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Sull’insegnamento della religione islamica
In questi ultimi giorni ha avuto ampio risalto la proposta estemporanea di alcuni politici di offrire nelle scuole l’insegnamento della religione islamica.
La proposta suscita interrogativi di carattere culturale e giuridico.
Sotto il primo profilo, c’è da chiedersi se l’apertura a un insegnamento dell’Islam debba considerarsi la premessa di ulteriori insegnamenti relativi ad altre religioni, una volta che queste abbiano un sufficiente numero di richiedenti.
Ma soprattutto c’è da chiedersi se sia la scuola la sede di un insegnamento che risponda specificamente a un’appartenenza di fede dell’alunno e della sua famiglia, o se la scuola non debba piuttosto curare la formazione globale dell’alunno a prescindere dalle sue personali scelte di fede e fornendogli strumenti utili per compiere o sostenere quelle libere scelte.
In altre parole, una lottizzazione dell’insegnamento religioso significherebbe che esso si andrebbe a configurare essenzialmente come catechesi, cioè una sorta di luogo franco assegnato alle diverse confessioni religiose per svolgervi proprie attività educative (ivi incluse, a questo punto, pratiche di culto).
La paradossalità di un simile esito condurrebbe logicamente e rapidamente all’estromissione di qualsiasi insegnamento del genere dalla scuola, rivelando così il vero scopo della proposta, cioè quello di espellere dalla scuola l’unico insegnamento religioso oggi presente, colpevole di operare in regime di monopolio e quindi in contrasto con il doveroso pluralismo di una scuola laica.
Ma così facendo si dimenticherebbero le motivazioni concordatarie che sono alla base dell’Irc e che ne fanno qualcosa di sostanzialmente diverso dalla catechesi (non è rivolto ai soli cattolici, né vuole essere una forma di proselitismo), caratterizzato da un’impostazione culturale che cerca soprattutto di fornire strumenti per la comprensione della storia e della realtà italiana, di fatto profondamente segnata dal confronto con il cattolicesimo.
Sotto il secondo profilo, quello giuridico, la proposta si presenta come ingiustificata, dato che un insegnamento della fede islamica è già possibile nella legislazione vigente, che comprende ancora il RD 28-2-1930, n.
289, attuativo della legge 24-6-1929, n.
1159, cosiddetta sui “culti ammessi”.
È una legge che da diverse legislature si cerca di sostituire con una più aggiornata normativa sulla libertà religiosa, ma finora non si è avuto alcun risultato.
Ovviamente, non c’entra nulla la legislazione concordataria, che regolamenta solo l’Irc, né le altre Intese con le confessioni non cattoliche, tra le quali non figura alcun accordo con rappresentanti della religione islamica.
Il RD 289/1930, nella parte tuttora vigente, testualmente recita: «Quando il numero degli scolari lo giustifichi e quando per fondati motivi non possa esservi adibito il tempio, i padri di famiglia professanti un culto diverso dalla religione dello Stato possono ottenere che sia messo a loro disposizione qualche locale scolastico per l’insegnamento religioso dei loro figli: la domanda è diretta al provveditore agli studi il quale, udito il consiglio scolastico, può provvedere direttamente in senso favorevole.
In caso diverso e sempre quando creda, ne riferisce al Ministero della Pubblica Istruzione, che decide di concerto con quello dell’Interno.
Nel provvedimento di concessione dei locali si devono determinare i giorni e le ore nei quali l’insegnamento deve essere impartito e le opportune cautele».
La norma deve essere necessariamente adeguata al quadro normativo attuale, ma conserva valore in relazione ai principi e alle azioni conseguenti.
In particolare, non essendo più in vigore il principio della religione di Stato, le disposizioni devono intendersi applicabili – alle condizioni ivi previste – nei confronti di qualsiasi culto.
In secondo luogo, la domanda non può più essere indirizzata al Provveditore agli Studi ma al Direttore Generale dell’Ufficio scolastico regionale per il tramite del dirigente scolastico della scuola interessata (ma la presenza di un dirigente all’interno della singola istituzione scolastica potrebbe oggi far attribuire a lui stesso la responsabilità di decidere in merito, una volta ascoltato il Consiglio di Circolo o di Istituto e alle condizioni sopra elencate).
Il Direttore Generale dell’Ufficio scolastico regionale consulterà invece il Consiglio scolastico provinciale e quindi disporrà in merito, qualora la risposta sia favorevole.
Ove non ricorrano le condizioni per l’accoglimento della richiesta, può essere investito del problema il Ministero dell’Istruzione che deciderà di concerto con quello dell’Interno.
Pertanto, qualora un alunno (o un genitore) chieda di poter frequentare lezioni di Islam (o di qualsiasi altra religione), la procedura da seguire può essere la seguente: 1. l’istanza deve essere presentata in forma scritta al dirigente della scuola, non necessariamente all’inizio dell’anno scolastico ma anche nel momento in cui si venga a creare l’esigenza; 2. l’oggetto della richiesta riguarda esclusivamente la messa a disposizione di un locale scolastico per consentire l’insegnamento religioso agli alunni della medesima scuola; 3. la possibilità di avere a disposizione detto locale discende dalla condizione – che deve essere puntualmente accertata dal dirigente scolastico o comunque dall’autorità scolastica che formulerà la risposta definitiva – che l’esigenza di istruzione religiosa non possa essere soddisfatta, per fondati motivi, negli appositi luoghi destinati sul territorio al culto in questione; 4. l’istanza deve essere inoltrata per competenza dal dirigente scolastico al Direttore Generale dell’Ufficio scolastico regionale; 5. il Direttore Generale dell’Ufficio scolastico regionale deve acquisire il parere del Consiglio scolastico provinciale e quindi provvedere in senso favorevole; 6. in caso contrario, il Direttore Generale dell’Ufficio scolastico regionale deve rinviare l’istanza al Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca (Dipartimento per l’Istruzione), che deciderà di concerto con quello dell’Interno (Direzione Generale degli affari di culto); 7. ove vengano concessi i locali richiesti, la scuola o l’Ufficio che autorizza la concessione, sentita la scuola stessa, deve fissare i giorni e le ore in cui può essere impartito l’insegnamento; 8. devono inoltre essere stabiliti i necessari contatti con l’autorità religiosa competente per ricevere notizia circa le persone che impartirebbero tale insegnamento; 9. stante la norma richiamata, che giustifica l’accoglimento della richiesta in relazione al «numero degli scolari», l’istanza può essere accolta solo qualora i fruitori dell’istruzione siano in numero tale – comunque superiore a uno – da giustificare l’impegno organizzativo della scuola; 10. è infine da ritenere che l’eventuale soddisfazione della richiesta non debba porre oneri a carico della scuola o dell’amministrazione pubblica, né in relazione al prolungamento dell’orario di apertura della scuola, né in relazione a ulteriori compensi da corrispondere per detta istruzione.
Alla luce di questa ricostruzione normativa, risulta perciò evidente la finalità eminentemente propagandistica della proposta di un’ora di Islam, volta più a mettere in discussione l’Irc che a risolvere concretamente un problema la cui soluzione sarebbe già a portata di mano.
Ovviamente, ci si augura che non si debba ancora far riferimento a leggi che affondano le proprie radici in un regime politico e istituzionale che non ci appartiene più, ma ciò accade anche per l’Irc (per esempio in tema di valutazione).
Sarebbe quindi il caso di affrontare l’eventuale problema tenendo presente l’intero quadro giuridico sussistente (dalla Costituzione al Concordato), cercando di conservare alla scuola le sue finalità culturali ed educative, senza attribuirgliene altre che potrebbero solo snaturarla.
Sugli approcci musulmano e cattolico alle ermeneutiche sacre
Sugli approcci musulmano e cattolico alle ermeneutiche sacre di Aref Ali Nayed Nel nome di Dio, il Compassionevole.
Sotto il titolo “Anche l’islam ha i suoi Lutero.
Ma una riforma è lontana” Sandro Magister scrive: “Al cuore della crisi attuale del mondo musulmano vi sono le differenti concezioni della tradizione e il rifiuto di leggere il Corano con metodi scientifici, oltre che teologici.
[…] La questione della tradizione […] appare ancor più bruciante per l’islam.
Essa è strettamente intrecciata con quella dell’interpretazione del Corano.
Le correnti fondamentaliste ispirate dai Fratelli Musulmani, ad esempio, idealizzano l’islam delle origini, lo assumono come unico modello e rifiutano di applicare al Corano criteri di lettura scientifici, oltre che teologici.
Sono rari e isolati i musulmani che leggono il Corano con metodi analoghi a quelli applicati alla Bibbia dall’esegesi cristiana.
I grandi centri della teologia islamica, come l’università al-Azhar del Cairo, sono molto diffidenti nei confronti delle metodologie moderne di analisi del testo sacro.
I frutti di una lettura critica del Corano provengono quasi esclusivamente da studiosi non musulmani”.
Magister offre quindi “la lezione di un grande islamologo, Michel Cuypers” presentando un suo testo sotto il titolo: “La tradizione vista dalla fede musulmana, ieri e oggi”.
Un testo che Magister vede in questa luce: “Nel finale, Cuypers mostra quanto sia importante che il mondo islamico si apra a una lettura critica del Corano”.
Lo spirito dell’introduzione di Magister e il modo in cui egli legge la parte conclusiva del testo di Cuypers riflettono la stessa attitudine che alcuni studiosi e dirigenti cattolici hanno manifestato in più occasioni, negli ultimi anni, riguardo al Corano e alle sue interpretazioni.
Essi parlano dallo stesso punto di vista, per loro indiscutibile, che nel recente passato ha prodotto la tesi infondata secondo cui il dialogo cattolico-musulmano è ostacolato dalla convinzione musulmana che il Corano è l’autentica parola di Dio (che esaltato Egli sia).
È importante sottolineare, ancora una volta, che tale tesi chiaramente soffre di un doppio blocco: primo, il fraintendimento e l’errata esposizione dell’insegnanento islamico riguardo al Corano; secondo, l’errata esposizione della dottrina cattolica sulle Sacre Scritture, falsamente messa in contrasto col primo.
Ora spiego come questo doppio blocco opera.
Il Corano è l’autentico parlare (kalam) del nostro supremo unico Dio (Allah), rivelato al profeta Maometto (che la pace sia su di lui) e fedelmente conservato attraverso un’ininterrotta trasmissione comunitaria (tawatur).
Il Corano è eterno (qadim) in essenza, in origine, e come essenziale prerogativa divina a parlare (kalamullh as kalam nafsi).
Ma esso è anche storico nel suo svelarsi, come atto di rivelazione (kalamullah as kalam lafzi), ed è stato rivelato al Profeta (che la pace sia su di lui) in profondo intreccio con le viventi circostanze e gli eventi storici della comunità musulmana (tanzil, tanjim).
Per saperne di più su questo si veda “Al-Insaf” dell’Imam Abu Bakr Al-Baqillani, morto nel 1013 dell’era cristiana.
