Riserve del Consiglio di Stato anche per tecnici e professionali Le perplessità espresse dal Consiglio di Stato a proposito dello schema di regolamento dei licei si estendono, con poche variazioni, anche agli altri due regolamenti, riguardanti gli istituti tecnici e professionali per i quali sono stati redatti analoghi documenti.
Gli uffici del Ministero stanno predisponendo le risposte alle richieste di chiarimento formulate dal Consiglio di Stato.
Il ministro Gelmini fornirà le spiegazioni sollecitate dal Consiglio, ma non sembra disposta a fare marcia indietro.
Sempre più probabile, invece, è lo spostamento del termine per le iscrizioni alla scuola secondaria superiore alla metà o alla fine di marzo 2010.
Di parere diverso il coordinatore nazionale della Gilda degli Insegnanti, Rino Di Meglio, che accoglie con soddisfazione il parere negativo espresso dalla magistratura amministrativa, soprattutto per quanto riguarda l’eccesso di delega, e invita il ministero della Pubblica istruzione a “rallentare questa deleteria corsa verso la riforma e rispondere ai chiarimenti chiesti dal Consiglio di Stato”.
tuttoscuola.com Sono forti le perplessità sulla riforma della scuola secondaria superiore espresse dal Consiglio di Stato nel documento n.
7149 del 9 dicembre scorso (ma reso pubblico soltanto nelle ultime ore), contenente il parere sullo Schema di regolamento recante “Revisione dell’assetto ordinamentale, organizzativo e didattico dei licei ai sensi dell’articolo 64, comma 4, del decreto legge 25 giugno 2008, n.
112, convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2008, n.
133”, ossia sul nuovo Regolamento dei Licei.
Per i giudici di Palazzo Spada, i punti poco chiari sarebbero così rilevanti da indurre il Consiglio di Stato a sospendere le valutazioni di rito e chiedere “che il Ministero dell’istruzione fornisca i chiarimenti richiesti” poiché “non è chiaro se il testo predisposto si mantenga nei limiti della delega”.
Il primo punto ritenuto dubbio dai giudici di secondo grado della giustizia amministrativa è di tipo normativo: la bozza di riforma prevede, infatti, che alcuni punti fondamentali (obiettivi specifici di apprendimento, articolazione delle cattedre e definizione degli indicatori per la valutazione) vengano introdotti attraverso un semplice decreto ministeriale.
Il Consiglio di Stato, invece, ritiene che occorra l’approvazione di una legge.
Ma un provvedimento di questo tipo necessiterebbe tempi decisamente lunghi vanificando in partenza l’obiettivo del ministro di creare già da settembre delle prime classi sulla base dei nuovi programmi.
Un altro punto ritenuto “debole” è quello dei tetti a piani di studio che ogni singolo istituto dovrebbe scegliere da sé sulla base di esigenze specifiche territoriali: i cosiddetti “curricolo” imposti dal ministero dell’Istruzione – il 20% al primo biennio, il 30% nel secondo biennio e il 20% nel quinto anno – non sembrano bastare a palazzo Spada.
Che facendo riferimento al regolamento sull’autonomia della scuola (il dpr n.
275/99) fa intendere la necessità di lasciare più margini alle scuole.
I giudici del Consiglio di Stato hanno poi espresso un certo scetticismo sulle procedure che porteranno ai nuovi piani di studio e ai programmi ministeriali: ritengono che sarebbe il caso “che il Ministero dell’istruzione illustri la graduazione di tale passaggio, anche con riguardo alla tutela dell’affidamento degli studenti che, trovandosi nelle situazioni di transito, subiranno una modificazione dell’iter formativo prescelto”.
Il cambiamento, fanno intendere, andrebbe introdotto per vie decisamente più graduali.
Forti perplessità sono state infine esplicitate dal Consiglio di Stato anche sulla revisione degli organi collegiali, responsabili delle strategie principali di ogni singolo istituto superiore: i nuovi regolamenti ministeriali prevedono l’introduzione di dipartimenti, composti da docenti individuato dal collegio dei docenti,a soprattutto l’attuazione di un comitato scientifico formato da docenti e da esperti esterni.
Anche su questo fronte “sarebbe più coerente con l’obiettivo di realizzare l’autonomia – scrive il Consiglio di Stato -, lasciare alle istituzioni scolastiche la scelta in merito all’opportunità di istituire tali organi”.
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La libertà di pensare Dio sfidando la Chiesa
Alcune riflessioni sul convegno dedicato a “Dio oggi”: è necessario cambiare, non si possono più sostenere così come sono i dogmi e la morale sessuale Il cristianesimo continua a perdere di fascino e nel migliore dei casi consola.
L´attuale gerarchia ecclesiastica è in grado di aprirsi al rischio della libera intelligenza? Si apre oggi a Roma e durerà fino a sabato un convegno internazionale promosso dal Progetto Culturale della Cei con il patrocinio del Comune di Roma: “Dio oggi.
Con lui o senza di lui cambia tutto”.
Il programma prevede la partecipazione di scienziati, storici, filosofi, scrittori, giornalisti, teologi.
Condividendo l´urgenza dell´argomento, presento alcune considerazioni in forma necessariamente schematica che consegno alla pubblica riflessione.
Presento alcune considerazioni in forma necessariamente schematica che consegno alla pubblica riflessione.
1.
La sfida della postmodernità alla fede in Dio non è più l´ateismo materialista.
Tale era l´impresa della modernità, caratterizzata dal porre l´assoluto nello stato-partito o nel positivismo scientista, ma questi ideali sono crollati e oggi gli uomini sono sempre più lontani dall´ateismo teoreticamente impegnato.
Gli odierni alfieri dell´ateismo vogliono distruggere la religione proprio mentre si connota il presente come “rivincita di Dio”, anzi la vogliono distruggere proprio perché ne percepiscono il ritorno, ma i loro stessi libri anti-religiosi, trattando a piene mani di religione, finiscono per alimentare la rivincita di Dio.
2.
La questione epocale è piuttosto un´altra, cioè che tale rivincita non corrisponde per nulla a una rivincita del Dio cristiano. La postmodernità col suo crescente desiderio di spiritualità non intende per nulla tradursi nelle tradizionali forme cristiane.
Anzi, il cristianesimo continua a perdere fascino, annoia, nel migliore dei casi consola.
La questione diviene quindi quale forma di spiritualità sia concepibile per un ´epoca che vuole essere religiosa (persino mistica come prevedeva Malraux) ma non intende più essere cristiana nella forma tradizionale del termine.
Affrontare questa sfida è essenziale per la teologia cristiana.
3.
La teologia può tornare a far pensare gli uomini a Dio solo a due condizioni: radicale onestà intellettuale e primato della vita.
Ha scritto Nietzsche: “Nelle cose dello spirito si deve essere onesti fino alla durezza”.
È vero.
Se vuole tornare a essere significativa, la teologia deve configurarsi come radicale onestà intellettuale.
Vi sono stati pensatori che nel ‘900 hanno scritto di Dio in questo modo: penso a Florenskij, Bonhoeffer, Weil, Teilhard de Chardin.
Si tratta di continuare sulla loro strada.
Oggi la coscienza europea non è più disposta a dare credito a una teologia che dia il sospetto anche del minimo mercanteggiare.
4.
In questa prospettiva la teologia deve intraprendere una lotta all´interno della Chiesa e della sua dottrina, talora persino contro la Chiesa e la sua dottrina, senza timore di dare scandalo ai fedeli perché il vero scandalo è il tradimento della verità e l´ipocrisia.
Ha scritto nel 1990 il cardinal Ratzinger: “Nell´alfabeto della fede al posto d´onore è l´affermazione: In principio era il Logos.
La fede ci attesta che fondamento di tutte le cose è l´eterna Ragione”.
Parole sublimi, ma ecco il punto: proprio dall´esercizio della ragione all´interno della fede sorgono acute difficoltà logiche su non pochi asserti dottrinali.
Simone Weil rilevò il paradosso: “Nel cristianesimo, sin dall´inizio o quasi, c´è un disagio dell´intelligenza”.
Tale malaise de l´intelligence è attestato anche dal fatto che i principali teologi cattolici del ‘900 hanno avuto seri problemi con il magistero, penso a Teilhard de Chardin, Congar, de Lubac, Chenu, Rahner, Häring, Schillebeeckx, Dupuis, Panikkar, Küng, Molari.
