Il futuro della scuola nel segno di Steve Jobs

la sostituzione dei libri stampati con quelli digital

 

Qualche settimana fa si è saputo che la Corea del Sud ha programmato la sostituzione dei libri stampati con quelli digitali in tutta la scuola primaria entro il 2015,e in tutto il mondo cresce il numero delle sperimentazioni che vanno nella stessa direzione.

Si useranno probabilmente i tablet, una delle invenzioni che si devono al genio anticipatore di Steve Jobs. Come già accade quest’anno – come riferisce Claudio Del Frate sul “Corriere della sera” – all’istituto tecnico “Ikaros” di Bergamo, che ha acquistato un i-Pad per ogni studente. Ma tutti i processi formativi a tutti i livelli saranno trasformati dalle innovazioni tecnologiche degli ultimi trent’anni, in buona parte targate Apple, l’azienda fondata da Jobs. Innovazioni che hanno quasi sempre costretto le aziende concorrenti a rincorrere la Mela sul suo terreno, inducendo Jobs ad esplorare nuove vie.

La scuola, tendenzialmente conservatrice non foss’altro che per la formazione a-tecnologica di gran parte dei suoi attuali insegnanti, è stata investita dalla rivoluzione comunicativa provocata da queste novità succedutesi in un breve lasso di tempo (il primo i-phone è del 2007, l’i-Pad è apparso nel gennaio 2010!). Le modalità di comunicazione e di apprendimento dei giovani, a partire dai giovanissimi, già in età prescolare, sono influenzate dalla diffusione di massa dei nuovi strumenti tecnologici, e non è pensabile che la scuola possa ignorare il fenomeno e le sue conseguenze dirette e indirette: l’apprendimento cooperativo, l’uso integrato di parole immagini e suoni, la facilità di accesso a più fonti informative, la possibilità di individualizzare i tempi e i modi dell’apprendimento e  così via.

Se McLuhan è stato il profeta della società dell’informazione, Jobs ne è stato il tecnologo. E come l’educazione moderna è stata influenzata in modo determinante dall’invenzione gutenberghiana dei caratteri di stampa, quella del XXI secolo lo sarà dalle straordinarie invenzioni di Steve Jobs.


tuttoscuola.com

 

Siate affamati, siate folli

 

La morte di Steve Jobs, il creatore degli strumenti multimediali che hanno cambiato il modo di vivere e di comunicare, ha richiamato l’attenzione del mondo su questo genio per quanto ha fatto e anche per quanto ha detto.

Molti lo ricorderanno per le sue geniali invenzioni che hanno cambiato il nostro modo di comunicare e, in particolare, quelli degli ultimi anni, l’i-Pod, l’i-Phone e l’i-Pad. Si dice che abbia lasciato in eredità altre invenzioni che l’Apple metterà sul mercato nei prossimi quattro anni.

A noi piace ricordarlo anche per quello che ha detto. Sembra non fosse di molte parole, ma quelle pronunciate nel 2005 all’università di Stanford (Siate affamati, siate folli) hanno lasciato il segno ( http://www.tuttoscuola.com/ts_news_505-1.doc ).

Non sappiamo se questo Leonardo dei nostri tempi (o l’Ulisse dantesco, se preferite) un giorno verrà insignito di premio Nobel alla memoria (certamente molto meritato), ma crediamo che il miglior modo per onorarlo e per ringraziarlo sia quello di far conoscere anche tra i giovani quel suo discorso, e di farne oggetto di riflessione e discussione.

Riteniamo che negli istituti superiori e forse anche tra i ragazzi delle scuole medie quel suo “siate affamati siate folli” meriti di essere riportato e trascritto. Sappiamo già di insegnanti che hanno intenzione di farlo in questi giorni.

Quel discorso è di una forza etica incredibile che non ha bisogno di commenti.

Forse nei 60 mila laboratori multimediali presenti nelle nostre scuole – perché non intitolarne qualcuno a Jobs? – sotto forma di manifesto potrebbe esserci un posto dedicato a quelle parole: un grande incoraggiamento ad essere affamati di sogni, di speranze e di nuove conoscenze e una determinazione nel perseguirli a tutti i costi anche oltre le regole e le convenienze.

E potrebbe essere attivato anche l’accesso a youtube per ascoltare e vedere l’intero suo discorso pronunciato a Stanford University di Palo Alto il 12 giugno 2005.



tuttoscuola.com

 

 


Io sto con il Papa

1. Cosa è diventato il discorso pubblico nel nostro tempo? A quali altezze ci conducono oggi le parole di chi viene ascoltato, perché considerato degno di esserlo?

 