Gli studiosi musulmani hanno sempre fondato le loro interpretazioni ed esegesi del Corano sulla base di varie scienze incluse le scienze delle “circostanze della rivelazione” (asbabulnuzul), sulle scienze della storia del Corano (tarkhulqur’an) e su un accurato studio delle forme linguistiche familiari agli arabi del tempo della rivelazione (ulumulugha).
Gli studiosi musulmani hanno sviluppato un apparato comprensivo delle metodologie storico-critico-linguistiche per la comprensione del Corano (ulumulqur’an).
Per saperne di più su questo si veda “Al-Itqan” dell’Imam Jalaloddin Al-Suyuti, 1445-1505 dell’era cristiana.
Gli studiosi musulmani sono stati sempre consapevoli del fatto che l’interpretazione, la comprensione e l’esegesi dell’eterno parlare di Dio sono forme dell’umano, strenuo sforzo (ijtihad) che deve essere obbligatoriamente rinnovato in ogni generazione credente.
La solenne fede nell’eternità e nella divina autorità del Corano non ha mai trattenuto gli studiosi musulmani dal trattare con esso storicamente e linguisticamente.
Al contrario, la fede nella verità rivelante del Corano è stata la vera motivazione di vite spese nel diretto studio professionale del parlare di Dio.
Per saperne di più su questo si veda “Kitab Al-Ilm” dell’Imam Ibn Abd Al-Barr.
Imponenti biblioteche di opere interpretative ed esegetiche, teologiche, giuridiche, etiche e spirituali sono state prodotte da successive generazioni di studiosi, dai tempi iniziali fino ad oggi.
È precisamente sulla base della loro fede solenne che il Corano è l’autentica parola di Dio che studiosi musulmani, nel corso dei secoli, hanno impegnato in un dialogo ebrei, cristiani, zoroastriani, indù, buddisti ed anche scettici e naturalisti.
Tutti i principali manuali di teologia musulmana, siano essi maturidi, ashariti, mutaziliti, jafariti, ismailiti o ibaditi, mostrano una notevole larghezza di vedute e chiamano a confronto attivamente le credenze di filosofi, ebrei, cristiani, zoroastriani, indù e buddisti.
In modo interessante, l’apparato storico-critico-linguistico dell’esegesi musulmana, in sintesi con le antiche metodologie ermeneutiche talmudiche di un Rabbi Hillel e di un Rabbi Ishmael, è stato trasmesso attraverso studiosi ebrei sefarditi come Hasdai ben Abrahan Crescas (1340-1410/1411) e Baruch Spinoza (1632-1677) fino ai primi maestri dell’ermeneutica protestante, come Johann August Ernesti (1707-1781).
Il “criticismo alto” e il “metodo storico-critico” che discendono dall’ermeneutica della riforma protestante sono stati direttamente influenzati dall’ermeneutica talmudica andalusa che risale a Spinoza, a sua volta imbevuta dell’ermeneutica coranica degli studiosi musulmani andalusi.
È anche interessante notare che le metodologie e le conclusioni del criticismo protestante sono state, per secoli, rifiutate dalla Chiesa cattolica.
Questo rifiuto è stato particolarmente sistematico ed esplicito nell’enciclica “Providentissimus Deus” di Leone XIII, del 1893, e nell’enciclica antimodernista “Pascendi dominico gregis” di Pio X, del 1907.
Sotto la forte pressione della scuola biblica protestante, alla fine la Chiesa cattolica, ma solo malvolentieri, parzialmente e a determinate condizioni, ha accettato alcuni aspetti del metodo storico-critico.
Papa Benedetto XV diede inizio a questo processo di accettazione condizionata nella “Spiritus Paraclitus” del 1920, ma fu solo con la “Divino afflante Spiritus” di papa Pio XII, del 1943, che gli studiosi cattolici sono stati finalmente autorizzati a mettersi al passo con gli stadi avanzati degli studi biblici protestanti.
Per questo è abbastanza ironico che alcuni studiosi cattolici ora accusino i musulmani di un’immaginaria chiusura, che descrive invece molto meglio la chiusura pre-1943 del Vaticano alle metodologie storico-critiche.
Ciò che è ancor più ironico è il fatto che alcuni cattolici non solo inventano una simile chiusura musulmana, ma arrivano ad attribuirla alla fede musulmana nella divina autorità del Corano, cioè al fatto che il Corano è l’autentica parola di Dio.
Ciò è davvero strano, perché induce a pensare che chi crede nella divina autorità di un testo sacro non può essere un interlocutore di dialogo in materie teologiche! Nel sostenere questa strana tesi sul credo musulmano riguardo al Corano, alcuni cattolici sembrano dimenticare le posizioni dogmatiche cattoliche romane riguardo alle Sacre Scritture.
Almeno dal Concilio di Trento, il magistero della Chiesa cattolica romana ha ripetutamente affermato una dottrina molto netta, quasi impositiva, riguardo alla divina rivelazione, e ha sempre tenuto fermo che “la santa madre Chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e canonici tutti interi i libri sia del Vecchio che del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti, perché scritti per ispirazione dello Spirito Santo (cfr.
Gv 20,31; 2 Tm 3,16); hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati alla Chiesa” (Concilio Vaticano II, “Dei Verbum”, III).
La “Providentissimus Deus” di papa Leone XIII del 1893 mette in chiaro che una forte fede nella divina ispirazione delle Scritture cristiane è stata “sempre ritenuta e apertamente professata” dalla Chiesa: “Questa rivelazione soprannaturale, secondo la fede universale della Chiesa, è contenuta sia nelle tradizioni non scritte, sia anche nei libri scritti che vengono chiamati sacri e canonici, perché, essendo stati scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per autore e come tali sono stati affidati alla Chiesa.
Questo certamente, riguardo ai libri dell’uno e dell’altro Testamento sempre ha ritenuto e apertamente professato la Chiesa: ben noti sono gli importantissimi documenti antichi, nei quali si afferma che Dio, il quale parlò prima per mezzo dei profeti, poi egli stesso e quindi per bocca degli apostoli, è anche autore delle Scritture che sono chiamate canoniche, e che sono oracoli e locuzioni divine, una lettera inviata dal Padre celeste trasmessa per mezzo degli autori sacri al genere umano, peregrinante lontano dalla patria”.
È vero che la Chiesa cattolica dal 1943 e specialmente dal Vaticano II, alla luce delle acquisizioni dell’esegesi storico-critica, ha cominciato a dare rilievo al coinvolgimento degli autori umani delle Scritture.
Tuttavia, anche nella “Dei Verbum” l’ispirazione inerrante di Dio continua a essere affermata dalla Chiesa, come sempre.
Anche la “Divino afflante Spiritus” di papa Pio XII del 1943 riafferma lo stesso credo, ed espande invece che restringere le posizioni sulla Scrittura della “Providentissimus Deus” di papa Leone XIII del 1893.
Pertanto, posti i dogmi della Chiesa cattolica riguardo alla Scritture cristiane, è strano e davvero ironico che alcuni studiosi cattolici continuino a sostenere che affermare la divina ispirazione di un testo sacro sia un ostacolo al dialogo teologico! Se una simile fede nella divina ispirazione trattiene i suoi aderenti dal dialogo teologico, allora gli studiosi cattolici dovrebbero avere la stessa inibizione che alcuni di loro immaginano abbiano gli studiosi musulmani.
Inoltre, la tradizionale posizione sunnita su come accostarsi rispettosamente al Corano e alla tradizione non è così distante dalla posizione cattolica su come accostarsi rispettosamente alle Sacre Scritture e alla tradizione.
Lo stesso papa Benedetto XVI ha recentemente raccomandato la tipica cautela cattolica riguardo a un eccessivo entusiasmo per le metodologie storico-critiche: “Lo studio scientifico dei testi sacri è importante, ma non è da solo sufficiente perché rispetterebbe solo la dimensione umana.
Per rispettare la coerenza della fede della Chiesa l’esegeta cattolico deve essere attento a percepire la Parola di Dio in questi testi, all’interno della stessa fede della Chiesa.
In mancanza di questo imprescindibile punto di riferimento la ricerca esegetica resterebbe incompleta, perdendo di vista la sua finalità principale, con il pericolo di essere ridotta ad una lettura puramente letteraria, nella quale il vero Autore – Dio – non appare più” (Discorso alla pontificia commissione biblica, 23 aprile 2009).
È davvero ironico che alcuni cattolici consiglino ai musulmani di produrre dei “Lutero” e degli approcci di “stile luterano” al Corano.
Tali consiglieri dovrebbero ricordare piuttosto gli strenui sforzi fatti dalla Chiesa cattolica per arginare le conseguenze dell’affermazione del principio protestante della “Sola Scriptura”.
Sfortunatamente, alcune posizioni cattoliche riguardo agli approcci musulmani al Corano sembrano basate sull’infondata tavola dei contrasti “islam contro cristianesimo” sviluppata e sostenuta da taluni “esperti dell’islam”.
È essenziale, per amore di una mutua comprensione e per amore di Dio, fermare la costruzione di queste nocive false distinzioni, e smetterla di fare prediche all’islam circa la saggezza nell’uso del metodo storico-critico per studiare il Corano.
Dio sa cos’è il meglio! Il testo di fr.
Michel Cuypers al quale Nayed ha qui replicato: > Anche l’islam ha i suoi Lutero.
Ma una riforma è lontana (7.9.2009) E un precedente servizio di www.chiesa con un’intervista di Cuypers a “Il Regno”, sull’applicazione al libro sacro dell’islam dei metodi di analisi letteraria già applicati alla Bibbia: > Per una rinnovata lettura del Corano: la lezione di un grande islamologo (4.6.2007) __________ La nota con cui Aref Ali Nayed criticò su www.chiesa la lezione di Benedetto XVI a Ratisbona: > Due studiosi musulmani commentano la lezione papale di Ratisbona (4.10.2006) E il successivo botta e risposta tra Nayed e il professor Alessandro Martinetti, che gli aveva replicato: > Chiesa e islam.
A Ratisbona è spuntato un virgulto di dialogo (30.10.2006) La critica di Nayed a Benedetto XVI che aveva battezzato il convertito Magdi Allam, “un infelice episodio che riafferma la famigerata lezione di Ratisbona”: > Storia di un convertito dall’islam.
Battezzato dal papa in San Pietro (28.3.2008) E la replica a Nayed del professor Pietro De Marco: > Per il Vaticano re Abdullah pesa più di 138 dotti musulmani (31.3.2008) __________ Il libro dell’islamologo Massimo Campanini citato in apertura del servizio: Massimo Campanini, “L’esegesi musulmana del Corano nel secolo ventesimo”, Morcelliana, Brescia, 2008.
__________ Il documento più aggiornato e più autorevole sull’esegesi cattolica delle Sacre Scritture, pubblicato nel 1993 dalla Pontificia Commissione Biblica per ordine di Giovanni Paolo II e con la prefazione dell’allora cardinale Joseph Ratzinger: > L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa __________ Sulla corrente teologica asharita, alla quale Aref Ali Nayed dichiara di appartenere, sono uscite interessanti valutazioni sul numero 35-36 del 2008 di “Nuntium”, la rivista della Pontificia Università Lateranense, dedicato a “Le sfide di Ratisbona.
