Verso il IX Forum del Progetto culturale che si terrà a fine marzo a Roma, gli esperti s’interrogano sul tema dell’emergenza educativa.
Evandro Agazzi: «In passato la famiglia delegava ai docenti l’istruzione, ma sugli orientamenti di vita agiva da sé.
Oggi però questo schema è ormai saltato» L’intervista E’ mergenza educativa? «Parlerei soprattutto di un travaglio generalizzato delle società avanzate in molti campi, incluso quello educativo» risponde Evandro Agazzi, filosofo delle scienze, ordinario dell’Università di Genova e direttore di Nuova secondaria, il mensile dell’editrice La Scuola.
«Qui si va oltre l’emergenza, che è improvvisa e imprevista.
In questo caso non è così».
Nessuna sottovalutazione del problema, anche se «esistono diversi aspetti della questione: quello istituzionale, che coinvolge la scuola; quello della famiglia…».
Iniziamo da quest’ultimo aspetto.
Si assiste a una crescente difficoltà nella trasmissione di valori e tradizioni tra le generazioni.
Cosa è saltato rispetto a quanto avveniva nel passato? «È un problema che ha radici lontane.
Nel passato alla scuola veniva chiesto di fornire quell’istruzione che la famiglia non era in grado di fornire, mentre ai genitori spettava la trasmissione dei valori, che comunque trovavano corrispondenza in quelli della scuola, in una sorta di continuità.
Oggi si è persa questa percezione.
Alla scuola viene riconosciuta la funzione limitata all’informazione, quasi di tipo nozionistico.
Ma sui valori, sugli orientamenti di vita, è invitata a mantenere una neutralità educativa».
Dunque trasmettere i valori resta compito solo della famiglia? «In realtà ci troviamo davanti a un vuoto, perché la famiglia sembra non avere più tempo per dare questa formazione valoriale ai figli.
Spesso entrambi i genitori lavorano e stanno poco con i figli.
Così si crea dispersione e disorientamento nei giovani, che cercano quei valori prendendoli qua e là, magari dalla televisione e da Internet».
Scuola neutrale, famiglia assente.
Un quadro desolante.
«Allo scenario va aggiunto anche un problema di mancanza di fiducia tra scuola e famiglia.
Un tempo nessun genitore avrebbe mai messo in discussione un giudizio o un voto dato a scuola dall’insegnante.
Ora accade il contrario.
Un fenomeno che si spiega anche con la perdita di autorità da parte dei genitori, che a volte rinunciano al loro ruolo per diventare ‘amici’ dei loro figli.
Un errore».
Scuola delegittimata dalla famiglia.
Eppure in passato si è parlato spesso di delega educativa da parte della famiglia alla scuola.
Non le pare contraddittorio? «Più che di delega, parlerei di una generalizzata scelta di scaricare sulla scuola una serie di compiti impropri, che hanno avuto come risultato quello di togliere tempo ai compiti fondamentali della scuola.
Ci sono cose che si apprendono solo a scuola, ma il moltiplicarsi delle cosiddette ‘educazioni’, ha dato vita a materie che sono gravate sulla scuola.
Un po’ anche per scaricarsi la coscienza da parte delle altre istituzioni e dimostrare sensibilità verso un tema».
Cosa è possibile fare per invertire la rotta e tornare a educare? «Non si può che partire dalla famiglia.
Direi quasi che bisogna educare i genitori a svolgere il proprio ruolo e il proprio compito.
Un apprendimento che nel passato avveniva nella famiglia d’origine, ma anche altre istituzioni aiutavano i giovani a diventare uomini e don- ne maturi.
Penso alla Chiesa e alla sua catechesi.
Oggi la famiglia appare priva di valori da trasmettere e nella società servono valori e modelli di vita».
Ma questo come è realizzabile in una società, che, rispetto al passato è decisamente plurale? «È sicuramente più complesso rispetto al passato dove sostanzialmente avevamo una società più omogenea sui valori, perché al di là delle diverse etiche tutto sommato ci si ritrovava su una morale condivisa.
Oggi non è più così.
Occorre cercare un minimo comune denominatore da condividere.
Penso che possa essere, ad esempio, il senso del dovere, cioè il riconoscere che esistono doveri e che le nostre azioni devono essere in conformità.
Così si potrà parlare di coscienza morale condivisa».
Ma davanti a una pluralità di valori come può la scuola aiutare i giovani a formarsi un proprio bagaglio di principi? «La scuola aiuta i giovani se riesce a insegnare loro il senso critico.
Lo ritengo il dovere di ogni insegnante, che non deve nascondere il proprio bagaglio di valori, ma nell’esporlo deve essere onesto, convinto e, appunto, critico.
Non si tratta di indottrinare nessuno, ma di dare ragione delle proprie idee e dei propri valori».
Insomma docenti con onestà intellettuale, ma anche rispettosi degli altri punti di vista? «I ragazzi lo percepiscono subito se un adulto crede davvero in ciò che dice.
Accade anche a scuola con i docenti, che devono rendere ragione delle proprie af- fermazioni, aiutare i ragazzi a riflettere, a ragionare anche sulle cose considerate assodate, come capita spesso nelle materie scientifiche, dove spesso regna il vero dogmatismo, cioè la presentazione di “verità” indiscutibili.
Viceversa anche a proposito di tali contenuti è essenziale far capire ‘perché’ sono validi e attraverso quali prove, spesso complesse, si è stabilita la loro validità, per altro sempre aperta a riconsiderazione.
È la strada per insegnare ai ragazzi quel senso critico, che appare attualmente uno strumento necessario per potersi muovere in questa società sempre più plurale».
Enrico Lenzi
Categoria: Formazione
La scuola? Un cambiamento senza fine
Questi, secondo l’Aimc, gli elementi di maggior rilievo di questo situazione: “immersione in un cambiamento senza fine, ben diverso da una positiva innovazione graduale e condivisa; mancanza di standard nazionali di riferimento che assicurino un minimo di tenuta del sistema; espansione e consolidamento della tendenza a considerare il criterio organizzativo dominante rispetto alle finalità della scuola, come succede, ad esempio per il tempo scuola prestabilito che condiziona quello su cui centrare l’apprendimento invece di fare il contrario, cioè stabilire l’essenziale da apprendere e determinare poi, di conseguenza, il tempo occorrente per realizzarlo”.
Ne derivano alcune conseguenze di non poco conto – sostiene l’Aimc – che vanno a consolidare un trend degli ultimi anni poco promettente, che contribuisce alla delegittimazione del ruolo istituzionale della scuola e all’erosione, nell’opinione pubblica, del credito sociale degli insegnanti.
Nel documento conclusivo non poteva mancare uno specifico riferimento alle recenti riforme che interessano la scuola primaria, maestro unico e compresenze.
“L’unitarietà dell’apprendimento rimanda all’unitarietà della persona e della cultura e si presuppone venga garantita dall’unicità del docente, mentre nei fatti si realizza solo grazie a una progettazione coerente attenta alla personalizzazione e alla pluralità dei percorsi formativi di ciascuno, capace di muoversi nelle dinamiche proprie dell’elaborazione culturale e sociale dando essenziali coordinate di senso”.
“La compresenza è assimilata al solo spreco di risorse e non colta come elemento di qualità, nell’assicurare la centralità dell’apprendimento.
È importante invece considerare cosa non si riuscirà più a realizzare in favore degli alunni perché le opportunità formative introdotte in questi anni costituiscono la vera novità delle ultime riforme”.
——————————————————————————– TuttoscuolaFOCUS lunedì 16 febbraio 2009 Incertezza e confusione connotano l’attuale momento della scuola e determinano una sorta di destabilizzazione anche nei suoi professionisti.
E’ il parere del Consiglio Nazionale dell’Associazione Italiana Maestri Cattolici, riunitosi a Roma nei giorni scorsi, che si è interrogato sullo “stato d’animo” della scuola in questo momento e sui segnali per il futuro.
Dove va la scuola? di Consiglio Nazionale AIMC ——————————————————————————– http://aimcsicilia.wordpress.com/ Dove va la scuola? Pronunciamento del Consiglio Nazionale Aimc Il CN dell’Associazione Italiana Maestri Cattolici, riunitosi in Roma nei giorni 7-8 febbraio u.
s., si è interrogato sullo “stato d’animo” della scuola in questo momento e sui segnali per il prossimo futuro.
