Numeri e fede/4: Se Dio si cela nella teoria dei giochi

«Come fece Pascal anche il matematico valuta i pro e i contro e arriva a credere per ‘convenienza’».
Parla Marco Andreatta.
«Con Ennio De Giorgi penso che il mistero sia più una condizione necessaria che un ostacolo alla verità della religione.
Chi crede accetta con facilità l’etica scientifica».
«È di pochi giorni la noti­zia che un giovane, laureato in fisica nella mia facoltà, è stato ordinato dia­cono dal vescovo di Trento.
Sono molti i colleghi e amici che, scien­ziati (anzi soprattutto matematici) di professione, hanno,come me, una fede.
Anche se – ovviamente – non per tutti è una fede cristiana».
Marco Andreatta, è professore or­dinario di geometria, e preside della Facoltà di Scienze all’ateneo tridentino.
Per lui, matematica e fede sono due aspetti del pensiero umano che operano in ambiti so­stanzialmente separati ma che al­le volte si intersecano con conse­guenze molto interessanti.
Intervista al Professor Marco Andreatta, Che cosa hanno in comune? «Il matematico è forse il ragiona­tore razionale per antonomasia; da Galileo in poi, di ogni nuova teoria si dice che è scientifica se si basa sulla matematica e sui suoi procedimenti logico-deduttivi.
Ma questo non impedisce a un matematico né, ad esempio, di in­namorarsi (attività non sempre ‘razionale’) né di provare senti­menti di solidarietà, passioni poli­tiche, nè di credere in una religio­ne e nei suoi dogmi di fede.
E, d’altro canto, come una donna può innamorarsi di un matemati­co, per il suo ‘sapere’, il suo mo­do di fare e di pensare, così la fede può entrare nell’ animo del mate­matico ».
Alcuni matematici, nel corso del­la storia, per spiegare il loro esse­re uomini di fede, hanno addotto argomentazioni provenienti dalla loro esperienza di scienziati.
«Personalmente non mi ha mai entusiasmato la prova ontologica di Anselmo (che un matematico come Cartesio sintetizza affer­mando che ‘l’esistenza di Dio è compresa nella sua essenza’ e che il logico-matematico Kurt Gödel ha formalizzato nel secolo scorso).
Mi ha sempre colpito inve­ce l’argomento di Pascal, riconducibile a quella che oggi si definisce ‘teoria dei giochi’: dopo un’accurata analisi dei pro e dei con­tro, il filosofo-matematico francese (inventore del calcolo delle probabilità) sostiene che la scelta di credere in Dio e in una vita eterna sia più ’conveniente’.
Non ho mai dato troppo peso all’aspet­to utilitaristico, ma ho sempre pensato che sotto questo ragiona­mento razionale ci fosse la spe­ranza che la fatica terrena avrà, per i più sfortunati e per gli ultimi, un senso superiore».
Per alcuni, accettare il mistero è la via migliore per arrivare a un approdo.
«Tra i tanti punti di vista, il mio preferito è sicuramente quello del matematico italiano Ennio De Giorgi, così espresso in un impor­tante intervento sull’Osservatore Romano del 18 novembre 1978: ‘operando come matematico mi sono forzato ad ammettere che: non solo le cose che esistono sono, come è ovvio, più di quelle che conosco, ma per poter parlare del­le cose conosciute sono costretto a fare riferimento a cose scono­sciute ed umanamente inconosci­bili; …perciò il fatto che la religio­ne preveda il mistero appare (al matematico) più come condizio­ne necessaria per la sua credibilità che non come ostacolo all’accet­tarla’.
Ma attenzione, ammonisce più avanti De Giorgi, ‘Dio non può essere ridotto al primo ente autocomprensivo’.
Abbiamo allo­ra la sensazione di non poter ap­plicare categorie puramente logi­che (pensiamo all’umiltà di ascol­to, al ‘beati i puri di cuore’…)».
Nella sua vita c’è un evento che l’ha spinto a credere? «Ho un ricordo personale, forse semplice, ma per me di intenso si­gnificato: a sette anni frequentavo la catechesi per la prima comunione, insegnata da un giovane e brillante sacerdote, don Giampao­lo.
Disegnò sulla lavagna non il so­lito triangolo con l’occhio al cen­tro ma un magnifico cerchio e dis­se: così come capite che il cerchio non ha un punto di inizio e uno di fine, così potete anche capire che Dio è tutto, è inizio e fine al tempo stesso.
Ho sempre pensato che questa lezione sia tra le cose che mi hanno spinto da grande ad oc­cuparmi di quella parte della ma­tematica che è la geometria».
Qui abbiamo il caso della fede che spinge verso la matematica.
«Penso che anche in questo caso De Giorgi avesse ragione quando affermava ‘che è più facile per chi crede accettare il principio fonda­mentale dell’etica scientifica, cioè la ricerca appassionata della ve­rità’, e quindi accettare muta­menti culturali in questa direzio­ne.
Con l’attenzione a tenere ben chiari i vincoli del ragionamento scientifico, perché, citando Gali­leo, ‘non ogni detto della Scrittura è legato a obblighi così severi co­me ogni effetto di natura’.
Lo scienziato ha obblighi-vincoli ri­gorosi nel ragionare: gli derivano dal comportamento della natura dal quale non può prescindere; la mela cade dall’albero, non vola in alto.
Richard.
Feynman, illustre fi­sico teorico, diceva che una cosa è pensare e discutere di un angelo custode, che ognuno può immagi­nare un po’ come vuole; altra cosa è pensare ad esempio al campo e­lettrico, che è soggetto a talmente tante specifiche…».
Oggi si può ancora dire che la matematica è l’anima delle scien­ze e che da essa dipende in gran parte il futuro dell’umanità? «Certo.
Si pensi ad esempio alla possibilità di controllare gli eventi provocati dai cambiamenti clima­tici e ai sofisticati modelli mate­matici necessari per questo, la matematica delle singolarità e del caos.
Proprio la centralità del futu­ro dell’uomo come argomento di fondo della ricerca matematica dovrebbe portare il credente a in­teressarsi della matematica, per­ché questa disciplina fornisce buona parte delle regole interne a tutta la ricerca scientifica.
Indub­biamente il vorticoso sviluppo tecnologico, più che la scienza stessa, ha in questi anni fatto na­scere un’enorme quantità di que­stioni.
Nel mio campo basti pen­sare ai formidabili e irrisolti pro­blemi legati alla complessità ma­tematica intrinseca nelle nuove tecnologie: dalla biologia alla rete mondiale dell’informazione, tutti oggi chiedono alla matematica paradigmi e strumenti concettuali nuovi ed efficienti per poter gesti­re, condividere e sviluppare le nuove scoperte.
Anche per questo la matematica odierna è una scienza ricchissima di nuovi svi­luppi e molti pensano che i pros­simi anni saranno prodigiosi in questo campo.
Problemi in ambiti diversi vengono posti all’umanità dalle nuove tecnologie: sono quel­li riguardanti la libertà e la respon­sabilità: questioni inedite, che an­che la Chiesa, con ragione, solle­va, e sulle quali è possibile e au­spicabile un dialogo aperto e co­struttivo, dato che, citiamo ancora Galileo, ’due verità non possono mai contrariarsi’.
Spero che la fede possa condividere con la scienza la fiducia nelle capacità razionali dell’uomo sulle quali, in buona parte, si fondano le nostre speran­ze di pace e di progresso».
Luigi Dell’Aglio

Bibbia, nuova è un bestseller

Non più, quindi “svegliatosi”, ma “svegliò”; non più “locuste”, ma “cavallette”.
«Una grande attenzione è stata posta anche alla traduzione dei nomi geografici o di persona.
Per esempio, attualmente lo stesso lago è trascritto in tre modi diversi: Genèsaret, Chinarot e Kinarot; adesso è sempre Chinaròt».
Per i salmi, poi, «è stata scelta la numerazione ebraica (per cui, ad esempio, il Miserere non è più il 50, ma il 51».
E ci sono cambiamenti anche nei contenuti: «l’inizio del Salmo 65 nella precedente edizione Cei era: “A te si deve lode, o Dio, in Sion”.
Ora si legge: “Per te il silenzio è lode, o Dio, in Sion”».
Profondi cambiamenti ci sono anche in alcuni libri, ad esempio quello di Ester e il Siracide, perché proprio la ricerca di rigore scientifico ha portato a scelte nuove per il lettore non specialista.
«Ci sono circa 6.000 lingue.
In 4.000 di queste non c’è traduzione della Bibbia, né parziale, né totale», ha ricordato durante la presentazione Monsignor Vincenzo Paglia.
«Noi siamo fortunati ad avere addirittura una nuova traduzione, e oltretutto una traduzione che è già stata adottata nelle celebrazioni domenicali, cosa molto importante perché aiuta la memoria.
Memorizzare versi e brani è importante perché imparare a parlare con le parole della Bibbia vuol dire toccare almeno il lembo del mantello di Gesù.
E pregare solo con il nostro linguaggio vuol dire ignorare quello di Dio».
La Bibbia, peraltro, è un libro ancora presente nelle case.
Monsignor Paglia ha infatti citato l’indagine fatta dalla Federazione Biblica Internazionale in sedici Paesi dell’Europa e dell’America, e presentata al recente Sinodo dei vescovi.
«La stragrande maggioranza degli italiani ha la Bibbia in casa.
Probabilmente è un oggetto da scaffale, ma forse questa nuova traduzione può aiutarla a farla passare dallo scaffale al comodino».
Proprio la Bibbia, infatti, «in un mondo globalizzato è la nuova frontiera a cui chiamare tutti.
E resta un libro tra i più amati, in tutti i Paesi, da Mosca a Washington; uno dei volumi da cui ci attende una prospettiva per la propria vita.
La maggior parte della popolazione (tranne in Francia), ritiene che la Bibbia debba essere insegnata nelle scuole, perché senza un aiuto alla lettura rischia di diventare un libro chiuso, difficilmente interpretabile.
Inoltre c’è un recupero dell’indispensabile legame tra Bibbia e comunità: è il momento di sviluppare l’impegno di tutti i cristiani a rifrequentare assieme le Scritture».
Anche secondo Gabriella Caramore (autrice di “Uomini e Profeti”, Radio-Rai3), questa nuova edizione arriva in un momento in cui «si sente forte il bisogno che la conoscenza della Bibbia venga recuperata all’interno della cultura personale ” accanto alle scienze, alle arti eccetera “, non solo dei credenti, ma di tutti», ha detto.
«Senza conoscenza approfondita e continuata della Bibbia, infatti, non si possono capire le categorie che accompagnano la nostra storia.
Quale memoria possiamo avere se non abbiamo assimilato la memoria biblica? Quale idea di libertà se non sappiamo che biblicamente essa passa attraverso l’amore, è un dono di Dio al suo popolo, e non un diritto da rivendicare? Quale idea di sapienza senza conoscere Qoelet, quale idea della politica senza la dimensione della profezia che indica il bene per la comunità e non per il singolo? Per questo la conoscenza della Bibbia è importante anche da un punto vista laico, per tutti».
Quattrocentomila copie vendute o prevendute in pochi mesi: la Bibbia nella nuova traduzione ” anche se non entra mai nelle classifiche dei libri ” ha successo, tanto che si prevede per gennaio una seconda edizione.
Parliamo, naturalmente, dell’edizione Uelci, l’associazione di editori cattolici che hanno curato e distribuito l’edizione economica della nuova tradizione.
E che hanno sfidato la tradizione mettendola in vendita anche nei centri commerciali, autogrill, blockbuster e aeroporti.
Durante la presentazione del volume, a Roma nel contesto della Fiera «Più libri, più liberi», padre Giuseppe Danieli (già presidente della Associazione Biblica Italiana e coordinatore del gruppo dei traduttori) ha ricordato che il lavoro è iniziato esattamente vent’anni fa, nel 1988, e ha tenuto conto delle indicazioni che Paolo VI aveva dato nel ’65 quando si era cominciato a lavorare alla traduzione poi pubblicata nell’86: dare alla Chiesa una Bibbia a livello degli studi biblici moderni, e tale che possa servire soprattutto nella liturgia.
«Per questo, dove possibile siamo partiti dagli originali ebraici, aramaici, greci, e non dalla traduzione latina.
Ma volevamo una lingua semplice, e quindi siamo stati attenti a rinnovare il linguaggio, usando il più possibile termini in uso oggi».