Con Martin Luther King abbiamo scalato montagne che apparivano impervie, con Franklin Delano Roosevelt siamo stati capaci di sconfiggere la bestia della paura e della disperazione collettiva, con Giovanni XXIII abbiamo capito che non è la guerra, ma la pace, la dimensione in cui far esprimere conflitti e differenze. Ma ora? Ora tutto sembra al filo della terra, parole spaventate , senza forza, senza ispirazione, senza anima. Parole corte, per una società corta. Odio, populismo di quart’ordine, rimozione sistematica e deliberata di quel “senso delle cose” senza il quale ogni avventura umana, compresa la stessa esistenza individuale, sembra uno straccio abbandonato. Così il mondo della comunicazione ovunque, della rete che ci avvolge fino a stritolarci, del successo a portata di  mano, dell’Io ipertrofico e tronfio ci riempie di molto per portarci al nulla. La frammentazione sociale, la perdita della linearità del ciclo di vita conquistata nel Novecento dell’occidente – studio  , lavoro, pensione – ci rende fragili e insicuri. E così ci rinchiudiamo in identità spesso autorappresentative, come una coperta da stendere sul capo, per ripararsi dalla globalizzazione del mondo.  Insegne religiose usate come spade e carte d’identità brandite come scudi. Nuove ideologie, senza i recinti delle quali, l’uomo sembra sentirsi nudo e solo. Ma nel brodo di coltura delle ideologie  sono nati Auschwitz e i Gulag, Pol Pot e i Desaparecidos.
Il nuovo millennio, il discorso pubblico, troveranno una via d’uscita alla alternativa secca tra il tutto delle ideologie e il nulla della vita ridotta a merce, a campione senza valore? La politica ha,  per me, questo compito precipuo. Insieme con la soluzione concreta dei problemi concreti degli esseri umani. Ha il compito di fornire un senso “laico” alla domanda di ragione dell’esistenza che  mai, nella storia, è stata risolta dalla contemplazione di sé in uno specchio. Nel bel dialogo tra Aldo Bonomi e Eugenio Borgna, pubblicato da Einaudi in questi giorni, ci si interroga sulle ragioni sociali e psicologiche del dilagare della depressione come malattia contemporanea.
E se ne indicano le cause, in primo luogo lo sfarinamento del sistema delle relazioni sociali e umane. E se ne indicano però anche le soluzioni, in primo luogo la ricostruzione di quella coscienza della comunità di destino, senza la quale ogni inciampo è un precipizio. Alla comunità delle anime ferite bisogna indicare un poliforme orizzonte di senso. Bisogna passare dalla “egologia”,  Zeitgeist del tempo, alla ecologia di un corretto rapporto tra sé e gli altri, tra sé e la natura, tra sé e il tempo, in fondo tra sé e il senso della vita.
Nella presentazione del suo libro a Roma, Eugenio Scalfari ha ricordato la definizione di Kant dell’uomo come “legno storto” e ha giustamente ragionato sulla pericolosità e difficoltà del proposito  di raddrizzarlo e dei fallimenti storici di chi se lo è proposto. Accettare i miliardi di “legni storti” spinge a creare un ambiente dove essi possano riconoscersi e rispettarsi e, per questa via, creare  un contesto “laicamente” diritto. Avremo bisogno urgente di ritrovare il senso di comunità, perché alla depressione individuale sta per saldarsi anche quella dell’economia. E, se vorremo uscirne, dovremo sfidare la paura e ritrovare la speranza.
Per questo io che non credo o che, come ho detto sinceramente “credo di non credere”, ho ascoltato con enorme interesse l’affascinante discorso al Parlamento tedesco di Benedetto XVI nel quale ha lanciato un invito che non può non essere raccolto. E’ necessaria, ha detto Papa Ratzinger, una “discussione pubblica”, in particolare in Europa, sul rapporto tra politica, diritto e ragione:  “Invitare urgentemente ad essa – ha aggiunto – è un’intenzione essenziale di questo discorso”.
Non si può non raccogliere l’invito, innanzi tutto perché di una discussione pubblica sul senso della politica, sui suoi compiti e i suoi limiti, si avverte un bisogno drammatico, in un passaggio  storico come quello che stiamo vivendo, segnato da una crisi profondissima, che come è evidente a tutti non è solo economica e finanziaria, ma anche politica e culturale. Ma c’è una seconda ragione  che va evidenziata: l’invito del Papa è, per l’appunto, a una “discussione pubblica”, alla quale ciascuno partecipa, secondo un metodo critico e non dogmatico, con la sola forza dei suoi argomenti. E  gli argomenti di Ratzinger sono forti, proprio perché aperti. Gli stessi punti solidamente fermi, nella mente e nel cuore del Papa-teologo, colpiscono in modo tanto più penetrante, in quanto  emergono, quasi si fanno largo, tra interrogativi radicali, che non solo non vengono elusi, ma vengono problematizzati in modo non esplicito. Già questa è una indicazione, non solo metodologica: c’è una sola via, sembra dire Papa Benedetto, per affrontare la crisi con spirito costruttivo. Ed è la via del dialogo aperto, del confronto trasparente, a partire dalla comune passione per l’umanità e il  suo destino.

2. La riflessione proposta da Ratzinger è ormai largamente nota, soprattutto ai lettori di questo giornale. Essa ha al centro l’affermazione che la buona politica, la politica che vuole essere impegno per la giustizia e costruzione delle condizioni di fondo per la pace, è una politica subordinata al diritto, una politica che conosce il suo limite e riconosce la supremazia del diritto, secondo una  visione liberale, pluralista, poliarchica. “Togli il diritto – dice il Papa citando sant’Agostino – e allora cosa distingue lo Stato da una grossa banda di briganti?”. Una politica ridotta a volontà di  potenza, a mera risultante dei rapporti di forza, o anche solo ad arte e tecnica della conquista e della conservazione del potere, è la minaccia più grande per l’umanità: nella migliore delle ipotesi,  avremo cattiva politica, malgoverno, corruzione. Ma il Novecento, per altri versi il secolo delle lotte per la libertà e degli spettacolari progressi della scienza e della tecnica, ci ha anche  insegnato, in modo definitivo, che una politica che perde il senso del limite è capace di spalancare davanti all’umanità l’abisso del male assoluto, di generare il mostro totalitario, la scientifica e  sistematica, intenzionale e organizzata distruzione della dignità e della stessa vita umana. Nessuno lo sa meglio di noi tedeschi, ricorda Ratzinger.
E tuttavia, dire che la politica deve fondarsi sul diritto e non viceversa, significa dire che il principio di maggioranza, che in gran parte della materia da regolare giuridicamente “può essere un  criterio sufficiente”, “nelle questioni fondamentali del diritto, nelle quali è in gioco la dignità dell’uomo e dell’umanità” non può bastare. E allora? Come riconoscere ciò che è giusto? Di fronte al  male assoluto dei regimi totalitari, c’è il diritto-dovere alla resistenza. “Ma nelle decisioni di un politico democratico, la domanda su che cosa ora corrisponda alla legge della verità, che cosa sia  veramente giusto e possa diventare legge non è altrettanto evidente”.
Ratzinger vuole essere ancora più chiaro: “Ciò che in riferimento alle fondamentali questioni antropologiche sia la cosa giusta e possa diventare diritto vigente, oggi non è affatto evidente di per sé”. Anni di discussioni, spesso laceranti, sulle questioni cosiddette “eticamente sensibili”, sono lì a dimostrarlo. Come sono lì a dimostrarlo le non meno dure contrapposizioni, in tutte le sedi multilaterali, a cominciare dalle Nazioni Unite, tra il principio di sovranità degli stati e i diritti inviolabili della persona.
La risposta all’interrogativo radicale “come si riconosce ciò che è giusto?” non può venire, secondo Ratzinger, né dal “diritto rivelato”, dalla pretesa di imporre una legge sulla base di un  riferimento alla religione, uno dei pericoli più grandi che minacciano l’umanità contemporanea, né dal “positivismo giuridico”, che relega nella sfera della irrazionalità qualunque dimensione  della razionalità umana non riconducibile a ciò che è verificabile o falsificabile: un riduzionismo scientista, che è stato contestato, dice Ratzinger in uno dei passaggi più sorprendenti del  discorso, dal movimento ambientalista. Quel movimento, ha detto con coraggio, ci ha aiutato a capire che “nei nostri rapporti con la natura c’è qualcosa che non va; che la materia non è soltanto un  materiale per il nostro fare, ma che la terra stessa porta in sé la propria dignità e noi dobbiamo seguire le sue indicazioni”.
La via proposta dal Papa è piuttosto quella di una riscoperta dell’idea di “diritto naturale”, per la quale sono la natura e la ragione le vere fonti del diritto: una linea di pensiero che da Atene e  Roma, attraverso l’incontro col pensiero giudaico e cristiano e poi il filtro dell’Illuminismo, giunge fino alla Dichiarazione universale dei diritti umani e alle grandi costituzioni democratiche  del Dopoguerra.
Non si tratta, come è chiaro, di una formula magica, che garantisce l’evidenza delle soluzioni e l’infallibilità delle decisioni politiche e legislative, ma piuttosto di un orizzonte nel quale collocare il dialogo tra visioni diverse, sul piano politico, filosofico, religioso, per consentire loro di collaborare per la giustizia nella pace.
Una collaborazione, beninteso, che non elimina il conflitto, la dialettica, la competizione, ma le colloca su un terreno di comunicazione, di condivisione di un patrimonio di principi e di valori che possono tenere insieme la società: un’esigenza tanto più forte in società aperte, libere, secolarizzate, non gerarchiche, come quelle moderne.