Quanto emerso, viene qui organizzato intorno a tre nuclei, con una struttura comune: il senso del nucleo, la sua argomentazione anche attraverso esemplificazioni, la postazione associativa e il suo ruolo ora problematizzzante, ora propositivo.
Clima che si vive (il presente ossia il “dove” operiamo) Incertezza e confusione sono termini che connotano l’attuale momento della scuola e che determinano una sorta di destabilizzazione anche nei suoi professionisti.
Gli elementi/indicatori di maggior rilievo possono essere sinteticamente indicati nei seguenti: – immersione in un cambiamento senza fine, ben diverso da una positiva innovazione graduale e condivisa; – mancanza di standard nazionali di riferimento che assicurino un minimo di tenuta del sistema; – espansione e consolidamento della tendenza a considerare il criterio organizzativo dominante rispetto alle finalità della scuola; un esempio per tutti: il tempo scuola prestabilito che condiziona quello su cui centrare l’apprendimento invece di stabilire l’essenziale da apprendere e determinare poi, di conseguenza, il tempo occorrente per realizzarlo.
Ne derivano alcune conseguenze di non poco conto che vanno a consolidare un trend di questi ultimi anni poco promettente, che contribuisce alla delegittimazione del ruolo istituzionale della scuola e all’erosione, nell’opinione pubblica, del credito sociale dei professionisti di scuola.
Chiave di lettura (quali chiavi di lettura per interpretare gli eventi) Il CN ha individuato come chiave di lettura, al fine della comprensione e interpretazione di quanto segnalato, una sorta d’incapacità a “reggere” la complessità con conseguente ricorso a categorie e strategie di semplificazione e riduzione, per cui c’è da chiedersi se i punti di approdo siano realmente in grado di risolvere il problema.
Fra le tematiche emerse, che vanno a supportare tale affermazione: – la complessità della valutazione che viene affrontata attraverso la reintroduzione del voto con il rischio, magari non voluto ma possibile nei fatti, di perdere di vista il processo e mirare solo all’esito espresso in termini di prestazioni predefinite; – l’unitarietà dell’apprendimento, che rimanda all’unitarietà della persona e della cultura, che si presuppone venga garantita dall’unicità del docente, mentre nei fatti si realizza solo grazie a una progettazione coerente attenta alla personalizzazione e alla pluralità dei percorsi formativi di ciascuno, capace di muoversi nelle dinamiche proprie dell’elaborazione culturale e sociale dando essenziali coordinate di senso; – la ricchezza del modello pedagogico e didattico non riconducibile alla sola questione del tempo scuola, un’affermazione che trova conferma nell’idea di pensare di garantire il tempo pieno solo attraverso le 40 ore di tempo scuola; – l’autonomia delle istituzioni scolastiche che pare percepita come esito del semplice accostamento dell’autonomia dei singoli soggetti, più che come attenzione ai legami propri dell’interazione fra di loro e con la comunità sociale; – l’innovazione vista come esito finale di tanti e notevoli cambiamenti che non sono mai stati sistematicamente valutati, con la conseguente mancata capitalizzazione dei passi di avanzamento realizzati; – la compresenza assimilata al solo spreco di risorse e non colta come elemento di qualità, nell’assicurare la centralità dell’apprendimento.
È importante invece considerare cosa non si riuscirà più a realizzare in favore degli alunni perché le opportunità formative introdotte in questi anni costituiscono la vera novità delle ultime riforme.
Le conseguenze che ne derivano: – il prospettare una visione “velata”, quasi “virtuale” (staccata dalla realtà) della scuola, che perde la connotazione, per l’Aimc irrinunciabile, di comunità educativa; – l’esasperazione del localismo, che può anche essere di eccellenza (se misurato secondo il rispetto degli standard nazionali), ma che comunque rompe i legami di sistema.
Una visione di scuola OGM? (quale futuro per la scuola?) Si avverte da tempo l’esigenza di un quadro normativo di riferimento che superi l’approccio “a frammento” (presa in carico di singoli aspetti, non interrelati); assuma il nuovo rapporto Stato/Regioni/Enti e autonomie locali contestualizzando l’autonomia scolastica in termini educativo-formativi e istituzionali, non alienabili ad altri soggetti; ridisegni uno stato giuridico, ormai obsoleto, dei docenti.
Fra le proposte di legge in campo, la 953, firmataria l’on.
Aprea, sembra la sola a presentare un disegno organico di autogoverno della scuola e stato giuridico dei docenti.
Per decidere se la si può considerare strumento contenente potenziali-tà per valorizzare la scuola e i suoi professionisti, è opportuno esaminarla alla luce di una idea-guida che faccia da chiave di lettura: il diritto all’educazione di cui l’ alunno-persona è portatore, ossia il diritto a una scuola che assicuri a ciascuno il pieno sviluppo e educhi progressivamente a quella competenza di vita che fa sentire responsabili della comunità e del mondo in cui si vive.
In rapporto a questo diritto primario sono da considerare anche i diritti di cui sono portatori i professionisti di scuola.
Tutto ciò che è favorente in tal senso è da accettare (anche se costa impegno, fatica di “cambiare”, rischio di esporsi alla valutazione sociale) e tutto ciò che ostacola è da respingere (anche se più comodo, più gratificante, meno rischioso), pur assicurando il dovuto rispetto della normativa.
Esaminando la proposta di legge Aprea attraverso questa chiave di lettura, riscontriamo: – l’uso di una terminologia e la scelta di soluzioni che richiamano l’idea di una scuola centrata più sulla dimensione amministrativa che su quella comunitaria, con il rischio di limitare il senso di appartenenza e di cittadinanza della scuola e dei soggetti che la compongono.
Occorre una proposta che contemperi partecipazione della comunità territoriale nell’organo di governo della scuola, tutela della natura della scuola stessa, garanzia della legittimità degli atti; – l’accentuazione di una prospettiva economicistica che va ben al di là dell’esigenza del risparmio indotta dalla congiuntura del momento, che rischia di svuotare una visione pedagogico-educatica garante della natura propria del mandato costituzionale dell’istituzione scolastica; – lo schiacciamento della scuola primaria (che pure insieme a quella dell’infanzia è riconosciuta di eccellenza in campo internazionale) ad opera del modello della scuola secondaria, con una visione estremamente riduttiva della primarietà; quasi una scuola piccola per bambini piccoli, che hanno bisogno solo delle strumentalità del “leggere, scrivere e far di conto”.
Come arginarlo? È da coltivare anzitutto nella mentalità e nell’atteggiamento dei professionisti, perchè non si riconsegnino a questa logica apparentemente rassicurante, come avverrebbe ad esempio enfatizzando la proposta di articolazione del Collegio Docenti in dipartimenti disciplinari o sottovalutando il valore e la dignità della cultura di scuola.
Uno spazio percorribile è quello della riqualificazione del tirocinio nel corso di laurea in termini di autentico partenariato università-scuola e non semplicemente università-docente accogliente, riprendendo, aggiornandola, la ricca elaborazione associativa a suo tempo portata avanti in proposito.
L’Associazione intravede tre aspetti, in particolare, che preoccupano e necessitano di attenzione, in quanto segni del debole profilo che la professione assumerebbe se la proposta di legge andasse in porto così com’è e che rischia di render ancor meno allettante la scelta di dedicarsi all’insegnamento.
Una linea di sviluppo della professione che, nonostante le dichiarazioni contrarie, si verrebbe a profilare comunque gerarchizzata, perché i tre “livelli” previsti non configurano solo una progressione economica, ma l’attribuzione di compiti e la possibilità di accesso a funzioni che, di fatto, pongono alcuni in posizione sovraordinata rispetto ad altri.
Non si vuole certo sostenere l’omogeneità professionale ed è giusto che chi lavora di più e meglio abbia di più; non sembra, però, promettente che la progressione verso il livello di “esperto” avvenga prevalentemente attraverso compiti e funzioni che allontanano dalla diretta relazione educativa.
Siamo coscienti di un contesto di mobilità professionale che comporta l’esigenza di confrontarsi con i criteri di sviluppo della professione applicati per lo meno in altri Paesi dell’Occidente europeo, ma l’uso stesso della terminologia proposta potrebbe ingenerare nelle famiglie interrogativi inquietanti: ogni bambino/ragazzo ha diritto alla qualità alta e intera dell’insegnamento, che si potrebbe leggere invece presente in “quote diverse” nell’insegnante iniziale e in quello esperto.
Una evidente debolezza del Collegio dei Docenti riscontrabile nelle scarne righe dedicate alle sue potestà e funzioni, che sembrano privilegiare aspetti tecnico-funzionalistici nonostante a tale organo competa l’elaborazione del Pof.