Globalizzazione della Croce

Professore, il cristianesimo si scoprì iconofilo, “amico” delle immagini, solo in modo progressivo.
Perché? «Ancor oggi, la rappresentazione di Dio nell’arte cristiana è vista come una sorta di paradosso.
Tanto più dagli altri monoteismi, più scettici o addirittura ostili verso le immagini.
Il teologo ebreo Martin Buber ha scritto che “al contempo senza immagine e immaginato è il Dio dei cristiani”.
Parla dell’immagine di un Dio che dovrebbe non avere immagini.
Il dogma cristiano ha infatti sempre sottolineato che per ogni pittore la raffigurazione di Dio è un’impresa impossibile.
L’imitazione del reale, la mimesis, non può essere impiegata, dato che Dio non ha una forma, essendo un Essere puramente spirituale.
Al contempo, a partire dall’arte paleocristiana, Dio è stato espresso progressivamente da un capitale di figure antropomorfe molto familiari e sempre più abituali.
Ma queste immagini, come sottolinea Buber, sono soprattutto un elemento del presente vissuto dei credenti».
In che epoca, la raffigurazione divina acquistò piena legittimità? «Molte residue diffidenze si dissiparono dopo il secondo concilio di Nicea (787).
Grazie anche all’eredità dei Padri della Chiesa, il concilio sostenne in un testo molto preciso che quando si crede nel Verbo incarnato non vi è ragione di rifiutare la sua icona.
Ciò si tradurrà in un diritto di creazione, d’esposizione e di venerazione delle immagini di Cristo, della Vergine, degli Angeli e dei Santi.
Grazie a un chiarimento dogmatico straordinario, verrà stabilita una sorta di piattaforma definitiva sulla legittimità dell’iconografia cristiana».
Quali fattori influenzeranno la proliferazione d’immagini in epoca medievale? «Non ho mai creduto alla teoria del bisogno, fondata su un’opposizione fra autorità e fedeli.
Ovvero, a un bisogno d’immagini rivendicato dal popolo dei fedeli e al quale le autorità ecclesiastiche dovettero cedere.
Di fatto, sono numerosi gli esempi di grandi vescovi teologi che ebbero il gusto delle immagini.
Credo molto più a ciò che definirei il dinamismo espressivo delle forti intuizioni.
Una religione vissuta in modo intenso da una civiltà deve essere espressa.
E dopo le parole, il cristianesimo ha conquistato in modo logico altri registri espressivi, dalle arti plastiche al teatro, dalla musica alla letteratura.
Hanno poi influito fattori più specifici, come la riflessione su certi passaggi evangelici, in particolare di Giovanni, in cui Gesù impiega il verbo “vedere”».
L’arte cristiana porta in sé le tracce dei grandi sconvolgimenti storici? «È molto difficile imporre all’insieme delle rappresentazioni di Dio una periodizzazione fondata sulla storia politica, demografica, economica e persino ecclesiastica.
Fra uno sconvolgimento epocale come la grande peste e le immagini sacre, ad esempio, non vi fu una stretta correlazione.
In un’epoca in cui tutti associavano la peste a una punizione divina, non si osserva un incupimento dello stile.
Questa storia iconica sembra dunque possedere una certa autonomia, un altro ritmo legato alle permanenze profonde del senso della fede».
Quali sono state le epoche di maggiore fioritura? «Fra l’estrema fine dell’XI secolo e la prima metà del XII secolo, in epoca romanica, vengono creati i 5 grandi schemi iconografici della Trinità ancor oggi noti.
Un’altra fase che definirei miracolosa copre la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento.
In queste epoche, gli stili godranno del favore di tutti gli strati della popolazione.
Non si può parlare di un’iconografia delle élite, di un’altra dei borghesi o ancora dei ceti popolari».
L’epoca contemporanea segnerebbe la crisi dell’arte sacra.
Condivide? «In Europa, a partire dalla fine del Seicento, i grandi artisti cominciano ad interessarsi ad altri temi.
Ma non senza momenti di tormento.
Nel suo Autoritratto con Cristo giallo, Gauguin sembrerà dire: come artista autonomo di una nuova generazione, fingo di occuparmi solo di me stesso, ma in realtà continuo a pensare a Lui.
Al contempo, l’immagine sacra migra sempre più negli altri continenti, conoscendo spesso fuori dall’Europa un successo ancor oggi crescente».
In che modi si esprime questa nuova vitalità? «Per fare un solo esempio, l’iconografia della Trinità conosce oggi in Messico un successo senza precedenti.
Ed anche in altri Paesi, si assiste a una sorta di euforia nell’arte sacra.
Inoltre, viviamo nell’epoca della globalizzazione della crocifissione.
Il successo senza precedenti di questo tema pare legato in ogni continente al bisogno di denunciare le ingiustizie e gli orrori del nostro tempo: Nagasaki, la Shoah, il Ruanda, le spoliazioni dei contadini sudamericani e tanto altro.
I drammi contemporanei trovano nell’uomo in croce un’immagine dall’eloquenza insuperabile.
E nessuno poteva prevederlo».
«Le immagini cristiane riguardano soggetti coi quali entrare in relazione intersoggettiva.
In fondo, l’icona è una presenza in vista di un incontro.
A ben guardare, non si tratta di una verità, né dell’illustrazione di un tema, né della presentazione di una tappa o di una storia.
L’icona scavalca l’illustrazione e la narrazione».
Lo storico e teologo domenicano François Boespflug, docente all’Università di Strasburgo, ha maturato questa convinzione dopo oltre 30 anni di ricerche sulla rappresentazione divina lungo la storia del cristianesimo.
Un lavoro adesso condensato nel vasto volume Dieu et ses images.
Une histoire de l’Eternel dans l’art (Dio e le sue immagini.
Una storia dell’Eterno nell’arte), edito in Francia da Bayard.

