ricorso al linguaggio narrativo; e concludere propositivamente (p.
III) con l’ipotesi di un itinerario sul dove e come, segnato dai “luoghi” (preghiera, ascolto della Parola, sacramenti e vita nuova, servizio e dono di sé, attesa della vita eterna, desiderio della bellezza divina…), per aiutare a passare dalla ricerca alla pienezza dell’incontro “vero” con il “Dio di Gesù Cristo”, in cui l’incontro si pone nel senso dell’ospitalità, dell’ascolto, dello stimolo alla reciprocità, della serietà dell’esperienza di una relazione tra persone.
  Nella sua genesi risulta prodotto da un lavoro collegiale svolto a livello di cooperazione tra episcopato, teologi, pastoralisti, catecheti, esperti della comunicazione,… (e perché non anche di IdR qualificati?).
Il sobrio corredo  delle immagini si presenta di un certo interesse educativo.
Tratto dalle opere artistiche di V.
Vitali, in copertina, S.
Di Stasio e M.
Paladino all’interno, già ricorrenti e sperimentati in altre pubblicazioni ufficiali della CEI (Nuovo Lezionario ecc.), rappresenta il tentativo di contribuire a rinnovare il genere espressivo delle miniature tipiche dei testi religiosi e magisteriali.  Nei capitoli si ripropongono unitamente a rappresentazioni pittoriche significative dell’esperienza umana-religiosa, delle “perle” costituite da brani  biblici, letterari e del pensiero tratte dalla sapienza di autori pure non cristiani (es.
G.
Marcel, E.
Montale, S.
Kierkegaard, insieme a S.
Francesco, S.
Agostino, T.
Bello…), presentati in funzione “ermeneutica” simile a quanto avvertono necessario per la comprensione  e comunicazione del discorso religioso, anche gli educatori religiosi attraverso il ricorso al “documento”.
  Rispetto ad altri Documenti magisteriali e pastorali che iniziano con una ricognizione sulla realtà storico-socio-culturale del nostro tempo, con qualche attenzione alla situazione, contesto, realtà, bisogni, istanze, la Lettera (genere di respiro biblico, originale ed efficace nella comunicazione religiosa e pastorale della Chiesa Italiana) più incisivamente dedica la Prima Parte (la più interessante ed intrigante per l’attività degli IdR) all’ascolto degli interrogativi che attraversano eventi e persone, esperienze di gioia e di limite riconoscibili nella vita di ognuno a livello individuale e collettivo, ed in particolare imperniate sull’esperienze vitali positive di felicità e speranza, apertura al futuro ed alla “Terra promessa” o negative di fragilità, problemi di convivenza giusta e pacifica con la natura e la società… Si viene così a recepire la categoria della “inquietudine”, di agostiniana memoria ed elemento caratterizzante di tanta antropologia e filosofia contemporanea, e dell’”invocazione” come cifra dell’esistenza e del cammino dell’uomo.
Confrontandosi da ultimo e con franchezza (oltre la cd.
“morte di Dio” e il “tramonto del sacro” da un lato e il bisogno di “segni ad ogni costo” e di “riti” di certa spiritualità dall’altro) con la questione capitale della trascendenza “presente nel cuore di molti”: “Dio chi sei per me? E io chi sono per Te?”.
L’importanza di sapere “ascoltare le domande” (tema del XLIII Convegno dell’UCN) che ci rendono tutti “pellegrini e cercatori dell’Altro”, manifestazioni della tensione e riflesso dell’alterità che definisce e costruisce l’identità della persona, fa da guida e da anima dell’intero  percorso del Documento della CEI, memore dell’assunto del pensatore ebraico E.
Jabès, rappresentante del “pensiero nomade” e citato da B.
Forte: “Il mio nome è una domanda, e la mia libertà è nella propensione alle domande”.
Così delineando un profilo essenziale dell’identità umana, che riguarda l’essere prima che l’agire, colto nella sua esistenza di “mendicante del cielo” e di “lottatore” per  riuscire a dare un senso ed una verità alle cose di ogni giorno e della storia.