E oggi le cose non sono migliorate, anzi.
5.
L´impostazione dominante rimane oggi la seguente: la teologia si esercita nella Chiesa e per la Chiesa e deve avere un esplicito controllo ecclesiale.
Nel documento La vocazione ecclesiale del teologo, firmato dal cardinal Ratzinger nel 1990, il nesso chiesa-magistero-teologia è strettissimo.
A mio avviso è precisamente questo nesso che oggi la teologia deve sottoporre a critica.
Perché il cristianesimo possa continuare a vivere in Europa, è necessario che la teologia liberi il pensiero di Dio dalla forma rigidamente ecclesiastica impostale lungo i secoli con la morsa degli anathema sit e faccia entrare l´aria pulita della libertà.
Non sto uspicando la scomparsa del magistero, ma il superamento della convinzione che la verità della fede si misuri sulla conformità a esso.
Ciò che auspico è l´introduzione di una concezione dinamico-evolutiva della verità (verità uguale bene) e non più statico-dottrinaria (verità uguale dottrina).
Ignazio di LoyolaUna teologia all´altezza dei tempi non può più configurarsi come obbedienza incondizionata al papa.
L´obbedienza deve essere prestata solo alla verità, il che impone di affrontare anche le ombre e le contraddizioni della dottrina.
6.
Ciò comporta il passaggio dal principio di autorità al principio di autenticità, ovvero il superamento dell´equazione “verità uguale dottrina” per porre invece “verità maggiore dottrina”.
È esattamente la prospettiva della Bibbia, per la quale la verità è qualcosa di vitale su cui appoggiarsi e camminare, pane da mangiare, acqua da bere.
In questo orizzonte l´esperienza spirituale ha più valore della dottrina, il primato non è della dogmatica ma della spiritualità, e i veri maestri della fede non sono i custodi dell´ortodossia ma i mistici e i santi (alcuni dei quali formalmente eterodossi come Meister Eckhart e Antonio Rosmini).
Ne viene che un´affermazione dottrinale non sarà vera perché corrisponde a qualche versetto biblico o a qualche dogma ecclesiastico, ma perché non contraddice la vita, la vita giusta e buona.
Si tratta di passare dal sistema chiuso e autoreferenziale che ragiona in base alla logica “ortodosso-eterodosso”, al sistema aperto e riferito alla vita che ragiona in base alla logica “vero-falso”, e ciò che determina la verità è la capacità di bene e di giustizia.
Così la teologia diviene autentico pensiero del Dio vivo, qui e ora.
7.
Concretizzando.
Non si può continuare insegnare che la morte è stata introdotta dal peccato dell ´uomo, mentre oggi si sa che la morte c´è da quando esiste la riproduzione sessuata, cioè milioni di anni prima della comparsa dell´uomo.
Né si possono più sostenere così come sono i dogmi sul peccato originale, sull´origine dell´anima, sull´eternità dell´inferno, sulla risurrezione della carne.
Occorre inoltre prendere atto dell´insufficiente risposta alla questione del male e del dolore innocente, la più antica e la più attuale sfida a ogni pensiero di Dio.
Per quanto riguarda poi la morale sessuale, le parole del card.
Poupard sul caso Galileo, cioè che la Chiesa di allora fu incapace di “dissociare la fede da una cosmologia millenaria”, devono portare a domandarsi se oggi non si è allo stesso modo incapaci di dissociare la fede da una biologia altrettanto millenaria e altrettanto sorpassata.
È necessario un immenso lavoro perché l´occidente torni a riconoscersi nella sua religione, e la condizione indispensabile è che il cantiere della teologia si apra alla libertà.
Infatti (per riprendere il sottotitolo del convegno romano) con o senza libertà cambia tutto.
Ma l´attuale gerarchia della Chiesa è spiritualmente grado di cogliere l´urgenza della situazione e di aprirsi al rischio della libera intelligenza? in “la Repubblica” del 10 dicembre 2009 Nell’articolo che segue l’autore riflette sul convegno dedicato a “Dio oggi”.
E’ necessario cambiare, non si possono più sostenere così come sono i dogmi e la morale sessuale.
Il cristianesimo continua a perdere di fascino e nel migliore dei casi consola. L´attuale gerarchia ecclesiastica è in grado di aprirsi al rischio della libera intelligenza? Ecco in forma schematica le considerazioni sviluppate dall’autore : 1.
La sfida della postmodernità alla fede in Dio non è più l´ateismo materialista.
2.
La questione epocale è che tale rivincita non corrisponde per nulla a una rivincita del Dio cristiano.
3.
La teologia può tornare a far pensare gli uomini a Dio solo a due condizioni: radicale onestà intellettuale e primato della vita.
4.
In questa prospettiva la teologia deve intraprendere una lotta all´interno della Chiesa e della sua dottrina 5.
L´impostazione dominante rimane: la teologia si esercita nella Chiesa e per la Chiesa e deve avere un esplicito controllo ecclesiale.
6.
Ciò comporta il passaggio dal principio di autorità al principio di autenticità, ovvero il superamento dell´equazione “verità uguale dottrina” per porre invece “verità maggiore dottrina”.
7.
Concretizzando.
Non si può continuare insegnare che la morte è stata introdotta dal peccato dell ´uomo, mentre oggi si sa che la morte c´è da quando esiste la riproduzione sessuata, cioè milioni di anni prima della comparsa dell´uomo.
Minareti: perché l´Occidente non deve averne paura
L´esito del referendum svoltosi in Svizzera la scorsa domenica circa la costruzione di nuovi minareti è il risultato eclatante della superficialità culturale con cui le nostre società stanno affrontando uno dei fenomeni più ingenti e sfidanti del nostro tempo.
Ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi – e le analisi sociologiche e i dati statistici, insieme alla cronaca quotidiana, ce ne danno evidente documentazione – è un profondo rimescolamento delle carte per quanto concerne la relazione e la coabitazione tra i popoli, le culture, le esperienze sociali, le religioni.
Un fatto che c´è sempre stato, ma che oggi assume dei connotati inediti e pervasivi, oltre che un ritmo accelerato.
Il disagio nell´affrontare questa sfida, molto concreta e oltremodo impegnativa, è comprensibile.
Ma non lo è l´assenza, a livello pubblico, di un approfondimento e di un dialogo serio e responsabile, capace di aiutarci ad andare al di là della reattività immediata e di leggere il significato profondo di quanto accade e ci interpella, al fine d´individuare strategie culturalmente attrezzate e operativamente praticabili.
L´esito e, prima ancora, la proposizione di un referendum come quello di domenica in Svizzera denuncia in modo grave e inequivocabile quest´assenza.
E c´è solo da augurarsi che provochi quello choc salutare capace d´innescare un processo ponderato di discernimento della vera questione che è in ballo.
L´esperienza di questo referendum ci dice infatti che cosa non dobbiamo e non possiamo fare, in virtù della tradizione culturale e giuridica su cui si regge la civiltà occidentale e in riferimento all ´inedito che bussa alla nostra porta e che chiede di dar nuova forma – senza rinnegare assolutamente il positivo delle acquisizioni con fatica sin qui raggiunte – alla convivenza civile e all´assetto giuridico delle nostre società.
Innanzi tutto, non è più possibile – pena il ritorno a un passato che è improponibile – legiferare impedendo la legittima espressione pubblica delle diverse fedi religiose.
Le quali non possono in nulla derogare dalle norme fondamentali e riconosciute della società in cui si esplicano, ma che altrettanto non possono esser relegate nella sfera del privato.
È questo un guadagno irrinunciabile della civiltà occidentale, cui non è estraneo l´apporto per molti versi decisivo della fede cristiana e della cultura che ad essa s´ispira.
C´è voluto tempo e si sono combattute aspre battaglie, con chiusure e resistenze su ambedue i fronti, ma alla fine il principio secondo cui occorre dare a Dio ciò che è di Dio e a Cesare ciò che è di Cesare è diventato, per lo Stato moderno e per la Chiesa, un principio almeno formalmente inderogabile.
Tanto che il Concilio Vaticano II ha emanato una dichiarazione sulla libertà civile e sociale in materia religiosa, la Dignitatis humanae.
Dichiarazione per nulla scontata, sino a quel momento, nello stesso ambito cristiano, e che proprio per questo – al dire di Paolo VI – «resterà senza dubbio uno dei più grandi documenti di questo Concilio».