La Rete e la Chiesa: un mondo digitale accessibile a tutti

Destinate a incontrarsi Internet è una realtà che ormai fa parte della vita quotidiana di molte persone.
Se fino a qualche tempo fa era legata all’immagine di qualcosa di tecnico, che richiedeva competenze specifiche sofisticate, oggi è diventato un luogo da frequentare per stare in contatto con gli amici che abitano lontano, per leggere le notizie, per comprare un libro o prenotare un viaggio, per condividere interessi e idee.
L’avvento di internet è stato, certo, una rivoluzione.
E tuttavia è una rivoluzione che potremmo definire “antica”, cioè con salde radici nel passato: replica antiche forme di trasmissione del sapere e del vivere comune, ostenta nostalgie, dà forma a desideri e valori antichi quanto l’essere umano.
Quando si guarda a internet occorre non solo vedere le prospettive di futuro che offre, ma anche i desideri e le attese che l’uomo ha sempre avuto e alle quali prova a rispondere: comunicazione, relazione e conoscenza.
Internet si sta decisamente evolvendo, trasformandosi in una piattaforma relazionale.
Non è più un agglomerato di siti web isolati e indipendenti tra loro, seppure collegati e messi in rete, ma è da considerare come l’insieme delle capacità tecnologiche raggiunte dall’uomo nell’ambito della diffusione e della condivisione dell’informazione e del sapere.
La Rete permette la partecipazione e la diffusione dei contenuti multimediali (testi, immagini e suoni) che vengono prodotti dagli stessi utenti, i cosiddetti consumer generated media.
Ogni informazione (un’immagine, un video, una registrazione audio, un link, un testo, …) entra in una rete di relazioni di persone che collega tra loro i contenuti e ne potenzia ed estende il valore e il significato.
Da sempre la Chiesa ha nell’annuncio di un messaggio e nelle relazioni di comunione due pilastri fondanti del suo essere.
La Chiesa è dunque naturalmente presente – ed è chiamata ad esserlo – lì dove l’uomo sviluppa la sua capacità di conoscenza e di relazione.
Ecco perché la Rete e la Chiesa sono due realtà da sempre destinate a incontrarsi: internet non è un semplice “strumento” di comunicazione che si può usare o meno, ma un “ambiente” culturale, che determina uno stile di pensiero e crea nuovi territori e nuove forme di educazione, contribuendo a definire anche un modo nuovo di stimolare le intelligenze e di costruire la conoscenza e le relazioni.
L’uomo infatti non resta immutato dal modo con cui manipola il mondo: a trasformarsi non sono soltanto i mezzi con i quali comunica, ma l’uomo stesso e la sua cultura.
La Chiesa dunque, per attuare sino in fondo la sua missione, ha bisogno di vivere nella Rete e incarnare in essa il messaggio del Vangelo.
Internet, che si basa su una logica delle “connessioni” (links e networks), abbatte distanze spazio-temporali prima valicabili con difficoltà o a costi proibitivi.
L’ambiente telematico diffuso unisce i popoli grazie alla crescita dell’integrazione sociale, mette in circolo il pensiero e le culture, fa cadere le barriere dei particolarismi.
Si tratta di un’opportunità per le relazioni interne alla Chiesa, ma anche per la comunicazione tra la Chiesa e il mondo.
Infatti la Chiesa, proprio in quanto “corpo vivo”, come afferma la Communio et progressio (n.
116-117), ha bisogno dell’opinione pubblica.
Grazie alla Rete la Chiesa può ascoltare più chiaramente la voce dell’opinione pubblica ed entrare in continuo dibattito con il mondo circostante.
La peculiarità della comunicazione in Rete è infatti l’interattività bidirezionale, che sta già facendo svanire la vecchia distinzione tra chi comunica e chi riceve la comunicazione.
Certo, la Chiesa non è mai e in nessun caso “prodotto” della comunicazione, e la fede non è fatta soltanto di informazioni, né è luogo di mera “trasmissione”, cioè non è una pura “emittente”.
Essa è luogo di “comunicazione” e “testimonianza” vissuta del messaggio che si “annuncia” e che si celebra in seno a una comunità umana in carne e ossa.
Il rapporto diretto, proprio della Rete, tra centro e qualsiasi punto della periferia espone al rischio di formare un’abitudine all’inutilità della mediazione incarnata in un certo momento e in un certo luogo.
E tuttavia è anche vero che si aprono contesti e orizzonti di relazione prima impensabili o forse, al massimo, intuiti da geni religiosi come Pierre Teilhard de Chardin.
Le nuove tecnologie informatiche e telematiche sono entrate anche nel grande campo della pastorale e dello studio sulle nuove possibilità per il ministero.
Molti pastori e formatori sono in Rete per creare occasione di incontro e di annuncio, ma anche di confronto aperto lì dove la gente si incontra.
Oggi internet è, di fatto, un luogo di incontro, dove sta emergendo un differente concetto di “prossimo”, ancora tutto da studiare.
Se è necessario, oggi più che mai, interrogarsi sul modo in cui internet comincia a cambiare il modo di percepire le relazioni umane, allora è anche necessario confrontarsi con le conseguenze che ciò può avere nella Chiesa, che non è una rete di relazioni orizzontali immanenti, ma ha sempre un principio e un fondamento “esterno”.
L’agire comunicativo della Chiesa ha in questo dono il suo fondamento e la sua origine.
Comunque la reticolarità della vite nei cui tralci scorre una medesima linfa non è lontanissima dall’immagine di internet: la Rete è immagine della Chiesa nella misura in cui la si intende come un corpo che è vivo se tutte le relazioni al suo interno sono vitali.
Poi l’universalità della Chiesa e la missione dell’annuncio “a tutte le genti” rafforzano la percezione che la Rete possa essere un modello.
In ogni caso la Chiesa stessa è chiamata a vivere nel mondo, il quale non può non determinarne anche la figura concreta, storica e i modelli di comunione possibili.
Tirarsi indietro timidamente per paura della tecnologia o per qualche altro motivo non è più accettabile.
di Antonio Spadaro (©L’Osservatore Romano – 24 gennaio 2009) Gli strumenti della comunicazione digitale devono favorire la cooperazione tra i popoli e non “incrementare il divario che separa i poveri dalle nuove reti che si stanno sviluppando al servizio dell’informazione e della socializzazione umana”.
Lo afferma il Papa nel messaggio per la 43 ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, che si celebra il prossimo 24 maggio sul tema “Nuove tecnologie, nuove relazioni.
Promuovere una cultura di rispetto, di dialogo, di amicizia”.
Cari fratelli e sorelle, in prossimità ormai della Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, mi è caro rivolgermi a voi per esporvi alcune mie riflessioni sul tema scelto per quest’anno: Nuove tecnologie, nuove relazioni.
Promuovere una cultura di rispetto, di dialogo, di amicizia.
In effetti, le nuove tecnologie digitali stanno determinando cambiamenti fondamentali nei modelli di comunicazione e nei rapporti umani.
Questi cambiamenti sono particolarmente evidenti tra i giovani che sono cresciuti in stretto contatto con queste nuove tecniche di comunicazione e si sentono quindi a loro agio in un mondo digitale che spesso sembra invece estraneo a quanti di noi, adulti, hanno dovuto imparare a capire ed apprezzare le opportunità che esso offre per la comunicazione.
Nel messaggio di quest’anno, il mio pensiero va quindi in modo particolare a chi fa parte della cosiddetta generazione digitale: con loro vorrei condividere alcune idee sullo straordinario potenziale delle nuove tecnologie, se usate per favorire la comprensione e la solidarietà umana.
Tali tecnologie sono un vero dono per l’umanità: dobbiamo perciò far sì che i vantaggi che esse offrono siano messi al servizio di tutti gli esseri umani e di tutte le comunità, soprattutto di chi è bisognoso e vulnerabile.
L’accessibilità di cellulari e computer, unita alla portata globale e alla capillarità di internet, ha creato una molteplicità di vie attraverso le quali è possibile inviare, in modo istantaneo, parole ed immagini ai più lontani ed isolati angoli del mondo: è, questa, chiaramente una possibilità impensabile per le precedenti generazioni.
I giovani, in particolare, hanno colto l’enorme potenziale dei nuovi media nel favorire la connessione, la comunicazione e la comprensione tra individui e comunità e li utilizzano per comunicare con i propri amici, per incontrarne di nuovi, per creare comunità e reti, per cercare informazioni e notizie, per condividere le proprie idee e opinioni.
Molti benefici derivano da questa nuova cultura della comunicazione: le famiglie possono restare in contatto anche se divise da enormi distanze, gli studenti e i ricercatori hanno un accesso più facile e immediato ai documenti, alle fonti e alle scoperte scientifiche e possono, pertanto, lavorare in équipe da luoghi diversi; inoltre la natura interattiva dei nuovi media facilita forme più dinamiche di apprendimento e di comunicazione, che contribuiscono al progresso sociale.
Sebbene sia motivo di meraviglia la velocità con cui le nuove tecnologie si sono evolute in termini di affidabilità e di efficienza, la loro popolarità tra gli utenti non dovrebbe sorprenderci, poiché esse rispondono al desiderio fondamentale delle persone di entrare in rapporto le une con le altre.
Questo desiderio di comunicazione e amicizia è radicato nella nostra stessa natura di esseri umani e non può essere adeguatamente compreso solo come risposta alle innovazioni tecnologiche.
Alla luce del messaggio biblico, esso va letto piuttosto come riflesso della nostra partecipazione al comunicativo ed unificante amore di Dio, che vuol fare dell’intera umanità un’unica famiglia.
Quando sentiamo il bisogno di avvicinarci ad altre persone, quando vogliamo conoscerle meglio e farci conoscere, stiamo rispondendo alla chiamata di Dio – una chiamata che è impressa nella nostra natura di esseri creati a immagine e somiglianza di Dio, il Dio della comunicazione e della comunione.
Il desiderio di connessione e l’istinto di comunicazione, che sono così scontati nella cultura contemporanea, non sono in verità che manifestazioni moderne della fondamentale e costante propensione degli esseri umani ad andare oltre se stessi per entrare in rapporto con gli altri.
In realtà, quando ci apriamo agli altri, noi portiamo a compimento i nostri bisogni più profondi e diventiamo più pienamente umani.
Amare è, infatti, ciò per cui siamo stati progettati dal Creatore.
Naturalmente, non parlo di passeggere, superficiali relazioni; parlo del vero amore, che costituisce il centro dell’insegnamento morale di Gesù: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza” e “Amerai il tuo prossimo come te stesso” (cfr.
Mc 12, 30-31).
In questa luce, riflettendo sul significato delle nuove tecnologie, è importante considerare non solo la loro indubbia capacità di favorire il contatto tra le persone, ma anche la qualità dei contenuti che esse sono chiamate a mettere in circolazione.
Desidero incoraggiare tutte le persone di buona volontà, attive nel mondo emergente della comunicazione digitale, perché si impegnino nel promuovere una cultura del rispetto, del dialogo, dell’amicizia.
Pertanto, coloro che operano nel settore della produzione e della diffusione di contenuti dei nuovi media non possono non sentirsi impegnati al rispetto della dignità e del valore della persona umana.
Se le nuove tecnologie devono servire al bene dei singoli e della società, quanti ne usano devono evitare la condivisione di parole e immagini degradanti per l’essere umano, ed escludere quindi ciò che alimenta l’odio e l’intolleranza, svilisce la bellezza e l’intimità della sessualità umana, sfrutta i deboli e gli indifesi.
Le nuove tecnologie hanno anche aperto la strada al dialogo tra persone di differenti paesi, culture e religioni.
La nuova arena digitale, il cosiddetto cyberspace, permette di incontrarsi e di conoscere i valori e le tradizioni degli altri.
Simili incontri, tuttavia, per essere fecondi, richiedono forme oneste e corrette di espressione insieme ad un ascolto attento e rispettoso.
Il dialogo deve essere radicato in una ricerca sincera e reciproca della verità, per realizzare la promozione dello sviluppo nella comprensione e nella tolleranza.
La vita non è un semplice succedersi di fatti e di esperienze: è piuttosto ricerca del vero, del bene e del bello.
Proprio per tale fine compiamo le nostre scelte, esercitiamo la nostra libertà e in questo, cioè nella verità, nel bene e nel bello, troviamo felicità e gioia.
Occorre non lasciarsi ingannare da quanti cercano semplicemente dei consumatori in un mercato di possibilità indifferenziate, dove la scelta in se stessa diviene il bene, la novità si contrabbanda come bellezza, l’esperienza soggettiva soppianta la verità.
Il concetto di amicizia ha goduto di un rinnovato rilancio nel vocabolario delle reti sociali digitali emerse negli ultimi anni.
Tale concetto è una delle più nobili conquiste della cultura umana.
Nelle nostre amicizie e attraverso di esse cresciamo e ci sviluppiamo come esseri umani.
Proprio per questo la vera amicizia è stata da sempre ritenuta una delle ricchezze più grandi di cui l’essere umano possa disporre.
Per questo motivo occorre essere attenti a non banalizzare il concetto e l’esperienza dell’amicizia.
Sarebbe triste se il nostro desiderio di sostenere e sviluppare on-line le amicizie si realizzasse a spese della disponibilità per la famiglia, per i vicini e per coloro che si incontrano nella realtà di ogni giorno, sul posto di lavoro, a scuola, nel tempo libero.
Quando, infatti, il desiderio di connessione virtuale diventa ossessivo, la conseguenza è che la persona si isola, interrompendo la reale interazione sociale.
Ciò finisce per disturbare anche i modelli di riposo, di silenzio e di riflessione necessari per un sano sviluppo umano.
L’amicizia è un grande bene umano, ma sarebbe svuotato del suo valore, se fosse considerato fine a se stesso.
Gli amici devono sostenersi e incoraggiarsi l’un l’altro nello sviluppare i loro doni e talenti e nel metterli al servizio della comunità umana.
In questo contesto, è gratificante vedere l’emergere di nuove reti digitali che cercano di promuovere la solidarietà umana, la pace e la giustizia, i diritti umani e il rispetto per la vita e il bene della creazione.
Queste reti possono facilitare forme di cooperazione tra popoli di diversi contesti geografici e culturali, consentendo loro di approfondire la comune umanità e il senso di corresponsabilità per il bene di tutti.
Ci si deve tuttavia preoccupare di far sì che il mondo digitale, in cui tali reti possono essere stabilite, sia un mondo veramente accessibile a tutti.
Sarebbe un grave danno per il futuro dell’umanità, se i nuovi strumenti della comunicazione, che permettono di condividere sapere e informazioni in maniera più rapida e efficace, non fossero resi accessibili a coloro che sono già economicamente e socialmente emarginati o se contribuissero solo a incrementare il divario che separa i poveri dalle nuove reti che si stanno sviluppando al servizio dell’informazione e della socializzazione umana.
Vorrei concludere questo messaggio rivolgendomi, in particolare, ai giovani cattolici, per esortarli a portare nel mondo digitale la testimonianza della loro fede.
Carissimi, sentitevi impegnati ad introdurre nella cultura di questo nuovo ambiente comunicativo e informativo i valori su cui poggia la vostra vita! Nei primi tempi della Chiesa, gli Apostoli e i loro discepoli hanno portato la Buona Novella di Gesù nel mondo greco romano: come allora l’evangelizzazione, per essere fruttuosa, richiese l’attenta comprensione della cultura e dei costumi di quei popoli pagani nell’intento di toccarne le menti e i cuori, così ora l’annuncio di Cristo nel mondo delle nuove tecnologie suppone una loro approfondita conoscenza per un conseguente adeguato utilizzo.
A voi, giovani, che quasi spontaneamente vi trovate in sintonia con questi nuovi mezzi di comunicazione, spetta in particolare il compito della evangelizzazione di questo “continente digitale”.
Sappiate farvi carico con entusiasmo dell’annuncio del Vangelo ai vostri coetanei! Voi conoscete le loro paure e le loro speranze, i loro entusiasmi e le loro delusioni: il dono più prezioso che ad essi potete fare è di condividere con loro la “buona novella” di un Dio che s’è fatto uomo, ha patito, è morto ed è risorto per salvare l’umanità.
Il cuore umano anela ad un mondo in cui regni l’amore, dove i doni siano condivisi, dove si edifichi l’unità, dove la libertà trovi il proprio significato nella verità e dove l’identità di ciascuno sia realizzata in una comunione rispettosa.
A queste attese la fede può dare risposta: siatene gli araldi! Il Papa vi è accanto con la sua preghiera e con la sua benedizione.
Dal Vaticano, 24 gennaio 2009 (©L’Osservatore Romano – 24 gennaio 2009)