L’impostazione dialogica, cerca di farsi carico di istanze diffuse nella mentalità corrente e nella cultura, ponendosi il problema di non cadere nel corto circuito dell’affermazione dottrinale e assertiva, nella logica delle risposte semplificatorie e preconfezionate, delle ricette spirituali rassicuranti, sempre incombenti.
Davanti alla problematicità ed al travaglio di coscienza su tante questioni “ultime”, matura la convinzione che la fede non sia “dare risposte già pronte, ma contagiare “l’inquietudine della ricerca”, non risolvere tante possibili oscurità ma aiutare a “portarle ad un Altro e insieme con lui”.
Pur presentandosi nello stile ancora troppo “ecclesiastico” e poco “laico”, da Chiesa “docente” piuttosto che compagna di strada, di certi passaggi ed affermazioni legate a concezioni dottrinali tradizionali, oggi messe a prova dalla discussione della ricerca teologica  (es.
p.
24: “Perché allora, permette il dolore, l’invecchiamento, la morte?”, laddove il verbo “permettere” – sulla questione della teodicea – risente di una concezione improntata ad un’idea assoluta di onnipotenza…), il Testo costituisce  un interessante, anche se incompiuto, paradigma Kerygmatico, in materia del cd.
“primo annuncio” e incontro tra fede e culture.
Mira infatti a farsi carico della interiorità profonda e della sensibilità spirituale di chi  attualmente in  maniera esplicita o implicita avverta l’importanza della ricerca di senso, “laicamente” non si chiuda aprioristicamente all’ipotesi della trascendenza ed all’esperienza del Mistero, rimanendo nella sostanza “cercatori di Dio” e desiderosi di vedere il Suo volto, pur percorrendo le vie religiose differenti offerte nella realtà del villaggio globale.
  Sulla problematica delle “domande”, l’impostazione della ricerca ermeneutica nell’educazione religiosa potrà misurarsi e confrontarsi utilmente, nell’ordine del metodo, del processo psico-pedagogico e della tipologia delle esperienze privilegiate (felicità e dolore, amore e fallimenti, lavoro e festa, sfide della fede), come più rispondenti alla radicale domanda religiosa e dell’orientamento umano verso il mistero, portando il discorso ancora “oltre la domanda di senso e di speranza” , verificando la “ragionevolezza” del “credere”  e le potenzialità della sua elaborazione culturale, pedagogica, didattica.
  A conclusione dell’excursus va ribadito che la Lettera si propone quindi non come punto d’arrivo ma stimolo e strumento per l’inizio di cammini auspicabilmente plurimi, a servizio della vita spirituale nascente (sorta di “aurora”dell’anima) di coloro che sanno aprirsi all’oltre e al nuovo di Dio; o di chi si pone alla ricerca, anche se credente che riconosce di sentirsi “un povero ateo, che ogni giorno si sforza di cominciare a credere”.
Consapevoli tutti, pastori ed educatori o comunità ecclesiale e civile, che oggi le vere questioni di senso della vita e della storia o di fede non contrappongono “ideologie” né dividono gli uomini in “laici e cattolici” nel modo tradizionale e standard, ma segnano il crinale tra “pensanti e non pensanti”, tra uomini e donne con il coraggio di vivere la fragilità e continuare a cercare per credere, sperare ed amare, e uomini e donne rinunciatari a lottare, rinchiusi nell’”orizzonte penultimo”, incapaci di accendersi di desiderio, speranza e nostalgia dell’Altro.
Verso questi nostri contemporanei, di tutte le età della vita e specie nei confronti delle nuove generazioni, in superficie apparentemente indifferenti, nelle quali suscitare per potere educare la maturazione della “domanda”, l’Educazione Religiosa deve sentirsi empaticamente debitrice di “verità” intesa come significatività umana della fede e nella prospettiva di“carità intellettuale” a servizio della libertà, non come detentrice di “risposte”,  sapendosi fare compagna di viaggio discreta e paziente.
  Giorgio Bellieni

Scoperto il testo originale del discorso di Mosè al popolo ebraico

IL DEUTERONOMIO – Il libro del Deuteronomio consiste principalmente di tre discorsi che sarebbero stati pronunciati da Mosè, poco prima della sua morte, agli Israeliti.
Il primo discorso è una ricostruzione storica.