In particolare, non è mai affermato che i processi decisionali riguardanti la scuola nel suo divenire devono essere collegiali.
Occorre mantenere la collegialità nell’intera linea decisionale, lasciando alle articolazioni (la cui composizione va affidata al regolamento di ciascuna scuola) compiti istruttori.
Il Collegio va potenziato senza renderlo, però, l’unico organismo “politico” e contemperando le sue potestà con l’esigenza di salvaguardare la partecipazione delle famiglie e della comunità.
Una proposta praticabile potrebbe essere il rendere vincolanti le linee di indirizzo del Consiglio che il Collegio deve assumere e tradurre nell’elaborazione del Pof, così che l’unico elemento per non adottarlo da parte del Consiglio stesso sia il mancato rispetto di tali linee.
Un vuoto pesante: la mancanza di un momento/contesto/organismo di autotutela della professione che garantisca la possibilità di accesso alle procedure concorsuali previa “validazione” del possesso delle competenze che caratterizzano l’insegnante.
Chi può certificare che l’aspirante al concorso è un professionista? L’Organismo tecnico regionale, composto di rappresentanti della professione, potrebbe intervenire in sede di discussione e formulazione del giudizio con attribuzione del punteggio da parte della commissione di valutazione, per portare a compimento (sulla base di indicatori nazionali della “qualità” del lavoro d’aula) il processo sia di autovalutazione che di valutazione della comunità professionale locale.
Va tenuto presente che l’aspetto più problematico per una seria valutazione del docente è proprio quello relativo al lavoro d’aula, fatto anche di modalità comunicative e relazionali, clima collaborativo costruito, coinvolgimento dei soggetti in apprendimento… aspetti non direttamente rilevabili attraverso gli esiti di apprendimento degli alunni e per i quali occorre condividere necessari indicatori.
Relativamente alla formazione in servizio, si ritiene giunto il momento di chiedere con forza che essa, in qualsiasi momento della “carriera”, torni ad essere un dovere e non solo un diritto dei docenti e sia legata in percentuale consistente agli obiettivi che l’istituzione scolastica di appartenenza dichiara nel Piano dell’Offerta Formativa Infine, l’Aimc segnala una carenza registrabile in tutte le proposte in campo.
Non si fa mai riferimento a un organismo che possa dirimere eventuali conflitti.
Non vorremmo leggere questo come poca stima e attenzione ai processi decisionali che sono il cuore pulsante dell’autonomia.
Se ci crediamo, occorre pensare anche a chi e come possano essere gestite prevedibili conflittualità affinché la scuola non diventi campo di inutili diatribe da risolversi di caso in caso.
Il Consiglio Nazionale Aimc Roma, 8 febbraio 2009
Classe prima – Febbraio
1) Nei panni di Geremia La sua azione, il suo tempo Ai tempi di questo grande profeta, il popolo ebraico subiva ancora le conseguenze della conquista del Regno settentrionale di Israele da parte degli Assiri (722 a.C.), un evento che l’aveva reso loro provincia; al Regno meridionale di Giuda, con capitale Gerusalemme, era stato poi imposto il pagamento di pesanti tributi.
Dipendenza politica e religiosa spesso coincidevano, con il predominio delle divinità del popolo dominante; gli Ebrei vissero un secolo oscuro, caratterizzato da una vasta penetrazione di divinità mesopotamiche.
Intorno al 630 a.C., mentre l’impero assiro andava decadendo, il ventunenne re ebreo Giosia, del Regno di Giuda, avviò una riforma religiosa, abolendo i culti stranieri; contemporaneamente, l’altrettanto giovane Geremia iniziò la sua missione profetica.
Giosia fu un grande re, mosso dalla fede, desideroso di guidare il popolo, e sembrò rendere possibile la riunificazione dei due Regni.
Geremia era figlio del sacerdote di Anatot Chelkia e operò soprattutto nel Regno d’Israele, a Nord, tra coloro che gli Assiri non avevano deportato, “le pecore sperdute della casa d’Israele”, prevedendo anche un ritorno dei fratelli deportati.
Egli si nutrì di una religiosità fondata sui ricordi dell’Esodo e su una continua riflessione sull’Alleanza tra Dio e il Suo popolo.
Purtroppo, il saggio re Giosia morì combattendo contro il faraone d’ Egitto Necao, intenzionato a sottomettere la Mesopotamia approfittando della debolezza assira…
Nel periodo del dominio egizio sui territori Siro-palestinesi, Joakin figlio di Giosia divenne re-vassallo dell’Egitto, troppo debole per contrastare il ritorno di culti stranieri.
Geremia, in questa pericolosa situazione religiosa, profetizzò a Gerusalemme chiedendo, in nome di Dio, il ritorno a Lui, nello spirito della riforma di Giosia, preannunciando anche una grande catastrofe in caso contrario.
Essa sarebbe stata rappresentata da una nuova grande potenza: Babilonia.
Il famoso re Nabucodonosor espugnò Gerusalemme nel 598 a.C.
e organizzò una prima deportazione in Babilonia di moltissimi Ebrei.
Geremia esortò ad accettare la sottomissione ai Babilonesi, strumenti di un “salutare” castigo divino causato dall’infedeltà del popolo, una prova necessaria per riscoprire attraverso il dolore di senso dell’esistenza.
Unità di Lavoro biblica, per l’approfondimento e l’attualizzazione Seconda parte OSA di riferimento Conoscenze – Il libro della Bibbia, documento storico-culturale e Parola di Dio. Abilità – Saper ricostruire le tappe della storia di Israele.
– Individuare il messaggio centrale di alcuni testi biblici, utilizzando informazioni storico-letterarie e seguendo metodi diversi di lettura.
Obiettivi Formativi ipotizzabili Conoscenze e abilità – Conoscere e saper descrivere il ruolo del profetismo biblico.
– Individuare i messaggi fondamentali dei brani dell’Antico Testamento presentati.
– Saper individuare figure profetiche del nostro tempo, descrivendone le caratteristiche utili per un autentico rinnovamento sociale. Competenze di riferimento dell’allievo in prospettiva triennale – Sviluppo di un reale interesse inerente percorsi di riflessione sulla “verità” e sulla distinzione tra bene e male.
– Capacità di prendere in considerazione il progetto di vita cristiano come ipotesi di interpretazione della realtà sociale e individuale, sulla base di fondamentali conoscenze bibliche e dottrinali. 1) Nei panni di Geremia Il suo libro Il libro del profeta Geremia riporta i tre grandi periodi della sua attività: – sotto il buon re Giosia, i messaggi di consolazione ai superstiti del regno d’Israele (627-609 a.C.); – sotto l’iniquo re Joakin, l’appello alla conversione di Gerusalemme, nuovamente infedele nei confronti di Dio, e il fallimento delle sue esortazioni, che rende inevitabile la sventura (609-598 a.C.); – sotto il debole re Sedecia, l’appello alla sottomissione ai Babilonesi, strumenti di un giusto castigo divino e l’annuncio della possibilità di un nuovo futuro.
Baruc lo scriba, amico e “segretario” del profeta, scrisse per lui i suoi detti, narrando anche episodi dettagliati della sua vita: la storia stessa di Geremia divenne messaggio di Dio, oltre alle sue parole.
In seguito, altri scribi appartenenti a una scuola importante, teologicamente e letterariamente dipendenti dal Deuteronomio, rielaborarono le parole del profeta durante l’esilio.
1) Nei panni di Geremia “Io, Geremia…” Per me ci fu la Parola, la Parola soltanto.
Essa fu la mia vita, il mio cibo…
e il mio tormento.
Per Lei sono stato schernito, odiato, percosso…
e verrò condannato.
Il mio Signore mi ha scelto, consacrato per portare al Suo popolo la verità sul suo destino, sui suoi errori, sulla necessità di percorrere nuove vie…
il Suo amore paterno mi ha attraversato cuore e mente come il fuoco, un amore talvolta così tenero nel farmi sentire necessario e talvolta severo, più duro della roccia nel chiedermi di dare tutto a Lui e al popolo, senza trattenere per me né un istante del mio tempo né il desiderio di trovare pace e conforto.
Io, un “nahar”, un ragazzino inesperto e pieno di sogni non potevo che obbedire…
tremando.