3. La riflessione e la proposta di Papa Ratzinger, entrambe aperte e problematiche, pur attorno a un nucleo di convinzioni forti e radicate, a me paiono di straordinario interesse e suggestione sul  piano intellettuale e di potenziale fecondità sul piano politico. Tanto più in un paese come il nostro, profondamente segnato dal dialogo, ma anche dalla contrapposizione, tra laici e cattolici, tra credenti e non credenti. Una discussione pubblica, orientata alla riscoperta e alla attualizzazione di un nucleo di principi e valori fondamentali come quelli che sostengono la nostra Carta costituzionale, non a caso anch’essa figlia di uno dei più alti momenti di dialogo che la nostra storia nazionale abbia conosciuto, aiuterebbe a rafforzare l’unità dialettica del paese, tanto più  necessaria in una fase delicata e per molti versi drammatica, come quella che stiamo vivendo.
La traccia proposta da Papa Benedetto a Berlino può risultare preziosa per dar vita, nel nostro paese, a una nuova stagione di dialogo tra credenti e non credenti e a scongiurare invece dannose e fuorvianti contrapposizioni. Preziosa è innanzi tutto la “pars destruens” del ragionamento ratzingeriano, quel doppio no, da una parte all’integralismo fondamentalista, alla pretesa di dedurre da  una fede religiosa criteri normativi validi per tutta la società; e dall’altro alla concezione speculare e in definitiva subalterna allo stesso integralismo religioso, secondo la quale la libertà vive solo nella negazione di qualunque principio e valore che non sia l’arbitrio individuale. Si tratta, come è evidente, di due posizioni estreme, tanto presenti nell’autorappresentazione pubblica,  quanto poco rappresentative sia dell’universo dei credenti, cattolici e non solo, irriducibili allo stereotipo del fanatismo integralista e invece da tempo allenati e appassionati al dialogo, al  confronto, alla contaminazione; sia di quello dei non credenti, che a ragione rivendicano la loro capacità di pensare e vivere sulla base di principi e valori che pur non avendo, dal loro punto di vista, un fondamento trascendente, pur non ponendosi in una prospettiva metastorica, non per questo sono meno metapolitici, capaci cioè di dare fondamento non effimero ad una vita etica e ad una  olitica fondata sul diritto.
Penso che sia vitale, per il futuro del nostro paese, incoraggiare e favorire una comune capacità, da parte di credenti e non credenti, di coltivazione dei valori comuni, sulla base di una comune  fiducia nella ragione. La prima condizione perché ciò accada è che i credenti imparino sempre meglio a pensare il diritto, fondamento della politica, confidando nella ragione, che del resto, nella  loro fede, è essa stessa dono di Dio, logos umano che partecipa del logos divino. La sistematica applicazione di questa regola eviterebbe il cortocircuito integralista, che rende il dialogo impossibile. La seconda, speculare condizione, è che i non credenti, a loro volta, imparino a rispettare fino in fondo i convincimenti religiosi e sempre meglio a pensare il diritto, fondamento della politica,  come una condizione di possibilità della libertà degli individui. Attraverso questa regola, la libertà come principio di autodeterminazione si apre alla responsabilità ed evita di ridursi ad egoismo individualistico.

4. Una considerazione finale che ovviamente si allontana dalle riflessioni grandi del Papa per planare su questo passaggio, l’ennesima transizione, della storia italiana. Promuovere una nuova stagione di dialogo tra credenti e non credenti è indispensabile anche per scongiurare il rischio che, dopo la fine ormai conclamata del berlusconismo, il bipolarismo italiano si ristrutturi lungo  una linea di frattura etico-religiosa, anziché politico-programmatica.
Non ci si può dividere su ciò su cui ci si dovrebbe unire. Nel celebre dialogo con Habermas, quasi otto anni fa, l’allora cardinale Ratzinger definiva l’incontro dialogico tra credenti e non credenti come “ciò che tiene unito il mondo”, che corre invece il rischio mortale di dividersi lungo una faglia che finirebbe per opporre una religiosità ridotta a fanatismo fondamentalista, a un razionalismo non meno dogmatico e intollerante. Per questo penso che il nuovo protagonismo dei credenti cattolici, delle loro associazioni, movimenti, opere, al servizio di un rilancio e di una ricostruzione di un paese che da decenni non era così fiaccato e umiliato, sarà tanto più fecondo, quanto più saprà irrorare tutto lo schieramento politico. Entrambi i poli di un nuovo bipolarismo,  finalmente liberato dall’ipoteca populista e plebiscitaria del berlusconismo, finalmente articolato su schieramenti costruiti attorno a programmi per il governo e non sulla demonizzazione  dell’avversario, capaci entrambi di reciproca legittimazione e di positiva collaborazione, nella distinzione dei ruoli tra maggioranza e opposizione, dovranno vedere presenti e protagonisti laici e  attolici, credenti e non credenti.
Naturalmente, rendere questo possibile è compito innanzi tutto delle forze politiche. E sul versante del centrosinistra è compito innanzi tutto del Partito democratico, che mai come oggi può comprendere quanto la sua originaria vocazione a unire le diverse culture riformiste, guardando ben oltre i tradizionali confini della sinistra storica e dando vita ad una identità nuova, unitaria  e plurale, l’identità democratica, sia condizione vitale per il suo stesso ruolo nel paese.

 

in “il Foglio” del 1 ottobre 2011

“Il cambiamento demografico”

 

Presentato a Roma il secondo rapporto-proposta curato dal Comitato per il progetto culturale della CEI.

 

Alla presentazione sono intervenuti S.Em. il card. Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova e presidente della Conferenza Episcopale Italiana (in allegato il testo del suo intervento); S.Em. il card. Camillo Ruini, presidente del Comitato per il progetto culturale della CEI; il prof. Giancarlo Blangiardo, ordinario di demografia presso l’Università di Milano-Bicocca; il prof. Antonio Golini, ordinario di demografia presso l’Università “La Sapienza” di Roma; il dott. Giuseppe Laterza, presidente della Casa editrice Laterza; il prof. Francesco D’Agostino, ordinario di filosofia del diritto presso l’Università Tor Vergata di Roma.