Un´altra cosa che è non solo strategicamente sbagliata, ma culturalmente del tutto inadeguata oltre che controproducente, è contrapporre rozzamente Occidente e Islam, facendo loro vestire i panni di due civiltà inconciliabili.
Certo, le differenze non mancano e sono anche rilevanti: ma la contrapposizione escludente non favorisce mai l´evoluzione dei dati positivi presenti in un dato sistema culturale e sociale.
Senza dire che l´identità sana e matura non si promuove contro quella dell´altro, chiunque egli sia, ma nella fatica di stabilire con lui il giusto rapporto.
E senza sottovalutare il fatto che una presa di posizione come quella che si è espressa nel referendum sui minareti segnala un´insuperabile contraddizione: quella di chi vuol godere di tutti i benefici della globalizzazione a livello materiale, senza aprirsi al rischio ma anche al guadagno culturale che essa può produrre.
Detto questo, si può guardare con serenità e spirito costruttivo alla delicata questione di che cosa necessitino gli atteggiamenti fondanti della nostra cultura e le regole procedurali e sostanziali della nostra convivenza per farsi capaci di apparecchiare uno spazio pubblico condiviso e accogliente.
Insomma, se, per me che sono cristiano, il campanile e il suono delle campane fanno casa e nutrono il sentimento della mia identità, perché non debbo riconoscere che il minareto e l´invito alla preghiera del muezzin fanno altrettanto per gli amici musulmani? L´essenziale è che il suono della campana e l´invito del muezzin non siano assordanti e impositivi.
Del resto, non sono stati pochi né brevi i periodi della storia passata né a tutt´oggi sono del tutto spariti i luoghi ove sinagoghe, chiese e moschee convivono pacificamente e arricchiscono le rispettive identità del dono prezioso che viene dall´altro.
Dobbiamo senz´altro essere realisticamente consapevoli che tutto ciò non è scontato né facile.
Ma è questa la frontiera culturale che dobbiamo attraversare insieme.
Aiutandoci gli uni gli altri, con apertura e insieme con rigore, a disinnescare in radice ogni forma di tentazione fondamentalista e omologatrice.
Promuovendo, di concerto con coloro – e non sono pochi – che non aderiscono a nessuna tradizione religiosa, una laicità matura che si faccia spazio propizio di dialogo e incontro, nella cornice del rispetto della dignità e dei diritti/doveri inalienabili della persona.
Senza indulgere a quel falso irenismo che mettendo sullo stesso piano tutte le convinzioni, in realtà le rende indifferenti l´una verso l´altra inibendo quell´inesausta ricerca di bene, di verità e di pace che muove la coscienza e la libertà verso orizzonti sempre più ricchi e condivisibili.
Riuscire a convivere così, nei Paesi europei così come in quelli islamici, non è, per chi aderisce a una fede religiosa, abdicare alla propria identità né sognare idealisticamente un´utopia, ma testimoniare con coerenza e senza sconti la propria apertura verso Dio e la propria responsabilità verso l´altro.
in “la Repubblica” del 3 dicembre 2009
Droga e scuola
Per il 42% degli studenti, stando all’inchiesta svolta dal sito studenti.it, è possibile acquistare droga da altri studenti non solo all’esterno, ma anche all’interno della propria scuola.
Lo spaccio sarebbe ormai entrato dentro le aule, e secondo gli studenti si farebbe perfino tra una lezione e l’altra.
Il 13% degli intervistati ha dichiarato che le sostanze stupefacenti vengono vendute nei pressi della propria scuola, ma non dentro.
Il restante 45% dei partecipanti all’inchiesta ha invece escluso che all’interno del proprio istituto ci siano studenti che spacciano.
L’inchiesta, avviata dopo l’arresto di un giovane studente che riforniva di hashish i suoi compagni di scuola, presenta un quadro preoccupante, che sarebbe bene conoscere in modo più approfondito e sistematico.
Nella periferia di Lione, cattolici e musulmani cercano le vie del dialogo
Da quando è stato intervistato alla TV locale per esprimere la sua passione per il calcio, Régis Charre, prete a Vaulx-en-Velin, viene regolarmente interpellato da dei giovani del quartiere.
“Dei giovani musulmani, che non avrebbero mai rivolto la parola a un prete, vengono a parlare con il tifoso!”, si rallegra questo cinquantenne convinto della necessità del dialogo tra le comunità dei quartieri popolari della periferia di Lione.
Impegnato in questi scambi nel quotidiano, questo prete energico partecipa agli incontri organizzati nel quadro della settimana cristiano-islamica.
Ha assistito, martedì 17 novembre, a Villeurbanne, ad una conferenza del cardinale Jean-Louis Tauran, responsabile del dialogo interreligioso in Vaticano, e si recherà sabato ad un incontro dove ci si aspetta la partecipazione di più di 100 preti ed imam.
A Lione, due uomini, il presidente del Consiglio regionale del culto musulmano, Azzedine Gaci e il cardinale Philippe Barbarin, hanno ridato vita al dialogo interreligioso.
“Quando si fa il prete in periferia non si può avere un atteggiamento di disprezzo nei confronti dell’islam”, dichiara Régis Charre, che vive da solo nell’imponente canonica di Vaulx-Village.
Questo ex disegnatore industriale “gestisce” quattro chiese, che riuniscono il 2% della popolazione, in un ambiente caratterizzato da una forte pratica dell’islam.
Come tutti i preti e imam militanti del dialogo interreligioso, difende l’importanza di questi momenti di scambio per la qualità del “vivere insieme” e per l’approfondimento della fede di ciascuno.
“Spiegandoci l’un l’altro come ci avviciniamo a Dio, ci arricchiamo”, testimonia come un’eco Faouzi Hamdi, il responsabile musulmano di Vaulx-en-Velin.
“Difficile coabitazione” I due uomini animano conferenze comuni su “Gesù nella Bibbia e nel Corano, l’elemosina e il digiuno nelle due religioni”, esempio meritorio di un inizio di dialogo teologico più che balbettante.
“Il lavoro sui testi permette di andare al di là del folklore attorno ad un cus-cus”, ritiene Hafid Zekhri, responsabile di una associazione multireligiosa.
“Durante il ramadan, io partecipo al termine del digiuno con una decina di parrocchiani”, si rallegra il prete di Vaulx-en-Velin.
“Per Natale, il responsabile musulmano ci ha augurato buona festa in chiesa; è stato applaudito”, testimonia anche Jacques Purpan, prete a Saint-Fons.
Convinto dell’importanza di “conoscere l’altro”, ha fatto visitare la moschea agli studenti del liceo privato…
e aspetta che quelli della scuola coranica vengano a vedere la chiesa…
“Siamo uniti anche nel sostegno agli immigrati in situazione irregolare”, aggiunge Régis Charre.
Invece, per l’azione sociale e caritativa, non c’è cooperazione.
Se le relazioni tra responsabili cattolici e musulmani sono, a parere di tutti, “buone e basate sulla fiducia”, ciascuno è ben cosciente delle reticenze che, da entrambe le parti, frenano l’incontro tra credenti.
“La concentrazione di maghrebini nei quartiei popolari non facilita gli incontri con i cattolici in generale”, dice padre Charre.
Questi ultimi non vedono di buon occhio i matrimoni misti nei quali l’islam si impone, soprattutto alla nascita dei figli.
“Negli ambienti popolari, si constata una difficile coabitazione”, riconosce il prete di Saint-Fons.
“Che non si possa più comperare del salame nelle macellerie del quartiere ha come risultato di indispettire i “Galli”, racconta l’ex prete operaio.
“È vero che i fedeli musulmani non sono dei militanti del dialogo interreligioso”, riconosce Kamel Kabtane, rettore della moschea di Lione.
“L’islam manca ancora di quadri per organizzarlo”, spiega Azzedine Gaci che ritiene che “molti musulmani, convinti di possedere la verità, non vedono l’interesse del dialogo”.
Una convinzione condivisa da certi cattolici: alla conferenza di monsignor Tauran, dei giovani integralisti hanno invitato alla “conversione” di tutti e fustigato il “relativismo” indotto secondo loro dal dialogo interreligioso.
in “Le Monde” del 20 novembre 2009 (traduzione: www.finesettimana.org)
Testimoni del nostro tempo: Giovanni Paolo II
Il mistero di un uomo innamorato della vita di Joaquin Navarro Valls La beatificazione di Giovanni Paolo II , ci dicono, potrebbe essere addirittura nell’autunno del prossimo anno, anche se non è ancora certo.