Il secondo discorso, che occupa la parte centrale del libro, contiene i Dieci Comandamenti dettati sul monte Sinai e il cosiddetto codice Deuteronomico, formato da una serie di dettami.
Questa sezione è costituita in gran parte da leggi, ammonizioni ed ingiunzioni relative alla condotta che il popolo eletto deve osservare per entrare nella terra promessa.
Il terzo discorso tratta delle solenni disposizioni della legge divina, adempiendo alle quali è garantita la prosperità futura del popolo d’Israele.
LA SCOPERTA A sostenere l’esistenza di un testo originario e precedente a tutti quelli finora conosciuti è James Charlesworth, un professore di studi neotestamentari presso il Princeton Theological Seminary, il quale ha analizzato finora almeno un piccolo frammento proveniente dai rotoli del Mar Morto acquistato recentemente dalla Azusa Pacific University.
Si tratta di un passo del ventisettesimo capitolo del libro.
Nel frammento analizzato da Charlesworth, Mosè prescrive a chi sarebbe entrato nella Terra Promessa (privilegio che a lui non sarà accordato) di erigere un altare di pietra in onore dell’unico Dio al di là della riva destra del Giordano.
E, parlando su ispirazione diretta di Dio, ordina che l’altare sorga sul Monte Gerizim.
Ora, è proprio questo il particolare che suggerisce la tesi dell’originalità del testo di Qumran: in tutte le versioni ufficiali, redatte successivamente, il luogo indicato sarebbe un altro, vale a dire il Monte Ebal.
Quanto basta al professor Charlesworth per affermare che, vista non solo la veridicità della versione dei manoscritti, appurata in centinaia di pubblicazioni, ma anche la loro generale correttezza si tratta delle vere parole di Mosè.
O di Dio, visto per appunto che Mosè parlava su ispirazione divina.
La versione successiva, presente nel testo canonico, dovrebbe essere invece frutto di una soluzione di compromesso imposta nel corso di un vero e proprio scontro tra gruppi religiosi.
Il fatto che solo ora si venga a conoscenza di un testo originale diverso da quello biblico attuale non deve sorprendere.
Dei 15000 frammenti conosciuti risalenti ai rotoli del Mar Morto la maggior parte infatti è in mano a privati ed è spesso inaccessibile agli studiosi.
TESTO ORIGINALE «Finalmente il testo originale del Deuteronomio», ha dichiarato Charlesworth al Los Angeles Times, «si tratta di una scoperta di importanza sensazionale».
Il frammento oggetto del suo entusiamo è stato mostrato, rigorosamente in fotografia, dal board dell’università californiana che lo ha acquistato insieme ad altri quattro venduti da un mercante specializzato in testi antichi.
Si tratta, anche in questi casi, di parti dell’ultimo libro del Pentateuco ad eccezione di un papiro che riporta parte del Libro di Daniele.
Tutti hanno raggiunto la cassaforte dell’Azusa Pacific University al termine di un percorso che li ha portati dalle grotte di Qumran nelle mani di collezionisti privati.
Ora resteranno in California e potrebbero riservare ancora delle sorprese.
14 settembre 2009 Dopo oltre 2000 anni sarebbe ora possibile conoscere le parole originarie pronunciate da Mosè al popolo ebraico.
Sarebbe infatti nascosto in alcuni frammenti dei rotoli del Mar Morto (la serie di rotoli e frammenti trovati nel 1947 in undici grotte nell’area di Qumran e che contengono la versione più antica finora conosciuta del testo biblico), il testo autentico del Deuteronomio, una delle parti più importanti della Bibbia ed il quinto dei libri che formano la Torah ebraica.
E la versione originale sarebbe diversa da quelle delle raccolte posteriori, che hanno risentito delle dispute teologiche delle varie scuole rabbiniche.

Barack Obama parla agli studenti

So che per molti di voi questo è il primo giorno di scuola.
E per chi è all’asilo o all’inizio delle medie o delle superiori è l’inizio di una nuova scuola, così un minimo di nervosismo è comprensibile.
Immagino che tra voi ci siano dei veterani a cui manca solo un anno per concludere gli studi e quindi contenti.