 

 

Il volume, come ha spiegato il card. Ruini, si articola in tre parti.
La prima intende fornire una lettura oggettiva del cambiamento, attraverso l’analisi dei fenomeni demografici e delle trasformazioni strutturali della popolazione e delle famiglie.
La seconda parte si spinge alla riflessione sulle cause e sulle relative conseguenze di ordine economico e socio-culturale.
Nella terza parte, infine, vengono avanzate alcune proposte per affrontare la questione del governo del cambiamento demografico.






file attached L’intervento del card. Bagnasco

 

 

Altri Articoli


“Con il «Rapporto-proposta» ‘Il cambiamento demografico’ la Cei avanza analisi e proposte avvalendosi del contributo di esperti. Chiede di cambiare passo. Non è accettabile «aumentare la ricchezza di alcuni, comunque di pochi, quando si prosciugherà il destino di un popolo». Questa volta la Chiesa non si ferma alla difesa dei valori «non negoziabili». Con l’emergenza denatalità pone all’agenda del paese il tema del suo futuro”
“Fu Camillo Ruini a prendere contatto con Giuseppe Laterza. Con l’intento di dare veste laica alle ricerche sociali promosse dai vescovi. Il volume sul declino demografico dell’Italia è il secondo… Veste laica ma senza il contraddittorio che è, invece, costume della Casa editrice. E qualcuno, nella bacheca, ha appeso un brano di don Milani: «Io al mio popolo gli ho tolto la pace… ma non si può negare che tutto questo ha elevato il livello degli argomenti e di passione del mio popolo»”


La politica riscopra i valori cristiani

Non è mai stato facile essere un cattolico impegnato in politica se si prendono sul serio i tre termini: «cattolico», «impegnato» e «politica». Ma nella ormai lunga stagione della cosiddetta Seconda Repubblica tutto è sembrato complicarsi ancor di più: non perché è venuto meno il partito dei cattolici, ma perché da quasi due decenni sono stati dimenticati o contraddetti alcuni dati fondamentali che avevano guidato i laici cattolici nel loro servizio alla polis, almeno a partire dalla feconda stagione costituzionale repubblicana. Penso all’autonomia delle scelte politiche, da assumersi rispondendo alla propria coscienza, formatasi alla scuola della dottrina sociale cattolica e alle indicazioni provenienti dai documenti conciliari; o alla perdita di eloquenza dei cristiani adulti, ignorati quando non zittiti o irrisi da chi non perdeva occasione per esprimersi in loro vece; o ancora alla messa in discussione del concetto stesso di attività politica: la mediazione, la negoziazione, la convergenza verso il bene comune che sovente deve accontentarsi di denunciare il male e porvi un limite, scegliendo il bene possibile sempre in obbedienza ai principi della democrazia e della pluralità della società che può esprimersi solo con il criterio della maggioranza.
Ora che le chiare parole della presidenza della Conferenza episcopale italiana – ancora una volta accolte da alcuni come tardive, considerate da altri come interferenze indebite, strumentalizzate  a proprio beneficio da altri ancora – hanno aperto scenari più movimentati, il pensiero di molti commentatori è parso appiattirsi su una sola domanda: si va o no verso un nuovo partito cattolico? Credo che a insistere solo su questo interrogativo si faccia un torto sia ai vescovi, che hanno volutamente mantenuto il discorso in termini prepolitici, sia ad alcuni, pochi invero, laici cattolici che in tutti questi anni non hanno smesso di ricercare una sintesi concreta e affidabile tra la loro fede cristiana e le scelte politiche ed economiche da proporre al Paese intero per una migliore convivenza civile. Questo non nega un’afonia di molti cattolici, incapaci di esprimersi e di mostrarsi come ispirati dal vangelo, non nega la grave incoerenza tra vita politica ed etica cristiana  mostrata da altri cattolici, e soprattutto non nega che molti di essi avrebbero potuto già da tempo uscire dal silenzio con eloquente parresia. Che tristezza sentir confessare solo in questi giorni: «Tre parole in più forse noi cattolici avremmo potuto dirle!».
Il problema è ben più ampio di una scelta di schieramento o di alleanze strategiche: si tratta di una rinnovata assunzione di responsabilità verso la collettività, che tenga conto delle mutate condizioni sociali, economiche, demografiche e storiche in Italia e in occidente, ben lontane dall’essersi stabilizzate. Di fronte alle nuove sfide che la politica in senso alto – cioè la gestione della  polis nel presente con lo sguardo proteso alle future generazioni e la mente memore delle lezioni del passato – pone non solo al nostro Paese ma al villaggio globale di cui ormai siamo parte  consapevole, pare necessario più che mai uno spazio organico di confronto tra cristiani – magari anche non solo cattolici… – in cui cercare di discernere come coniugare le istanze evangeliche con il vissuto quotidiano di una società che ormai è ben lungi dall’essere cristiana nella sua totalità. Un luogo in cui quanti hanno a cuore il bene comune e ritengono di avere delle capacità per servirlo, possano formarsi in vista dell’indispensabile dialogo con chi non condivide le stesse convinzione di fede e dell’altrettanto ineludibile azione comune nella società e per il suo benessere morale e materiale.
Quando il cardinal Bagnasco auspica «un soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica che – coniugando strettamente l’etica sociale con l’etica della vita – sia promettente grembo di futuro, senza nostalgie né ingenue illusioni», dovrebbe essere abbastanza chiaro dalle sue stesse parole che non sta propugnando un partito tanto meno progettando un governo ma, appunto, un interlocutore con la politica: una voce cristiana che, come tale, possa anche manifestarsi articolata e modulata, farsi voce dei senza voce, porre parole e gesti profetici, anche a costo di risultare  sgradita a molti. Da anni segnalo l’esigenza sempre più diffusa tra molti laici cattolici di un «forum», di uno strumento organico dei credenti in cui fare insieme opera di discernimento di  problemi, situazioni critiche e urgenze presenti nella polis, per verificarle alla luce del vangelo e per smascherare al contempo gli «idoli» che sovente seducono anche i cristiani.
Una riflessione che resti tuttavia nell’ambito pre-politico, pre-economico, pre-giuridico: tradurre poi gli aneliti evangelici – realtà ben più esigente dei «valori», a volte così mutevoli nelle loro priorità – in concrete opzioni attraverso leggi e norme spetterà a quanti si impegnano all’interno delle diverse forze politiche, in modo conforme alla propria coscienza, alla storia personale e alla lettura delle vicende che hanno contribuito a rendere il nostro Paese quello che oggi è.
Forse in questo dovremmo essere anche più attenti alle esperienze di altri paesi, europei in particolare, dove la presenza e l’influenza dei cristiani in politica è meno preoccupata di etichette o di certificati di garanzia e più sollecita nell’esprimere i propri convincimenti con un linguaggio e un’azione capaci di essere compresi e condivisi anche al di fuori delle mura confessionali. Non si tratta di ricreare le scuole-quadri, ma di fornire opportunità di riflessione e di formazione di un’opinione il più possibile aderente al messaggio evangelico e al suo farsi carico di ogni essere umano, a partire dal più debole, povero e indifeso.
Sì, per tornare ai tre termini da cui abbiamo preso spunto, il rapporto tra un cattolico e la politica – basato sull’imprescindibile riconoscimento della laicità dello stato – comporta l’impegno, l’assunzione di responsabilità, la scelta consapevole di non ricercare successi o vantaggi personali, di non perseguire privilegi di sorta, nemmeno per conto terzi, ma piuttosto di percorrere giorno dopo giorno, magari mutando il passo e scegliendo nuovi sentieri, il faticoso eppur appassionante «camminare insieme» con tutti gli uomini e le donne di buona volontà, per il bene anche di chi volontà buona ne ha poca o nulla.