Non posso dire che mi abbia colpito la notizia del procedere spedito dell’iter previsto.
Cardinali e teologi della Congregazione per le cause dei santi hanno aperto il passo per il decreto sulle virtù eroiche di Karol Wojtyla.
E questa tappa rilevante mi fa tornare alla mente i tanti anni in cui ho avuto la possibilità di vedere da vicino il modo d’essere e di fare di Giovanni Paolo II, e di poter toccare con mano quello che adesso sarà sanzionato come santità.
Certamente, delle sue virtù sapremo qualcosa di esauriente quando usciranno gli atti nella loro interezza, e potremo leggere così il resoconto delle testimonianze.
Ma il ricordo personale, inevitabilmente parziale e soggettivo, si accompagna talmente tanto alle notizie relative ai talenti intellettuali e morali che ho visto presenti nella persona, che mi pare quasi impossibile non parlarne.
La ricostruzione delle virtù di Giovanni Paolo II apre la domanda fondamentale su che cosa sia stata in lui la santità.
È una domanda legittima, perché non esiste santità in generale.
Non esiste una santità cioè senza la singolarità di ogni santo, e senza le virtù normali e visibili attribuibili a qualcuno.
Il carattere individuale si mescola al lento lavoro di raffinamento che si compie in lui per tutta la vita, fino a costituire un capolavoro concreto ed esemplare, a noi non sempre del tutto chiaro e decifrabile La risposta specifica alla domanda relativa alla santità di Giovanni Paolo II direi che non si allontana molto dell’idea che la gente si è formata di lui.
Karol Wojtyla era nel privato esattamente come lo si vedeva in pubblico: un uomo innamorato, un cristiano che guardava oltre se stesso.
Perciò, non è difficile argomentare in suo favore.
La sua peculiarità personale appariva principalmente nel suo rapporto diretto con Dio.
Per questo la sua spiritualità era attraente e magnetica, quasi normalmente apostolica e costantemente convincente.
Sia che soffrisse e sia che ridesse – e delle due cose era ugualmente maestro ed allievo eccellente – egli non aveva un rapporto speculativo con una divinità distante e trascendente.
Nella sua giornata stare con Dio era la più grande passione, la più intensa priorità e, insieme, la cosa più normale del mondo.
Come affermava già San Giovanni della Croce – non a caso autore da lui sempre molto apprezzato – la relazione tra Dio e l’anima è quella di due amanti.
Dio non è un codice in cui esprimere una credenza, ma una Persona a cui credere, in cui sperare e con cui vivere un amore intenso, fedele, reciproco, per tutta la vita.
A Dio si può affidare la propria esistenza.
Ad un codice morale neanche una giornata.
Questa straordinaria concretezza, congeniale al suo modo d’essere molto diretto ed immediato, è la vera essenza della sua religiosità cristiana, della sua santità di vita.
L’architrave del castello era la vita ordinaria, interamente inserita in Dio e intensamente scandita dalla presenza di Dio.
Operativa e orante, sotto il medesimo riguardo.
In Wojtyla non vi era la minima manifestazione di manierismo e di retorica pseudo mistica.
Non c’erano nelle sue devozioni altro che il rigore della carità, la dedizione consapevole e partecipe della persona a quanto conta veramente per lei.
A Giovanni Paolo II non premeva apparire buono.
Forse avrebbe preferito – se si può parlare così, cosa di cui non sono del tutto sicuro – non esserlo piuttosto che fingere.
Benché sapesse di essere osservato dal mondo, il suo impegno costante era aprire tutto il suo cuore alle richieste che venivano direttamente da Dio.
Come ha spiegato Sant’Agostino nel De magistro «colui che viene chiamato e che insegna è Cristo che abita nell’uomo interiore».
In Wojtyla questa sicurezza non è mai venuta meno nelle tante difficoltà – e nelle tante gioie – che si è trovato ad affrontare.
Credo di aver capito realmente quale debba essere il rapporto cristiano con Gesù, quando ho visto il modo in cui egli si rivolgeva al Crocifisso, nella concreta sicurezza di un guardarsi spirituale reciproco.
Dio non era per lui l’autore distaccato di un’anima estranea e indifferente, ma una Persona che ha creato la propria persona – quella di Giovanni Paolo II; una Persona con cui poter parlare personalmente e a cui dire perfino «Alle volte non ti capisco!».
Una Persona, però, da cui non potersi – né volersi – separare, perché legata da un rapporto più intimo con l’anima di quello che ciascuno ha con se stesso.
Una volta, credendo di essere solo nella sua cappella, l’ho visto cantare mentre fissava lo sguardo sul Tabernacolo.
Non intonava, certamente, un tema liturgico, ma stornellava in polacco canzoni popolari.
Mi è venuto in mente di nuovo Sant’Agostino, il quale affermava che «cantare è pregare due volte».
Nonostante tutto, non voglio assolutamente dire che vi fosse dell’ingenuità o, peggio ancora, della ritualità banale nel rapportarsi con tale spontaneità a Dio.
Semmai, vi era concretezza e coinvolgimento anche sentimentale nella sua devozione.
Mi sembrava – almeno questo veniva alla mia mente – che in lui trasparissero, al contempo, la ricchezza intellettuale di un teologo e l’innocenza spontanea di un bambino.
Queste due dimensioni non erano due tappe distinte di un diverso cammino, ma un’unica melodia composta da suoni diversi armoniosamente fusi in un solo atteggiamento e in una sola espressione di amore.
Un lato peculiare del suo atteggiamento spirituale mi ha sempre colpito.
Giovanni Paolo II non era un ascetico moralista, e neanche un esibizionista di eroismi accessori e inutili.
Il suo modo di fare non era l’arduo itinerario apatico di uno stoico.
Le sue mortificazioni erano solo il modo stimolante ed efficace di unirsi alla passione di Gesù, di partecipare insieme a Lui alle gioie e ai dolori che chiunque ama condividere con la persona che seriamente ama nel profondo.
La sua accortezza sembrava insegnare che è meglio soffrire con Dio che rallegrarsi da solo.
Molto spesso per Giovanni Paolo II si trattava soltanto di profittare di qualche occasione offerta dalle vicende quotidiane per offrire a Dio qualche piccolo o grande sacrificio.
Rifiutare in aereo il letto preparato per lui nei lunghi viaggi intercontinentali, e dormire invece sul sedile; diminuire il cibo di un pasto, con apparente noncuranza.
Oppure, talvolta, rinunciare a bere senza dir nulla e senza dare giustificazioni, unendo pudore e rinuncia in una delicata discrezione personale, che evita strane domande impertinenti.
Il fine di tutte queste accortezze sensibili era garantire alla sua anima la perfetta unione con Cristo, la totale disponibilità ad ascoltare il richiamo interiore di Dio, assecondandone la volontà in piena libertà.
Mi è capitato, in qualche rara occasione, di trovarlo perfino disteso per terra a pregare.
Bastava guardarlo per capire che non vi era un annichilimento di se stesso davanti all’infinita maestà del Creatore, ma il forgiarsi di una sottile analogia, con la quale la grandezza della creatura diveniva tutt’uno con Dio mentre la miseria della creatura pure si univa al Creatore.
Se Egli mi si avvicina e si apre a me – sembrava dire la sua vita – è perché io possa rivolgermi a lui allo stesso modo e con la stessa confidenza.
Ecco, in Giovanni Paolo II l’amore per Dio aveva questo volto nitido, estremamente consueto ed estremamente inconsueto al tempo stesso.
Uno sguardo penetrante e profondamente cristiano, regolarmente saturo di santità.
in “la Repubblica” del 19 novembre 2009 «Non è difficile essere santi» gli diceva Jan Tyranowski, il sarto che durante la guerra insieme agli abiti cuciva in mente a quel ragazzo il catechismo.
Da lui Karol Wojtyla imparava anche i mistici, le pagine infuocate di San Giovanni della Croce e di Santa Teresa di Gesù.
Ora che anche per Giovanni Paolo II si avvicina l’aureola di Beato della Chiesa (possibile entro il 2010, dopo il riconoscimento delle virtù eroiche appena deciso dai cardinali) la domanda si pone: perché un altro papa sugli altari e perché con tanta rapidità? In un’ora di crisi dell’ecumenismo, rafforzare la figura del papa di Roma, anzi farlo oggetto di culto è una buona soluzione? La risposta che si raccoglie in Vaticano è che, prima che papa, Wojtyla era un cristiano che amava il mondo e spalancava frontiere all’umanità.