III Domenica del tempo ordinario (Anno B).

LECTIO – ANNO B Prima lettura: Giona 3.1-5.10 Fu rivolta a Giona questa parola del Signore: «Alzati, va’ a Nìnive, la grande cit-tà, e annuncia loro quanto ti dico».
Giona si alzò e andò a Nìnive secondo la parola del Signore.
Nìnive era una città molto grande, larga tre giornate di cammino.
Giona cominciò a percorrere la città per un giorno di cammino e predicava: «Ancora quaran-ta giorni e Nìnive sarà distrutta».
I cittadini di Nìnive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, grandi e piccoli.
Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si ravvide riguardo al male che aveva mi-nacciato di fare loro e non lo fece.
Incontrare Dio e farlo incontrare anche agli altri è l’idea fondamentale della prima lettu-ra.
Senza addentrarci nel ginepraio dei problemi sollevati dal testo, consideriamo Giona un libro più da meditare che da studiare.
Vogliamo solo ricordare che il libro, annoverato di solito tra i profeti, è collocato oggi da molti studiosi tra i libri didattici.
Infatti, diversamen-te dagli altri testi profetici, non presenta una raccolta di oracoli, limitandosi a quello scar-no annuncio: «Ancora 40 giorni e Ninive sarà distrutta» che rimangono le uniche parole del suo messaggio.
L’assenza di oracoli è felicemente compensata dalla vita stessa del profeta che annuncia più con i fatti che con le parole, a tal punto da poter affermare che tutta la sua vicenda diventa epifania di Dio.
L’insegnamento allora non sta tanto nelle parole, quanto piuttosto nella trama che rivela così il suo intento didattico.
Il brano liturgico propone un profeta che ha già sperimentato sulla sua pelle il significa-to della conversione: non voleva recarsi a Ninive ad annunciare la salvezza ai pagani, ha voluto fare di testa sua.
Si è ritrovato solo, in mezzo al mare, con l’unica possibilità: quella di morire annegato.
L’amorosa provvidenza divina lo salva (è il significato del grosso pe-sce) e li riporta al punto di partenza.
Troviamo ora Giona in seconda edizione, riveduta e migliorata.
Di nuovo gli è rivolto l’invito del Signore che lo invia a Ninive con un ultimatum; « Ancora 40 giorni e Ninive sarà distrutta » (v.
4).
Il numero 40 indica un tempo opportuno per fare qualcosa e prendere de-cisioni, indica un’occasione decisiva e forse irripetibile.
È il momento di grazia per i Nini-viti.
Di fatto costoro accolgono l’occasione e, sebbene pagani, acconsentono al Dio di Giona con un’adesione plebiscitaria che interessa re e animali, due estremi per indicare tutti.
Il brano liturgico salta i vv.
6-9 che mostrano l’itinerario di conversione dei Niniviti.
La conclusione del v.
10 sottolinea: — Dio si qualifica come Dio della vita perché vuole la salvezza di ogni uomo e di tutti gli uomini (universalismo).
— Dio si serve degli uomini per operare i suoi prodigi (collaborazione): Dio ha voluto aver bisogno degli uomini.
Finché Giona privatizzava la sua vita, lontano da Dio, non solo non poteva essere utile agli altri, ma neppure realizzava la propria persona.
Aderendo al programma divino, da una parte Giona realizza se stesso perché fa il profeta e dall’altra diviene elemento e tramite di salvezza per gli altri.
Così è ciascun uomo quando accetta di far parte dell’organigramma divino.
A questo punto parrebbe di poter concludere il libro di Giona, visto che la sua missione ha avuto successo, convertendo prima se stesso e poi i Niniviti.
Ma terminando così, sem-brerebbe che la conversione sia un tornare indietro una volta sola, il lasciarsi convincere da Dio una volta per tutte.
Il che non è proprio vero.
Lo ricorda il capitolo che segue: la conversione è un’opera continua.
Lo afferma, per aliam viam anche la seconda lettura.
Seconda lettura: 1Corinti 7,29-31 Questo vi dico, fratelli: il tempo si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che hanno mo-glie, vivano come se non l’avessero; quelli che piangono, come se non piangessero; quelli che gioiscono, come se non gioissero; quelli che comprano, come se non posse-dessero; quelli che usano i beni del mondo, come se non li usassero pienamente: passa infatti la figura di questo mondo! La conversione è uno stato di premurosa e amorosa attenzione alla volontà di Dio, un impegno a sintonizzare sempre più e sempre meglio la propria vita alle esigenze del Re-gno di Dio.
Ogni attaccamento morboso viene bocciato, così come risulta un perditempo ogni cocciutaggine a perpetuare ciò che è effimero.
Potrebbe essere questa una chiave di lettura del minuscolo brano liturgico proposto come seconda lettura.
A partire dal cap.
7 della prima lettera ai Corinti, Paolo, apostolo e catecheta, risponde ai quesiti che la comunità gli aveva sottoposto.
Il primo di essi trattava del matrimonio e della verginità.
Paolo ribadisce il valore del matrimonio (forse contro tendenze che lo sva-lutavano) anche se la verginità sembra rispondere ad un ideale maggiore (cf.
v.
7).
La cosa più importante, al di là di possibili gerarchie, consiste nel rispondere alla vocazione del Si-gnore (cf.
v.
17 ss.).
Il brano liturgico è racchiuso tra due affermazioni di transitorietà: «il tempo si è fatto bre-ve» e «passa infatti la figura di questo mondo!».
All’interno sono elencate alcune situazioni e il loro contrario (aver moglie / non aver moglie; piangere / non piangere…).
Paolo non intende fare previsioni cronologiche, quando afferma che il tempo è breve.
Egli ha di mira il Signore morto e risorto che ha dato avvio ad una situazione nuova e de-finitiva: siamo ormai nel tempo finale, quello definitivo.
In altre parole, non c’è da aspet-tarsi nulla di nuovo perché la vera novità, quella definitiva, è Lui, il Signore risorto.
Se siamo alla svolta finale, significa che la realtà prende senso e colore solo alla luce di Cristo risorto.
Viene tolto il plusvalore che normalmente viene attribuito alle situazioni (sposarsi, piangere, possedere), soprattutto se considerate solo nel loro aspetto esteriore (possibile traduzione del greco schema, reso in italiano con «scena», v.
31).
Ciò che rimane, oltre il tempo, è l’attaccamento a Cristo Signore, la configurazione a Lui nel mistero pasquale.
Il brano è quindi una calda esortazione a orientare tutto e a orientarsi definitivamente verso Lui.
Anche questo è conversione.
Paolo ha il merito di averci insegnato un altro aspetto del mai esaurito tema della conversione.
Vangelo: Marco 1,14-20 Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».
Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori.
Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini».
E subito lasciarono le reti e lo seguirono.
Andando un poco oltre, vide Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, mentre anch’essi nella barca riparavano le reti.
E subito li chiamò.
Ed essi lasciarono il loro padre Zebedèo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui.
Esegesi Le letture bibliche della presente domenica sono caratterizzate dalla duplice nota: la conversione è accoglienza dell’invito divino al rinnovamento; tale rinnovamento porta però sulla strada della solidarietà: alcuni annunciano ad altri la loro esperienza di salvezza, perché tutti ne possono beneficiare.
C’è lievitazione per tutti.
La preziosità del brano evangelico poggia sul duplice motivo di novità: incontriamo le prime parole di Gesù riportate dal Vangelo secondo Marco (vv.
14 -15), cui segue la prima azione di Gesù, quella di convocare alcune persone, introducendole al suo seguito, con lo scopo di allargare la cerchia con nuove persone, per la costruzione di una nuova famiglia, quella della Chiesa (vv.
16-20).
1.
Quando Gesù incomincia a parlare, fa riferimento a qualcosa che si è concluso e, più ancora, ad una novità che irrompe nella storia e alla quale bisogna prepararsi.
Tutto que-sto è espresso con la categoria a noi nota anche se non sempre molto familiare, come «re-gno di Dio».
Si tratta di un tema centrale che il novello predicatore propone subito al suo uditorio.
Ma è pure una chiave interpretativa per aprire in parte il mistero della sua per-sona.
Egli, certamente «rabbi» e pure «profeta» come lo chiama la gente (cf Mc 6,14s; 8,28), si definisce piuttosto come l’annunciatore del Regno, colui che con la parola dice che il Re-gno è presente e con la sua azione lo visibilizza.
Mc 1,15, diventa sotto questo aspetto par-ticolarmente illuminante.
Mediante le coordinate spazio-temporali l’annuncio di Gesù viene situato in un contesto geografico ben preciso, la Galilea, e in un contesto storico definito, l’arresto del Battista, il quale, in veste di precursore, era stato l’ultima voce autorevole capace di invitare gli uo-mini ad un rinnovamento, espresso esternamente con l’abluzione battesimale.
Spentasi questa voce profetica, ben si può dire: «II tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al vangelo».
Numerosi commentatori sono concordi nel leggere in queste parole la visione riassunti-va del pensiero di Gesù, non necessariamente la citazione ad litteram delle sue parole.
È certo comunque che esse segnano il trapasso da un’epoca ad un’altra, da un atteggiamento di fiduciosa attesa ad uno di imminente realizzazione.
Infatti nel dire «il tempo è compiu-to» si capisce che un processo è arrivato al suo termine dopo uno sviluppo più o meno lungo.
Nel linguaggio di Mc l’espressione fa riferimento al tempo preparatorio dell’A.T.
e presuppone la conoscenza delle varie tappe del piano divino, collegate tra loro da quella continuità che in Dio è semplice unità, nell’uomo è progressiva rivelazione.
Solo Gesù, pienezza della rivelazione, può dire che il tempo preparatorio è giunto al suo termine e so-lo dopo la Pasqua, pienezza della manifestazione di Gesù, la comunità dei credenti può aderire alla verità secondo cui lui, figlio dell’uomo e figlio di Dio, da inizio ad un’epoca nuova.
Questo tempo allora non è un chronos ma un kairos, vale a dire, non una successione di attimi fuggenti qualitativamente simili ad altri, bensì un’occasione unica da vivere ora nel-la sua interezza ed esclusività, perché questo tempo che «è compiuto» (al perfetto in greco per indicare un’azione del passato ma con effetti presenti) è la porta di accesso alla situa-zione nuova, che Paolo chiama «pienezza dei tempi» (Gal 4,4) e che Marco riconosce nella presenza del Regno di Dio.
Infatti il verbo greco enghiken si può tradurre tanto «è vicino», «è arrivato», quanto «è giunto», «è presente».
La venuta del Regno di Dio deve essere veramente qualcosa di straordinario se esige un cambiamento radicale espresso dall’imperativo «convertitevi» che unito al seguente «cre-dete al vangelo» indica che passato e presente non si possono mescolare; lo conferma lin-guisticamente il termine greco «metanoia» che allude ad un cambiamento di mentalità (nous = mente), corrispondente all’ebraico shub che esprime il ritorno da una strada sba-gliata, ovviamente per imboccare quella giusta.
Bisogna cambiare o ritornare per aderire con cuore nuovo al «vangelo».
2.
Alle prime parole di Gesù segue la prima azione.
Anch’essa merita attenzione, pro-prio per capire le intenzioni di Gesù.
La conversione appena annunciata ha bisogno di mediatori, di persone che abbiano sperimentato per prime che cosa significhi.
Due coppie di fratelli, Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni, colti nella quotidianità del loro lavoro, sono chiamati ad un nuovo servizio.
Non dovranno più interessarsi di pesci, ma di uomi-ni, non tirarli fuori dall’acqua, ma da una vita scialba e insulsa.
Devono prospettare loro «il Regno» che è l’amorosa presenza di Dio nella storia, così come è dato percepirlo con la ve-nuta di Gesù.
Con la chiamata dei primi discepoli alla sequela di Gesù, si pongono le basi della co-munità ecclesiale.
Alcuni punti sono di grande attenzione: — Sono persone coinvolte nel Regno.
Se l’annuncio del Regno è stata la ‘passione’ di Gesù, anche loro dovranno avere a cuore la diffusione del Regno.
— Sono persone chiamate ad una vita di comunione, con Gesù prima di tutto e poi tra lo-ro.
Esse non aderiscono ad un programma, ad un ‘manifesto’, ma ad una persona.
— I chiamati, rispondono con un’adesione personale, pronta e totale.
Si aderisce con tutta la vita e per sempre.
Non sono ammessi lavoratori part time.