E, non importa a quale classe siate iscritti, qualcuno tra voi probabilmente sta pensando con nostalgia all’estate e rimpiange di non aver potuto dormire un po’ di più stamattina.
So cosa vuol dire.
Quando ero giovane la mia famiglia visse in Indonesia per qualche anno e mia madre non aveva abbastanza denaro per mandarmi alla scuola che frequentavano tutti i ragazzini americani.
Così decise di darmi lei stessa delle lezioni extra, dal lunedì al venerdì alle 4,30 di mattina.
Ora, io non ero proprio felice di alzarmi così presto.
Il più delle volte mi addormentavo al tavolo della cucina.
Ma ogni volta quando mi lamentavo mia madre mi dava un’occhiata delle sue e diceva: «Anche per me non è un picnic, ragazzo».
Ora, io ho fatto un sacco di discorsi sull’istruzione.
E ho molto parlato di responsabilità.
Della responsabilità degli insegnanti che devono motivarvi all’apprendimento e ispirarvi.
Della responsabilità dei genitori che devono tenervi sulla giusta via e farvi fare i compiti e non lasciarvi passare la giornata davanti alla tv.
Ho parlato della responsabilità del governo che deve fissare standard adeguati, dare sostegno agli insegnanti e togliere di mezzo le scuole che non funzionano, dove i ragazzi non hanno le opportunità che meritano.
Ma alla fine noi possiamo avere gli insegnanti più appassionati, i genitori più attenti e le scuole migliori del mondo: nulla basta se voi non tenete fede alle vostre responsabilità.
Andando in queste scuole ogni giorno, prestando attenzione a questi maestri, dando ascolto ai genitori, ai nonni e agli altri adulti, lavorando sodo, condizione necessaria per riuscire.
Questo è quello che voglio sottolineare oggi: la responsabilità di ciascuno di voi nella vostra educazione.
Parto da quella che avete nei confronti di voi stessi.
Ognuno di voi sa far bene qualcosa, ha qualcosa da offrire.
Avete la responsabilità di scoprirlo.
Questa è l’opportunità offerta dall’istruzione.
Magari sapete scrivere bene, abbastanza bene per diventare autori di un libro o giornalisti, ma per saperlo dovete scrivere qualcosa per la vostra classe d’inglese.
Oppure avete la vocazione dell’innovatore o dell’inventore, magari tanto da saper mettere a punto il prossimo i Phone o una nuova medicina o un vaccino, ma non potete saperlo fino a quando non farete un progetto per la vostra classe di scienze.
Oppure potreste diventare un sindaco o un senatore o un giudice della Corte suprema ma lo scoprirete solo se parteciperete a un dibattito studentesco.
Non è solo importante per voi e per il vostro futuro.
Che cosa farete della vostra possibilità di ricevere un’istruzione deciderà il futuro di questo Paese, nulla di meno.
Ciò che oggi imparate a scuola domani sarà decisivo per decidere se noi come nazione sapremo raccogliere le sfide che ci riserva il futuro.
Avrete bisogno della conoscenza e della capacità di risolvere i problemi che imparate con le scienze e la matematica per curare malattie come il cancro e l’Aids e per sviluppare nuove tecnologie ed energie e proteggere l’ambiente.
Avrete bisogno delle capacità di analisi e di critica che si ottengono con lo studio della storia e delle scienze sociali per combattere la povertà e il disagio, il crimine e la discriminazione e rendere la nostra nazione più corretta e più libera.
Vi occorreranno la creatività e l’ingegno che vengono coltivati in tutti i corsi di studio per fondare nuove imprese che creeranno posti di lavoro e faranno fiorire l’economia.
So che non è sempre facile far bene a scuola.
So che molti di voi devono affrontare sfide tali da rendere difficile concentrarsi sui compiti e sull’apprendimento.
Mi è successo, so com’è.
Mio padre lasciò la famiglia quando avevo due anni e sono stato allevato da una madre single che lottava ogni girono per pagare i conti e non sempre riusciva a darci quello che avevano gli altri ragazzi.
Spesso sentivo la mancanza di mio padre.
A volte mi sentivo solo e pensavo che non ce l’avrei fatta.