«Se potessi, farei il papa da qui» mormorò una mattina sconvolto dopo essere passato tra i corpi disfatti della Casa dei Moribondi di Madre Teresa, a Calcutta.
Un altro caso di santità al naturale, che trascende e precede gli schemi della santità canonica.
Da viva era già venerata da indù, musulmani, anche da non credenti, semplicemente per il suo amore senza misura.
Poteva valere per lei il tipo di santità che Simone Weil era pronta a riconoscere a quanti anche se atei «posseggono allo stato puro l’amore per il prossimo e l’accettazione della sventura».
Wojtyla non ebbe dubbi ad aprire a Madre Teresa la via degli altari, appena due anni dopo che era morta, invece del minimo di cinque stabiliti dalla regola.
Santi e beati a migliaia, nei 25 anni del suo regno, una facilitazione da stagione dei saldi per le anticamere dei postulanti.
Strategico il ridimensionamento sostanziale dell'”Avvocato del Diavolo” che nel vecchio processo canonico svolgeva il ruolo implacabile della Ragione.
Le critiche per l’inflazione delle corti celesti non gli mancavano, quella di Ratzinger era la meno tenera.
Gli rispose con ironia: “E’ colpa dello Spirito Santo”.
Ma non trattenne lo sdegno quando gli riferirono in Segreteria di Stato che affluivano rapporti di nunzi e di vescovi, con racconti di guarigioni e grazie ricevute per intercessione delle sue preghiere: “E’ tutta opera di Dio!” si schermì troncando il discorso.
In realtà provava fastidio – dice il cardinale Stanislao Dziwisz, suo segretario – per ogni pratica che confondesse la santità con l’eroismo sovrumano, con il miracolismo.
La sua era una santità ordinaria, fisica.
Racconta Gianfranco Svidercoschi, un giornalista che per anni lo seguì da vicino: “Gli piaceva un canto polacco, che amava cantare fin da ragazzo.
Dice: “Se vuoi seguirmi, prendi la tua croce di tutti i giorni e vieni con me a salvare il mondo in questo secolo”.
Lui si è fatto santo su quella canzone”.
La relazione di Wojtyla col Crocifisso è un capitolo biografico appassionante da attraversare.
Non è solo il rapporto con una Icona.
Quando abbraccia il crocifisso del Giubileo sull’altare della Confessione in San Pietro, la mattina dei “mea culpa”, l’icona sembra diventare di carne, sul viso già malato del papa che gli bacia le piaghe dei piedi.
E’ dalla debolezza di quella vittima che attinge la propria forza.
E’ una condivisione che passa attraverso le sue infermità, fino al Parkinson finale che incide sul suo corpo un rovesciamento drammatico.
Con una domanda che incombe sulla sua aureola: l’auto-umiliazione dei mea culpa come si accordava alla strategia spettacolare di rilancio della cristianità di regime che riempiva le piazze e massificava la missione della Chiesa? Ma il processo di santità prescinde quasi sempre dai risvolti strategici di un pontificato e limita l’analisi ai vissuti interiori.
Per cui prendono rilievo per Wojtyla le virtù private, su cui l’aneddotica raccolta dall’istruttoria canonica è traboccante.
Quando fu dimesso dopo l’attentato, disse che era grato a Dio per avergli salvato la vita, ma anche perché gli era stato concesso di “appartenere alla comunità degli ammalati”.
Durante il viaggio in Corea nel 1981 andò a visitare un lebbrosario, fece il giro a piedi del viale, passò davanti a un lebbroso che in quel momento non riuscì a trattenere fra i moncherini la bandierina e andò oltre ma per poco.
Tornò subito indietro ad abbracciare e a baciare il malato.
Ma rifuggiva dal dolorismo, ironizzava sulla retorica del “papa straziato dal destino”.
Da mistico viveva il dolore come un fattore purgatoriale.
Nell’ultima fase, persino poche ore prima di morire quel 2 aprile 2005, volle fare dal letto l’ultima “via crucis”, quando ormai l’immedesimazione tra lui e la croce sembrava compiuta, malgrado gli schiamazzi speculativi dei suoi fans.
In realtà anche l’esperienza della caducità del suo corpo aveva una proiezione pubblica sui modi del suo corpo regale, se riapriva questioni canoniche irrisolte per il governo della Chiesa, con il sistema che si inceppa se un papa precipita in condizioni psicofisiche incompatibili con la funzione.
Lui fece chiamare Francesco, il pulitore dell’appartamento papale, e non poteva altro, senza parole com’era, che porgli la mano sulla testa: “Non me la sono più lavata per una settimana”, dirà.
Di fronte al letto il quadro di un Cristo sofferente, legato con le corde.
Fece un altro gesto degli occhi e arrivò al capezzale suor Tobiana, che sapeva quel linguaggio.
L’ultima persona a cui voleva tentare di dire qualcosa era una donna: “Lasciatemi andare dal Signore” era, più che un congedo, un soffio.
La cultura cattolica e anche laica si lasciava catturare troppo facilmente in quei giorni dalla teologia del potere e della gloria.
Si preferiva eclissare la lezione di Urs von Balthasar secondo il quale lo statuto del papato è fondato sulla figura della crocifissione di Pietro con i piedi in alto: è la croce, diceva il teologo, ma una croce rovesciata, il simbolo di una umiliazione permanente, di una deficienza, anzi “il simbolo definitivo della situazione gerarchica”.
E’ emerso dall’istruttoria, e lo conferma Svidercoschi nel suo ultimo libro “Un Papa che non muore” (San Paolo editrice) che fin da ragazzo Karol pregava spesso disteso sul pavimento, facendo assumere al suo corpo la forma della croce.
Nel 1944 seminarista in clandestinità era in questa postura quando la casa venne invasa da squadre naziste alla caccia di imboscati.
Nemmeno si accorsero di lui appiattito a terra.
Fu la preghiera in quella riproduzione crocifissa a salvarlo.
Per Svidercoschi fu un trauma una sera nella cappella dell’appartamento privato, dove Wojtyla si era ritirato alla notizia del ritrovamento del corpo massacrato di don Popielusko.
In ginocchio, alle spalle del papa, aveva chiuso gli occhi anche lui per concentrarsi.
Li riaprì e ciò che vide di fronte a lui “mi privò letteralmente della preghiera” ricorda.
“Lo vedevo di spalle, curvo sul suo silenzio, sullo sfondo dell’altare.
Sapevo che era in costante dialogo con Dio.
Ma non avevo mai sentito prima di allora quanto fosse reale la sua intimità con lui.
Sprigionava una forza di attrazione cui non si poteva resistere.
Assorbiva anche le nostre modeste preghiere nella sua”.
Fu perché credeva nella forza anche politica della preghiera che riunì ad Assisi nel 1986 il primo summit delle religioni mondiali per la pace.
Gorbaciov lo ha dichiarato: ad abbattere il Muro furono anche le sue preghiere.
“Una mano ha sparato, un’altra ha deviato il colpo” era la sua spiegazione dell’attentato del 13 maggio 1981, festa della Madonna di Fatima.
E niente provava quanto la realtà trascendente fosse per lui chiave della storia e crocevia necessario della politica come la decisione di andare a Fatima un anno dopo lo sparo di Agca a conficcare la pallottola nel diadema della statua della Vergine.
Ma si assicura che prima dell’attentato egli non sapeva quasi nulla del “terzo segreto”, se ne fece portare le carte all’ospedale e solo allora comprese il senso profetico di quell’evento.
in “la Repubblica” del 19 novembre 2009
Polemiche su precari e Irc
Il 18 novembre scorso il Senato ha definitivamente approvato e convertito in legge il decreto legge 25-9-2009, n.
134, principalmente dedicato alle garanzie da offrire ai precari che – per via dei tagli operati sull’organico dei docenti – non hanno visto confermata quest’anno la supplenza annuale ricevuta l’anno precedente.
La disposizione ha mobilitato il mondo politico e sindacale, ma non intendiamo qui entrare nel merito del provvedimento, preferendo piuttosto segnalare come gli Idr siano stati coinvolti indirettamente nel dibattito che ha accompagnato l’iter legislativo.