Fede, ragione, ricerca e dialogo”.
In particolare, tracciano profili differenziati della teologia asharita lo studioso musulmano Mustafa Abu Sway e gli islamologi François Zabbal, Adel Theodor Khoury (citato da Benedetto XVI nella lezione di Ratisbona) e Miguel Ángel Ayuso Guixot, preside del Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica di Roma.
Sandro Magister Nella sua udienza generale di mercoledì 14 ottobre Benedetto XVI ha portato ad esempio Pietro il Venerabile, il grande abate di Cluny che nel secolo XII, per “favorire la conoscenza” dell’islam, “provvide a far tradurre il Corano”.
Oggi, all’inizio del secolo XXI, accade qualcosa di più.
Un numero crescente di studiosi cristiani applica al Corano, per approfondirne la comprensione, i metodi di lettura già applicati alla Bibbia: fondati non solo sulla tradizione e sulla teologia, ma anche sull’analisi storico-critica e letteraria.
Questi ultimi metodi hanno faticato ad essere approvati dalla Chiesa cattolica, ma da molti decenni sono divenuti di uso comune.
Fanno parte di quelle “conquiste dell’illuminismo” accolte dalla Chiesa che Benedetto XVI – in un importante discorso del 22 dicembre 2006 – ha auspicato vengano accolte anche dal mondo islamico.
In effetti, l’esegesi musulmana del Corano ha conosciuto nell’ultimo secolo “un’intensa attività interpretativa non inferiore a quella medievale”, come ha documentato tra altri l’islamologo Massimo Campanini in un saggio pubblicato nel 2008 dalla Morcelliana col titolo: “L’esegesi musulmana del Corano nel secolo ventesimo”.
Ma l’esegesi musulmana contemporanea – mostra Campanini – si esplica soprattutto nell’applicare il Corano all’agire umano, ai comportamenti pratici; è eminentemente “un’ermeneutica della prassi”.
Per il resto, essa non innova in nulla rispetto ai metodi di esegesi tradizionali dell’islam.
*** Uno degli studiosi cattolici che applica al Corano gli strumenti della moderna esegesi, specie letteraria, è fr.
Michel Cuypers, che vive al Cairo.
Il suo ultimo libro, uscito due anni fa in Francia, è di grande suggestione.
È dedicato all’analisi di un capitolo del Corano: “Le festin: une lecture de la sourate al-Mâ’ida [Il banchetto: una lettura della sura al-Mâ’ida]”, e reca la prefazione dell’eminente studioso musulmano Mohamed-Ali Amir-Moezzi.
Di Cuypers www.chiesa ha rilanciato tempo fa un’ampia intervista e, più di recente, un articolo sul ruolo della tradizione nell’interpretazione islamica del Corano, pubblicato anche da “L’Osservatore Romano”.
In quest’ultimo articolo, nel descrivere gli ultimi sviluppi dell’interpretazione del Corano in campo musulmano, Cuypers ha mostrato come vi siano oggi dei “modernisti” che tendono a escludere il ricorso alla tradizione, con questa conseguenza: “Il Corano diventa dunque la sola fonte realmente normativa dell’islam.
Una ‘sola Scriptura’ che non è priva d’influssi da parte del modello protestante (alcuni modernisti sono volentieri chiamati i ‘Lutero dell’islam’).
Questa liberazione dalle maglie della tradizione permette d’ipotizzare una nuova esegesi del Corano, oggi richiesta da alcuni intellettuali musulmani.
Le ‘occasioni della rivelazione’, attinte agli hadîth, non sono più il metodo privilegiato d’esegesi, come nel passato.
Un’esegesi critica è ormai possibile.
“Questa posizione aperta ha tuttavia come contropartita il fatto di situare gli intellettuali musulmani modernisti ai margini della corrente generale dell’islam, che resta massicciamente legata alla sunna come norma di fede e legge, organicamente connessa al Corano.
Si comprende così che le differenti concezioni dei musulmani rispetto alla tradizione sono al cuore della crisi attuale dell’islam”.
*** Ebbene, a questo passaggio dell’articolo di Cuypers reagisce con veemenza – nella nota riprodotta più sotto – uno studioso musulmano che appartiene invece a una corrente dell’islam sunnita molto ortodossa e legata alla tradizione: la corrente asharita, il cui fondatore fu il teologo Abu ‘l-Hasan Al-Ashari (873-935) e il cui massimo esponente fu Abu Hamid Al-Ghazali (1058-1111), molto critico del suo contemporaneo Averroè, da lui accusato di razionalismo.
L’autore della nota è Aref Ali Nayed (nella foto), un nome familiare ai lettori di www.chiesa.
In questo sito egli pubblicò nel 2006 una doppia replica al memorabile discorso di Benedetto XVI a Ratisbona, e due anni dopo un commento polemico alla conversione dall’islam al cristianesimo di Magdi Allam, battezzato da papa Joseph Ratzinger nella notte di Pasqua del 2008.
Nayed è una personalità di rilievo nel dialogo tra la Chiesa cattolica e l’islam.
Nato in Libia, ha studiato filosofia della scienza ed ermeneutica negli Stati Uniti e in Canada, ha seguito corsi alla Pontificia Università Gregoriana di Roma e ha tenuto lezioni al Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica.
È consulente all’Interfaith Program dell’università di Cambridge.
Ha diretto il Royal Islamic Strategic Studies Center di Amman, in Giordania.
Ha fondato quest’anno a Dubai un centro di studi islamici chiamato Kalam Reseasrch & Media.
Ma, soprattutto, Nayed è uno dei 138 saggi musulmani che hanno indirizzato a Benedetto XVI nel 2007 la celebre lettera “Una Parola comune”.
Anzi, ne è stato il principale estensore.
Ha fatto parte della delegazione di cinque rappresentanti musulmani che il 4 e 5 marzo 2008 hanno concordato col Vaticano i successivi forum interreligiosi di dialogo, al primo dei quali ha partecipato in posizione eminente.
Insomma, con queste credenziali viene naturale classificare Nayed tra le personalità musulmane più impegnate ed “aperte” nel dialogo con la Chiesa di Roma.
Ma a leggere i suoi interventi si ricava anche che nel suo dialogare Nayed non attenua affatto gli elementi di contrasto.
Anzi, sembra quasi che li esasperi.
La lezione di Ratisbona è per lui “infamous”.
Battezzando Magdi Allam il papa ha compiuto un atto “infelice”.
E così via.
Anche nel replicare a Cuypers, Nayed adotta toni battaglieri.
Ne elude completamente le ampie e fini argomentazioni, per appuntarsi su una sola frase.
E da questa prende spunto per rovesciare sulla Chiesa cattolica, in materia di esegesi biblica, le stesse accuse di oscurantismo tipiche della polemica laicista.
E, viceversa, per rivendicare all’islam la primogenitura di quei metodi storico-critici e di analisi letteraria divenuti poi appannaggio dell’esegesi ebraica, protestante, illuminista e infine cattolica.
La lettura di questo testo inviato da Nayed a www.chiesa è istruttiva, perché fotografa il reale livello a cui si trova oggi il dialogo intellettuale tra la Chiesa cattolica e l’islam.
Gli abbracci e le dichiarazioni di pace che si producono in tante cerimonie interreligiose non devono illudere.
Nayed è persona coltissima ed amabile.
Così come lo è Cuypers, piccolo fratello di Gesù.
Ma tra i due mondi culturali c’è un abisso.
Il servizio di www.chiesa col quale Nayed polemizza è il seguente: > Anche l’islam ha i suoi Lutero.
Ma una riforma è lontana (7.9.2009)
Alle «Sources Chrétiennes» il Nobel cattolico
Il premio internazionale Paolo VI 2009, vero e proprio Nobel cattolico, andrà alle “Sources Chrétiennes”, la collana patristica più conosciuta del mondo; sarà lo stesso Benedetto XVI a presenziare alla cerimonia di consegna nel pomeriggio di domenica 8 novembre, data della sua visita a Brescia in occasione dell’inaugurazione della nuova sede dell’Istituto Paolo VI a Concesio, dove nacque Giovanni Battista Montini.
Il premio è stato indetto per la prima volta nel 1984 e assegnato a Hans Urs von Balthasar; il 23 giugno di quell’anno, nel corso di un’udienza speciale, il teologo lo ricevette dalle mani di Giovanni Paolo II.
Cinque anni più tardi, l’edizione del 1989 dedicata all’espressione musicale premiò il compositore francese Olivier Messiaen.
Negli anni successivi i vincitori sono stati Oscar Cullmann (1993), Jean Vanier (1997), fondatore della comunità Arca e di Foi et lumière, e il filosofo Paul Ricoeur (2003).
Comitato promotore del premio è l’Opera per l’educazione cristiana di Brescia, dove il giovane Montini venne educato e che lasciò dopo l’ordinazione sacerdotale.
Alla morte del Papa si avvertì la necessità di procedere a un’indagine archivistica e storiografica che favorisse lo studio di quello che certamente verrà giudicato un capitolo centrale della storia religiosa e culturale del XX secolo.
Una biblioteca specializzata raccoglie i libri personali del Papa e il maggior numero possibile di pubblicazioni che lo riguardano, anche in relazione al periodo storico in cui è vissuto, mentre un imponente archivio custodisce quasi mezzo milione di documenti editi e inediti, oltre a una abbondante documentazione fotografica e audiovisiva, mentre l’organizzazione di colloqui e giornate internazionali ha lo scopo di dare impulso allo studio scientifico dei temi che maggiormente hanno segnato gli anni di pontificato.
“Fondare biblioteche è un po’ come costruire ancora granai pubblici: ammassare riserve contro l’inverno dello spirito” scriveva Marguerite Yourcenar riferendosi alla povertà culturale del Novecento, devastato da totalitarismi e ideologie anti-umane; tra i “costruttori di granai” più lungimiranti e appassionati, costretti dalle circostanze storiche a lavorare in tempo di carestia, morale e spirituale, ci sono proprio i fondatori della collana patristica edita dalle parigine Éditions du Cerf a partire dagli anni più bui della seconda guerra mondiale.
Nel 1942, nella Francia piegata dall’invasore nazista, venne pubblicato il primo volume delle “Sources Chrétiennes” grazie al lavoro di un eccezionale quartetto di gesuiti – Victor Fontoynont (1880-1958), Henri de Lubac (1896-1991), Jean Daniélou (1905-1974) e Claude Mondésert (1906-1990), il raffinato grecista che ne fu il principale direttore – con l’intento di tornare ad attingere, appunto, alle “fonti cristiane”.
Soprattutto – ma non solo – patristiche.
Accanto alle opere dei Padri greci e latini figurano infatti quelle di autori orientali, medievali, bizantini.
I primi numeri delle “Sources Chrétiennes” presentavano i testi solo in traduzione francese, ma presto i volumi furono corredati dagli originali a fronte, con introduzioni, annotazioni, commenti, apparati critici, tanto da divenire un riferimento obbligato per gli studiosi.