Chi mi avrebbe dato retta quando avessi parlato in nome Suo? Il fuoco della Verità scalda, illumina, fa scorrere nelle vene un’ardente gioia di vivere perché è meraviglioso sapere con certezza cosa conti realmente in ogni esistenza…
ma la Verità provoca anche dolore: perché venga riconosciuta occorre lottare.
Amore e dolore hanno riempito la mia vita, una vita così piena e intensa che, comunque, rivivrei nello stesso modo.
«Prima che ti formassi nel grembo materno Io ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato…».
Il Signore mi parlò così interiormente e mi sconvolse con la Sua tenerezza.
Ero stato sognato da Lui, la mia esistenza aveva un grande significato…
Fu facile, allora, accettare con gioia immensa di fare da tramite tra Lui e il popolo sbandato, immemore di Mosé, del Decalogo, della Sua protezione costante, perso dietro agli idoli…
Certo, con qualche sacrificio sugli altari gli dei mesopotamici diventano benevoli…
e, nel loro infinito gelido silenzio, non chiedono di distinguere tra bene e male, di rinnovare i rapporti dopo aver cambiato il cuore, di fare sacrifici perché il bene scoperto trionfi…
Essi non chiedono nulla perché sono il Nulla, io per il Signore dovetti rinunciare ai miei idoli personali, al bisogno di essere approvato e stimato: facendo spazio alla Parola, scaricavo tutta la pesante zavorra dell’egoismo.
“Il Signore stese la mano e mi toccò la bocca”…
Diventai la Sua bocca e iniziò un viaggio nel buio.
E tu, Baruc, amico mio…
hai voluto metterti in viaggio con me, non hai mai esitato.
«La Mia Parola non è forse come il fuoco e come un martello che spacca la roccia?» (Ger 23,29) Dovetti consolare le genti sbandate di Israele, e provai una grande compassione per la povertà della loro anima, rassegnata alla sola ricerca di cibo e sicurezza.
Erano come figli ingrati, come mogli traditrici del vincolo matrimoniale…
stentavano a comprendermi, ma non disperavo: ero giovane, entusiasta, la forza di Dio era con me…
li amai come me stesso, anzi di più.
Potevo essere portavoce del Signore soltanto vedendo i Suoi figli – tutti – con i Suoi occhi: diedi tutto con un pizzico di umana incoscienza, i miei anni, le mie poche qualità.
Non conservai alcun distacco, vissi per il loro bene, per riportarli da nostro Padre.
Non misurai la fatica, avevo tante energie! Speravo nella riforma di Giosia.
Alcuni Israeliti – o molti – mi ascoltarono e piansero di rimorso; mi accadde allora di danzare di gioia, da solo, sotto le stelle del Signore in sere limpide e fresche.
Poi tutto divenne più difficile, fino all’insostenibile.
Quando il buon re morì – il Signore lo accolga – capii di dover combattere per Lui con la mia voce, a Gerusalemme; non trovai più traccia della coraggiosa riforma del sovrano.
Fu terribile: sentivo tutto l’amore del Signore esplodere in me; era amore per coloro che avvicinavo per le vie della città; erano indifferenti e sprezzanti e io cercavo invano un’anima fedele.
Mi sentivo terribilmente solo, ma il peggio doveva ancora arrivare.
Dovetti avvisarli, questi fratelli perduti, delle intenzioni del Signore: rieducarli attraverso la prova.
Solo una catastrofe li avrebbe costretti a riscoprire ciò che realmente conta, a compiere ciascuno un cammino interiore, insieme un cammino per riscoprirsi popolo unito nel Suo nome, l’unico portatore di salvezza.
Più della povera gente, spesso inconsapevole di una verità da tempo trascurata, erano responsabili del tradimento dell’Alleanza le guide, i sacerdoti incapaci o corrotti.
In Giuda non si seguivano altri dei, ma non si seguiva neppure il Signore se non in modo esteriore e ipocrita, senza alcun impegno di vita.
Il mio annuncio di sventura mi attirò addosso un’inaudita ostilità.
Nelle notti insonni, pensavo a tutti quelli che sarebbero stati ridotti in schiavitù, trucidati…
mi parve per colpa mia, per la mia incapacità di persuasione.
Capii in seguito come fosse in gioco una libera scelta di ciascuno per il bene, che non dipendeva da me.
Anche i miei parenti mi hanno voltato le spalle.
Non ne posso più! In passato le autorità mi hanno fatto flagellare: è un dolore fisico quasi insostenibile, ma non come quello dell’abbandono da parte di tutti, del fraintendimento in cattiva fede.
Sento in me il dolore di Dio stesso, Padre abbandonato.
Darei la vita per ciascuno di loro, anzi, l’ho già data e loro oggi mi condanneranno a morte.
Mi odiano, e io non posso smettere di amarli: se potessi subire il castigo che verrà al posto loro, non esiterei.
Mi pare di soffocare…
è troppo.
Non sono più giovane.
Mi uccidano alla svelta: sarò libero da loro, anche dall’incarico del Signore…
Baruc ha conservato per scritto, con pietà profonda, le mie preghiere al Signore, il diario del mio rapporto con Lui talvolta burrascoso (Confessioni: Ger 11-12; 15, 17-18, 20).
Talvolta mi sono ribellato, stufo di accettare senza capire: perché in terra il malvagio senza Dio trionfa sempre, mentre l’innocente viene calpestato? Il Signore promette giustizia, salvezza: ma quando? I Suoi tempi sono troppo, troppo lunghi.
Sì, sono andato in crisi, ho tentato persino di allontanarmi da Lui, sono arrivato a maledire il giorno della mia nascita.
Niente da fare: il Signore non mi ha lasciato andare, mi ha sorretto, mi ha fatto capire che io devo seminare, ma che sarà Lui a curare il raccolto…
che i Suoi tempi non sono i miei, che il dolore è un potente fertilizzante…
non posso che fidarmi del Signore: intravedo qualcosa dei Suoi progetti, so che le mie parole serviranno, un giorno, al mio, al Suo amato popolo…
ho donato la mia vita: solo così la ritroverò.
La mia fede rimarrà salda fino alla fine.
Tutto si compirà, in un tempo lontano, con il “germoglio giusto” della casa di Davide che nascerà.
1) Nei panni di Geremia Un drammatico tramonto Nel capitolo 26 del libro di Geremia, si narra del processo che dovette subire: i sacerdoti e tutte le autorità religiose di Gerusalemme ritennero che meritasse la morte per aver predetto la distruzione del Tempio; precedentemente era già stato arrestato e flagellato…
Anche da parte delle autorità politiche giunsero le persecuzioni: i ministri del debole re Sedecia lo accusarono di tradimento, di collaborazionismo con i Babilonesi, e indussero il sovrano a condannarlo a morte abbandonandolo sul fondo di una cisterna.
Venne salvato da uno straniero che, impietosito, persuase il re a risparmiarlo.
Dopo la presa babilonese di Gerusalemme, il profeta non seguì i deportati in Babilonia, dove probabilmente avrebbe ricevuto un buon trattamento; rimase tra i poveri, gli sbandati, coloro che non valeva neppure la pena di deportare.
In seguito, fu condotto prigioniero in Egitto, con lo scriba Baruc, fedele amico e segretario, da un gruppo di Ebrei sbandati…
fu come ritornare schiavi, prima della nascita di Mosé; secondo un’antica tradizione, durante questo esilio sconsolato il profeta morì martire per mano dei suoi stessi connazionali.
Quarta fase dell’attività L’insegnante propone agli allievi le seguenti domande a cui rispondere per scritto, concludendo con un confronto di opinioni: – quali messaggi, in Geremia, ti sembrano utili per l’uomo di oggi? E per un giovane alla ricerca della propria strada? – il dolore e la fatica, in Geremia, hanno degli aspetti positivi? Quali? Che cosa ne pensi? – nel “diario di Geremia”, quali comportamenti da lui descritti – soprattutto riguardanti il suo modo di amare – o affermazioni sembrano aprire la via al Cristianesimo? – quando si è soli contro tutti come il profeta e certi di essere dalla parte della verità affrontando questioni importanti, è giusto perseverare? In quali modi? Facciamo degli esempi.
Per l’inserimento dell’argomento in Unità di Apprendimento articolate, vedere Tiziana Chiamberlando, Sentinelle del Mattino, SEI, Volume per il biennio e Guida Terza fase dell’attività L’insegnante invita gli allievi a “viaggiare nel tempo” tramite i testi-guida, fino a…
mettersi nei panni di uno dei grandi profeti, Geremia: un uomo grande, ma con le sue fragilità, con un mondo interiore complesso e tormentato; in qualche modo vicino a ogni giovane in cerca della propria strada.