 

in “La Stampa” del 2 ottobre 2011

Egoisti e distratti nella grande casa del mondo

In un momento in cui tutto sembra spingerci a concentrare la nostra attenzione sui problemi interni del nostro Paese, vorrei puntare il riflettore sull’orizzonte della mondialità. Questa scelta non è dovuta solo al fatto che la crisi che attraversiamo ha radici globali, connessa com’è ai rapporti d’interdipendenza economica e politica che condizionano la vita del pianeta, ma anche e  soprattutto alla constatazione che il “rinnovamento etico” di cui ha parlato Benedetto XVI riferendosi all’Italia e di cui abbiamo immenso bisogno non potrà realizzarsi senza la consapevole  assunzione delle nostre responsabilità nei confronti della grande casa del mondo e di quanti in essa vivono spesso in condizioni di sub-umanità, per lo più dimenticati da tutti. Vorrei richiamare  tre profili essenziali della rilevanza etica e politica della mondialità: i stili di vita e il loro impatto sull’ambiente; il rilievo dell’Italia nel sistema politico ed economico mondiale; i nostri doveri  di solidarietà verso i più deboli del pianeta.
La riflessione sugli stili di vita merita un’attenzione prioritaria quando si parla di mondialità: la consapevolezza che una maggiore sobrietà nei consumi, un uso più attento delle risorse fondamentali e un’educazione alla responsabilità ecologica siano decisive per il futuro comune, è certamente cresciuta in questi anni. La rete delle comunicazioni e l’impatto psicologico di  disastri ambientali su vasta scala – dal petrolio nell’oceano alle contaminazioni radioattive di Chernobyl e Fukushima – ci hanno reso più vigili nella scelta delle mete su cui puntare in campo  energetico, delle prassi da seguire nell’organizzazione della nostra vita quotidiana e nella percezione della gravità dei ritardi e degli inceppamenti nella filiera dello smaltimento e del riutilizzo  dei rifiuti, che quotidianamente la nostra vita associata produce.
Meno evidente è il dovere di curarsi di tutte queste problematiche non solo egoisticamente per star noi meglio, ma anche per migliorare la casa comune di tutti, a livello locale come a livello planetario. Un’educazione all’ecologia ambientale e umana appare sempre più urgente, come risulta non meno importante una spiritualità ecologica, che attinga al dovere originario di custodire  il giardino affidato dal Creatore alla creatura la maturazione di pratiche virtuose personali e collettive nei riguardi dei consumi, della nutrizione, del rispetto della natura, della promozione della vita e della qualità della vita per ogni essere umano, in tutte le fasi del suo sviluppo.
Non meno alta occorre poi mantenere l’attenzione sul rilievo internazionale del nostro Paese. Va detto con onestà che se l’Italia piange in questo campo, l’Europa non ride: l’Unione europea ha risposto per lo più in ordine sparso, spesso in ritardo e senza slanci, alle emergenze che si sono profilate sulla vasta scena del mondo, incapace – come ha affermato il cardinale Bagnasco nella prolusione al Consiglio permanente dei Vescovi italiani il 26 settembre scorso – «di esprimere una visione comunitaria inclusiva dei doveri propri della reciprocità e della solidarietà». A loro  volta, le risposte del nostro Paese alle situazioni di crisi sono sembrate spesso improvvisate, nell’assenza di una vera sinergia con gli altri Paesi dell’Unione, com’è accaduto davanti all’emergenza dell’immigrazione via mare, o con tentennamenti che hanno portato a esiti discutibili, come si è visto nella drammatica vicenda bellica in Libia, dove uno spietato dittatore, prima osannato – perfino con effetti “teatrali” -dalla nostra classe politica, è stato poi indicato con vertiginosa evoluzione come nemico ingombrante e pericoloso. Occorre inoltre ammettere – come dimostrano alcune copertine di media internazionali o titoli di testate leader nei vari mondi linguistici – che «stili di vita difficilmente compatibili con la dignità delle persone e il decoro delle istituzioni e  della vita pubblica», praticati da alcuni nostri rappresentanti sulla scena internazionale, hanno avuto effetti fortemente negativi: come ha ancora affermato il cardinale Bagnasco, essi non solo «ammorbano l’aria e appesantiscono il cammino comune», ma fanno sì che «l’immagine del Paese all’esterno venga pericolosamente fiaccata”. Quanto avremmo bisogno di autorevolezza morale e politica e di credibilità internazionale! Quanto è urgente individuare persone affidabili che si gettino nella mischia per spirito di servizio e passione civile e non per proprio interesse e  vantaggio!
Ai doveri di solidarietà verso i più deboli del pianeta, infine, dovrebbero richiamarci le gravi emergenze in atto, fra le quali basti segnalare la fame nel Corno d’Africa. Nella sua antica esperienza, la Chiesa dedica in particolare il mese di ottobre a risvegliare l’attenzione e l’impegno per l’azione missionaria, che -proprio in quanto si pone al servizio della buona novella  dell’amore di Dio per tutto l’uomo e per ogni uomo – è spesso anzitutto impegno di promozione umana e di soccorso a chi versa in drammatiche situazioni di bisogno e di non umanità. Nei media, per  lo più, i riflettori vengono puntati sulla gravità delle urgenze solo in alcune fasi e per ragioni contingenti di cronaca o di interesse politico. Perfmo nelle maggiori testate giornalistiche è  difficile riscontrare un’attenzione costante a questi problemi, che funga da stimolo critico e da strumento di coscientizzazione ai doveri della solidarietà. A volte si ha la sensazione di.muoversi in orizzonti privi di colpi d’ala, segnati dall’indifferenza di fronte ai mali di chi ci è geograficamente lontano, e che spesso patisce le conseguenze negative di un ordine economico internazionale di cui al contrario noi beneficiamo. È utopia pensare a un’etica della comunicazione che responsabilizzi ai doveri della solidarietà internazionale, e ci faccia sentire cittadini del “villaggio globale”, tale non solo nella rete delle informazioni e degli interessi, ma anche nell’attenzione ai bisogni dei più deboli e agli interventi in loro favore? È ambizione vana sognare un Paese dove la  mondialità sia avvertita diffusamente come interrogativo sui nostri stili di vita e stimolo a una condivisione che raggiunga i più lontani bisogni della famiglia umana nell’unica grande casa del  mondo? Chi può farlo s’impegni a restituire al Paese una simile attenzione e contribuisca a mettere al servizio di tutti nel villaggio globale le potenzialità della nostra storia, della cultura e  dell’arte italiana, del patrimonio spirituale da cui veniamo, che ci caratterizza ben più profondamente degli squallidi comportamenti che hanno occupato le prime pagine lei giornali in queste settimane.