Nonostante le difficoltà che, già nel 1999, l’allora direttore Jean-Noël Guinot – il primo studioso laico a dirigere la collana – addebitava, in un’intervista rilasciata ad “Avvenire”, alla miope riduzione dei finanziamenti alla ricerca, l’impresa editoriale, che conta oggi più di 530 volumi, continua a “illuminare l’incontro fecondo realizzato tra il messaggio cristiano e la cultura antica” come si legge nella motivazione del premio; il prestigioso riconoscimento contribuirà (anche materialmente, con una cospicua somma di denaro) a promuovere l’attività di riscoperta e pubblicazione delle “fonti cristiane”, preziose anche per chi cristiano non è.
(©L’Osservatore Romano – 26-27 ottobre 2009)
La Chiesa deve parlare forte
La Chiesa deve parlare forte intervista a Mons.
Giancarlo Maria Bregantini a cura di Ida Nucera Viviamo un tempo difficile, caratterizzato da un progressivo sfi lacciamento della morale, scalzata da narcisismo, corruzione e arroganza, in totale sprezzo del bene comune.
Anche la politica ha perduto l’anima, cioè l’etica.
I cattolici cercano con difficoltà alternative possibili.
Per il credente diventa sempre più faticoso “stare sulla stessa barca”, come più volte evidenziato dal dibattito aperto su queste stesse colonne.
Il momento sollecita un confronto franco con pastori aperti al dialogo.
Abbiamo dunque incontrato monsignor Giancarlo Maria Bregantini, trentino di Denno, dal 1994 vescovo di Locri, profondo conoscitore del Sud, con tutte le problematiche legate all’arretratezza e alla ‘ndrangheta, ma anche con le sue grandi potenzialità, per le quali si è sempre battuto affi nché potessero esprimersi in pienezza.
Dal 2007 è arcivescovo metropolita di Campobasso Bojano.
Monsignore, molti cristiani sono indignati perché ritengono la Chiesa poco profetica su temi cruciali.
Attendono una condanna chiara di certi atteggiamenti immorali, invocano parole certe su quanto lontana dal Vangelo sia la classe dirigente.
Possiamo continuare a far finta di nulla? Possiamo chiuderci in sacrestia e attendere che tutto passi? Riguardo alla situazione generale della Chiesa, oggi, mi piace rivisitare tre verbi che spesso ripeto ai preti della nostra diocesi.
Frutto di anni di fatica interiore e pastorale, di lacrime ma anche di tante speranze e di tante gioie, vissute con la gente.
Perché la Chiesa non è solo la gerarchia: è soprattutto quella parte del popolo di Dio che vive, spera e lotta tutti i giorni.
Compio ogni sforzo perché il mio cuore sia sempre più attaccato ad essa.
E la “gerarchia” stessa non è mai fi nalizzata a sé stessa, ma opera sempre per la gente, nel vissuto quotidiano e sofferto della storia, così come la disegna il Signore per noi, di pietra in pietra.
Dicevo che ho imparato tre verbi: mai vincere, ma sempre convincere; mai imporre, ma sempre proporre; mai giudicare, ma analizzare.
Un giorno un Provinciale di una Famiglia religiosa di consacrati mi disse, quasi scusandosi: «Ma la santità non si può imporre!».
È vero, risposi di getto, ma si deve proporre, sempre più.
La Chiesa oggi sente la sua pesantezza, ma guai se smette di proporre la santità come meta.
Se si lascia infiacchire dalla propria stanchezza.
Don Milani, con chiarezza, nel suo fiorito linguaggio fiorentino, amava dire: «Sfottere crudelmente non chi cammina in basso, ma chi mira in basso!».
Tutti siamo fragili, tutti peccatori.
Ma questo non ci deve per nulla esimere dal puntare in alto.
Anzi, proprio perché la fragilità è evidente, ancor più limpida deve essere la proposta e alta la meta.
Ecco allora la necessità di rifl ettere sul comportamento della Chiesa nel nostro tempo.
Ma siano analisi, e non giudizi.
Perché c’è una differenza grande.
E dove sta la differenza? Nel tono della voce.
In famiglia, in ufficio, in politica: tutto sta nel tono della voce.
Se esprimi un giudizio, il tuo tono sarà duro, aspro, diretto.
Se invece analizzi, vedi e individui subito ciò che non va, perché il tuo occhio è limpido, come il catino dell’acqua con cui Gesù lavò i piedi ai suoi discepoli.
Il tono della tua voce si fa testimonianza, coinvolgimento, passo sofferto e condiviso.
Anche il male lo porti con te e non te ne tiri fuori, perché non sei diverso da loro.
Occorre sfuggire al soffuso ma comodo manicheismo che talvolta avvinghia certi preti bravi o certi cristiani impegnati.
La fatica di un vescovo è la fatica del pastore, che non ritma i suoi passi sul passo delle sue forze, ma sul passo fragile delle «pecore madri, che egli conduce pian piano e porta sul petto gli agnellini» (Isaia 40,11), cercando sempre la pecorella che si è smarrita.
E se la pone sulle spalle, condividendo la gioia con i suoi amici, in una comunità dove soprattutto il lontano si fa vicino, per il sangue di Gesù sulla croce.
Quella croce che ha fatto dei due un solo popolo nuovo.
Ripeto: solo chi non mira in alto va crudelmente sfottuto.
Ed è ciò che oggi si deve fare di fronte alla perdita del bene comune, alla mancanza di etica.
Solo con la chiarezza del profeta si può dire di «no», ad esempio, a un personaggio politico locale, che pretenda di fare da padrino nella cresima di un amico.
Con amarezza ma con chiarezza, perché egli non regola la sua vita politica con coerenza.
Non sarà giudizio, ma analisi lucida, poiché hai orientato la tua vita, prima di ogni altra, secondo ideali evangelici che cerchi di vivere con coerenza.
La Chiesa oggi deve parlare di più con voce profetica.
Troppo tace, troppo lascia correre.
Su certe questioni si dimostra inflessibile, mentre su altre è acquiescente.
Ma questa difficoltà nasce dalla carenza di proposta evangelica.
Questo è il problema.
E il nostro dolore diffuso.
A quali principi dovrebbero essere improntati i rapporti tra la gerarchia ecclesiastica e la politica? C’è sempre attenzione all’ultimo, al povero, alla giustizia? Noi vescovi della regione ecclesiastica Abruzzo-Molise abbiamo emesso un decalogo, evangelicamente ben inquadrato, che indica i sentieri del bene comune, con precisione e passione pastorale.
In sintesi richiama il potere al servizio orientato verso le categorie più deboli.
Vede la politica come crescita di responsabilità e democrazia, nel rispetto delle altrui posizioni e nella coerenza delle scelte.
Ribadisce il rifiuto e la denuncia di comportamenti immorali e disonesti e auspica l’impegno per favorire la cultura della legalità, la preparazione degli amministratori e una selezione della classe dirigente che premi il merito, la competenza e rifugga da simpatie, legami personali o familistici, ripicche o vendette.
Tutto questo si fonda sul Vangelo e sulla Bibbia.
Eppure, quando l’ho presentato, c’è stato chi mi ha accusato di fare politica.
Ciò accade spesso quando la Chiesa diviene chiara, profetica e incisiva.
Molti la vorrebbero invece muta e silenziosa, quasi complice di uno stile di vita che favorisce i ricchi e penalizza i poveri.
Ma che direbbe quel Gesù che afferma che ogni cosa fatta al più piccolo dei fratelli è fatta a lui stesso? Che rimprovera Erode per essere come una volpe? Che paga le tasse? Che contesta, con il suo silenzio, anche Pilato? È sempre lui la misura.
Oggi uno dei punti più dolenti è il respingimento degli stranieri, condannati a sevizie certe nei lager della Libia.
Molte persone, laici e cattolici impegnati nell’apostolato sociale, si sono dichiarate pronti alla disobbedienza civile di fronte a leggi che permettono tutto ciò.
Ritiene sia una scelta coerente con il Vangelo? Il respingimento degli stranieri è un peccato grave.
È uno dei più tristi segni della nostra acquiescente debolezza come cristiani.
E dico grazie alle voci ecclesiastiche (non molte, per la verità) che li hanno condannati con chiarezza.
Memori di un Gesù che disse: «Ero straniero e mi avete accolto» (Matteo 25,35).
È triste sentire certi politici che, ogni volta che la Chiesa dice la sua, la deridono con sciocchi pretesti.
Credo che chi matura forme di disobbedienza civile non faccia altro che seguire gli esempi dei grandi santi.
Come Tommaso Moro, patrono dei politici, che morendo, sul palco della sua decapitazione, affermò con luminosa chiarezza evangelica: «Ho sempre servito Dio e il re.
Ma ho servito Dio prima del re».
La testimonianza riguarda non solo il clero, ma anche il laicato cattolico.
La fedeltà a una scelta costa la fatica di una strada in salita, soprattutto in alcuni luoghi che lei ben conosce, e può presentare un conto salato se si disturbano i potenti e i prepotenti… La testimonianza è indispensabile.
Nasce da un modo di leggere la Parola e la storia.
Fedeli a Dio e alla gente.
Ai laici, chiedo un forte amore per la propria terra, dettato da un cuore materno.
È infatti soprattutto con un cuore femminile, anche nella vita consacrata, che si coltiva questo amore.
Solo così la terra diviene un giardino.
La devi amare, curare, e servire, con rispetto e dedizione, fino in fondo.
In fedeltà da sposo e non da amante.
«I piccoli “sì” preparano il cuore ai grandi “sì” cioè al bene; come i piccoli “no” al male allenano ai grandi “no” al male», diceva san Tommaso Moro.
È fondamentale la coerenza nelle piccole cose, la chiarezza interiore coltivata giorno per giorno, che fa leggere la vita con occhi trasparenti.
Altro elemento importante nella testimonianza è la gratuità.
Siamo amati gratuitamente da un Padre che ci dona il suo sole; e lo dona sia a chi è giusto sia agli ingiusti.
Lo stile gratuito rovescia il concetto meritocratico che diventa, sottilmente, la più falsa giustifi cazione della scala sociale iniqua.
Solo nella gratuità si diviene fratelli.
L’allontanamento di tanti dalla pratica religiosa, tra cui la confessione, dipende da molte cause.
Lei ha detto che la testimonianza è la prima forma di identità.
Testimoniare Cristo morto e risorto è come spandere un profumo, ma, a volte, questo si è come dissolto e non attrae più… La testimonianza resta il vero profumo, che la Chiesa nel giovedì santo immette nell’olio del Crisma, segno stesso del Cristo.
Crisma, Cristo, cristiano: stessa radice, stesso itinerario di speranza e di coerenza.
Ma qui tutti sentiamo di essere fragili.
Abbiamo bisogno di mete alte, di testimoni credibili.
E qui si gioca la fatica educativa con i nostri ragazzi, che restano il banco di prova della nostra coerenza.
Perché sono i primi ad accorgersi se in noi, preti o educatori, c’è realmente quel profumo di santità e di bellezza.
È dunque necessario che questa testimonianza sia resa ben visibile, con gesti credibili e alternativi.