Uno dei punti più controversi del decreto legge è stato il primo comma dell’articolo 1, in cui si diceva inizialmente che i contratti dei supplenti «non possono in alcun caso trasformarsi in rapporti di lavoro a tempo indeterminato e consentire la maturazione di anzianità utile ai fini retributivi prima della immissione in ruolo».
In sede di conversione in legge, il comma è stato modificato consentendo che i contratti di supplenza possano trasformarsi in contratti a tempo indeterminato «solo nel caso di immissione in ruolo».
A prescindere dall’opportunità della modifica e delle polemiche che la prima formulazione ha innescato, si vuole richiamare l’attenzione sul fatto che nel corso del dibattito alla Camera si è più volte tornati sul caso degli Idr non di ruolo, unico esempio di precari cui oggi è consentito accedere a una progressione economica ai sensi dell’art.
53 della legge 312/80 o ad avanzamenti biennali.
Va peraltro notato che la condizione degli Idr era contenuta nella documentazione tecnica fornita ai parlamentari dall’ufficio legislativo della Camera, e l’on.
Maurizio Turco (componente radicale del PD) ha colto l’occasione per presentare alcuni emendamenti volti a ridurre i benefici per gli Idr.
L’oggetto del contendere è stato soprattutto l’art.
53 della legge 312/80, ora dato per abrogato e ora considerato ancora vigente: poiché da esso discende il trattamento economico degli Idr, la disputa è stata sulle garanzie da estendere a tutti i precari o da riservare ai soli Idr.
Di fatto la modifica infine introdotta non ha affrontato il problema, confermando implicitamente il trattamento economico degli Idr ma lasciando traccia negli atti parlamentari della loro equivoca condizione.
Nel passaggio al Senato si è avuta anche la presentazione di un ordine del giorno da parte dei senatori Donatella Poretti e Marco Perduca (componente radicale del PD), volto a parificare il trattamento giuridico ed economico degli Idr a quello degli altri docenti, svincolandone anche l’assunzione dal riconoscimento di idoneità da parte dell’autorità ecclesiastica.
È evidente l’intento provocatorio della proposta (che infatti non è stata neanche messa ai voti in quanto improponibile), ma pare il caso di sottolineare come la condizione degli Idr sia stata ancora una volta presentata come causa di difficoltà e motivo di discriminazioni, richiamando anche un precedente ricorso presentato sul tema alla Commissione Europea.
Il ricorso, promosso dallo stesso sen.
Turco, lamentava la presunta violazione della Direttiva europea n.
2000/78 del 27-11-2000, che mira a «stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento» (art.
1).
Dato che per accedere all’Irc occorre l’idoneità ecclesiastica, non ci sarebbe parità di trattamento in quanto l’accesso sarebbe condizionato all’appartenenza religiosa.
Ma la stessa Direttiva, all’art.
4, chiarisce che «gli Stati membri possono stabilire che una differenza di trattamento basata su una caratteristica correlata a uno qualunque dei motivi di cui all’articolo 1 non costituisca discriminazione laddove, per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato».
È dunque evidente che per insegnare religione “cattolica” sia necessaria l’approvazione dell’autorità ecclesiastica corrispondente.
Ciò rivela tutta la pretestuosità del ricorso, che la Commissione Europea ha infatti riconosciuto infondato.
Ne troviamo tuttavia traccia in un’interrogazione proposta qualche tempo fa dalla sen.
Luciana Sbarbati (PD), che raccoglieva tutta una serie di presunte irregolarità collegate alla gestione dell’Irc e degli Idr, tra cui la storia del loro trattamento economico privilegiato.
Visto il periodico ripresentarsi di certe tesi, ci sembra di poter immaginare che un “pacchetto Irc” circoli nei corridoi parlamentari in attesa di cogliere l’occasione, opportuna e inopportuna, per ripresentare il suo bagaglio di disinformazione e di vis polemica.
Questa volta è toccato al decreto sui precari, ma probabilmente non è l’ultima puntata.
Il 56,4% degli insegnanti italiani chiede più formazione
Il dato del 56,4% relativo agli insegnanti italiani è contenuto in una relazione sullo sviluppo professionale dei docenti resa nota dalla Commissione europea e dall’Ocse sulla base di un’indagine comparativa, appena conclusa, che ha coinvolto 23 Paesi in Europa e nel resto del mondo.
La percentuale che riguarda l’Italia è sostanzialmente in linea con quella del resto del mondo (54,8%) ma superiore alla media registrata nei paesi europei (49,2%): segno che da noi l’esigenza è più avvertita.
Secondo l’indagine il 15,4% degli insegnanti italiani non ha comunque partecipato ad attività di formazione negli ultimi 18 mesi, mentre l’86,6% ha preso parte ad attività strutturate di aggiornamento, legate ai processi di riforma.
Scarsa invece, rispetto agli altri paesi Ue presi in esame, la partecipazione volontaria a corsi e workshop.
“I risultati dell’indagine” – ha sottolineato Angel Gurria, segretario generale dell’Ocse – “indicano che gli insegnanti desiderano apprendere e cercano di migliorare le loro abilità, ma la formazione professionale impartita sul posto di lavoro deve essere meglio mirata sui bisogni degli insegnanti”.
Una valutazione che si attaglia bene anche al caso italiano.
Dire Dio in contesto multiculturale e plurireligioso.
in questi ultimi anni abbiamo riflettuto su alcuni orientamenti culturali significativi per l’educazione religiosa, analizzando in particolare l’apprendimento, l’ermeneutica, il linguaggio religioso … Quest’anno vorremmo verificarne l’elaborazione attorno ad un tema fondamentale: Dire Dio in contesto multiculturale e plurireligioso.
Vorremmo raccogliere le indicazioni più significative, a partire dalle molteplici competenze dei partecipanti.
Definiamo quindi in termini orientativi le dimensioni che vorremmo esplorare, lasciando a ciascuno la scelta della propria collocazione, con uno specifico contributo, che ci vorrà far pervenire per tempo.
I nuclei di riflessione potrebbero essere i seguenti: 1. Riferimenti da privilegiare nelle fonti bibliche; 2. Dire Dio secondo l’approccio psicologico e psicanalitico; 3. Dire Dio secondo le narrazioni più largamente divulgate; 4. Dire Dio nell’orizzonte ermeneutico; 5. Dire Dio secondo le Grandi Religioni; Lo svolgimento quindi della giornata: 1.
Ciascuno, nel limite del possibile, è invitato ad esporre l’argomento sulla base di un breve contributo (15-20 minuti con 5-6 cartelle al massimo); 2.
L’ordine dell’esposizione segue la successione dei nuclei sopra elencati; 3.
Una breve presentazione iniziale e una essenziale sintesi conclusiva fanno da cornice al dialogo, che vede l’apporto di tutti i partecipanti.
L’incontro è previsto per il 21 novembre p.v.
presso l’Università Salesiana.
Ci auguriamo che l’argomento Ti interessi vivamente e contiamo sulla Tua preziosa presenza e partecipazione.
Ti preghiamo di farci pervenire per tempo il tuo intervento scritto (non oltre il 15 novembre p.v.) in modo da consentirci una organizzazione di massima della giornata.
Un cordialissimo arrivederci.
E un fervido augurio per l’anno scolastico che riprende! Ubaldo Montisci (Direttore dell’Istituto di Catechetica) Introduzione 1.
Dire Dio: Legittimo? Giobbe finalmente si arrende a Dio: “ Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi Ti vedono.” (Giobbe, 42, 59) Non c’è uomo che non lo conosca, almeno per sentito dire; perché se ne parla: non c’è lingua che non lo nomini.
(Spaemann, 2008).
Legittimamente? Per garantirsi, la ragione ha percorso piste rigorose ed ha tentato di vegliarne la fidabilità.
Con esito incerto: una tradizione secolare e autorevole lo ha riconosciuto all’origine della realtà, causa e fondamento del mondo.
Ma la stessa tradizione trova resistenze tenaci, magari proprio sul versante di chi fa del riferimento a Dio l’orizzonte di significato definitivo per la propria esistenza.
Pascal e Kierkegaard rappresentano solo gli esponenti più illustri fra i credenti che hanno avanzato dubbi e perplessità sulla dimostrazione razionale, sulla via rationis.