— Il gruppo non ha nulla della setta.
È vero che all’inizio sono solo quattro, ma poi diven-teranno dodici e tutti avranno come compito primario l’annuncio del Regno, la sua diffu-sione in mezzo agli uomini (cf.
6,6ss).
Ciò vuol dire che la loro esperienza di incontro con il Signore e di vita con Lui diventa l’oggetto del loro annuncio.
Andranno a presentare una persona, quella verso la quale vale la pena orientare tutta la propria vita.
Sono dei ‘convertiti’ che avranno la passione di con-vertire altre persone.
Per la stessa causa.
Per il Regno.
Perché Dio sia tutto in tutti.
Meditazione Al centro della liturgia della Parola di questa domenica c’è il racconto della chiamata dei primi quattro discepoli, che siamo invitati a leggere tenendo sullo sfondo la chiamata di Giona, proposta nella prima lettura: «Fu rivolta a Giona una seconda volta questa parola del Signore» (Gn 3,1).
Le pagine precedenti del libro narrano infatti che Giona è incapace di accogliere subito la chiamata di Dio, anzi fugge a Tarsis, dalla parte opposta rispetto a Ni-nive, dove Dio lo vorrebbe inviare.
Così una seconda volta la parola del Signore lo chiama e finalmente Giona obbedisce: «Si alzò e andò a Ninive secondo la parola del Signore» (v.
2).
Il libro di Giona ci rivela peraltro che non è la paura a indurre inizialmente il profeta al-la fuga, e neppure la difficoltà o il prevedibile insuccesso della missione che gli viene affi-data.
Giona teme, paradossalmente, che la sua missione abbia successo e che gli abitanti di Ninive si convertano, consentendo così a Dio di rivelarsi per quello che è: «Un Dio miseri-cordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore», che si ravvede riguardo al male minac-ciato (cfr.
Gn 4,2).
La conversione dei Niniviti diventa occasione in cui Dio può svelare il segreto del suo mistero personale.
Detto in altri termini: non è la conversione a cambiare Dio e a renderlo pietoso; accade il contrario: che Dio sia misericordioso, e attraverso il suo profeta si manifesti tale, consente ai Niniviti di convertirsi.
Proprio questo Giona accetta con fatica: la gratuità dell’amore di Dio, che non chiede nulla in cambio e non pone condi-zioni, ma previene e rende possibile all’uomo di tornare a essere giusto.
La conversione non è il prezzo, ma il frutto della misericordia di Dio.
Il racconto di Giona ci offre così alcune chiavi per aprire il testo evangelico.
Una prima: confrontando l’atteggiamento di Simone e Andrea, Pietro e Giovanni, con quello di Giona, sembra emergere una grande diversità.
I primi quattro chiamati rispondono «subito» (v.
18) alla chiamata di Gesù, senza bisogno che egli torni a chiamarli «una seconda volta».
I due racconti sono tuttavia più affini di quanto non appaia.
Nell’evangelo di Marco due volte risuona l’avverbio «subito».
La prima volta al v.
18 e ha come soggetto i discepoli; la seconda volta al v.
20 e ha come soggetto Gesù, che subito chiama Giacomo e Giovanni, appena li vede, come aveva già fatto con Simone e Andrea (questo secondo «subito» è sta-to giustamente introdotto dalla nuova traduzione della Cei, mentre la precedente lo omet-teva).
Il «subito» della risposta dei discepoli è reso possibile dal «subito» con cui Gesù chiama, senza prima soppesare le qualità dei discepoli o valutare se sapranno seguirlo fino in fondo.
Anzi, l’intera vicenda narrata da Marco mostrerà che non riusciranno a farlo; se adesso «abbandonano tutto» per seguire Gesù (vv.
18.20), alla fine della storia, nel Getsè-mani, «tutti abbandonano» Gesù per fuggire altrove (Mc 14,50, in greco c’è il medesimo verbo).
Il Risorto tornerà allora a chiamare una seconda volta proprio coloro che lo aveva-no abbandonato.
Era accaduto così anche a Giona: Dio non aveva scelto un altro inviato, ma era tornato a chiamare colui che era fuggito.
La perseveranza nella sequela, l’obbedien-za alla parola che chiama, non dipendono anzitutto da qualità e risorse umane, ma dalla fedeltà di Dio che torna sempre a chiamare «una seconda volta».
È la fedeltà della sua chiamata a suscitare la fedeltà della nostra risposta.
Giona è inviato ad annunciare ai Niniviti la conversione; anche i discepoli sono resi par-tecipi dell’annuncio fondamentale di Gesù: «Convertitevi e credete nel vangelo» (Mc 1,15).
Né l’uno né gli altri devono però dimenticare che la conversione non è solamente il conte-nuto del loro annuncio, ma la sua condizione e il suo stile.
Si annuncia la conversione solo a condizione di vivere un cammino personale di ritorno al Signore che sempre ci chiama una «seconda volta» dentro l’esperienza della nostra debolezza, delle nostre esitazioni o smarrimenti, addirittura nelle nostre fughe e nei nostri peccati.
Sia il libro di Giona sia l’evangelo di Marco ci rivelano così che la nostra conversione è resa possibile dal dono preveniente di Dio: è il dono del suo Regno che si approssima, il fatto che egli per primo si converta verso di noi, a rendere possibile la nostra risposta.
Nel-l’annuncio fondamentale di Gesù risuonano quattro verbi: i primi due all’indicativo (il tempo è compiuto; il regno di Dio è vicino); gli altri due all’imperativo (convertitevi; credete).
Con l’indicativo Gesù annuncia qualcosa che avviene e che deve essere constatato e accol-to; con l’imperativo esprime le esigenze che ciò che sta avvenendo pone agli uomini.
L’in-dicativo precede l’imperativo: ciò che avviene è donato gratuitamente; nello stesso tempo l’indicativo fonda l’imperativo: ciò che avviene esige una risposta.
La esige proprio perché la rende possibile.
Il Regno si è fatto così vicino che ora è davvero alla nostra portata acco-glierlo.
È vicino non perché manchi ancora qualcosa alla sua realizzazione da parte di Dio.
Nel Figlio tutto è donato.
Ciò che manca è la decisione dell’uomo, la sua risposta, che però ora sono possibili.
Non ci sono scuse né rinvii: occorre decidersi e credere ‘subito’, perché il Regno è donato nelle nostre mani e il tempo, come scrive Paolo, «si è fatto breve» (1 Cor 7,29).
Questo dono avviene peraltro sempre nella logica della ‘consegna’.
«Dopo che Giovanni fu arrestato» Gesù inizia ad annunciare la prossimità del Regno.
In greco Marco usa il ver-bo «consegnare».
Il Battista viene consegnato come Gesù verrà consegnato (cfr.
Mc 9,31; 10,33; 14,41).
Giovanni il precursore precede Gesù anche nella morte, profetizzando così che Dio dona il Regno consegnando il suo Figlio unigenito.
Proprio questa consegna radi-cale e definitiva compie il tempo e compie anche la nostra possibilità di sequela: Dio ‘con-segna’ tutto, possiamo perciò anche noi lasciare tutto e seguirlo.
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – tre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo di avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2008, pp.
63.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
Signore, vieni a invitarci (…) Per essere un buon danzatore, con Te come con tutti, non occorre sapere dove la danza conduce.
Basta seguire, essere gioioso, essere leggero, e soprattutto non essere rigido.
Non occorre chiederti spiegazioni sui passi che ti piace fare.
Bisogna essere come un prolungamento, vivo ed agile, di te.
E ricevere da te la trasmissione del ritmo che l’orchestra scandisce.
(…) Ma noi dimentichiamo la musica del tuo Spirito, e facciamo della nostra vita un esercizio di ginnastica; dimentichiamo che fra le tue braccia la vita è danza, che la tua Santa Volontà è di una inconcepibile fantasia, e che non c’è monotonia e noia se non per le anime vecchie, che fanno tappezzeria nel ballo gioioso del tuo amore.
Signore, vieni a invitarci.
(…) Se certe arie sono spesso in minore, non ti diremo che sono tristi; se altre ci fanno un poco ansimare, non ti diremo che sono logoranti.
E se qualcuno ci urta, la prenderemo in ridere; sapendo bene che questo capita sempre quando si danza.
Signore, insegnaci il posto che tiene, nel romanzo eterno avviato fra te e noi, il ballo singolare della nostra obbedienza.
Rivelaci la grande orchestra dei tuoi disegni; in essa quel che tu permetti da suoni strani nella serenità di quel che tu vuoi.
Insegnaci a indossare ogni giorno la nostra condizione umana come un vestito da ballo che ci farà amare da te, tutti i suoi dettagli come indispensabili gioielli.
Facci vivere la nostra vita, non come un gioco di scacchi dove tutto è calcolato, non come un match dove tutto è difficile, non come un teorema rompicapo, ma come una festa senza fine in cui l’incontro con te si rinnova, come un ballo, come una danza, fra le braccia della tua grazia, nella musica universale dell’amore.
Signore, vieni a invitarci.
(Madeleine DELBRÉL, La danza dell’obbedienza, in Noi delle strade, Torino, Gribaudi, 1988, 86-89).
Vieni, seguimi! Secondo Girolamo, la parola di vocazione che Gesù pronuncia corrisponde a una nuova creazione.
Chi si incontra con Gesù rimane affascinato dal suo volto, scopre la sua realtà e intraprende il cammino di ritorno al Padre.
E subito li chiamò: e quelli, lasciato il loro padre Zebedeo nella barca con i garzoni, lo seguirono.
Qualcuno potrebbe dire: — Ma questa fede è troppo temeraria.
Infatti, quali segni avevano visto, da quale maestà erano stati colpiti, da seguirlo subito dopo essere stati chiamati? Qui ci vien fatto capire che gli occhi di Gesù e il suo volto dovevano irradiare qualcosa di divino, tanto che con facilità si convertivano coloro che lo guardavano.
Gesù non dice nient’altro che «seguitemi», e quelli lo seguono.
È chiaro che se lo avessero seguito senza ragione, non si sarebbe trattato di fede ma di temerarietà.
Infatti, se il primo che passa dice a me, che sto qui seduto, vieni, seguimi, e io lo seguo, agisco forse per fede? Perché dico tutto questo? Perché la stessa parola del Signore aveva l’efficacia di un atto: qualunque cosa egli dicesse, la realizzava.
Se infatti «egli disse e tutto fu fatto, egli coman-dò e tutto fu creato» [Sal 148,5], sicuramente, nello stesso modo, egli chiamò e subito essi lo seguirono.
«E subito li chiamò: e quelli subito, lasciato il loro padre Zebedeo…» ecc.
«Ascolta, fi-glia, e guarda, e porgi il tuo orecchio, dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre: il re desidera la tua bellezza» [Sal 44,11ss.].
Essi dunque lasciarono il loro padre nella barca.
Ascolta, imita gli apostoli: ascolta la voce del Salvatore, e trascura la voce carnale del pa-dre.
Segui il vero Padre dell’anima e dello spirito, e abbandona il padre del corpo.
Gli apo-stoli abbandonano il padre, abbandonano la barca, in un momento abbandonano ogni loro ricchezza: essi, cioè, abbandonano il mondo e le infinite ricchezze del mondo.
Ripeto, ab-bandonarono tutto quanto avevano: Dio non tiene conto della grandezza delle ricchezze abbandonate, ma dell’animo di colui che le abbandona.
Coloro che hanno abbandonato poco perché poco avevano, sono considerati come se avessero abbandonato moltissimo.
(GIROLAMO (347-420), Commento al vangelo di Marco, 2 (Tr.: R.
MINUTI-R.
MARSI-GLIO, Roma, 1965, 35-36).
Butto la rete Signore, la mia sola sicurezza sei tu, come il mare che ho davanti e nel quale butto la rete della mia vita.
Anche se finora non ho pescato nulla, anche se a volte non ne ho la voglia, io so, Signore, che se avrò la forza di buttare continuamente questa rete, troverò il senso della verità.
(E.
OLIVERO, L’amore ha già vinto Pensieri e lettre spirituali 1977-2005, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2005, 58).
Preghiera Signore, tu hai aperto il mare e sei venuto fino a me; tu hai spezzato la notte e hai inaugurato per la mia vita un giorno nuovo! Tu mi hai rivolto la tua Parola e mi hai toccato il cuore; mi hai fatto salire con te sulla barca e mi hai portato al largo.
Signore, Tu hai fatto cose grandi! Ti lodo, ti benedico e ti ringrazio, nella tua Parola, nel tuo Figlio Gesù e nello Spirito Santo.
Portami sempre al largo, con te, dentro di te e tu in me, per gettare reti e reti di amore, di amicizia, di condivisione, di ricerca insieme del tuo volto e del tuo regno già su questa terra.
Signore, sono peccatore, lo so, ma anche per questo ti ringrazio, perché tu non sei venu-to a chiamare i giusti, ma i peccatori e io ascolto la tua voce e ti seguo.
Ecco, Padre, lascio tutto e vengo con te…