Perché la Chiesa non deve essere né succube a questo sistema di potere né anarchica, ma alternativa.
Deve cioè avanzare proposte alte, con passo più avanzato, con presenze forti presso chi è escluso o è vittima della crisi che ci travolge.
Ma questa via alternativa non è praticabile, se non attuiamo prima una serie di strumenti di sostegno.
Mi riferisco in particolare a due: un gruppo biblico in ogni parrocchia e un circolo culturale in ogni quartiere.
Occorre costruire una fede che sa leggere dentro i fatti, che si avvalga del discernimento maturo dei laici e parroci che usano la Parola come luce che illumina i nostri passi.
Da soli non si può essere profeti.
E se è vero (come dicevo ai ragazzi della Locride) che tu solo puoi farcela, devi ricordarti però che non puoi farcela da solo.
Sempre più spesso al Sud il territorio diventa discarica di veleni, che incrementano l’incidenza tra la popolazione locale di alcuni tumori e alterazioni genetiche.
È possibile fermare questo obbrobrio? Su questo punto si gioca la verifica del nuovo rapporto con la terragiardino.
Ai ragazzi traduco così questo concetto: senza il cielo, la terra si fa fango; con il cielo, diviene giardino.
Come dicevo prima, tocca a noi far amare questa terra in forza della bellezza del cielo.
«Novissima considera, ut videas bona», dicevano i medioevali, cioè guarda lontano, per poter vedere bene qui, già da ora.
Questo è il compito attuale della Chiesa: additare questo cielo, che brilla già dentro di noi; farlo rilucere, intessendolo d’amore, in un intreccio sereno tra intelligenza e cuore.
Allora il Signore ci porrà alla sua destra, perché quel cielo ci avrà portato a servire con umiltà e gratuità i piccoli, i poveri, i soli, i disoccupati, gli stranieri, in un profumo di testimonianza luminosa e coinvolgente.
in “il nostro tempo” del 2 agosto 2009
Intervista ad Hans Küng
L’intervista Signor Küng, ho una zia novantottenne che ha un grosso problema: lei è certa di andare in paradiso e di trovarvi là marito, figli e conoscenti, ma si chiede in che stato siano: giovani, vecchi, malati, sani? Capisco che sua zia abbia tale preoccupazione.
Non si sa che cosa ci si può aspettare al di là della porta della morte, personalmente non posso e non voglio immaginare come sia il paradiso.
Ogni persona ama immaginare, ma deve sapere che sono solo sue immagini.
Viviamo in un’epoca successiva a Copernico e a Darwin – e quindi non possiamo più immaginarci il paradiso come hanno fatto ad esempio Michelangelo o i pittori del Medio Evo o del Barocco.
Io non credo a queste semplicistiche rappresentazioni del paradiso, secondo le quali staremmo seduti su una seggiolina d’oro a cantare “alleluia”.
Papa Benedetto crede sicuramente che in qualche modo nell’aldilà si sta seduti tutt’intorno.
Non molto tempo fa diceva che il suo predecessore, Giovanni Paolo II, era affacciato al balcone della casa del Signore a guardarci: allora c’è un morto che guarda giù.
Questa è una rappresentazione sorprendentemente ingenua.
Il Papa si esprime a volte in maniera premoderna e popolare – un’eredità della sua fede bavarese contadina.
Naturalmente anche lui sa che il paradiso non è una dimora al di sopra delle nuvole con finestre dal cielo.
I cristiani illuminati capiscono che nell’aldilà non viene risvegliata alcuna salma, ma che – come diciamo nella liturgia – avviene una totale trasformazione del modo di essere.
Sono curioso di scoprire come sarà nell’aldilà.
Signor Küng, della sua vita nell’aldiqua lei è sicuramente deluso.
Perché mai? Ha scritto più di 60 libri, più di 30 000 pagine e…
Lavoro molto volentieri.
In tutta modestia, credo di aver prodotto qualcosa che rende il cristianesimo, la religione, l’etica nuovamente comprensibili all’uomo moderno.
Nonostante il suo ardore…
Non sono stato e non sono un fanatico, né un santo, scrivo per le persone che sono in ricerca.
Malgrado il suo impegno, dal 1989 le due maggiori Chiese [in Germania] hanno perso più di sette milioni di fedeli, e alla preghiera del mercoledì a Roma partecipano annualmente due milioni e mezzo di persone in meno rispetto ad alcuni anni fa con Giovanni Paolo II.
Lei si è consumato le dita a scrivere, però inutilmente.
No, ho avuto successo! Un numero incalcolabile di persone mi scrive – quotidianamente -, che io sono stato per loro un aiuto.
Io sono diventato, involontariamente, un portavoce della leale opposizione a sua santità.
Un portavoce che viene preso sul serio – anche dallo stesso papa.
Sono presente dentro e fuori la Chiesa.
Senza di me molti avrebbero abbandonato la Chiesa, molti mi dicono: “Finché resiste lei dentro la Chiesa, resisto anch’io”.
Cionondimeno, la sua battaglia l’ha persa.
Il suo antagonista Ratzinger…
Non è il mio antagonista, e la mia professione non è critico del papa.
Sono un riformatore, non un sovversivo.
E non sopporto di essere sempre chiamato ribelle della Chiesa o…
Il suo antagonista è diventato papa, entra nella storia.
Lei sarà solo una nota a piè di pagina.
È piuttosto sfacciato quello che sta dicendo, lei non può vedere nel futuro, lei…
Ma sarà così! Crede? Come una persona entri nella storia, lo decide solo la storia stessa.
Non è importante la funzione, e neanche il potere.
Un esempio: Tommaso d’Aquino – non voglio mettermi alla sua altezza – aveva volontariamente rinunciato a qualsiasi incarico importante nella Chiesa.
Papa Innocenzo III, suo coltissimo contemporaneo, fu il più potente di tutti i papi – lei conosce Innocenzo III? No.
Questo papa, un tempo potentissimo, oggi è una nota a piè di pagina, comunque ancora importante per gli storici.
Però Tommaso d’Aquino viene costantemente citato ancor oggi come un’autorità.
No, non mi sento un perdente.
È chiaro che lei deve dire e la deve vedere così.
Certo che la vedo così! Ma c’è un’altra cosa che mi rattrista nella vita: che Joseph Ratzinger, che nel 1966 ho chiamato all’università di Tubinga, non abbia proseguito sulla stessa via della riforma come ho fatto io.
Allora non avremmo probabilmente oggi questa spaccatura della Chiesa cattolica in Chiesa alta e Chiesa bassa.
Io rappresento la Chiesa bassa, lui tiene alla Chiesa alta.
Tutto il mio lavoro era indirizzato a che la Chiesa alta cambiasse.
E in questo, e qui ha ragione lei, io ho avuto solo un successo limitato.
Ma: chi ha vinto una battaglia è ancora lontano dall’aver vinto la guerra.
Io credo che l’attuale politica del Vaticano sarà un fiasco.
Il tentativo di risospingerla indietro nel Medio Evo la svuota.
Non si possono riportare in vita i vecchi tempi! Ma mi dica un po’, perché 200 anni dopo l’Illuminismo si dovrebbe ancora credere in Dio? Sì, proprio come persona illuminata le dico: ci sono mille motivi per non credere.
In questo ha ragione.
Di fronte alla miseria nel mondo e nella propria vita si può o dubitare di Dio o avere fiducia in Dio.
Non c’è nessuna prova strettamente scientifica a favore di Dio, la sua esistenza non può essere fondata su argomenti logicamente convincenti.
Proprio secondo Immanuel Kant: la pura ragione teoretica al di fuori di tempo e spazio non è competente.
Quindi l’esistenza di Dio non può basarsi su argomenti logicamente convincenti.
Ma davvero! Non scherzi! Lei ha certamente, da un lato, ancora in mente la sua fede di bambino, però, d’altro canto, anche la sua ragione non ha competenza nella questione della fede.
L’esistenza di Dio è una questione di fiducia ragionevole.
Fiducia ragionevole? A me pare che sia piuttosto irragionevole, e penso che Mark Twain abbia ragione: “La fede consiste nel credere in qualcosa che si sa non essere vero.” Proprio una brutta battuta di spirito.
Io però le rispondo molto seriamente con una frase della lettera agli Ebrei.
“La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono.” Quindi: nonostante i suoi dubbi ci sono mille motivi per cui una persona – nonostante tutte le contrarietà della vita – può credere in Dio.
Me ne dica uno.
Su questo ho proprio appena scritto un intero libro: “Quello in cui credo”.
La fede è innanzitutto un problema di fiducia di fondo.
Fiducia nella vita.
Vorrei invitarla ad ammettere Dio almeno come ipotesi.
Prenda la questione filosofica fondamentale: perché una cosa esiste al posto di non essere, oppure l’inspiegabile origine delle fondamentali costanti della natura o della velocità della luce.
Ma anche il problema dell’infinito in matematica, le tracce della trascendenza nella musica – tutto questo può essere un invito a credere in Dio.
Lo scienziato Richard Dawkins le risponderebbe, a queste parole che risuonano così belle…
…io direi piuttosto: parole che risuonano vere! Lui direbbe: tutte le religioni insegnano cose senza senso e sono pericolose per l’umanità.
Non mi parli qui di questi nuovi atei! Dawkins è un ideologo che reagisce ad un’immagine di Dio superata e argomenta in modi estremamente polemici, senza tuttavia portare nuove conoscenze.
È uno studioso di scienze naturali, senza apertura a problemi filosofici.
Io mi sono occupato dei grandi atei classici, ho analizzato Feuerbach, Marx, Nietzsche, Freud.
Loro costituiscono per me una sfida, non questo…
“La religione, dice Marx, è il sollievo della creatura oppressa, l’anima di un mondo senza cuore, lo spirito di situazioni senza spirito.
È l’oppio del popolo.
L’abolizione della religione in quanto illusoria felicità del popolo è la condizione necessaria per la sua vera felicità: la condizione necessaria per rinunciare alle illusioni della sua situazione, la condizione necessaria per rinunciare ad una situazione che ha bisogno di illusioni.” Marx ha ragione: la religione può essere l’oppio del popolo.
La religione può essere un mezzo di acquietamento e consolazione sociale.
Ma non deve esserlo.
Le analisi di Marx esprimono, forse contro la sua volontà, anche qualcosa di positivo, e cioè che la religione può essere molto di più – una protesta contro le condizioni che abbiamo, protesta contro le circostanze a causa delle quali soffriamo.
Questa è un’interpretazione arrischiata.
“La critica della religione”, dice ancora Marx, è in nuce la critica della valle di lacrime, di cui la religione è l’aureola Religione solo riverbero? In questo Marx – come già Feuerbach – fa un cortocircuito.
La religione è più di una proiezione.
Come la fede, la speranza e l’amore, essa non si esaurisce solo nel fatto di far sopportare la miseria agli uomini in maniera cosciente o in maniera rassegnata! No, la religione può essere un motivo eccezionalmente forte, come disse Marx, non solo per interpretare il mondo in modo diverso, ma per cambiarlo.