In epoca moderna scuole filosofiche di impatto straordinariamente vasto e accreditato hanno negato alla ragione umana il diritto di parlare di Dio (Kant); hanno screditato l’intera compagine tradizionale che ne esigeva la presenza (Nietzsche); hanno denunciato il riferimento a Dio come evasivo di un impegno umano responsabile (Feuerbach, Marx, Bloch).
Insomma la compagine della credibilità appare scossa.
E tuttavia il tema di Dio non è di quelli che si possano sottacere; ha tutta la provocazione di un confronto che mette in gioco o addirittura a repentaglio l’esistenza.
Vale la pena ascoltare e decifrare il contributo che la riflessione è oggi in grado di offrire, portando liberamente il confronto sui diversi versanti della ricerca religiosa, soprattutto dove è in grado di esplorare istanze da cui l’esistenza è attanagliata.
2.
Dire Dio: ha senso? Dove la trascendenza è pensata rigorosamente, dire-Dio, chiamarlo per nome, sembra presunzione.
Una presunzione che attraversa comunque l’intera ricerca umana: i primi inni – i reg-veda – che conosciamo s’interrogano su Dio, su chi sia, con quale nome lo si debba invocare…[1] Soprattutto una provocazione che attanaglia il cuore dell’uomo.
Il nostro cuore è senza pace fino a che non riposa in Te, avverte un genio che ha segnato il nostro modo di capirci.
E suscita domande conturbanti su un’opzione che s’impone e appare obbligata:“Se l’uomo è fatto per Dio, perché così contrario a Dio; e se non è fatto per Dio perché così infelice senza Dio?” (Pascal, 367) si domanda uno dei credenti singolarmente lucido.
Domanda pertinente: vorremmo porla a filo conduttore della nostra riflessione.Tanto più che la ricerca religiosa recente ha concentrato sull’esperienza umana la propria attenzione.
Anche il discorso su Dio sembra dover attraversare obbligatoriamente il versante dell’esperienza.
Nel caso nostro dunque portarci sulla ricerca religiosa, con attenzione a quelle scienze che la esplorano.
Donde l’interesse anche di questa giornata, allargato ai diversi settori di ricerca.
3. In chi… crede colui che crede? Quasi un secolo fa un pensatore credente J.
Rivière, s’interrogava sulla resistenza dell’a-teo di fronte a tante verità di cui la fede è depositaria.
Mettendosi nei panni dell’interlocutore, ripeteva a se stesso: – com’è possibile che un uomo intelligente, di buona cultura ammetta… E faceva un elenco discreto di affermazioni cui il credente dà normalmente la sua adesione (Rivière, 1925, 32).
Per cui si era proposto un compito singolare: spiegargli il suo punto di vista, dipanargli la logica e la coerenza del proprio modo di pensare, con la… presunzione di metterlo a parte di un’esperienza singolarmente illuminante Qualche anno fa il cardinal Martini, allora arcivescovo di Milano, aveva avviato una interessante iniziativa: la cattedra dei non credenti.
In un dibattito assai vivace aveva chiamato in causa il non credente e l’aveva sollecitato a spiegare la propria posizione.
Uno di loro, che si riconosce in questa schiera, riprende oggi le fila (Savater, 85).
“In che cosa crede chi non crede?” era la domanda.
“Crediamo, risponde F.
Savater, nella constatazione dei fenomeni naturali stabiliti dalla scienza, in quel che è verificato da studi storici e sociali, nell’opportunità di alcuni valori morali, eccetera.” ( Savater, 2007, 85).
Considerazioni piuttosto evasiva.
E che? Forse che il credente non dà la sua adesione, piena e serena, a tutte queste cose e a tutte le altre che… l’illustre studioso va elencando.
Ma il credente sa che la fede è un’altra cosa.
Più incalzante è invece la domanda che a sua volta Savater propone: – In cosa credono coloro che credono… – Perché ci credono una volta che riescono a chiarire in cosa credono.
… – Non si tratta di pretendere da chi crede in ‘Dio’ che chiarisca il contenuto della sua fede e le ragioni che lo portano ad adottarla…” ( Savater, 2007, 86).
Invece noi pensiamo che proprio di questo si tratti: che chi crede in Dio sia in dovere di mettere a punto la risposta e dire con chiarezza in che cosa e in Chi crede e le ragioni per cui ci crede! Appunto perché vive in un contesto in cui ‘credere in Dio’ non è affatto ovvio.
Nel trecento l’amico di Dante, Guido Cavalcanti, è passato alla storia perché, secondo il suo biografo, ‘passò la vita a cercar se trovar si potesse che Dio non fusse…’ Savater sembra essersi proposto lo stesso compito; ma data la situazione culturale odierna non passerà alla storia per questo.
Fa parte di quella schiera piuttosto numerosa che Sartre ha già lucidamente identificata una cinquantina di anni fa.
Il nostro problema, scriveva Sartre, non è l’esistenza di Dio, ma che “l’uomo ritrovi se stesso e si persuada che nulla può salvarlo da se stesso, fosse pure una prova valida dell’esistenza di Dio.” (Sartre, 1968, 93).
Riferimenti bibliografici.
ACHARUPARAMBIL D., La spiritualità dell’ induismo, Roma, Studium, 1986.
MAINO G., “Vivere come se Dio ci fosse”, Padova, Messaggero, 2009 RIVIERE J, A’ la trace de Dieu, Paris, Gallimard, 1952.
SAVATER S., La vita eterna, Roma-Bari, Laterza, 2007.
SARTRE J.P., L’esistenzialismo è un umanesimo, Milano, Mursia, 1968 Trenti [1] “ Qual germe d’oro (…) sorse nel principio ; appena nato fu l’unico signore di ciò che esiste.Egli sostenne la terra e il cielo: a qual dio dobbiamo fare omaggio con l’oblazione? (Acharuparambil, 1986, 55).
“La cultura di Internet e la comunicazione della Chiesa”
“Ogni contatto della Chiesa con Internet, come con qualsiasi altro strumento di comunicazione di ultima generazione, deve essere teologicamente informato.
Non siamo lì a vendere un messaggio qualunque ma ad annunciare, spiegare, approfondire la Parola di Cristo, che può ancora toccare i cuori di tutti e che ci invita continuamente a un cammino comune di fede e di servizio”.
Lo ha detto monsignor Paul Tighe, segretario del Pontificio consiglio delle comunicazioni sociali, intervenuto questa mattina alla riunione della Commissione episcopale europea per i media (Ceem) che si sta svolgendo in Vaticano.
Monsignor Tighe ha sottolineato l’importanza per qualsiasi persona anche di Chiesa di capire a fondo le capacità, ma anche i potenziali rischi delle nuove tecnologie prima di affidare ad esse il proprio messaggio.
“La sfida per noi uomini di Chiesa – ha spiegato il segretario del Pontificio consiglio delle comunicazioni sociali – è di pensare come possiamo essere presenti in questo mondo in maniera utile e intelligente.
Non è solo un problema tecnologico.
Occorre trovare una strategia, il linguaggio giusto per esprimere i contenuti del nostro ministero, della nostra missione, un linguaggio che non sia solo testuale ma anche visuale, che attragga il visitatore anche con le immagini”.
Tighe ha detto che la sfida più grande da vincere, oggi, è quella al relativismo, atteggiamento di pensiero che rischia di trovare sul web ampio sviluppo: “Per vincere la sfida è fondamentale dare informazioni vere, corrette, inconfutabili, fornire risposte concrete alle domande più urgenti.
Anche nel mondo dell’interattività – ha ribadito – il relativismo si batte con la certezza, con la verità”.
L’assemblea plenaria della Ceem, che ha come tema “La cultura di Internet e la comunicazione della Chiesa”, aveva questa mattina in programma una tavola rotonda dal titolo “Chi fa la comunicazione oggi? Tra social network, social agent, social news e social encyclopaedia”.
Sono intervenuti Christian Hernandez Gallardo, di Facebook, Christophe Muller, direttore delle società di YouTube in sud ed est Europa, Medio Oriente e Africa, Delphine Ménard, di Wikimedia France, ed Evan Prodromou, di Status.net-identica.ca.
Hanno spiegato la filosofia, la metodologia, il funzionamento degli strumenti che fanno capo alle loro imprese, strumenti che si rivolgono universalmente a tutti.
E tutti, indistintamente, sono gli utenti.
In particolare Hernandez Gallardo ha sottolineato come, negli ultimi tempi, molte parrocchie e alcune diocesi abbiano cominciato ad essere presenti su Facebook e come alcuni utenti inseriscano tra le immagini dei loro “amici” anche le foto di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI.