Bruno Forte
Arcivescovo di Chieti-Vasto

in “Il sole 24 Ore” del 2 ottobre 2011

La creazione non è un istante ma una trama incompiuta

Pubblichiamo il testo dell’intervento con cui Haim Baharier, studioso ebreo di esegesi biblica, apre oggi il suo dialogo con Alberto Melloni sul tema «Bereshìt / In principio» nell’ambito della giornata conclusiva del festival Torino Spiritualità.

 

Rabbi Zadoq Hakohen, maestro hassidico, sosteneva: «La verità va perseguita e l’intelligenza deve essere al servizio della verità. Quando però l’intelligenza contraddice la verità, l’intelligenza non  va né piegata né soffocata. Occorre dire non so, e studiare». Spaccati tra creazionisti e anticreazionisti, gli studiosi di fine Ottocento non raccolsero la lezione di Zadoq come battuta riconciliante. La diatriba perdura ancora oggi. Ogni serio studioso sa bene che il problema non è considerare il testo biblico verità o meno. È invece scorgere un percorso tra le boe senza mai considerarle punti fermi, acquisiti una volta per tutte. Si può annegare nelle certezze o aprirsi alla pluralità. Nel testo  della Creazione ciò che sorprende è che né Dio né l’uomo si pongono come entità sfumate; anzi, si presentano come due evidenze che si confermano a vicenda. Quasi volessero deviare il nostro interesse verso ciò che la tradizione ebraica considera l’enigma più grande nell’ambito della creazione: il mondo. Un mondo che nasce prima di tutto come tempo, non come luogo. Secondo la Torah,  cieli e terra vengono poi, una materialità successiva a quel «in principio» (Genesi , 1,1) che è innanzitutto accensione del tempo. A contropelo rispetto al primo impulso del pensiero che lega a maglie strette spazio e tempo, la Torah viene a dirci che tra il tempo prima e lo spazio dopo, si annida (o si estende, non lo sappiamo poiché lo spazio è ancora di là da venire!) la volontà creatrice.
Chi crea libera per fare posto, si stringe, si ritira. Perché è lo spazio concesso che permette all’altro di vivere in dignità. Si dona l’essere all’altro da sé. Tra tempo e luogo germina non una legge metafisica, ma un imperativo morale. Potremmo spiegare che la Genesi biblica, Bereshìt in ebraico, custodisce questo principio nella sua lettera iniziale Bet, che ha valore di due: da assumere  prima come un due temporale, poi spaziale, in quanto numero minimo per dare un confine, per avere un vicino… Concetto non facile da digerire e che è anche suggerito da una mishnà secondo la quale il mondo è stato creato con dieci dire. Perché dieci dire, quando – ci immaginiamo – sarebbe bastato un solo colpo d’ interruttore? Si parla del Creatore e Lui non dovrebbe avere di questi  problemi.
Intuiamo dalle parole parsimoniose della Bibbia quanto poco Egli sprechi. La mishnà avverte che questi dire molteplici non esprimono una vicinanza tra la parola e l’effetto di questa parola,  bensì una distanza tra la parola e ciò che succede a seguito di questa parola, una presa di distanza rispetto a quello che si materializza dal dire. In questa distanza che separa il dire dal fare, lì siamo  noi.
Perché? È una forma di protezione della creazione: questa distanza da una parte allontana gli incoscienti, coloro che vogliono distruggere la creazione, costringendoli a percorrere distanze infinite, mentre dall’altra serve ai giusti come percorso: percorso conoscitivo. Distanza che contempla due aspetti: positivo per il giusto che può avvicinarsi alla parola e ai suoi effetti, può interiorizzarli ed elaborarli; cautelativo nei confronti dell’incosciente che, tenuto alla larga, non riesce a combinare tutto il male che vorrebbe. Il nostro habitat è una distanza «di sicurezza». Dunque creare non è mai una gettata a presa rapida; esiste un pensiero che smaglia e allarga le trame in virtù del quale anche ciò che in apparenza è già fatto, già creato, ci appare incompiuto…
Penso a quel mutamento di identità che la Torah attribuisce ad Adamo quando diventa nefesh haià, persona vivente. Dopo che nelle sue narici viene insufflato il vento. Solo allora l’uomo diventa  una persona. Si può essere un uomo e anche un vivente, e non essere una persona, dice la Torah.
Bisogna essere attraversati dal vento. Qui sta secondo me la chiave dell’accoglienza: quando scopro che l’altro non è soltanto un essere vivente ma è una persona, quando conosco l’alito che lo muove,  sogni che lo fanno vivere, solo in quel momento accolgo.

 

in “Corriere della Sera” del 2 ottobre 2011

L’Ansas mette in linea risorse didattiche per i docenti

E’ in linea un nuovo sito web, denominato “Risorse per docenti dai progetti nazionali”, costituito da una raccolta di percorsi e materiali disciplinari progettati per supportare concretamente i docenti nella pratica di una didattica innovativa. Lo rende noto l’Ansas, Agenzia nazionale per lo sviluppo dell’autonomia scolastica, presentando questo innovativo strumento per l’aggiornamento in servizio degli insegnanti.

Lo spazio on line ripropone, al di fuori dagli ambienti ad accesso riservato per i quali era stata creata, l’offerta formativa complessiva dei Piani nazionali di formazione per le aree scientifico-matematica e linguistica (Poseidon, Italiano, Lingue, Educazione Scientifica, m@t.abel).

Il nuovo sito, poi, recupera e mette a disposizione anche le proposte didattiche sviluppate per il “Piano nazionale Qualità e Merito – Pqm”, il quadro di interventi a sostegno della qualità dell’insegnamento che, prendendo le mosse dalle carenze dei risultati di recenti indagini internazionali, punta a diffondere un sistema di misurazione e valutazione degli apprendimenti di base (Italiano e Matematica).

Il sito offre anche un’ulteriore risorsa per lo sviluppo professionale dei docenti, con il collegamento diretto alle presentazioni e ai materiali sviluppati dall’Invalsi nell’ambito del “Piano di informazione e formazione sull’indagine OCSE-PISA e altre ricerche nazionali e internazionali”.