Valutare gli insegnanti e le scuole

Premiare gli insegnanti più bravi e dare più finanziamenti alle scuole migliori è facile a dirsi ma complicato, molto complicato a farsi.
Oltre che costoso: in media dai 31 agli 81 milioni di euro l’anno, tanto ci vuole a mettere in piedi un sistema di rating efficiente.
A stilare il piano di fattibilità della valutazione scolastica è stata una commissione di esperti, incaricata dall’Invalsi, l’ente nazionale per la valutazione.
Che nel giro di qualche settimana dovrà prospettarne i risultati al ministro dell’istruzione, Mariastella Gelmini.
Una proposta per rendere finalmente operativa la differenziazione dei salari per il personale e quella finanziaria per gli istituti scolastici, a cui hanno inutilmente lavorato in passato altri ministri a viale Trastevere.
Tre gli artefici della proposta- tutti accademici- che ha l’ambizione di essere bipartisan: Daniele Checchi, Giorgio Vittadini e Andrea Ichino, fratello del giuslavorista Pietro.
Questi, senatore del Pd e ordinario di diritto del lavoro all’università di Milano, ha collaborato alla definizione dell’autorità di vigilanza per l’efficienza del lavoro pubblico e all’individuazione degli indici di produttività per i dipendenti pubblici previsti dalla riforma Brunetta.
Indici a cui ricorre anche Andrea Ichino (docente all’università di Bologna), per dare concretezza alla misurazione dell’efficacia del sistema scolastico.
Si parte dalla misurazione dell’apprendimento degli studenti di seconda e quinta elementare, terza media e ultimo anno delle superiori, attraverso prove standardizzate somministrate da valutatori esterni alla scuola.
Attesa l’inaffidabilità dei docenti interni, portati ad aiutare i propri ragazzi, sostengono i tre esperti.
Le risposte potranno essere chiuse o aperte e corrette meccanicamente oppure da commissari esterni (prof di altre regioni, studenti universitari).
Variabili, queste, che fanno oscillare i costi dai 31 agli 81 milioni di euro l’anno.
Nel caso della terza media e dell’ultimo anno delle superiori, le prove dovranno essere somministrate ad aprile, dovranno essere rilevanti ai fini dell’esame di stato e utilizzabili per l’ammissione ai livelli successivi.
Uno dei pilastri della proposta è l’anagrafe scolastica nazionale che «segua nel tempo tutti gli studenti consentendo di abbinare la loro performance alle caratteristiche delle scuole frequentate e degli insegnanti incontrati, nonché a dati di fonte amministrativa sulle caratteristiche demografiche ed economiche delle loro famiglie».
Il punteggio attribuito allo studente dovrà separare così quello che nel rendimento è attribuibile alla scuola e ai suoi insegnanti, al contesto socio-economico e al singolo studente.
Al miglioramento dei risultati, seguiranno incrementi stipendiali per gli insegnanti.
Ma visto che il lavoro del docente è di gruppo, la soluzione indicata dalla commissione è quella inglese: ovvero finanziare di più le scuole con indici più alti perché queste poi possano pagare meglio i propri insegnanti.
Ma le scuole, per poter davvero rispondere dei propri risultati, devono poter avere voce in capitolo anche in materia di reclutamento.
E qui la riforma comincia a farsi difficile.
da ItaliaOggi

Un «supermotore» della cultura italiana

Nel mondo ci sono quattro milioni di cittadini italiani (fonte Migrantes) e almeno sessanta milioni di oriundi.
Un’altra Italia, interessatissima alla cultura del nostro Paese, spesso innamorata e ammaliata quando dalla Roma dei Cesari, quando dagli intrighi della Firenze rinascimentale, quando dagli eroismi risorgimentali.
E che ci guarda da lontano, quasi sempre grazie a Internet, con entusiasmo e grande difficoltà.
Perché riuscire a discriminare tra milioni di pagine web, spesso di qualità scadente, con informazioni false o superficiali, è impossibile.
È quella che i sociologi chiamano information overload.
SUPERMOTORE SEMANTICO Nasce anche per fare un po’ di chiarezza nell’agitatissimo Mare Nostrum digitale, il progetto del supermotore di ricerca semantico della cultura italiana che è stato appena approvato e finanziato dal Miur.
L’obiettivo è quello di realizzare un meta motore semantico, cioè un sistema capace di interrogare tutti i search engines del mondo e anche di estrapolare il sapere seguendo schemi di intelligenza artificiale.
«E dunque creare un catalogo dei website migliori – spiega Marco Santagata, ordinario all’Università di Pisa e coordinatore scientifico del progetto -, una bussola della cultura italiana con la quale chiunque, ma soprattutto chi vive all’estero, può orientarsi per ottenere le giuste informazioni senza dispersioni e perdite di tempo».
Capofila del progetto, dal valore di 1,4 milioni di euro, è il Diparimento di studi italianistici dell’Università di Pisa, con il quale collaborano Cnr, Ministero dei Beni culturali, Dipartimento di Informatica dell’ateneo pisano e Icon, un consorzio di 21 università italiane, primo al mondo ad aver realizzato Icon (www.italicon.it) un portale sulla cultura italiana che permette anche a residenti all’estero di laurearsi in italianistica con un titolo di studio riconosciuto ufficialmente in Italia e all’estero.
TRADUZIONI IN TEMPO REALE Grazie all’impiego di algoritmi di intelligenza artificiale è prevista la realizzazione di un traduttore semantico italiano-inglese e inglese-italiano.
«Le pagine indicizzate nel supermotore di ricerca – continua Santagata – non saranno soltanto nella nostra lingua, ma in inglese e dunque sarà importante avere una traduzione in tempo reale.
Allo stesso tempo i documenti in italiano potranno essere convertiti in inglese per agevolare la comprensione di chiunque, anche degli oriundi di quarta generazione, che amano la nostra cultura ma non parlano la nostra lingua».
Marco Gasperetti