Non ero sempre così concentrato come avrei dovuto.
Ho fatto cose di cui non vado fiero e sono finito nei guai.
E la mia vita avrebbe potuto facilmente prendere una brutta piega.
Ma sono stato fortunato.
Ho avuto un sacco di seconde possibilità e l’opportunità di andare al college e alla scuola di legge e seguire i miei sogni.
Qualcuno di voi potrebbe non godere di questi vantaggi.
Può essere che nella vostra vita non ci siano adulti che vi appoggiano quanto avete bisogno.
Magari nelle vostre famiglie qualcuno ha perso il lavoro e il denaro manca.
O vivete in un quartiere poco sicuro, o avete amici che cercano di convincervi a fare cose sbagliate.
Ma, alla fine dei conti, le circostanze della vostra vita – il vostro aspetto, le vostre origini, la vostra condizione economica e familiare – non sono una scusa per trascurare i compiti o avere un atteggiamento negativo.
Non ci sono scuse per rispondere male al proprio insegnante, o saltare le lezioni, o smettere di andare a scuola.
Non c’è scusa per chi non ci prova.
Il vostro obiettivo può essere molto semplice: fare tutti i compiti, fare attenzione a lezione o leggere ogni giorno qualche pagina di un libro.
Potreste decidere di intraprendere qualche attività extracurricolare o fare del volontariato.
Potreste decidere di difendere i ragazzi che vengono presi in giro o che sono vittime di atti di bullismo per via del loro aspetto o delle loro origini perché, come me, credete che tutti i bambini abbiano diritto a un ambiente sicuro per studiare e imparare.
Potreste decidere di avere più cura di voi stessi per rendere di più e imparare meglio.
E in tutto questo, spero vi laviate molto le mani e ve ne stiate a casa se non state bene in modo da evitare il più possibile il contagio dell’influenza quest’inverno.
Qualunque cosa facciate voglio che vi ci dedichiate.
So che a volte la tv vi dà l’impressione di poter diventare ricchi e famosi senza dover davvero lavorare, diventando una star del basket o un rapper, o protagonista di un reality.
Ma è poco probabile, la verità è che il successo è duro da conquistare.
Non vi piacerà tutto quello che studiate.
Non farete amicizia con tutti i professori.
Non tutti i compiti vi sembreranno così fondamentali.
E non avrete necessariamente successo al primo tentativo.
È giusto così.
Alcune tra le persone di maggior successo nel mondo hanno collezionato i più enormi fallimenti.
Il primo Harry Potter di JK Rowling è stato rifiutato dodici volte prima di essere finalmente pubblicato.
Michael Jordan fu espulso dalla squadra di basket alle superiori e perse centinaia di incontri e mancò migliaia di canestri durante la sua carriera.
Ma una volta disse: «Ho fallito più e più volte nella mia vita.
Ecco perché ce l’ho fatta».
Nessuno è nato capace di fare le cose, si impara sgobbando.
Non sei mai un grande atleta la prima volta che tenti un nuovo sport.
Non azzecchi mai ogni nota la prima volta che canti una canzone.
Occorre fare esercizio.
Con la scuola è lo stesso.
Può capitare di dover fare e rifare un esercizio di matematica prima di risolverlo o di dover leggere e rileggere qualcosa prima di capirlo, o dover scrivere e riscrivere qualcosa prima che vada bene.
La storia dell’America non è stata fatta da gente che ha lasciato perdere quando il gioco si faceva duro ma da chi è andato avanti, ci ha provato di nuovo e con più impegno e ha amato troppo il proprio Paese per fare qualcosa di meno che il proprio meglio.
È la storia degli studenti che sedevano ai vostri posti 250 anni fa e fecero una rivoluzione per fondare questa nazione.
Di quelli che sedevano al vostro posto 75 anni fa e superarono la Depressione e vinsero una guerra mondiale.
Che combatterono per i diritti civili e mandarono un uomo sulla Luna.
Di quelli che sedevano al vostro posto 20 anni fa e hanno creato Google, Twitter e Facebook cambiando il modo di comunicare.