Pensiero estetico e teologia cristiana
“Il corpo del Logos.
Pensiero estetico e teologia cristiana” è il titolo del convegno che si svolge il 17 e il 18 febbraio a Milano presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale.
Anticipiamo stralci dell’intervento introduttivo e di una delle relazioni.
Due giorni interi dedicati a riflettere su una nuova alleanza tra arte e fede, anzi tra estetica e teologia.
E non solo a riflettere; ma si potrà anche vedere e sperimentare, perché il convegno gioca consapevolmente su molti registri: il pensiero filosofico, la riflessione teologica; la cristologia dei volti, l’arte contemporanea; l’estetizzazione della vita sociale, la forma della chiesa nella città postmoderna, la bellezza della ritualità cristiana.
Lo spazio dei chiostri sarà anche occupato da una mostra di istallazioni del Sacro dello scultore Tarshito – a partire da mercoledì 17 febbraio – fino al gran finale previsto per il pomeriggio del 18 e consistente in un concerto di Olivier Messiaen, Quatuor pour la fin du temps, eseguito dall’Oikos Ensemble.
Il tema potrà sorprendere qualcuno.
In realtà è noto che la Scuola di Teologia di Milano, sotto la regia appassionata di monsignor Pierangelo Sequeri, si è già segnalata nel panorama italiano per una ripresa forte della dimensione estetica nel pensiero teologico.
E ha generato una lunga fila di discepoli non solo dedita a scandagliare i sentieri inesplorati dell’affectus fidei – cioè del momento sensibile del sapere della fede – ma che ha riletto autori spirituali e pensatori della modernità, che la teologia disdegnava di frequentare.
Attivando anche una collaborazione stretta con la vicina Accademia di Brera in un decennio di interazioni con il dipartimento di Arte e antropologia del sacro.
L’appuntamento, così, arriva forte di una lunga esperienza.
Ci si attende da esso il rilancio di una “nuova alleanza”.
In Italia l’alleanza arte e fede non solo ha dato origine al 60 per cento del patrimonio artistico dell’umanità, ma ha iscritto nell’architettura, nella pittura, nella musica, nella letteratura, nonché nell’immaginario, nel gusto, nello stile – e, più in generale, nella cultura – l’esperienza che la poiesis è una forma di abitare il mondo e di entrare nel mistero della vita.
Per questo arte e fede si tengono per mano.
Non solo per quanto riguarda i prodotti dell’arte e le forme della fede.
Il pensiero riflesso e la teologia cristiana sanno che occorre ripercorrere i temi della fenomenologia, dell’ontologia, della metafisica, della spiritualità, dentro un orizzonte dove è direttamente coinvolta la problematica dell’estetico.
Dalla dottrina trinitaria di Dio all’incarnazione del Lògos, dalla dottrina sacramentaria alla risurrezione dei corpi, dalla forma di chiesa al modo di abitare lo spazio della vita sociale, la riflessione mette in luce un nesso fra il sensibile, lo spirituale, il metafisico, largamente oltre la questione dei modi di relazione fra “arte” e “sacro”.
La via pulchritudinis al cristianesimo non ha solo il significato debole, e tutto sommato ingenuo, di una correzione all’enfasi posta sull’ortodossia o alla cattiva fama della morale.
Se è così la “bellezza” della fede appare come un orpello ornamentale.
“Il bello è lo splendore del vero e del bene” (veritatis splendor), che fa accogliere con amore, e quindi in piena libertà, il vero e il bene.
Esso attraversa tutti i linguaggi: poesia, musica, pittura, architettura, forme dell’abitare, costruzione della città, ma – e questa è la sfida del pensiero – esso è la forma tipicamente umana della percezione e della dedizione alla verità del mondo e della vita.
Dunque, anche della rivelazione di Dio.
La teologia cristiana sa che il Lògos di Dio si dà a vedere, anzi si dona all’uomo nei mysteria carnis di Gesù.
Il corpo del Lògos non è un’occasione per l’apparizione di Dio, ma è l’immagine visibile del Dio inaccessibile.
Dottrina della percezione e teologia del rapimento sono al centro della teologia cristiana, come dice in modo splendido il prefazio di Natale, che Hans Urs von Balthasar ha disegnato come architrave della sua estetica teologica: “Mentre conosciamo Dio visibilmente, per mezzo suo siamo rapiti all’amore delle realtà invisibili”.
Questa è la via maestra della teologia cristiana perché ne abita il roveto ardente: “Nel mistero del Verbo incarnato è apparsa agli occhi della nostra mente una nuova luce del tuo splendore”.
Lux tuae claritatis infulsit: questa luce abbagliante non è solo per vedere, ma anche da pensare.
Sì, perché il pensiero non ha paura della luce che risplende nel corpo del Lògos.
Il convegno si apre nella mattinata di martedì 17 febbraio con il saluto del preside della Facoltà e le prime due relazioni affidate a Pierangelo Sequeri, su “La possibilità radicale dell’estetica teologica: c’è posto, nel cielo di Dio, per corpi e affetti sensibili?”, e a Massimo Cacciari, su “L’azzardo dell’estetica fra idealismo e nichilismo”.
Seguiranno nel pomeriggio la relazione di Timothy Verdon “Primi piani del Figlio di Dio: codici iconici dell’interiorità nel Volto di Gesù”, e di Andrea Del Guericio su “Il sistema contemporaneo dell’arte: nuovi intrecci fra soggettività e tradizione”.
Nella seconda giornata sono previste due relazioni al mattino, quella di Pietro Barcellona – “Estetizzazione della vita e della politica: effetto o causa della decostruzione etico-religiosa?” – e quella di Severino Dianich – “Immagine di Chiesa: la percezione della forma ecclesiae nello spazio della città post-moderna”.
Al pomeriggio l’ultima relazione prevista sarà tenuta dal monaco benedettino Jordi-Augustí Piqué Collado – “L’universo estetico del sacramento: formatività e performatività dell’evento rituale cristiano”.
di Franco Giulio Brambilla Vescovo ausiliare di Milano e preside della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale (©L’Osservatore Romano – 16-17 febbraio 2009)
D. Cravero, Prendi il largo
D.
Cravero Prendi il largo per la scuola secondaria di primo grado Il taglio dell’opera Il percorso proposto dal manuale si pone come principale scopo di scoprire il legame tra i dati esperienziali e l’insegnamento cristiano, di cui si mettono in luce l’attualità e la freschezza.
Scoprire la propria identità, vivere con intensità i momenti felici e quelli difficili, amare la vita che Dio ci ha donato, rispettarla, valorizzarla, scoprirne il significato per realizzare, attraverso l’insegnamento del Cristo, un modo più autentico di stare al mondo e per aprirsi in modo fecondo al futuro: questa è la proposta educativa rivolta dal manuale agli studenti nella difficile fase della preadolescenza.
Il progetto educativo Seguendo il percorso proposto dal libro si può comprendere e realizzare l’invito di Gesù a trovare il significato autentico e il valore delle esperienze, secondo un percorso che accompagna lo studente nella crescita, gli permette di realizzarsi autenticamente come persona, lo indirizza a sviluppare il proprio senso critico.
Un’opera che fornisce gli spunti per trovare una via verso la libertà e l’autenticità nelle relazioni, per essere propositivi e aperti, per rispondere alle esigenze individuali e sociali, per sviluppare la propria creatività, per diventare persone assertive, moralmente mature e affettivamente stabili, scoprendo che la nostra individualità va coltivata perché è una ricchezza e che quella altrui va accolta e rispettata perché aiuta a crescere.
Il percorso didattico Una proposta fresca e vivace, che, attraverso una didattica attiva e coinvolgente, incontra le attese dei preadolescenti e offre loro la possibilità di imparare a riflettere attraverso attività variate, giochi di ruolo, riflessioni esperienziali, cooperative learning.
Materiali per il docente Una presentazione dell’esperienza didattica che è all’origine del libro offre suggerimenti per un proficuo uso attivo del libro.
Suggerimenti di ulteriori attività completano l’offerta didattica.
Per raffigurare il Figlio di Dio
È suggestivo in questo senso un frammentario rilievo del IV secolo ai Musei Vaticani: rappresenta una barca in cui i rematori sono gli evangelisti [Joh]annes, Lucas, Marcus (Matheus doveva trovarsi nel pezzo mancante, a sinistra), mentre il timoniere è Iesus, il quale incoraggia tutti con un gesto della mano destra.