Chiesa 2.0: pescatori di uomini in Rete

Per don Pompili, i responsabili dei siti internet delle diocesi e delle altre realtà cattoliche debbono chiedersi anche se «è giusto continuare a contrapporre il virtuale al reale? E, d’altra parte, in che modo le due esperienze, obiettivamente diverse, possono integrarsi?».
«Non vi è dubbio – sottolinea – che ci siano in giro difensori entusiasti del virtuale che tendono a minimizzare il suo impatto, così come vi sono ostinati detrattori del virtuale che vorrebbero descriverlo necessariamente come antitesi all’umano».
Un altro interrogativo riguarda il nuovo individualismo che cresce: «In che modo questo individualismo interconnesso ridisegna il territorio umano e, dunque, la dinamica relazionale?».
Ma la questione centrale «è quella che si muove tra identità e linguaggi».
In questi anni, ricorda il sacerdote, «non sono mancati pertinenti pronunciamenti da parte del Magistero.
Ultimo in ordine di tempo, l’annunciato messaggio per la prossima Giornata mondiale delle comunicazioni sociali (Nuove tecnologie, nuove relazioni.
Promuovere una cultura di rispetto, di dialogo, di amicizia) che lascia chiaramente immaginare – e in modo dichiaratamente pro-positivo – che in questo ambito si gioca una partita importante dell’umano».
Il boom di internet in parrocchia.
Pescatori di uomini sì, ma nella Rete delle reti, evitando di rimanere intrappolati però nei meandri di internet.
Con più di duemila anni di storia e il Vangelo da annunciare al mondo la Chiesa e la sua missione salvifica potrebbe sembrare distante dal world wide web, un ambiente virtuale ed elettronico che ha avuto la sua ampia diffusione popolare non più di quindici anni fa.
Eppure andando sui browser e nei motori di ricerca si scopre che on line c’è una marea di pagine personali, blog, siti parrocchiali, di associazioni e movimenti che crescono di giorno in giorno confermando come il cristianesimo nelle diverse fasi storiche, compresa quella che stiamo vivendo, si è sempre incarnato e inserito nelle culture del suo tempo.
In Italia fino al marzo 2008 il numero di siti cattolici ha raggiunto quota 12mila secondo la lista www.siticattolici.it curata da Francesco Diani.
Di questi il 24,2 per cento sono riconducibili a siti di comunità parrocchiali mentre il 20 per cento ad associazioni e movimenti, il 7 per cento ai siti personali.
Un dato che conferma la ricerca dell’Università di Perugia condotta da Paolo Mancini, docente di sociologia della comunicazione, su un campione di 1338 persone: quasi l’86 per cento delle parrocchie italiane posseggono un computer e nel 70 per cento dei casi esiste una connessione a internet; circa il 62 per cento delle comunità parrocchiali ha un indirizzo di posta elettronica e «ciò avviene nonostante l’età piuttosto avanzata della maggior parte dei parroci italiani – dice la ricercatrice Rita Marchetti che ha collaborato all’indagine –.
Basta pensare che quasi il 50 per cento di essi ha più di sessant’anni».
La ricerca sarà presentata tra oggi e domani proprio al convegno “Chiesa 2.0”, rivolto principalmente ai responsabili diocesani della comunicazione internet, e in cui ci si interroga sul futuro della relazione tra virtuale e reale, e sull’individualismo che deriva dall’uso della rete, per capire se è possibile per la Chiesa e i cattolici essere presenti nel web mantenendo la propria lingua e la propria identità.
Alcuni esempi.
Per Daniel Arasa, docente di struttura dell’informazione e comunicazione digitale presso la Pontificia Università della Santa Croce, «qualsiasi istituzione che desideri trasmettere una sua immagine pubblica d’accordo con l’identità di se stessa, non può fare a meno dell’uso di internet e, concretamente, di avere un sito web».
Il problema quindi, secondo Arasa, che è autore di Church communications through diocesan websites.
A model of analysis, non è tanto se avere un sito web oppure non averlo, ma quale tipologia di sito costruire.
«Il web 2.0 – aggiunge – ha fatto sì che questi elementi siano sottomessi ad una nuova dinamica: alla diffusione dell’informazione si sono aggiunti lo scambio e il feedback».
È il caso del sito www.religione20.net, più di un semplice blog curato da Luca Paolin, che fa parte della comunità virtuale promossa da alcuni insegnanti di religione.
Ad oggi raccoglie più di cento membri attivi in tutta Italia all’indirizzo http://ircduepuntozero.ning.com/.
Il sito offre spunti e suggestioni dall’attualità, aree di documentazione e link di approfondimento.
Si propone come una raccolta di strumenti utili e segnalazioni per una didattica della religione in stile web 2.0.
Il sito de La vita cattolica di Udine (www.lavitacattolica.it) è un esempio di convergenza cooperativa, perché il settimanale della diocesi si integra con la radio e il sito dell’arcidiocesi stessa, mentre su www.diocesinoto.it, il sito internet istituzionale della diocesi siciliana, è possibile percorrere un itinerario multimediale delle Chiese barocche.
Nel portale dell’arcidiocesi di Napoli (www.chiesadinapoli.it) invece le parrocchie hanno un’area a loro dedicata in cui comunicare gli orari delle Messe, gli incontri delle varie pastorali, le date dei pellegrinaggi e dei ritiri spirituali.
«Parrocchie Map» permette inoltre di cercare la parrocchia più vicina alla propria abitazione.
Il portale ha infatti lo scopo di collegare in rete il tessuto di parrocchie e realtà ecclesiali della diocesi partenopea.
Una sfida accolta.
Un impegno, quello di essere presenti su internet, che mette in evidenza come la Chiesa abbia accettato dal Concilio Vaticano II, con la pubblicazione del decreto Inter Mirifica, le sfida provenienti dai mezzi di comunicazione e in seguito anche dei nuovi media.
«Non basta usarli per diffondere il messaggio cristiano, ma occorre integrare il messaggio stesso in questa nuova cultura creata dalla comunicazione moderna» scriveva nella Redemptoris missio Giovanni Paolo II.
Nel ’99 il convegno promosso dalla Cei ad Assisi, «Chiesa in rete.
Nuove tecnologie e pastorale», testimoniava un interesse per le nuove tecnologie applicate alla comunicazione e alla trasmissione del Vangelo.
A Milano, nel 2002, l’Università Cattolica prese spunto dalla 36esima Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, che aveva come tema Internet: un nuovo forum per proclamare il Vangelo, puntando ad accendere i riflettori sul fenomeno internet come un nuovo forum, nel senso attribuito a questo termine nell’antica Roma, cioè di uno spazio pubblico dove si conducevano politica e affari, dove si adempivano i doveri religiosi, dove si svolgeva gran parte della vita sociale della città e dove la natura umana si mostrava al suo meglio e al suo peggio.
Il 22 febbraio 2002 il Pontificio consiglio per le comunicazioni sociali pubblica La Chiesa e internet e Etica in internet.
Due documenti utili per orientarsi nel mare del web, così come il Direttorio sulle comunicazioni sociali della Cei.
Infatti, per quanto potenti ed affascinanti possano essere questi nuovi strumenti occorre comprendere che restano in mano all’uomo e alla sua responsabilità.
Allora anche internet diventa terreno di scontro tra bene e male, dibattito tra entusiasti e critici, tra verità e menzogna, spazio di dialogo, di contatto, di relazioni umane, di incontro tra culture, ma anche strumento di frodi e di abusi.
Per questo risulta interessante e c’è attesa per il messaggio di Benedetto XVI in occasione della 43esima Giornata mondiale delle comunicazioni sociali 2009, sul tema «Nuove tecnologie, nuove relazioni.
Promuovere una cultura di rispetto, di dialogo, di amicizia».
Tema su cui riflettere anche per via dell’espansione dei social network, ossia di quelle «reti sociali» che hanno traghettato il web in una nuova fase: il web 2.0.
«In che modo è possibile avere in Rete una fisionomia riconoscibile senza per questo assumere linguaggi scontati o peggio indecifrabili?».
A porsi questa domanda è il direttore dell’Ufficio Nazionale delle Comunicazioni Sociali e portavoce della Cei, don Domenico Pompili, che ha aperto oggi a Roma il convegno nazionale “Chiesa in rete 2.0” promosso insieme al Servizio Informatico della Chiesa Italiana.
«Non vi è dubbio – rileva Pompili – che è cresciuto il rapporto con la Rete, ma la domanda resta: come dobbiamo essere noi stessi, fino in fondo, senza per questo assumere uno stile linguistico desueto, quando non tautologico, cioè ripetitivo?».