Così, vi chiedo, quale sarà il vostro contributo? Quali problemi risolverete? Quali scoperte farete? Il presidente che verrà di qui a 20, 50 o 100 anni cosa dirà che avrete fatto per questo Paese? Le vostre famiglie, i vostri insegnanti e io stiamo facendo di tutto per fare sì che voi abbiate l’istruzione necessaria per saper rispondere a queste domande.
Mi sto dando da fare per garantirvi classi e libri e accessori e computer, tutto il necessario al vostro apprendimento.
Ma anche voi dovete fare la vostra parte.
Quindi da voi quest’anno mi aspetto serietà.
Mi aspetto il massimo dell’impegno in qualsiasi cosa facciate.
Mi aspetto grandi cose, da ognuno di voi.
Quindi non deludeteci, non deludete le vostre famiglie, il vostro Paese e voi stessi.
Rendeteci orgogliosi di voi.
So che potete farlo.

Al presbiterio, una famiglia “in missione

Tutte le mattine, Émilie de Lepinau si alza al suono delle campane a pochi metri dalle sue finestre.
Aprendo le imposte, la giovane ventinovenne si concede qualche momento di ammirazione per la vista panoramica, dall’alto del presbiterio, sulla chiesa Saint-Maxime d’Antony (Hauts-de-Seine), a sud di Parigi.
Mentre lei fa far colazione ai suoi quattro figli, suo marito Marco, 31 anni, attraversa il cortile per andare ad aprire il portone della chiesa prima di recarsi al lavoro.
Da cinque anni, la coppia abita sopra le sale del catechismo, nel presbiterio.
“Siamo una ‘famiglia   d’accoglienza’, spiega Émilie.
Il nostro ruolo è innanzitutto quello di rendere vivo il luogo,   abitandovi.” Nella diocesi di Nanterre, come loro, una quindicina di famiglie hanno ricevuto una   missione dal vescovo: essere “una presenza cristiana nel quartiere”, aggiunge.
Le modalità sono   state definite con il parroco della parrocchia quando sono arrivati, padre Didier Berthet, secondo i bisogni del luogo e i desideri dei Lepinau.
Si tratta di partecipare alla manutenzione quotidiana, di impegnarsi nei gruppi di catechesi e nell’animazione della preparazione al battesimo…, quindi non di sostituire il prete o di incaricarsi del lavoro dell’équipe dei laici.
Émilie non dimentica che a lei spetta portare “solo una piccola pietra alla costruzione.
Mio marito vuota le pattumiere delle   chiesa, io assicuro la presenza per l’accoglienza il sabato mattina, e partecipiamo ad alcune attività.
Ma se sento che è meglio occupare la serata stando con i miei bambini, non esito a trascurare una riunione che si svolge al piano di sotto.” La vita della loro famiglia risente comunque del ritmo della parrocchia.
Come per il Natale, che passano nel presbiterio, invitando spesso il parroco e dei preti che insegnano all’università e che non conoscono nessuno.
E avere una chiesa in fondo al giardino influenza continuamente il loro vissuto quotidiano, dandogli una forte dimensione spirituale.
“Quando Marc chiude il portone alla sera,   porta con sé i figli più grandi per pregare con loro.” Durante la giornata, quando Émilie gioca con   suoi bambini nel cortile del presbiterio, i parrocchiani vengono spesso a sedersi accanto a lei.
“Si   deve accogliere, essere in ascolto, constata Émilie.
Ma nel limite del rispetto della nostra intimità.”   Alle tre del mattino, quando un senzatetto o un ubriaco viene a suonare, Marc dà informazioni su dove rivolgersi, ma “il nostro ruolo non è quello di ospitarli”, aggiunge Émilie.
  “Non è un lavoro, è una missione”, insiste.
Le sue giornate sono sempre molto piene, e lei   approfitta in ogni istante di questa “situazione di lusso” spirituale.
“Potersi raccogliere davanti   all’altare, da sola, conclude la giornata in bellezza e permette di relativizzare, continua.
Da   giovani, eravamo dei cristiani nomadi.
Qui, siamo immersi nella realtà di una parrocchia.
Quando prendo un caffè sul mio balcone, vedo le persone che vengono a pregare durante la giornata e, ogni volta, sono sorpresa nello scoprire persone così diverse.