Mio Dio, ma che mondo è mai quello che ha creato il suo Dio.
Mentre noi stiamo qui a parlare crescono senza sosta le montagne di cadaveri.
Ogni cinque secondi muore un bambino al di sotto dei dieci anni di fame o di sete.
Stiamo parlando da trenta minuti scarsi – 360 bambini morti! Perché Dio non ha impedito il male? Già il filosofo greco Epicuro rivolge nel 300 avanti Cristo questa domanda contro la religione.
Ma forse dovremmo prima chiederci: perché gli uomini non hanno impedito il male? Rispetto al male, ogni persona che crede in un Dio buono e vivo è confrontato in questo mondo ad un mistero che…
Lei lo chiama mistero il far morire di fame dei bambini? No.
Il mistero è perché Dio non ha impedito il male.
Il dolore immeritato di bambini non può essere giustificato con nessuna argomentazione.
“Perché soffro? Questa è la roccia dell’ateismo” viene detto nella tragedia di Büchner “La morte di Danton”.
Sì, perché soffriamo? Questa è la domanda originale dell’uomo.
Lei, Signor Luik, sa dare una risposta? Lei, Signor Küng, lei è il cristiano credente.
Io aspetto con ansia la sua risposta.
Che non è facile.
Appartiene al mistero anche il perché gli uomini non facciano di più contro il dolore.
Ad ogni modo non possiamo attribuire tutta la colpa a Dio.
L’umanità proprio nel “progredito” XX secolo ha sperimentato il male in una misura fino ad allora sconosciuta: stragi di stato, Auschwitz, l’industrializzazione del massacro.
Come ha potuto Dio permettere questo? Il mistero della sofferenza non può essere spiegato con i mezzi della ragione.
Troppo facile.
Né attraverso la psicologia, né attraverso la filosofia né attraverso la morale il buio della sofferenza si lascia trasformare in luce.
Dio rimane l’incomprensibile.
Signor Küng, al di là delle parole difficili: il suo Dio era ad Auschwitz? Parole difficili? Dell’orrore dell’olocausto, Dio non è responsabile.
Certamente, se Dio esiste – e io ci credo -, allora Dio era anche ad Auschwitz.
Ma che Dio è, che sta ad Auschwitz e non impedisce Auschwitz! Questo è un grido di protesta che io capisco.
Ed è mia convinzione che anche con ardite speculazioni su un Dio che soffre, la mostruosa realtà di Auschwitz non può essere liquidata.
Qui si addice una teologia del silenzio.
Ma perfino ad Auschwitz era possibile la fede: credenti di religioni diverse hanno rivolto a Dio la loro preghiera perfino nella fabbrica della morte, perché erano convinti che, nonostante tutto, Dio esistesse.
E lei, da parte sua, deve chiedersi: il suo ateismo spiega l’olocausto? La sua mancanza di fede spiega il mondo, riesce a consolare chi è nella sofferenza senza senso? No! Nessuno dei grandi spiriti dell’umanità che io ho letto ha risolto il problema originale della sofferenza e del male.
Ma neanche il cristianesimo, che – è quasi assurdo – parla del Dio buono, benevolo, indulgente.
Un Dio che tutto sa, che tutto guida.
Questa è una rappresentazione medioevale del Dio onnipotente, che guida tutti gli eventi cosmici.
Allora ho studiato male la religione! No, Dio è spirito, che agisce dentro, con e in mezzo agli uomini, ma che rispetta la loro libertà.
E questa libertà comprende inevitabilmente anche il male.
L’uomo che soffre non può giungere al segreto dei progetti del creatore sul mondo.
La sofferenza, enorme, insensata – tanto individuale che collettiva – non può essere capita in teoria, ma nel migliore dei casi superata praticamente.
Gli ebrei – anche i cristiani – come estrema sofferenza hanno la figura di Giobbe davanti agli occhi.
Quest’uomo perde, senza alcuna colpa, tutto: il patrimonio, la famiglia, la salute, diventa mendicante, viene colpito dalla lebbra.
Si lamenta con Dio e rifiuta tutti gli argomenti a favore di Dio.
Con questo mostra che l’uomo non necessariamente deve accogliere la sofferenza.
Ha il diritto di insorgere, di protestare, di ribellarsi contro un Dio che gli appare crudele, perfido e scaltro – e attraverso queste prove Giobbe ritrova Dio! La prego, questa è una favola.
Questa è letteratura mondiale altamente drammatica.
Ma più ancora di Giobbe, per me come cristiano è Gesù, quel Gesù che viene abbandonato, flagellato, che viene schernito, che muore lentamente sulla croce, colui che ha anticipato la terribile esperienza dell’olocausto.
Per lei come cristiano questa morte è certamente una morte salvifica, che…
…
che rinvia oltre la miseria, il dolore, la morte! Perfino per degli scettici come il marxista Horkheimer era insopportabile credere che la miseria avesse l’ultima parola.
Deve esserci una ultima giustizia proprio per i poveri, i miseri di questo mondo! E i bambini che soffrono senza colpa, possono avere il conforto che questa vita non è tutto, ma che hanno davanti a sé una vita senza dolore.
Lo dice lei stesso: la fede è oppio.
No, non è oppio, è conforto.
Lei ha ora più di 80 anni e…
…
sono cosciente del fatto che la mia fine terrena è vicina.
Prima pensavo – la mia è stata una vita faticosa – che non sarei arrivato ai 50 anni.
Ora faccio i conti con la morte, ogni ora può essere l’ultima.
Chi ogni giorno ha la morte davanti agli occhi, ne ha meno paura.
Sono pronto.
Ho vissuto sette vite.
Non mi permetto alcuna nostalgia di vecchiaia, non mi attacco spasmodicamente al voler essere giovane.
A volte mi chiedono: “Come vorrebbe morire?” Sorridendo rispondo: “Durante un viaggio di lavoro!” Ed ora aggiungo: “Ad ogni modo non in una casa di cura.” Il suo amico, il professore di retorica Walter Jens, è sprofondato in un mondo al di là del pensiero, al di là delle parole, è demente.
È stato un difensore dell’aiuto attivo a morire, sua moglie Inge dice: “Non ha colto il momento giusto in cui avrebbe potuto passare dalla vita alla morte.” Per me la vita è un dono di Dio, di cui sono responsabile.
E questo fino all’ultimo respiro.
È rimessa alla mia responsabilità e non a quella della Chiesa o del papa o di un prete, di un medico, di un giudice.
È mia responsabilità e in definitiva sono responsabile della più alta istanza: Dio.
Dico solo che non vorrei mancare il momento giusto.
Che cosa si aspetta alla fine della vita? Come ho detto, sono curioso.
La morte è per tutti una prima.
Ho la fondata fiducia di non sprofondare nel nulla.
“Questo è tutto?”, Kurt Tucholsky, che si è tolto la vita nel 1935, ha scritto: “Se dovessi morire adesso, direi: ‘Questo è tutto?’ – e: ‘Non avevo capito proprio bene.” E: “È stato un po’ rumoroso.” Ma no, non la penso così! Non è tutto.
Io credo alla vita eterna.
Walter Jens mi diceva una volta che avrebbe incontrato volentieri Heinrich Böll e Willy Brandt lassù.
Naturalmente anch’io incontrerei molto volentieri determinate persone.
Preferirei ad ogni modo Mozart a Brandt, e mi piacerebbe conoscere Tommaso Moro.
Ma che ne so? Le fantasie non hanno nulla a che fare con la serietà del morire.
E che cosa dirà a Dio, nel caso ci fosse, quando le chiederà: “Che cosa hai fatto per rendere il mondo migliore?” So che non mi farà questa domanda, perché lo sa anche senza chiederlo.
Il voto di religione in decimi
Anche il giudizio dei prof di religione potrebbe essere presto trasformato in un voto vero, dall’1 al 10.
L’intenzione del governo è stata oggi confermata nella sostanza dal ministro Maristella Gelmini: “Credo che l’ora di religione debba avere la stessa dignità delle altre materie, e credo anche che l’Italia non possa non riconoscere l’importanza della religione cattolica nella nostra storia e nella nostra tradizione”.
Secondo il ministro, va “garantita agli insegnanti della religione cattolica la stessa situazione, le stesse condizioni degli altri insegnanti”.
Alla fattibilità dell’intera operazione starebbe lavorando da circa tre mesi una commissione voluta dal ministro.
Sulla composizione della stessa vige il più stretto riserbo e le riunioni si sono finora svolte in gran segreto, ma si sa che il gruppo di lavoro è presieduto dal direttore generale per gli Ordinamenti, Mario Dutto.
Il passo ulteriore è di pochi giorni fa: da viale Trastevere è partita la richiesta di parere di fattibilità al Consiglio di stato.
Se la cosa dovesse andare in porto, si riaccenderebbe la guerra tra laici e cattolici scoppiata un paio di settimane fa, quando il Tar Lazio ha estromesso dall’attribuzione dei crediti scolastici alle superiori proprio i prof di Religione.
Contro quella decisione, Gelmini prima ha annunciato un ricorso al Consiglio di stato, ma poi ha pubblicato il Regolamento sulla valutazione degli alunni che, di fatto, ha sospeso il provvedimento del tribunale amministrativo.
Attualmente, in tutti i gradi della scuola italiana (dalle elementari alle superiori), nei confronti degli alunni che hanno optato per l’ora di religione cattolica l’insegnante esprime un giudizio sintetico: sufficiente, discreto, buono, ottimo.
Niente voto, insomma.
Neppure dall’anno scorso, quando ad ottobre è stata approvata la legge 169 che ripristinava i voti in decimi al posto dei giudizi sintetici alla scuola primaria (l’ex elementare) ed alla media.
“Per l’insegnamento della religione cattolica – recita il testo unico in materia di istruzione – , in luogo di voti e di esami, viene redatta a cura del docente e comunicata alla famiglia, per gli alunni che di esso si sono avvalsi, una speciale nota, da consegnare unitamente alla scheda o alla pagella scolastica, riguardante l’interesse con il quale l’alunno segue l’insegnamento e il profitto che ne ritrae”.
Ma nel regolamento sulla valutazione, pubblicato il 19 agosto scorso, a proposito dei voti in decimi si legge che “la valutazione dell’insegnamento della religione cattolica (…) è comunque espressa senza attribuzione di voto numerico, fatte salve eventuali modifiche” al Concordato stato-chiesa.
A cosa porterebbe una eventuale trasformazione del giudizio in voto numerico? Darebbe alla Religione pari dignità rispetto a tutte le altre discipline.
Perché rientrerebbe nella media dei voti per l’attribuzione del credito scolastico alle superiori e contribuirebbe all’ammissione alla maturità così come agli esami di terza media.
Il provvedimento sarebbe certamente accolto positivamente dai quasi 26mila insegnanti di Religione in servizio nelle scuole italiane perché avrebbe il significato di una promozione a tutti gli effetti.
Dal punto di vista politico, invece, servirebbe a ricucire i rapporti tra governo e Vaticano dopo le tensioni nate sui respingimenti dei migranti e in seguito al caso Boffo.