La piattaforma appena messa online si rivolge “principalmente ai professori di italiano, lingue straniere (anche classiche), matematica, fisica, chimica e scienze, che vengono sfidati a intraprendere un itinerario di evoluzione formativa e di riflessione sulle discipline e sul loro insegnamento“.

Ogni percorso presente sul sito è corredato da un’ampia varietà di strumenti, materiali di studio, suggerimenti, unità teoriche di approfondimento, video-lezioni, simulazioni, test e prove per la verifica degli apprendimenti.




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tuttoscuola.com

Lo spirito di Assisi

 

due libri delle Edizioni Qiqajon:
– Il dialogo cambia la fede? di Jean-Marie Ploux, e Insieme per pregare. Le religioni nello «spirito di Assisi»
cura di Matteo Nicolini Zani

 

 

Sono trascorsi venticinque anni da quando papa Giovanni Paolo II, sorprendendo molti, anche tra i suoi più stretti collaboratori, promosse «un incontro di preghiera per la pace» da tenersi ad Assisi, luogo divenuto grazie a san Francesco «centro di fraternità universale». L’annuncio delle «consultazioni con i responsabili non solo di varie chiese e comunioni cristiane, ma anche di altre religioni del mondo» venne dato a Roma a conclusione dell’ottavario per l’unità dei cristiani. Ora, a distanza di un quarto di secolo, Benedetto XVI rilancia lo «spirito di Assisi» invitando anche  «tutti gli uomini di buona volontà» per una giornata di pellegrinaggio, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo.
Ma cosa si intende davveroper «spirito di Assisi»? Le Edizioni Qiqajon hanno pubblicato due volumi che permettono di sviscerarne il significato profondo: il primo – Il dialogo cambia la fede? di Jean-Marie Ploux, (pp. 290, € 25) – analizza le implicazioni del dialogo interreligioso nella vita e nella testimonianza della chiesa, mentre il più recente Insieme per pregare. Le religioni nello «spirito di Assisi» (a cura di Matteo Nicolini Zani, pp. 168, €16) ripercorre i testi che in questo ampio lasso di tempo, attraversato da eventi storici di grande portata, hanno alimentato la riflessione dei cristiani sui loro rapporti con le altre religioni e sul loro atteggiamento verso la pace e la giustizia. Vi troviamo innanzitutto uno spaccato delle motivazioni all’origine dell’iniziativa e una raccolta degli appelli e dei discorsi che ne precisarono il senso e il contesto.
Una seconda parte analizza le sfide che la preghiera «interreligiosa» pone, attraverso i documenti ecumenici che hanno affrontato teologicamente i vari aspetti del problema. Una rilettura del magistero di Benedetto XVI su questa tematica così decisiva per la testimonianza dei credenti nel mondo di oggi e lo status quaestionis attuale ad opera di uno dei più acuti interpreti cattolici del dialogo interreligioso, il vescovo Michael Fitzgerald chiudono la raccolta.

Dalle pagine emerge il consenso sulla possibilità di trovarsi «insieme perpregare» – cosa diversa dal più coinvolgente e impraticabile «pregare insieme» – e l’arricchimento che nasce da un sincero dialogo tra credenti. La fede non viene scossa dall’aprirsi agli altri, ma riceve anzi risorse per narrarsi in un linguaggio più comprensibile e per tradursi in un operare fecondo. Il dialogo, infatti, «non cambia la fede»: non porta cioè a un tradimento delle proprie radici, ma può mutare l’espressione e la consapevolezza del credere, a beneficio non solo di chi il dialogo lo pratica, ma anche di quanti ne raccolgono i frutti, dentro e fuori l’ambito delle singole religioni.
Perché, come ha avuto modo di scrivere il card. Etchegaray, tra i protagonisti del primo incontro: «Assisi ha fatto fare alla chiesa uno straordinario balzo in avanti verso le religioni non cristiane…

Ha permesso a uomini e donne di testimoniare, nella preghiera, un’esperienza autentica di Dio al cuore delle loro religioni». Ravvivare lo «spirito di Assisi» in un mondo disorientato e alla ricerca di senso è allora un servizio che i cristiani, insieme tra loro e con i credenti di altre religioni, possono offrire ai loro fratelli e alle loro sorelle in umanità.

 

in “La Stampa” del 1° ottobre 2011

In un decalogo i vantaggi della scuola multiculturale

Un decalogo che spiega i vantaggi della scuola multiculturale. A presentarlo è Vinicio Ongini, autore di saggi e libri per bambini, maestro per vent’anni e attualmente all’ufficio integrazione alunni stranieri del ministero dell’Istruzione. Si tratta di una specie di documento suddiviso in dieci parole, ognuna delle quali spiega perché la scuola multiculturale è più virtuosa.

1. La prima parola è ‘Qualità’: “La presenza di alunni stranieri nelle scuole – si spiega – migliora il livello di istruzione”. Per rafforzare questa tesi viene portato l’esempio di Torino: “Secondo l’indagine di Tuttoscuola sul sistema di istruzione nazionale, maggio 2011, un’indagine composta da 96 indicatori, Torino (dove la presenza di stranieri è molto alta) è la prima tra le grandi città per la qualità della scuola. E la sua posizione è migliorata, così come quella del Piemonte in generale, rispetto agli esiti dell’indagine sulla qualità della scuola di quattro anni fa“.

2. Al secondo punto ci sono ‘Le chiavi di casa’, slogan secondo il quale “le famiglie degli immigrati e i loro figli portano nelle nostre classi idee diverse di infanzia“. A tal proposito si citano le parole di alcune maestre delle scuole della Val Maira e della Valle Po, nel cuneese, riferite agli studenti stranieri: “Alcuni di questi ragazzini hanno più rispetto per la scuola. Sono i primi a lavare i banchi quando facciamo laboratorio e, se lo chiediamo, fanno pulizia senza tante storie… A volte li vediamo occuparsi dei fratelli più piccoli, o buttar via la spazzatura, in generale sono più autonomi. Alcuni hanno le chiavi di casa, come noi ai nostri tempi…”.

3. Terzo parola è ‘Matematica’, secondo cui “gli studenti asiatici delle nostre scuole eccellono in matematica e nelle materie scientifiche“.

4. Quarta parola ‘Impegno’, in cui sono riportate le parole di una professoressa di lettere delle medie, in provincia di Cremona: “Gli alunni stranieri ci tengono di più alla scuola, si impegnano di più, per loro è ancora importante la scuola… C’è il problema della lingua, soprattutto per chi è appena arrivato, ma alcuni ce la mettono propria tutta e recuperano“.

5. Quinto punto ‘Le lingue’, secondo cui gli studenti stranieri sono più predisposte a imparare le lingue. Dicono due maestre della scuola di Dronero, in Val Maira, nel cuneese: “I bambini della Costa D’Avorio, nelle nostre classi, parlano anche il francese, la loro lingua nazionale, e notano subito le somiglianze con l’occitano, la nostra lingua di minoranza. Sono più predisposti, sono abituati a muovesi tra più lingue. Quando entra la dirigente scolastica dicono: ‘Bonjour madame!’“.