Mi chiedo sempre come certi trovino il tempo di venire così spesso.” Odile e Aranud Sesboüé, impegnati in un’avventura simile, possono ormai giudicare con maggiore distacco: per quattro anni hanno abitato in una parrocchia di Indre-et-Loire.
Oggi stabilito a Le Mans (Sarthe), Arnaud, farmacista cinquantenne, ammette del resto di aver “fatto fatica a partire”.
  Eppure, quando sono arrivati nella grande casa “di vecchie pietre” accanto alla chiesa Notre-Dame   de Richelieu (Indre-et-Loire), con quattro figli tra cui un neonato, non sono stati accolto a braccia aperte.
“La parrocchia era divisa e a certi dispiaceva molto che non fosse un prete ad occupare il   presbiterio, vuoto da cinque anni”, ricorda Arnaud.
Dopo un periodo di adattamento, i rapporti sono   stati più facili, “quando la gente ha capito che eravamo una famiglia come le altre, solo desiderosa   di mettersi a servizio della Chiesa”, aggiunge Odile, 45 anni.
  “Ben presto, i nostri figli hanno animato il giardino, attirando una banda di ragazzini a giocare con loro, racconta.
Eravamo al centro della città, e di fronte c’era la scuola.
Allora, quando una   mamma tardava a recuperare il figlio all’uscita da scuola, la maestra mi chiedeva se potevo occuparmene nell’attesa.” La cittadina, dove San Vincenzo de Paoli abitò per un po’ nel XVII   secolo, attira molti gruppi di pellegrini che passano dalla chiesa, ma anche dalla casa dei Sesboüé.
    “Abbiamo fatto degli incontri molto belli, racconta Arnaud.
Un pomeriggio d’inverno, due religiose,   una canadese ed un’australiana, hanno bussato alla porta del presbiterio.
Volevano solo visitare la sacrestia, ma ci siamo ritrovati a bere un caffè e a discutere in cucina fino alla sera” Nella vita   quotidiana, Arnaud e Odile erano diventati una vera “presenza di e nella Chiesa”, qualcuno a cui   rivolgersi in occasioni speciali.
“Dopo un decesso, le famiglie venivano da noi, cercando il   parroco.
Siccome non era di nostra competenza, servivamo da tramite verso i servizi appropriati.
Ma eravamo i primi a cui rivolgersi anche in caso di problemi .” Come in quella domenica, in cui   dei parrocchiani hanno fatto irruzione nella loro cucina per avvertirli che il tabernacolo era stato profanato.
La maggior difficoltà di queste coppie, sottoposte ad una sorta di vita pubblica è quella di sapersi proteggere.
“È anche successo che ci chiedessero di fare di più, sempre piccole cose, ma che   avrebbero potuto invadere e destabilizzare il nostro equilibrio familiare”, ricorda Arnaud.
Il prete   referente ha sempre chiaramente definito la loro missione, opponendosi al fatto che si accollassero troppe responsabilità.
“Se padre Xavier Malle non avesse insistito sui limiti del nostro ruolo, non   avremmo resistito”, aggiunge Odile.
  Era solo “una missione sul nostro cammino di fede”.
Eppure, lasciare il presbiterio è stato difficile   per la famiglia Sesboüé.
“C’è un grande vuoto, dopo, ammette Odile.
Era anche un grosso   impegno, allora nell’anno successivo al nostro trasloco abbiamo assunto degli impegni meno gravosi.” Prima di lanciarsi nel loro prossimo progetto: una formazione per degli adolescenti che   stanno seguendo attualmente.
Ad Antony, anche Émilie e Marc sono coscienti del fatto che è solo     “per un periodo”.
“Resteremo sempre legati a questo presbiterio, perché due dei nostri figli sono nati qui e per ora è il posto dove abbiamo abitato più a lungo, confida Émilie.
Sapere che non sarà   per tutta la vita ci spinge a viverlo al massimo.
Anche se siamo riconoscenti di aver la fiducia dei preti per essere ‘immagine di Chiesa’, a volte mi piacerebbe andare a messa in incognito!” in “La Croix” del 12 settembre 2009 (traduzione.
www.finesettimana.org)