Repubblica 14 settembre 2009 Il passaggio dai giudizi ai voti in tutte le materie deve valere anche per l’ora di religione.
Come aveva già anticipato un mese fa Repubblica.it, è questa l’opinione del ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, che su questo argomento ha intenzione di chiedere un parere al Consiglio di Stato.
Immediata la protesta dell’opposizione che rivendica la laicità della scuola pubblica italiana sancita dalla Costituzione.
Inoltre, aggiunge il Pd, la Corte Costituzionale si è già espressa in merito stabilendo la facoltatività dell’ora di religione e quindi non può essere equiparata alle altre materie.
Così come i docenti di religione non possono partecipare agli scrutini, come ha stabilito il Tar del Lazio l’estate scorsa.
Ai giornalisti che le chiedevano se il voto di religione debba far media con gli altri, il ministro Gelmini ha risposto: “Il voto in religione oggi non c’è.
Ancora esiste un giudizio.
Il nostro intendimento è quello di chiedere un parere al Consiglio di Stato per evitare contenziosi, ma la mia opinione è che essendo passati dai giudizi ai voti in tutte le materie questo debba valere anche per l’insegnamento della religione”.
“Il ministro Gelmini non sa di cosa parla, oppure fa di nuovo e solo propaganda” sostengono Manuela Ghizzoni e Maria Coscia, deputate Democratiche della commissione Cultura di Montecitorio.
“La Corte Costituzionale, infatti, ha già stabilito il principio di facoltatività dell’ora di religione, nel rispetto della laicità dello Stato, in base al quale è necessario garantire pari dignità ai ragazzi di ogni culto”.
“Purtroppo – aggiungono – il nuovo sistema di valutazione che ha fatto venir meno il criterio di un giudizio globale sui rendimenti scolastici lascia spazio anche a questo tipo di ‘pensate’: siamo convinte – concludono – che il Consiglio di Stato rispedirà al mittente la proposta”.
L’ora di religione “non può essere valutata come una normale materia curriculare” afferma il segretario generale della Flc-Cgil, Mimmo Pantaleo.
“Il ministro Gelmini deve garantire la laicità della scuola pubblica italiana sancita dalla nostra Costituzione.
Per questa ragione, nel pieno rispetto del Concordato, l’ora di religione – spiega Pantaleo – deve rimanere facoltativa.
Non può determinare vantaggi di alcun genere, a cominciare dai crediti formativi, e quindi non può essere valutata come una normale materia curriculare”.
“Piuttosto il ministro dovrebbe preoccuparsi – osserva il sindacalista – del fatto che si nega, per effetto di pesantissimi tagli, il diritto ad avvalersi dell’insegnamento alternativo.
Non permetteremo – ammonisce Pantaleo – di trasformare la scuola pubblica italiana, che dovrebbe essere laboratorio interculturale, in una istituzione confessionale e autoritaria”.
(13 ottobre 2009) A conferma delle anticipazioni di stampa (Avvenire, agosto 2009), il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, nel corso delle celebrazione della VIII Giornata europea dei genitori e della scuola presso il ministero dell’istruzione, ha ufficialmente comunicato che è sua intenzione chiedere al Consiglio di Stato la fattibilità dell’inclusione del voto di religione nel computo delle materie che fanno media nel voto finale da assegnare agli studenti.
Dopo la riforma della valutazione disposta dalla legge 169/2008 che ha previsto che ogni disciplina sia valutata con voto in decimi, è rimasto insoluto il problema della religione cattolica che, in base ad un articolo del Testo unico sulle norme per l’istruzione (art.
309), continua ad essere valutata con una nota riguardante l’interesse e il profitto dell’alunno verso tale insegnamento.
“Il nostro intendimento – ha detto il ministro – è quello di chiedere un parere al Consiglio di Stato onde evitare contenziosi, ma la mia opinione è che essendo passati dai giudizi ai voti in tutte le materie questo debba valere anche per l’insegnamento della religione”.
tuttoscuola.com martedì 13 ottobre 2009 VALUTAZIONE IRC: VOTO IN DECIMI O GIUDIZIO? IL NODO DELLA VALUTAZIONE Stralcio da: Sergio Cicatelli, Voto decimale e Irc.
Il nodo della valutazione, Insegnare Religione n.
2 2008-2009 «Vogliamo avviare una riflessione sulla ricaduta che il ritorno del voto decimale potrebbe avere sull’Irc.
Fin dal primo momento, infatti, numerosi Idr hanno scorto nella formulazione del DL 137 la possibilità di far rientrare anche l’Irc in questa piccola rivoluzione docimologica.
In base all’articolo 3, a partire dall’anno scolastico 2008-09 nelle scuole del primo ciclo (primaria e secondaria di I grado), «la valutazione periodica ed annuale degli apprendimenti degli alunni e la certificazione delle competenze da essi acquisite è espressa in decimi».
Lo stesso articolo prosegue dicendo che «è altresì abrogata ogni altra disposizione incompatibile con la valutazione del rendimento scolastico mediante l’attribuzione di voto numerico espresso in decimi».
È soprattutto quest’ultima postilla a suscitare le speranze degli Idr di uscire dal ghetto della valutazione separata, ma il cammino non è così rapido come potrebbe sembrare a prima vista.
Anzitutto va osservato che il DL 137/2008 si riferisce solo alle scuole del primo ciclo, lasciando fuori le scuole superiori, dove la valutazione è sempre stata numerica.
Se anche dovesse esserci una modifica delle regole valutative per l’Irc, questa sarebbe – almeno nell’immediato – limitata al primo ciclo di istruzione.
Ma sarebbe comunque il segnale di una svolta nella storia della disciplina.
Sono ormai trent’anni, dall’entrata in vigore della legge 517/77, che nelle scuole elementari e medie sono scomparsi i voti numerici, sostituiti da giudizi analitici nelle singole discipline e globali sul livello di maturazione dell’alunno.
La scuola superiore è rimasta fuori da questa trasformazione, ma si è spesso pensato che anch’essa dovesse adeguarsi a un’innovazione che aveva anticipato con la riforma degli esami di maturità del 1969.
Come qualcuno ricorderà, infatti, quell’esame si concludeva con un giudizio “integrato” da un voto in sessantesimi (e anche l’ammissione all’esame si basava su giudizi privi di qualsiasi accompagnamento numerico).
Ma il più diretto potere comunicativo del voto finale ha fin dall’inizio fagocitato la più elaborata funzione del giudizio Sull’Irc ha pesato finora l’effetto della legge 824, che risale al 1930 ed è attuativa del primo Concordato.
Essa stabiliva all’art.
4 che «per l’insegnamento religioso, in luogo di voti e di esami viene redatta a cura dell’insegnante e comunicata alla famiglia una speciale nota, da inserire nella pagella scolastica, riguardante l’interesse con il quale l’alunno segue l’insegnamento e il profitto che ne ritrae».
All’epoca, le valutazioni di tutti gli ordini e gradi di scuola erano formulate attraverso voti e la «speciale nota» serviva a distinguere l’Ir dal resto del curricolo, perché l’Ir veteroconcordatario era espressione della religione di Stato allora vigente in Italia e poteva quindi presentarsi nella forma di una vera e propria catechesi di Stato, che doveva essere tenuta fuori dal percorso scolastico vero e proprio, nonostante la pomposa (ma di fatto vuota) formula concordataria che voleva l’Ir «fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica».
Ad una scuola piegata alle finalità religiose ha fatto seguito, dopo l’Accordo di revisione del 1984, un Irc inserito «nel quadro delle finalità della scuola», con una significativa inversione di ruoli che finora è sfuggita al legislatore ordinario, il quale ha accolto acriticamente il dettato della legge del 1930 nel Testo Unico di legislazione scolastica (art.
309 del DLgs 297/94), convalidando in epoca recente criteri e procedure che affondavano le loro radici in un diverso e superato contesto giuridico e culturale.
Senza nemmeno tenere conto del fatto che ormai l’uso del voto era limitato alla sola scuola superiore, mentre il ricorso a giudizi verbali nelle scuole elementari e medie aveva annullato da tempo la “diversità” dell’Ir/Irc rispetto al restante processo di valutazione scolastica.
D’altra parte, il medesimo art.
309 del Testo Unico aveva recepito anche novità di altro genere relative alla valutazione e derivanti principalmente da un ordine del giorno approvato dalla Camera dei deputati all’indomani della firma dell’Intesa Cei-Mpi sull’Irc: si trattava essenzialmente della scheda di valutazione separata «da consegnare unitamente alla scheda o alla pagella scolastica» e non più «da inserire nella pagella scolastica», come recitava la legge del 1930».
LEGGE 169 Stralcio da: Sergio Cicatelli, Il Decreto Gelmini è legge.
Quali effetti sull’Irc.
Con la votazione in Senato del 29 ottobre scorso il DL 137, meglio noto come decreto Gelmini, è stato convertito nella legge 169 del 30-10-2008.
Il 31 ottobre la legge è apparsa sulla Gazzetta Ufficiale ed è quindi è efficace a tutti gli effetti.
[…] In materia di valutazione numerica del profitto è stato aggiunto un giudizio analitico ai voti decimali, per evitare di ridurre tutta l’operazione valutativa a un fatto di mera contabilità.
La promozione alla classe successiva potrà essere negata solo con decisione unanime degli insegnanti nella scuola primaria e con decisione a maggioranza nella secondaria di I grado.
L’aspetto più rilevante per l’Irc è la scomparsa della frase che nel testo iniziale del DL 137 abrogava tutte le norme in contrasto con le nuove disposizioni (e che faceva sperare nel superamento del divieto di voto anche per l’Irc).
Con questa modifica acquista maggior forza il regolamento che dovrà coordinare tutte le norme vigenti in materia di valutazione e stabilire eventuali ulteriori modalità applicative della nuova impostazione.
Il problema principale è la tempistica di questo regolamento, dato che i voti numerici dovranno essere assegnati nel corso degli scrutini che, nelle scuole che adottano il trimestre, potrebbero svolgersi già nel prossimo mese di dicembre.
Al momento non ci sono notizie certe sull’uscita del regolamento e sul suo contenuto.
Vedremo se arriverà in tempo e se conterrà istruzioni sulla valutazione dell’irc.
La situazione è estremamente confusa e molte scuole hanno adottato con solerzia i voti anche per l’Irc mentre altre sono rimaste ancorate ai vecchi giudizi.
L’unica cosa certa, per ora, è che la norma riguarda solo la valutazione esterna, quella decisa in sede di scrutinio, e non quella relativa alle singole prove cui sono sottoposti gli alunni nel corso dell’anno: per queste verifiche è sempre possibile usare qualsiasi modalità valutativa, numerica o verbale, purché dichiarata e comprensibile.
D’altra parte, l’uso del voto o del giudizio è solo una modalità comunicativa che non dovrebbe incidere, in teoria, sulla natura della valutazione.
È ovvio che un voto numerico anche per l’Irc sarebbe motivo di minore discriminazione (lino ad oggi non avvertita nelle scuole del primo ciclo perché si adottava il giudizio in tutte le materie), ma va anche ricordato che “fare media” è più un fatto di immagine che di sostanza.