I volti degli evangelisti sono leggibili, quello di Gesù molto meno, causa l’abrasione avvenuta in epoca imprecisabile per motivi sconosciuti o per caso.
Questo rilievo paleocristiano – oltre alla funzione metaforica che vorrei attribuirgli – aiuta poi a riscoprire uno stile esegetico utile al presente discorso: attento ai dettagli ma convinto che questi vanno reinseriti nel contesto globale definito dal “timoniere” Cristo e non dai singoli testi, ognuno dei quali, come un rematore isolato, risulta inadeguato al progresso della nave.
Mentre il modo moderno di leggere i Vangeli distingue i contorni dei singoli testi, voglio dire, quello antico era più preoccupato di trovare i fils rouges lessicali e concettuali che permettevano di coglierne l’unicità del senso.
Lo sviluppo di “codici iconici” dell’interiorità nella raffigurazione di Gesù attraverso i secoli appartiene a questo stile.
Un altro principio ermeneutico da tener presente è che, almeno in passato, l’artista era chiamato a rispondere alle attese del suo pubblico e specificamente del committente dell’opera in oggetto.
Nella fattispecie, chi s’accingeva a raffigurare Cristo rispondeva alla domanda della Chiesa di visualizzare “quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo” fino a quando Dio non le abbia “rivelate per mezzo dello Spirito” (1 Corinzi, 2, 9-10; cfr.
Isaia, 64, 3).
L’ambito della raffigurazione era cioè una novità di sguardo la cui chiave ermeneutica è la fede, “fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono” (Ebrei, 11, 1).
Una piccola placchetta votiva del iii-iv secolo (conservata pure questa ai Musei Vaticani) aiuta a immaginare questo modo di vedere: è una sottile lamina d’oro con due occhi spalancati e – frammezzo – la croce.
Questo “sguardo nuovo” prepara i cristiani a guardare al mondo attraverso il mistero pasquale, in cui diventa palese che tutte le cose – spirituali ma anche materiali – “sussistono in lui”, Cristo, che le “riconcilia” e le “rappacifica” “con il sangue della sua croce” (cfr.
Colossesi, 1, 17-20).
I puntini che animano la forma di croce nella placchetta vaticanense alludono all’uso del periodo di tempestare la superficie di croci liturgiche con pietre preziose in segno della gloria sfociata dall’umiliazione del Golgotha: una magnifica croce gemmata delle stesse collezioni vaticanensi illustra il concetto.
Tale modo misterico di vedere le cose risale agli inizi della cultura cristiana.
Una straordinaria descrizione è fornita da Giustino Martire, che già nel ii secolo aveva riconosciuto la croce come struttura nascosta di ogni realtà terrestre: della nave che solca il mare grazie alla vela sostenuta dalla varea, la parte più alta del pennone, cruciforme; dell’aratro dell’agricoltore similmente configurato, come degli attrezzi di artigiani ed artisti.
Secondo Giustino Martire perfino “la figura dell’uomo si distingue da quelle degli animali precisamente in questo: che l’uomo sta in piedi e può allargare le braccia, e ha sul viso, scendente dalla sua fronte, il naso attraverso il quale passa il respiro della creatura vivente: e questo mostra esattamente la forma della croce”.
Se però agli occhi della fede il segno distintivo di ogni cosa creata e perfino dell’uomo è la croce, “logica” nascosta di ogni realtà umana, quanto più non sarà leggibile questa forma in Cristo, Logos divino per cui tutto l’esistente è stato fatto! Un mosaico del v secolo, nella serie di episodi della Vita Christi in Sant’Apollinare nuovo a Ravenna, esplicita questo assunto: narrando La moltiplicazione dei pani e pesci l’anonimo maestro dà a Gesù la posa che egli assumerà su Golgotha, intuendo che ogni racconto di un pasto nel Nuovo Testamento prepara a comprendere il pasto decisivo in cui, la notte prima di morire, Gesù offrì il proprio corpo e sangue nei segni del pane e del vino per soddisfare la fame spirituale di quanti l’avrebbero seguito, dando poi concretamente il corpo e sangue il giorno dopo sulla croce.
Innovativa in quest’opera è la “ipostatica unione” del segno con la persona reale.
Laddove un artista d’epoca classica avrebbe rispettato il limite narrativo dell’evento, il maestro paleocristiano inverte le coordinate, lasciando intendere che in Cristo ogni limite narrativo è superato.
Non solo il miracolo compiuto durante il ministero pubblico viene letto alla luce della successiva crocifissione, ma questa poi viene interpretata alla luce dell’ancor successiva ascensione: qui infatti il Cristo cruciforme veste la porpora imperiale, un modo adoperato all’epoca per evocare la sua gloria finale.
Ecco un primo “codice iconico dell’interiorità” di Cristo: il mistero pasquale che traspare in tutta la sua persona.
Una sottolineatura del codice riguarda poi il rapporto dell’uomo cruciforme con le parole che, attraverso i secoli, hanno espresso la fede e l’attesa, il dolore, la speranza e la gioia di quanti desideravano la salvezza.
Eloquente in questo senso è la prima delle “illustrazioni” di un’antologia poetica composta dal monaco Rabano Mauro nel primo ix secolo e dedicata al figlio di Carlomagno, l’imperatore Lodovico il Pio: De laudibus sanctae crucis.
L’immagine fa vedere il corpo di Gesù crocifisso sovrapporsi alle parole di un testo, o meglio, il corpo che sembra plasmarsi da esse, come se contemplassimo l’atto stesso dell’Incarnazione, il Verbo mentre diventa carne umana.
Del resto non si tratta del casuale abbinamento di un’immagine a delle parole, ma di un carmen figuratum in cui il posizionamento di ogni lettera di ogni frase nel campo visivo è calcolato di sorta che alcune delle lettere – quelle evidenziate dal disegno sovrapposto – formino parole e frasi che spieghino il disegno; intorno al volto, per esempio, leggiamo Iste est rex gloriae.
In un carmen figuratum, senza le parole che la costituiscono l’immagine non ha pieno senso, né le parole senza l’immagine che dà loro specificità – che cioè le “incarna”! La stessa mistica sintesi condizionerà l’iconografia cristiana fino al Quattrocento, ma dal xii-xiii secolo in avanti avvertiamo anche un’attenzione biografica.
Il disegno dell’inglese Matthew Paris, monaco benedettino e scrittore, autore della Chronica maiora con preziose informazioni intorno all’Inghilterra e l’Europa tra il 1235-1259, illustra questa tendenza.
Accanto al Signore risorto e glorioso lo stesso foglio fa vedere il momento storico precedente – il volto agonizzante di Cristo in croce – come per insistere che quanto contempleremo un giorno nel Risorto includerà il suo ricordo personale della passio; questi due volti sono poi introdotti da un altro momento storico, perché nella parte alta del medesimo foglio l’artista fa vedere Gesù bambino che incrocia lo sguardo di Maria.
Leggendo dall’alto verso il basso, i tre volti di Cristo obbligano a collegare la gloria alla precedente sofferenza e questa poi all’amore imparato tra le braccia della madre! Guardando ai tre volti capiamo che Colui che nacque era pronto a morire, come afferma la lettera agli Ebrei; che poi morendo con accanto sua madre si ricordò della propria infanzia; e che nell’ascensione al cielo portò con sé l’una e l’altra esperienza.
Ecco dunque un nuovo codice iconico: la compresenza nell’unica persona di Cristo, vero uomo e vero Dio, di esperienze sia storiche che eterne.
Questi due codici – la leggibilità del mistero pasquale col volto come cifra delle Scritture, e la storia umana e divina compresenti in Cristo – confluiranno alla fine del Medioevo in un unico linguaggio la cui sintassi e grammatica vengono definite nello stile caratterizzato come proto-rinascimentale.
Esempio eccelso è il bel Cristo benedicente di Raleigh, North Carolina, databile al secondo decennio del Trecento, quasi certamente un autografo di Giotto.
Il dipinto parla l’idioma corporeo sviluppato dall’artista fiorentino, con un calore negli incarnati e una morbidezza nel modellato lontani dalle tinte gemmate e le forme appiattite della coeva arte bizantina.
Il senso teologico di queste novità è suggerito poi dalla giustapposizione del libro chiuso nella sinistra del Salvatore con la sua destra aperta in benedizione, quasi un’illustrazione dell’affermazione neotestamentaria secondo cui “Dio che aveva già parlato molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio…
che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza” (Ebrei, 1, 1-3).