“Essere riuniti nella tua mano”

Tema della settimana: “ESSERE RIUNITI NELLA TUA MANO” (cfr.
Ezechiele 37,17) Le date della celebrazione: 18-25 gennaio 2009        —› scegli, fra le seguenti voci di interesse per la Settimana di Preghiera:  1 › Presentazione  2 › Introduzione Teologico-Pastorale  3 › Testo Biblico  4 › Letture Bibliche e commento per ogni giorno della Settimana  5 › Preghiere proposte dalle chiese locali  6 › Situazione Ecumenica in Corea  7 › Date importanti nella storia della Preghiera per l’Unità dei Cristiani  8 › Temi della Settimana di Preghiera per L’Unità dei Cristiani 1968-2009  9 › Suggerimenti per l’organizzazione della Settimana di Preghiera

Il rapporto tra la fede e la scienza

Nell’argomentazione di Benedetto XVI ora riportata spiccano due elementi.
Il primo è che la ragione matematica non può negare Dio ma nemmeno provarlo.
Avvicina però a Lui.
E mostra che Dio è in definitiva “un’ottima opzione”.
Riaffiora qui l’invito a vivere “veluti si Deus daretur”, come se Dio ci fosse, invito lanciato più volte da Ratzinger anche “agli amici non credenti”, come già prima di lui da Pascal.
Il secondo elemento è che la ragione matematica non può dire tutto di Dio, perché Dio “è anche Amore”.
Nel botta e risposta del 2006 con i giovani, Benedetto XVI si limitò al semplice enunciato di questa tesi.
Ma per vederne lo sviluppo non c’è che da leggere l’intera sua omelia dell’Epifania di quest’anno.
* * * Resta la domanda: è proprio così diffusa la negazione di Dio, tra gli scienziati di oggi e in particolare i matematici? A leggere l’inchiesta a puntate che “Avvenire”, il quotidiano della conferenza episcopale italiana, sta pubblicando da un mese, la risposta è no.
“Avvenire” sta intervistando alcuni eminenti matematici proprio su “Numeri e fede”, cioè sulla compatibilità tra la ragione matematica e la fede in Dio.
L’immagine che ne esce è quella di un ambiente scientifico molto più aperto alla fede di quanto dica la “vulgata” dei media.
Gli intervistati sono stati finora i seguenti: – l’11 dicembre 2008 Antonio Ambrosetti, per molti anni ordinario di analisi matematica alla Normale di Pisa e ora alla Scuola internazionale superiore di studi avanzati di Trieste; – il 16 dicembre Lucia Alessandrini, ordinario di geometria all’Università di Parma; – il 19 dicembre Giandomenico Boffi, ordinario di algebra all’Università di Chieti e Pescara; – il 24 dicembre Marco Andreatta, ordinario di geometria e preside della facoltà di scienze all’Università di Trento; – il 6 gennaio 2009 Giovanni Pistone, ordinario di probabilità al Politecnico di Torino; – il 9 gennaio Maurizio Brunetti, professore di geometria e algebra all’Università Federico II di Napoli.
Il professor Pistone è membro della Chiesa evangelica valdese e diplomato in teologia, mentre gli altri sono di fede cattolica.
L’inchiesta di “Avvenire” si limita all’Italia, ma nelle risposte degli intervistati sono frequenti i riferimenti ad altri paesi.
Ferventi uomini di fede sono anche alcuni dei maestri da essi citati, in particolare Ennio De Giorgi, uno dei più insigni matematici del Novecento, e Francesco Faà di Bruno, proclamato beato nel 1998.
L’inchiesta continua.
Ed è facile scommettere che tra i prossimi intervistati vi sarà Giorgio Israel, ordinario di matematiche complementari all’Università di Roma “La Sapienza”, di religione ebraica e grande ammiratore di Benedetto XVI.
__________ Il giornale della conferenza episcopale italiana con l’inchiesta su “Numeri e fede”, curata da Luigi Dell’Aglio: > Avvenire __________ L’omelia di Benedetto XVI dell’Epifania di quest’anno: > “Cari fratelli e sorelle, l’Epifania…” Il 2009 è il quarto centenario delle prime osservazioni di Galileo Galilei al telescopio e sarà celebrato in tutto il mondo come l’anno dell’astronomia.
Sarà anche un anno particolarmente dedicato a Charles Darwin e alle teorie cosmologiche a lui ispirate.
A questo doppio appuntamento, papa Joseph Ratzinger dà l’impressione di arrivare ben caricato.
Lo si è capito anche da un passaggio chiave del discorso programmatico che egli ha rivolto alla curia romana lo scorso 22 dicembre: “La fede nello Spirito creatore è un contenuto essenziale del Credo cristiano.
Il dato che la materia porta in sé una struttura matematica, ed è piena di spirito, è il fondamento sul quale poggiano le moderne scienze della natura.
Solo perché la materia è strutturata in modo intelligente il nostro spirito è in grado di interpretarla e di attivamente rimodellarla.
Il fatto che questa struttura intelligente proviene dallo stesso Spirito creatore che ha donato lo spirito anche a noi, comporta insieme un compito e una responsabilità.
Nella fede circa la creazione sta il fondamento ultimo della nostra responsabilità verso la terra.
Essa non è semplicemente nostra proprietà che possiamo sfruttare secondo i nostri interessi e desideri.
È piuttosto dono del Creatore che ne ha disegnato gli ordinamenti intrinseci e con ciò ci ha dato i segnali orientativi a cui attenerci come amministratori della sua creazione.
Il fatto che la terra, il cosmo, rispecchino lo Spirito creatore, significa pure che le loro strutture razionali che, al di là dell’ordine matematico, nell’esperimento diventano quasi palpabili, portano in sé anche un orientamento etico.
Lo Spirito che li ha plasmati è più che matematica: è il Bene in persona che, mediante il linguaggio della creazione, ci indica la strada della vita retta”.
Colpisce, in questo passaggio, il ripetuto insistere del papa sulla struttura matematica dell’universo.
La matematica, infatti, è una scienza esatta che spesso oggi viene contrapposta a Dio, come la sua negazione “scientifica”, definitiva.
Scienziati di notorietà mondiale come l’inglese Richard Dawkins e l’italiano Piergiorgio Odifreddi legano insistentemente la matematica alla professione dell’ateismo.
Divulgate in conferenze, articoli e libri di grande successo, le loro tesi ambiscono a diventare linguaggio e pensiero comune.
In parole semplici, le obiezioni di questi matematici atei sono quelle espresse da uno studente liceale romano di 17 anni, di nome Giovanni, durante un botta e risposta col papa il una piazza San Pietro gremita di giovani, il 6 aprile 2006: “Padre Santo, si è indotti a credere che la scienza e la fede sono tra loro nemiche; che la logica matematica ha scoperto tutto; che il mondo è frutto del caso; e che se la matematica non ha scoperto il teorema-Dio è perché Dio, semplicemente, non esiste”.
A queste obiezioni, Benedetto XVI rispose testualmente così: “Il grande Galileo ha detto che Dio ha scritto il libro della natura nella forma del linguaggio matematico.
Lui era convinto che Dio ci ha donato due libri: quello della Sacra Scrittura e quello della natura.
E il linguaggio della natura – questa era la sua convinzione – è la matematica, quindi essa è un linguaggio di Dio, del Creatore.
“Riflettiamo ora su cos’è la matematica: di per sé è un sistema astratto, un’invenzione dello spirito umano, che come tale nella sua purezza non esiste.
È sempre realizzato approssimativamente, ma – come tale – è un sistema intellettuale, è una grande, geniale invenzione dello spirito umano.
La cosa sorprendente è che questa invenzione della nostra mente umana è veramente la chiave per comprendere la natura, che la natura è realmente strutturata in modo matematico e che la nostra matematica, inventata dal nostro spirito, è realmente lo strumento per poter lavorare con la natura, per metterla al nostro servizio, per strumentalizzarla attraverso la tecnica.
“Mi sembra una cosa quasi incredibile che una invenzione dell’intelletto umano e la struttura dell’universo coincidano: la matematica inventata da noi ci dà realmente accesso alla natura dell’universo e lo rende utilizzabile per noi.
Quindi la struttura intellettuale del soggetto umano e la struttura oggettiva della realtà coincidono: la ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura sono identiche.
Penso che questa coincidenza tra quanto noi abbiamo pensato e il come si realizza e si comporta la natura, siano un enigma e una sfida grandi, perché vediamo che, alla fine, è ‘una’ la ragione che le collega ambedue: la nostra ragione non potrebbe scoprire quest’altra, se non vi fosse un’identica ragione a monte di ambedue.
“In questo senso mi sembra proprio che la matematica – nella quale come tale Dio non può apparire – ci mostri la struttura intelligente dell’universo.
Adesso ci sono anche teorie del caos, ma sono limitate, perché se il caos avesse il sopravvento, tutta la tecnica diventerebbe impossibile.
Solo perché la nostra matematica è affidabile, la tecnica è affidabile.
La nostra scienza, che rende finalmente possibile lavorare con le energie della natura, suppone la struttura affidabile, intelligente della materia.
E così vediamo che c’è una razionalità soggettiva e una razionalità oggettivata nella materia, che coincidono.
Naturalmente adesso nessuno può provare – come si prova nell’esperimento, nelle leggi tecniche – che ambedue siano realmente originate in un’unica intelligenza, ma mi sembra che questa unità dell’intelligenza, dietro le due intelligenze, appaia realmente nel nostro mondo.
E quanto più noi possiamo strumentalizzare il mondo con la nostra intelligenza, tanto più appare il disegno della Creazione.
“Alla fine, per arrivare alla questione definitiva, direi: Dio o c’è o non c’è.
Ci sono solo due opzioni.
O si riconosce la priorità della ragione, della Ragione creatrice che sta all’inizio di tutto ed è il principio di tutto – la priorità della ragione è anche priorità della libertà – o si sostiene la priorità dell’irrazionale, per cui tutto quanto funziona sulla nostra terra e nella nostra vita sarebbe solo occasionale, marginale, un prodotto irrazionale; la ragione sarebbe un prodotto della irrazionalità.
Non si può ultimamente ‘provare’ l’uno o l’altro progetto, ma la grande opzione del cristianesimo è l’opzione per la razionalità e per la priorità della ragione.
Questa mi sembra un’ottima opzione, che ci dimostra come dietro a tutto ci sia una grande Intelligenza, alla quale possiamo affidarci.
“Ma il vero problema contro la fede oggi mi sembra essere il male nel mondo: ci si chiede come esso sia compatibile con questa razionalità del Creatore.
E qui abbiamo bisogno realmente del Dio che si è fatto carne e che ci mostra come Egli non sia solo una ragione matematica, ma che questa ragione originaria è anche Amore.
Se guardiamo alle grandi opzioni, l’opzione cristiana è anche oggi quella più razionale e quella più umana.
Per questo possiamo elaborare con fiducia una filosofia, una visione del mondo che sia basata su questa priorità della ragione, su questa fiducia che la Ragione creatrice è amore, e che questo amore è Dio”.
Nell’omelia della festa dell’Epifania Benedetto XVI è tornato su un tema a lui carissimo, quello del rapporto tra la fede e la scienza.
Il papa ha preso spunto dalla stella dei Magi che – ha rimarcato – “erano con tutta probabilità degli astronomi” come lo fu Galileo Galilei.
Ma ha invitato a portare lo sguardo al di là di una pura contemplazione del cielo stellato.
“Le stelle, i pianeti, l’universo intero – ha detto – non sono governati da una forza cieca, non obbediscono alle dinamiche della sola materia”.
Al di sopra di tutto non c’è “un freddo ed anonimo motore”, ma quel Dio definito da Dante nell’ultimo verso della Divina Commedia come “l’amor che move il sole e l’altre stelle”, quel Dio che ha preso carne in mezzo agli uomini e ad essi ha dato la vita.
Nella “sinfonia” del creato – ha proseguito il papa – c’è un “assolo” che dà significato al tutto: e questo “assolo” è Gesù.