(giovanni zavatta) (©L’Osservatore Romano – 14 novembre 2009) Rafforzare la presenza cristiana su Internet: l’impegno dei vescovi europei riuniti in Vaticano sui nuovi media La Chiesa non può ignorare Internet: è quanto sta emergendo con forza alla Plenaria della Ceem, la Commissione episcopale europea per i media, in corso in Vaticano sul tema “La cultura di Internet e la comunicazione della Chiesa”.
In un messaggio indirizzato ai partecipanti all’incontro, Benedetto XVI invita i vescovi europei ad esaminare “questa nuova cultura e le sue implicazioni per la missione della Chiesa”.
Nel testo, a firma del cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone, il Papa sottolinea che la “proclamazione di Cristo richiede una profonda conoscenza della nuova cultura tecnologica”.
Stamani, la Plenaria si è incentrata sui social network.
E’ stata, inoltre, presentata l’attività del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali nel campo di Internet.
Ma torniamo ai discorsi principali della sessione d’apertura di ieri con il servizio di Alessandro Gisotti: “La Chiesa ha bisogno di Internet, perché ha una Buona Novella da comunicare”: ne è convinto il cardinale arcivescovo di Zagabria, Josip Bozanic, che nel suo intervento ha sottolineato che in Internet si sta costruendo “il modello antropologico di domani”.
Del resto, il porporato croato ha osservato che il peso crescente che la Rete sta assumendo nella vita delle persone e dei fedeli impone di annunciare il Vangelo anche nel mondo di Internet.
Ed ha sottolineato che Internet “non è solo un recipiente che raccoglie diverse culture.
Internet è cultura” e produce cultura.
Di fronte a questa realtà, ha detto il vicepresidente del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa, bisogna rammentare che la Chiesa ha sempre saputo “cogliere la bontà degli strumenti di comunicazione sociale per l’edificazione del genere umano”.
E, dunque, l’interesse per i media e per Internet nasce dalla natura stessa della Chiesa quale “comunità dialogante”.
Sulla necessità per la Chiesa di entrare nell’agorà di Internet, si è soffermato mons.
Jean-Michel di Falco Léandri, vescovo di Gap e di Embrun, presidente della Commissione episcopale europea per i media.
“Così come la croce ha il suo asse verticale e il suo asse orizzontale – ha detto il presule francese – così deve essere la nostra evangelizzazione nella Rete: orizzontale per la sua estensione, verticale per la sua profondità e la sua qualità”.
Mons.
di Falco Léandri non ha mancato di evidenziare ritardi e difficoltà che la Chiesa incontra nel relazionarsi con il fenomeno Internet.
Un sito web cristiano, ha detto il presule, “deve occuparsi del mondo e non tagliarsi fuori dal mondo.
Deve evitare il politichese, evitare di essere esso stesso un ideologo che cerca di imporre la propria verità”.
Piuttosto, ha soggiunto, “deve accontentarsi di proporre la verità di Cristo in maniera ferma” e “umile”.
Pensando in particolare ai giovani, mons.
di Falco ha quindi ribadito che non essere presenti in Internet “equivale a tagliare fuori una buona parte della vita delle persone”, auspicando quindi che la Chiesa promuova sempre più una presenza cristiana sul web.
All’evento, è intervenuto anche mons.
Claudio Maria Celli, presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, che al microfono di Philippa Hitchen si sofferma sul tema della Plenaria: “Il Santo Padre ci ha dato un grande incarico, quello della diaconia della cultura.
C’è questo servizio che la Chiesa deve prestare in questa realtà così complessa e ricca che è la cultura digitale.
I vescovi europei si stanno interrogando su questo.
Il grande rischio, alle volte, è che ci si concentri troppo sui media, quindi su questi nuovi mezzi che diventano sempre più sofisticati e che offrono sempre più ampie possibilità di comunicazione, su questo non c’è dubbio.
Tuttavia, credo che la Chiesa debba sempre interrogarsi alla radice della sua azione su cosa sia veramente comunicazione”.
Intanto, oggi pomeriggio, nella Sala Marconi della nostra emittente, il presidente della Ceem, mons.
Jean-Michel Di Falco ha tenuto una conferenza stampa sul tema della Plenaria.
La Chiesa, ha detto mons.
Jean-Michel Di Falco, non può ignorare Internet, una rivoluzione simile all’invenzione della stampa.
Il presule francese ha sottolineato che la riunione in corso in Vaticano serve proprio per mettere a fuoco punti deboli e punti di forza della comunicazione ecclesiale nel web.
Nella parola religione, ha poi osservato, c’è la radice della parola legare, ovvero connettere, che è proprio quanto realizzano i nuovi media.
Ecco perché, ha detto mons.
Di Falco, sono stati invitati alla Plenaria operatori dei social network, di Wikipedia, Google e Youtube.
C’è bisogno di una formazione all’uso responsabile della Rete, ha quindi avvertito, serve un’educazione ed un accompagnamento che la Chiesa può sviluppare in modo positivo.
Anche se ci sono ritardi nell’utilizzo di Internet da parte della Chiesa, ha infine riconosciuto, le cose stanno cambiando in meglio come testimoniano le numerose iniziative prese al riguardo dal Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali.
Radio Vaticana La Chiesa cattolica “esce dai suoi ghetti” con internet di Stéphanie Le Bars in “Le Monde” del 13 novembre 2009 (traduzione: www.finesettimana.org) Papa Benedetto XVI aveva lasciato di sasso molti cattolici attribuendo la peggior stecca del suo pontificato ad un uso insufficiente di internet.
“Mi è stato detto che seguire con attenzione le informazioni a cui si può accedere su internet avrebbe permesso di avere rapidamente conoscenza del problema”, aveva scritto nel marzo 2009 ai vescovi, facendo riferimento alla revoca della scomunica di monsignor Williamson, prelato integralista e notoriamente negazionista.
Concepiti prima di quell’errore di comunicazione, i lavori che si aprono giovedì 12 novembre a Roma, in seno alla Commissione episcopale europea per i media (CEEM), potrebbero contribuire a colmare certe lacune.
Per quattro giorni, un centinaio di persone (vescovi, incaricati stampa delle diocesi) si immergeranno nella cultura della Rete, incontrando dei responsabili della rete sociale Facebook, del motore di ricerca Google, del microblogging (scambi di messaggi brevi) Identi.ca o dell’enciclopedia sociale Wikipedia.
Un hacker svizzero ed uno specialista di Interpol verranno a completare la presentazione delle possibilità esistenti sulla Tela.
“Dobbiamo avere la preoccupazione di continuare a essere là dove è la gente”, insiste monsignor Jean-Michel Di Falco Leandri, vescovo di Gap, presidente della CEEM.
È previsto che giovedì l’ex portavoce dei vescovi francesi faccia una riflessione molto chiara sull’incapacità della Chiesa a cogliere le risorse di internet, in particolare come “strumento di evangelizzazione”.
In filigrana, la sua analisi esprime una critica per una comunicazione troppo caratterizzata dall’organizzazione verticale della Chiesa cattolica.
“Internet ci fa scendere dalla nostra cattedra magistrale, ci fa uscire dai nostri ghetti, dalle nostre sacrestie”, secondo il vescovo francese.
Confrontati con la “web-generation”, i membri della CEEM dovrebbero interrogarsi “sulle conseguenze ecclesiologiche, sugli effetti sul governo stesso della Chiesa, sul posto della religione sul mercato di internet, sui modi di proclamarvi il Vangelo”.
Monsignor Di Falco Leandri sottolinea il vantaggio acquisito dai siti protestanti “evangelisti” in termini di audience.
“I siti cattolici sono centrati su se stessi.
Parlano la lingua degli iniziati ad uso esclusivo degli iniziati.
I siti ‘evangelisti’, al contrario, vogliono raggiungere gli internauti, utilizzando internet come vettore di evangelizzazione.” Certo, ogni diocesi possiede un sito più o meno nutrito, i blog di preti si moltiplicano, le preghiere e i ritiri “on line” si diffondono.
Il Vaticano, il cui sito internet è poco conviviale, ha lanciato in gennaio il proprio canale su Youtube.
Ma questa presenza non è fine a se stessa, insiste monsignor Di Falco Leandri: i siti “cristiani devono essere suscitatori di coscienza”.