“Irradiazione” e “impronta” sono termini visivi evocanti illuminazione e tridimensionalità, e ben descrivono questo straordinario Cristo benedicente.
Nella mezza-figura dipinta da Giotto, la nuova corporeità umana coesiste con attributi divini codificati dalla tradizione: lo sguardo fisso, la posa regalmente ieratica e le vesti dai colori simboleggianti le due nature del Salvatore: rosso per la terra degli uomini e il blu del cielo di Dio.
L’effetto globale è di una corporeità capax Dei, capace della dignità divina.
La simmetria dei tratti poi, insieme alla carnagione pulsante di salute e le labbra tenere e ben formate fanno di questo Cristo davvero “il più bello tra i figli dell’uomo” (Salmi, 45[44], 3), il Diletto “bianco e vermiglio, riconoscibile fra mille e mille” (Cantico dei cantici, 5, 10), lo Sposo a cui la Chiesa dice “Vieni!” (Apocalisse, 22, 17).
Si tratta cioè di una corporeità attraente, anzi fisicamente affascinante, e pure questa dimensione umana coesiste con la dignità divina.
Un ultimo particolare qualifica questa icona di divinità umanata: la ferita al centro della mano destra, segno che il Verbo fattosi carne non fu riconosciuto dal mondo e che quando “venne fra la sua gente…
i suoi non l’hanno accolto” (Giovanni, 1, 10-11).
Il sangue nel palmo aperto ci rammenta che il Credo cristiano, subito dopo l’asserto et incarnatus est de Virgine Maria et homo factus est, aggiunge: crucifixus etiam pro nobis sub Pontio Pilato; ricorda soprattutto che le parole di Gesù sul pane e vino, “questo è il mio corpo, questo è il calice del mio sangue”, furono pronunciate in vista dell’offerta sacrificale del suo corpo e sangue sulla croce.
La tavola di Giotto infatti è parte di una pala d’altare, e il Cristo benedicente era originalmente collocato sulla mensa eucaristica al punto dove il sacerdote consacrava il pane e vino che, transustanziati, diventavano corpo e sangue di Cristo, sebbene inalterati nell’aspetto visivo.
La plasticità del Cristo dipinto da Giotto coincideva cioè con la sua “reale presenza” sacramentale, in uno scambio di visio e fides simile a quello enunciato dal Salvatore quando l’apostolo Tommaso verificò la realtà corporea della sua risurrezione toccando con mano le piaghe.
(©L’Osservatore Romano – 16-17 febbraio 2009 Con una frase tratta dall’Antico Testamento, la liturgia della Chiesa caratterizza il Figlio di Dio come “il più bello tra i figli dell’uomo” (Salmi, 45[44], 3) mentre un testo paolino invita a riconoscere in lui addirittura “l’immagine del Dio invisibile” (Colossesi, 1, 15); all’apostolo che gli chiede di vedere l’Altissimo Cristo stesso risponderà: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Giovanni, 14, 9).
Ma del concreto aspetto fisico del Salvatore il nuovo Testamento non dice una parola, né esistono coevi ritratti, così che ogni riflessione sul suo “volto” prende le mosse da basi testuali non specifiche: dai Vangeli che lo rivelano come persona interiore ma che non lo descrivono esteriormente.
)
L. Solinas, Tutti i colori della vita
L.
Solinas Tutti i colori della vita EDIZIONE BLU per la scuola secondaria di secondo grado Il taglio dell’opera Questa edizione di Tutti i colori della vita rivisita i contenuti della precedente, organizzandoli però in una struttura diversa, flessibile, pensata e progettata tenendo presenti le difficoltà degli insegnanti a catturare l’attenzione dei ragazzi nel poco tempo disponibile.
La prospettiva dell’opera è sempre quella di fornire gli strumenti per comprendere la quotidianità alla luce dell’annuncio cristiano e approfondire la visione cristiana che guida alla conoscenza di universi di pensiero propri di religioni diverse o che anche prescindono dalla religione, nell’ottica di un confronto aperto, che favorisce dialogo, conoscenza e rispetto.
Il progetto educativo Lo sviluppo della trattazione è organizzato in 10 grandi ambiti tematici che contengono a loro volta un numero variabile di schede (temi), ciascuna delle quali affronta in modo compiuto un argomento.
Il progetto didattico Ogni scheda si sviluppa su quattro pagine: un’agile trattazione dell’argomento corredata da spiegazioni dei lemmi e da domande a fianco del testo per facilitare la comprensione; un approfondimento del tema, che l’insegnante può utilizzare a propria discrezione; la parte operativa con brani o immagini, accompagnati da una traccia di analisi, che possono essere utilizzati per la riflessione e per la discussione in classe.
Segue una ulteriore sezione operativa con domande e spunti di riflessione relativi agli argomenti dell’ambito e la proposta ragionata di libri e film. Materiali per il docente La nuova struttura consente di personalizzare l’insegnamento adattandolo alle esigenze delle diverse classi e dei singoli allievi.
La brevità e la semplicità di trattazione di ogni scheda ne facilita l’utilizzo e consente di trattare in modo compiuto i singoli argomenti.
Inoltre l’organizzazione in schede permette di operare delle scelte di utilizzo non solo a livello dei diversi temi ma, all’interno delle singole schede, offre la possibilità di trattare i concetti-base oppure di approfondire il singolo tema.
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Pochi giorni bastano appena per scoprire il mistero della tecnica, dell’estetica e della teologia delle icone, ma possono disvelare l’epifania del volto dell’Assoluto.
A conclusione dell’Anno Paolino CORSO DI ICONOGRAFIA PAOLINA Formula week-end Tutti i 5 week-end di maggio 2009 Villa Clerici – Milano CORSO DI ICONOGRAFIA PAOLINA Formula residenziale (10 giorni) 20-29 giugno 2009 Monastero Benedettine – Pontasserchio (Pisa) CORSO DI ICONOGRAFIA BIZANTINA per allievi avanzati L’ANNUNCIAZIONE 14-23 luglio 2009 Villa Chaminade – Pallanza (Verbania) CORSO DI ICONOGRAFIA MARIANA 06-15 agosto 2009 Villa Chaminade – Pallanza (Verbania) CORSI MONOGRAFICI DI PERFEZIONAMENTO per allievi avanzati IL DISEGNO E LA GRAFIA 03-04 ottobre 2009 Villa Chaminade – Pallanza (Verbania) LE LUMEGGIATURE 23-25 ottobre 2009 Villa Chaminade – Pallanza (Verbania) LA DORATURA A MISSIONE 07-08 novembre 2009 Villa Clerici – Milano I COLORI NATURALI 28-29 novembre 2009 Villa Clerici – Milano IL VOLTO 27-30 dicembre 2009 Villa Chaminade Pallanza (Verbania) CORSO DI ICONOGRAFIA BASE 25 agosto – 3 settembre 2009 Santuario di Sant’Ignazio Pessinetto (Torino) CORSO DI ICONOGRAFIA BIZANTINA SCRIVERE GLI ANGELI 10-19 settembre 2009 Oasi San Francesco – La Verna (Arezzo) Per chi vuole essere assistito ad personam durante la realizzazione di una propria icona CORSO “OPEN” PER GLI ALLIEVI ICONOGRAFI Villa Chaminade – Pallanza (Verbania) 03-05 aprile 2009 Per info e prenotazioni clicca qui Corsi Residenziali Monografici Week End
La remissione della scomunica.
Giovanni paolo II, Congr.
per i vescovi, Pont.
cons.
per i testi legislativi di B.
card.
Gantin, Giovanni Paolo II, J.
Herranz, M.
Maccarelli Regno-doc.
n.3, 2009, p.77 All’indomani della remissione della scomunica ai vescovi lefebvriani, l’opinione pubblica ecclesiale ha iniziato a interrogarsi sulla nuova situazione canonica e pastorale degli aderenti alla Fraternità San Pio X: su quali atti cioè siano ancora necessari perché essi possano dirsi in piena comunione con la Chiesa di Roma.
Come contributo alla riflessione, riproponiamo nell’allegato i principali atti ufficiali con cui la Santa Sede aveva definito, per tutto il periodo di durata della scomunica, tale situazione: il decreto di scomunica, il motu proprio Ecclesia Dei una risposta della Congregazione per i vescovi ad alcuni quesiti del vescovo svizzero N.