L’alunno viene promosso non sulla base della media dei voti ma della decisione espressa dal consiglio di classe, di cui fa parte con voto deliberante anche l’Idr.
Il nodo fondamentale è perciò l’applicazione del controverso comma della revisione dell’Intesa del 1990, in cui si dice che il voto dell’Idr in sede di scrutinio finale, se determinante, diviene un giudizio iscritto a verbale.
Sulla controversa interpretazione di questo passo la giurisprudenza amministrativa si è ormai espressa più volte e risulta esistere una sola sentenza contraria del Tar Piemonte, contro una decina favorevoli di altri Tar.
Lo stesso Mistero, con una nota del 24-10-2005, prot.
9830, ha dichiarato che «il voto del docente di religione, quando è determinante, diventa giudizio motivato, ma ad avviso della scrivente [D.G.
Ordinamenti], non perde la rilevanza del voto».
Si spera che si possa superare al più presto il limite nella comunicazione della valutazione, ma l’efficacia dell’Irc ai fini della carriera scolastica dell’alunno sembra essere assicurata.
[…] Sergio Cicatelli PER IL MOMENTO Non essendoci un riferimento esplicito nella Legge 169, sembra che tutto debba restare come prima, lasciando in vigore ciò che dice l’articolo 309 del Testo unico che, in proposito, dispone: “Per l’insegnamento della religione cattolica, in luogo di voti e di esami, viene redatta a cura del docente e comunicata alla famiglia, per gli alunni che di esso si sono avvalsi, una speciale nota, da consegnare unitamente alla scheda o alla pagella scolastica, riguardante l’interesse con il quale l’alunno segue l’insegnamento e il profitto che ne ritrae”.
Mentre sembra ritornare la diatriba sul voto di religione con il ministro Gelmini a favore e il segretario della Cgil-scuola contrario, Francesco Scrima, segretario generale della Cisl-scuola, va oltre la polemica e proprone una soluzione di ampio respiro.
Tutti gli insegnamenti obbligatori od opzionali – sostiene Scrima – devono essere oggetto di valutazione con pari dignità delle discipline e delle attività.
“Tutto ciò che si fa a scuola deve essere valutato e considerato nel giudizio complessivo che si esprime sull’apprendimento, l’impegno e il risultato educativo che il ragazzo raggiunge.” “Se è ammessa l’opzione di avvalersi o non avvalersi di un insegnamento – aggiunge Scrima con riferimento evidente all’insegnamento della religione – devono essere previste e garantite possibilità alternative altrettanto significative e valide”.
Dopo aver dichiarato che quel che non viene valutato viene svalutato, il comunicato della Cisl-scuola (www.cislscuola.it) invita a non trattare la questione su un piano strumentale e ideologico.
tuttoscuola.com mercoledì 14 ottobre 2009 Come era prevedibile, la dichiarazione del ministro Gelmini per proporre il voto in decimi anche all’insegnamento della religione cattolica, ha provocato le prime reazioni negative del fronte laico.
Mimmo Pantaleo, segretario nazionale della Flc Cgil ha infatti dichiarato che il ministro Gelmini “deve garantire la laicità della scuola pubblica italiana sancita dalla nostra Costituzione.
Per questa ragione, nel pieno rispetto del Concordato, l’ora di religione deve rimanere facoltativa.
Non può determinare vantaggi di alcun genere, a cominciare dai crediti formativi e quindi non può essere valutata come una normale materia curriculare.” Il ministro Gelmini, nel suo intervento alla VIII Giornata europea dei genitori e della scuola, oltre a parlare di possibile valutazione dell’Irc con voto in decimi come le altre materie, si era spinta a prospettarne le conseguenze, in caso di parere favorevole del Consiglio di Stato, con “l’inclusione del voto di religione nel computo delle materie che fanno media nel voto finale da assegnare agli studenti”.
Pantaleo ha richiamato l’attenzione del ministro sul fatto per effetto dei tagli di organico si sta negando il diritto ad avvalersi dell’insegnamento alternativo.
tuttoscuola.com martedì 13 ottobre 2009
Libri elettronici
Dopo aver lanciato uno dei primi negozi on line di ebook, Barnes&Noble ha attrezzato ognuno dei suoi negozi reali di una rete wireless alla quale qualsiasi cliente può collegarsi gratuitamente.
Il nuovo lettore di libri digitali, con schermo da sei pollici e tastiera virtuale, dovrebbe arrivare sugli scaffali statunitensi il prossimo mese, a un prezzo non ancora noto.
Attualmente il lettore più economico sul mercato è il Reader Pocket Edition di Sony, venduto a 199 dollari.
In settimana Amazon ha invece ridotto il prezzo del “Kindle due” di 40 dollari, a 259 dollari, dopo averlo portato da 359 a 299 dollari nel mese di luglio.
Secondo il sito Gizmodo – noto per i suoi scoop in campo tecnologico – il lettore di Barnes&Noble dovrebbe integrare il sistema operativo Android di Google.
Per il mercato statunitense dei libri digitali – rilanciato proprio da Amazon – è attesa un’impennata nella prossima stagione natalizia.
Per gli analisti di Forrester Research, nel 2009 le vendite di lettori digitali raggiungeranno i tre milioni di unità solo in America, con Amazon al 60 per cento di market share e Sony al 35 per cento.
Intanto il Kindle, il lettore digitale della Amazon, si prepara a sbarcare in oltre cento Paesi, tra cui in particolare la Cina e l’India.
Inoltre i vertici di Amazon stanno studiando metodi con cui allargare l’offerta di testi.
Le ripercussioni del successo di Kindle sul mondo dell’editoria potrebbero essere molto significative: i libri elettronici costano in media molto meno degli equivalenti cartacei.
Inoltre, Kindle permetterebbe di effettuare un abbonamento ai maggiori quotidiani a un prezzo molto ridotto.
Al momento – riferiscono fonti di stampa – le vendite di Kindle stanno andando molto bene, il che spiega anche perché il prezzo del lettore digitale possa essere regolarmente abbassato.
(©L’Osservatore Romano – 11 ottobre 2009) Il mercato del libro digitale si allarga a macchia d’olio.
Barnes&Noble, la prima catena di librerie degli Stati Uniti, si prepara ad entrare nel promettente mercato dei libri elettronici.
L’azienda sarebbe infatti pronta a competere con Amazon e Sony, due colossi del settore, lanciando un proprio lettore di ebook.
Lo rivela “The Wall Street Journal”, che cita fonti informate sul progetto.
La mossa – dicono gli esperti – punta a limitare un possibile monopolio in un settore all’avanguardia.
Velo islamico
II velo è simbolo di obbedienza a Dio, di modestia e pudore.
Alle donne sarebbe consentito mostrare soltanto il viso, le mani e i piedi considerati non sessualmente provocanti.
Ma è anche vero che in alcuni paesi musulmani, come I’Afghanistan, le donne sono nascoste sotto tuniche che le rivestono completamente dalla testa ai piedi.
Dall’altro lato c’è chi invece ritiene che lo higab non abbia rnai costituito un dogma: il Corano non ne parla e le quattro grandi scuole giuridiche dell’islam, ufficialmente riconosciute come ortodosse (hanafita, malikita, shafi’ita, hanbalita) non hanno mai sostenuto una teoria sul velo.
Lo higab sarebbe entrato in scena solo successivamente per una questione di necessità, quando le contaminazioni del inondo esterno (già nel XIV secolo coll’invasione mongola) e i processi di modernizzazione (della seconda metà del Novecento) richiesero una difesa strenua di un’identità in crisi.
Ciò che negli elementi più estremisti si traduce in una chiusura e in un’opposizione anti-occidentale.
In questo senso, il velo diventa il simbolo di un’appartenenza che può, secondo il governo francese, intaccare la laicità dello stato.
Ed è così che, nel 2004, la Francia promulga la cosiddetta legge sulla laicità per ciui «nelle scuole, nei collegi e nei licei pubblici è proibito portare segni o abiti con i quali gli alunni manifestino ostentatamente un’appartenenza religiosa».
Oltre al velo islamico, le croci di una certa dimensione, la kippah ebraica, il turbante sikh.
Questo provoca reazioni opposte non soltanto tra i musulmani, ma anche tra i cattolici.
Giovanni Paolo II ha condannato la laicità che si fa laicismo.
Sarnir Khalil Samir, gesuita e autorevole islamologo, ha invece salutato con favore la legge perché mette un freno al «desiderio separatista» dell’islam.
I musulmani si sono divisi tra chi, come Dalil BuBaker, presidente del Consiglio francese del culto musulmano (Cfcm), ritiene inammissibile un’ingerenza del mondo islamico negli affari dello stato (ospitante) e afferma «siamo cittadini francesi e applichiamo la legge francese», e chi, come l’Unione delle organizzazioni islamiche di Francia, i Fratelli Musulmani in Giordania, o l’Iran si è opposto alla legge perché attacca «la libertà religiosa».
Per Al Qaeda «si tratta di un altro segno dell’odiosa crociata scatenata dagli occidentali contro i musulmani».
Non è facile indicare con certezza quanti siano i veli islamici, diversi per cultura e tradizioni anche all’interno dello stesso paese.
Questi i più comuni: burqa, chador; ha’ik, higab, jalabiya, niqab.
Il burqa, diffuso in Afghanistan, è un velo integrale dai colori generalmente accesi (arancione, verde, azzurro) che copre completamente la donna, dalla testa ai piedi, lasciando aperta solo una finestrella a rete davanti agli occhi per consentirle di vedere il mondo esterno.
Lo chador è nero e avvolge il corpo completamente, lasciando scoperto l’ovale del viso.
È usato soprattutto in Iran, dove è obbligatorio dalla rivoluzione del 1979 guidata dall’ayatollah Khomeini.
L’ ha’ik è una stoffa tessuta in maniera tradizionale, di lana (in Marocco) o seta (Algeria), che avvolge il capo e il corpo.
L’ higab è composto da due pezzi: un copricapo che nasconde la testa e un velo che, appoggiato sopra, scende sulle spalle ed è legalo sotto al mento o appuntato con una spilla.
E utilizzato in Egitto, Siria, Giordania e Marocco.
Lo jalabiya è un lungo camice di tela, usato anche dai più antichi coltivatori del Nord Africa, i fellahin dell’Egitto (coltivatori insediati lungo la valle e il Delta del Nilo).
Il niqab è un velo che copre la testa e il viso della donna lasciando scoperti gli occhi e può essere molto raffinato ed elegante o pesante e nero.
Sull’obbligo di indossare il velo (higab, in arabo) non c’è unicità di vedute nel mondo islamico.
La discordanza deriva dall’interpretazione che si dà ai precetti del Corano, fonte primaria della fede e del diritto musulmani, ed esprime solitamente, rna non necessariamente, una contrapposizione tra islam moderato e fondamentalista.
Semplificando, da un lato c’è chi sostiene che l’uso del velo non dovrebbe essere messo in discussione: il Corano si esprimerebbe esplicitamente in tal senso nelle sure XXIV, 31 e XXXIII, 59.