6. Al sesto punto troviamo ‘Lo scambio’. “Scambiando si impara“, è lo slogan delle scuole toscane che fanno periodicamente, da dieci anni, visite e scambi di studenti, presidi, professori, con lo Zhejiang, la regione della Cina da cui viene la gran parte dei cinesi in Italia. Uno dei protagonisti di questa relazione diplomatico-didattica è un insegnante di italiano e storia dell’Istituto professionale di Prato, una scuola con molti allievi cinesi. Lui ha imparato la lingua cinese da autodidatta e ha degli amici cinesi, in fondo è anche lui un immigrato in Toscana, i genitori sono di Avellino. Racconta : “La nostra prospettiva è quella di dare e ricevere… per imparare a conoscersi ci vogliono sofferenze e scontri ma la scuola nel suo piccolo è un luogo privilegiato“.

7. ‘Internazionale’ è la parola del settimo punto e spiega che “nelle classifiche internazionali delle Università, per esempio quella del Times Higher Education, la percentuale degli studenti stranieri sul totale degli iscritti è uno degli indicatori della qualità e del prestigio dell’Istituto“.

8. ‘Il merito’ è l’ottavo punto e spiega che gli alunni stranieri, rispetto agli italiani, “ricorrono meno alle raccomandazioni, un vizio nazionale figlio di un familismo ancora persistente, ostacolo, questo sì, per la conquista di una piena cittadinanza“.

9. Il nono punto è ‘L’evidenziatore’: “gli studenti stranieri nelle nostre scuole sono un evidenziatore dei nostri modelli, delle nostre pratiche e dei nostri stili educativi. Essere visti e quindi valutati da stranieri è anche fonte di malintesi e di incomprensioni ma può essere un vantaggio. Possiamo capire di più che cosa noi stiamo facendo e ridare significato al nostro fare scuola. Possiamo guadagnare dallo sguardo degli altri“.

10. Decimo e ultimo punto è ‘L’occasione’, perché “i sindaci di due piccoli comuni hanno riaperto la scuola che stava per chiudere perché sono arrivati nuovi alunni indiani nelle campagne lombarde, lungo le sponde del fiume Oglio, e piccoli rifugiati del Kurdistan e dell’Afghanistan sull’Appennino calabrese“. Ecco perché “conviene guardare con più curiosità ed empatia quello che succede dentro questa nostra scuola. Nel suo piccolo è il laboratorio dell’Italia di domani“.


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tuttoscuola.com

L’ecumenismo secondo Benedetto XVI

Molte erano le aspettative dalla visita del papa in Germania sul capitolo dell’ecumenismo. In un luogo simbolico, il convento degli agostiniani di Erfurt, dove il giovane Martin Lutero fu monaco e
prete della Chiesa cattolica, e davanti alle autorità della potente chiesa evangelica tedesca, Benedetto XVI ha ridefinito a suo modo la posta in gioco del dialogo ecumenico.
Si possono leggere le grandi linee della sua posizione, che diverge in parte da quella del suopredecessore, nell’attacco inatteso contro altri cristiani.
Evocando «una forma nuova di cristianesimo, che si diffonde con immenso dinamismo missionario» – nel quale si possono riconoscere le correnti evangeliche pentecostali -, il papa opera una requisitoria feroce.
Questa corrente è tacciata di «cristianesimo di debole densità istituzionale, con poca consistenza razionale e ancor meno consistenza dogmatica e anche con poca stabilità». Ci metterebbe, afferma il papa, «nuovamente di fronte alla questione di sapere ciò che resta sempre valido, e ciò che può e deve essere cambiato».


Criteri


Dietro l’esigenza istituzionale esposta da Benedetto XVI appare l’imperativo di situarsi in una storia e, soprattutto, in una tradizione, cosa che di solito manca a comunità che spuntano come funghi attorno al carisma di un solo uomo e che rivendicano la loro indipendenza.
Non si può qui dimenticare il testo Dominus Jesus del 2001, nel quale il cardinal Ratzinger considerava la successione apostolica (la trasmissione ininterrotta da vescovi a vescovi) come una condizione necessaria per essere una vera chiesa.
Anche se i luterani rispondono solo in parte a questo esigente criterio, il papa, a Erfurt, ha preferito non tornare su quel testo, accolto molto male all’epoca in ambiente protestante.
La seconda critica – la debolezza della consistenza razionale – fa eco ad una affermazione abituale di Benedetto XVI che non cessa di martellare sul fatto che la fede cristiana deve essere edificata sulla ragione, la quale conduce naturalmente a Cristo e a Dio. La forte presenza dell’emozione nel rito, con pratiche nelle quali il corpo sembra prevalere sullo spirito, è in questa prospettiva molto sospetta al vescovo di Roma.
In terzo luogo i pentecostali mancherebbero di struttura dogmatica. È incontestabile, ma è anche la ragione del loro successo. Il rilievo si applica ugualmente a tutti coloro che vorrebbero  liberarsi da regole giudicate secondarie o troppo repressive nelle attuali società occidentali.
Vissute timidamente nel cattolicesimo o esibite apertamente presso i riformati più liberali, le velleità moderniste dei gruppi più attenti ai valori cristiani che non alle esigenze ecclesiali, sono qui prese di mira. Al di fuori di uno stretto inquadramento non c’è salvezza, dice il papa.


Instabilità


L’ultimo rilievo indirizzato alle correnti cristiane pentecostali riguarda la loro instabilità. Nella tradizione protestante, qualunque divergenza può essere pretesto per un’uscita e per la  reazione di una nuova chiesa.
Nel contesto cattolico, l’insistenza del papa su questo punto è un segnale di fronte ai progetti dichiarati di indipendenza, in Austria e altrove, e di fronte ai promotori di evoluzioni interne.
Ma il richiamo alla stabilità mette anche in discussione i percorsi di avvicinamento e di piccoli passi che hanno lungamente ritmato il cammino ecumenico. Così, Benedetto XVI qualifica il “dono ecumenico dell’ospite”, dietro il quale si può vedere l’ospitalità eucaristica (accoglienza alla comunione di fedeli luterano-riformati) come «cattiva comprensione politica della fede e dell’ecumenismo».
Di fronte «all’assenza di Dio nelle nostre società (che) si fa più pesante», il «compito ecumenico centrale» consisterebbe ormai nel ripensare la fede, non edulcorandola, ma vivendola «integralmente nel nostro oggi».
Ciò che seguirà a questo discorso fondatore ci dirà se i nuovi binari ecumenici, nei quali gli ortodossi si immetteranno senza difficoltà, incontreranno il favore di tutta la galassia dei fedeli.


in “www.temoignagechretien.fr” del 28 settembre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)