Brunner e una nota che il Pontificio consiglio per l’interpretazione dei testi legislativi ha redatto su richiesta della stessa Congregazione per i vescovi.
Ne emergono: la scomunica per chi aderiva formalmente a quel «movimento scismatico», l’acefalia dei chierici ordinati da Lefebvre prima del 1988, l’illiceità della partecipazione alle loro celebrazioni.
Vedi nell’allegato Regno-doc.
15,1988,477ss Regno-doc.
17,1997,528ss.
Benedetto XVI, Santa Sede, Fraternità San Pio X, vescovi di Benedetto XVI, G.
Re, B.
Fellay, J.
Ricard, vescovi francesi, tedeschi, svizzeri Regno-doc.
n.3, 2009, p.69 La remissione della scomunica ai quattro vescovi della Fraternità sacerdotale di San Pio X ricompone l’unità cattolica con il movimento lefebvriano e avvia il processo di comunione piena.
Il papa, Benedetto XVI, ha commentato la decisione così: «Auspico che a questo mio gesto faccia seguito il sollecito impegno da parte loro di compiere gli ulteriori passi necessari per realizzare la piena comunione con la Chiesa…».
Nella risposta di mons.
Bernard Fellay si afferma che «la Tradizione cattolica non è più scomunicata» e si confermano «le riserve a proposito del Vaticano II».
Riserve che i vescovi svizzeri, tedeschi e francesi rifiutano: «In nessun caso il concilio Vaticano II sarà negoziabile».
Come precisa una nota della Segreteria di stato: per un futuro riconoscimento della Fraternità «è condizione indispensabile il pieno riconoscimento del concilio Vaticano II» (n.
2).
Nell’allegato i testi relativi alle posizioni negazioniste del vescovo lefebvriano R.
Williamson (pp.
72-73).
Numeri e Fede/6: Beata matematica
L’intervista al professor Maurizio Brunetti, I Faà di Bruno erano una famiglia di scienziati, di religiosi e di eroi.
Francesco era sacerdote, il fratello Giuseppe era un padre Pallottino e si dedicò alle missioni; quanto a Emilio, morì nella sua nave inabissata a Lissa.
«Il nome di Francesco Faà di Bruno è legato a notevoli contributi, soprattutto a un’elegante formula per il calcolo delle derivate di ordine superiore di una funzione composta.
La sua vita fu talmente avventurosa che se ne potrebbe ricavare un film: militare, musicista, architetto, ingegnere – nel 1856, commosso dalla condizione dei non vedenti, lo era anche la sorella Maria Luigia, progettò e brevettò uno scrittoio per ciechi – e, soprattutto, sacerdote e fondatore di un ordine religioso.
Faà di Bruno era stato allievo di Augustin Louis Cauchy, uno dei padri dell’analisi matematica, anche lui uomo di fede vissuta.
Fu infatti tra i fondatori de l’Association pour la Protection de la Religion Catholique e della Societé Catholique de Bons Livres.
Le opere scientifiche di Cauchy sono state raccolte in 27 volumi.
Un grande scienziato, ma anche un grande uomo che si spendeva in innumerevoli opere di carità e di apostolato culturale: “benché oberato da ogni sorta di occupazioni, trovava il tempo e l’animo per andare a visitare i poveri nei loro tuguri” racconta Faà di Bruno.
Il matematico francese aveva molto a cuore anche la santificazione delle feste: grazie alla sue pressioni, molti negozi furono costretti a chiudere nei giorni festivi permettendo così ai dipendenti di andare a Messa».
Non si parla mai di questi personaggi.
«Eppure sono eccezionalmente interessanti.
Penso al matematico svizzero Leonhard Euler, da noi noto come Eulero.
Di religione protestante, tutte le sere riuniva la numerosa famiglia e leggeva un capitolo della Bibbia.
Eulero racconta di aver compiuto molte delle sue scoperte mentre aveva un bambino in braccio e altri marmocchi che si rotolavano ai suoi piedi.
Matematici credenti sono arcinoti a ogni studente alle prese con gli esami di geometria e analisi matematica.
Per esempio, Jacques Binet, Charles Hermite e anche il boemo Bernard Bolzano, proprio quello del teorema Bolzano-Weierstrass, di cui si ricordano i tentativi per dimostrare logicamente che la religione cattolica – rivelata, e quindi depositaria di risposte alle questioni fondamentali – è quella perfetta, non solo fra le religioni che esistono, ma anche fra tutte quelle pensabili.
Per lui, la religione era “la quintessenza di tutte le verità che ci guidano alla virtù e alla felicità”».
Lei è credente? «Sono cresciuto in Alleanza Cattolica, nutrendomi della sua spiritualità ignaziana.
Il mio non è un caso isolato.
Secondo un’indagine condotta negli Usa, i matematici sono la categoria di scienziati in cui la percentuale di atei è più bassa.
Ma, se è vero che la scienza permette solo a volte di trovare Dio, è però certo che è stato Dio a far trovare all’uomo la scienza».
Questo perché la realtà è conoscibile? «Facciamo una considerazione.
Perché a Newton saltasse in mente di formulare un modello matematico per il moto di una mela che cade a terra, era necessario un presupposto certo: credere che una mela sarebbe sempre caduta con le stesse modalità, un minuto, un giorno o cento anni dopo.
È stato proprio questo presupposto sulla logicità del creato, che è condiviso solo dalle culture occidentali, a permettere alla scienza moderna di nascere e svilupparsi.
L’universo ha le sue leggi, non è capriccioso.
Storici della scienza come Edward Grant e Stanley Jaki hanno individuato nell’avvento del cristianesimo una condizione addirittura necessaria – e, col senno di poi, anche sufficiente – per la nascita della scienza moderna, quella cioè che tralascia ogni considerazione di natura non quantitativa, espungendo deduzioni di carattere filosofico e limitandosi a utilizzare gli strumenti della matematica per l’interpretazione dei dati sperimentali».
Una scienza che, quindi, nasce molto prima del secolo XVII e sboccia già nel Medioevo cristiano.
«La matematica, sia quella più astratta e simbolica, sia quella applicata alla fisica, prende il volo in epoche in cui la temperatura religiosa è alta.
L’algebra vide la luce tra l’ottavo e il nono secolo nel mondo islamico e, prima che prevalesse la prospettiva teo-filosofica dei mutakallimum – secondo cui l’enunciazione di una legge fisica sarebbe in contraddizione con l’onnipotenza di Allah -, furono anche pubblicati dei manuali di dinamica dei fluidi.
Nell’Europa medievale cristiana, appartenevano alla matematica due delle quattro discipline del quadrivium, cioè l’aritmetica e la geometria.
La nascita della scienza moderna va perciò anticipata almeno di qualche secolo.
Fino a poco tempo fa, se ne festeggiava il compleanno ricordando la pubblicazione nel 1687 dei Philosophiae Naturalis Principia Mathematica di Isaac Newton.
Certo, quest’opera è in tutti i sensi moderna.
Tuttavia Newton riconobbe, facendo proprio l’aforisma medievale di Bernardo di Chartres, di essere “un nano sulle spalle di giganti”.
Questi giganti, oggi, sono stati identificati: Giordano Nemorario, che nel secolo XIII aveva già formulato le leggi della statica; Nicola Oresme, che aveva risolto l’obiezione più forte contro l’ipotesi di una Terra in movimento; Giovanni Buridano, che formulò la nozione di “forza a distanza”, arrivata a Newton attraverso Alberto di Sassonia, Leonardo da Vinci, Giambattista Benedetti e Galileo Galilei».
Avvenire 9 Gennaio 2009 Luigi Dell’Aglio Una lista di grandissimi matematici della storia, che sono stati credenti in modo fervido e autentico.
Sono tanti, e di loro non si parla quasi mai.
Ecco la risposta argomentata e “sperimentale” che va data a chi dubita che si possa essere, al tempo stesso, matematici e credenti».
Il professor Maurizio Brunetti, matematico specializzatosi in Gran Bretagna e ora docente all’Università Federico II di Napoli, non si ferma a Ennio De Giorgi (1928-1996), genio e trascinante uomo di fede.
Brunetti risale agli ultimi tre secoli.
E va anche più indietro.
Nella lista non include Leibniz, Newton o Cartesio, che certamente non erano atei; nell’elenco iscrive invece quei matematici la cui fede attiva si esprimeva con scelte di vita che la rendevano particolarmente riconoscibile.
E colloca al primo posto il torinese Francesco Faà di Bruno (1825-1888), che la Chiesa ha proclamato beato nel 1988.