Alle radici della spiritualità secolare

Il tema della creazione è stato spesso occasione di vivace polemica fra ricerca scientifica e riflessione teologica.
Allo schiudersi del nuovo anno proponiamo alcuni brevi interventi per sottolinearne la convergenza e la reciproca integrazione – un essenziale indicazione teorica, – alcuni riferimenti biblici o teologici per l’appropriazione più personale.
Questo primo contributo orienta la riflessione su un dato fondamentale: – l’intervento creatore di Dio all’origine del mondo organizzato (cosmo); – la soddisfazione con cui Dio stesso contempla la sua opera -Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona (Gn 1,31)- – quale stimolo per la corretta considerazione del mondo, della natura soprattutto.
In sintesi.
Le linee portanti della antica tradizione biblica circa la creazione si possono ricondurre ad alcune affermazioni: – Il mondo come casa della vita, organizzato in un cosmo (Gn 1); – Dio convoca nel cosmo ogni sorta di vita ad un grande banchetto; – L’ingresso dell’uomo corona l’opera e da inizio alla festa.
– La signoria dell’uomo sul cosmo è a servizio della vita (Gn.
1, 26-28); – La sua presenza è in grado di celebrare nella suggestione dell’universo la maestà di Dio, signore della vita.
Per la riflessione personale Per l’aggiornamento: LÖNING K.
– E.
ZENGLER, In principio Dio Creò.
Teologie bibliche della creazione, Brescia, Queriniana, 2007 RAD (Von) G., Teologia dell’Antico Testamento, 2 voll., Brescia, Paideia, 1974.  1° Contributo: I mondo è opera mirabile di Dio creatore.
Il cosmo è frutto del gesto creatore di Dio.
La bibbia è una riflessione credente di Israele sulla propria vicenda di popolo che si sente investito di un compito straordinario.
Dio si erge fin dall’inizio e occupa intera la scena.
Da Lui prende origine il progetto grandioso che distende il cielo e la terra e ne fa una dimora superba dell’uomo.
I testi di cui disponiamo hanno attraversa una lunga gestazione Approssimativamente nel corso del secolo VI l’attitudine religiosa che caratterizza il mondo ebraico raccoglie un cumulo di tradizioni a spiegazione dell’origine e del significato dell’ universo, in cui presagisce una potenza arcana e benefica che lo governa.
Il Pentateuco rappresenta una singolare sintesi di lontane e illuminanti tradizioni che hanno progressivamente attraversato la vicenda ebraica; la casta sacerdotale, più colta ed abituata alla scrittura, le codifica finalmente in un’elaborazione unitaria e organica.
Risulta il documento più significativo della concezione ebraica e cristiana dell’origine del mondo.
Una doppia visione intensamente drammatica vede la vita imporsi sull’abisso, sul caos e tenta di esplorarne il vorticoso espandersi; ne interpreta il progressivo, dinamico compaginarsi nella figura di un mondo organizzato –cosmo-.
Con il primo capitolo della Genesi (Gn.
1.1-2.4) ci troviamo di fronte ad una suggestiva e lucida elaborazione degli inizi dell’universo; nel tentativo singolare di articolarne i momenti successivi, in una progressione che tende ad interpretare unitariamente il cosmo, in cui l’uomo trova dimora (i sei giorni della creazione).
Sulla figura dell’uomo si concentra con più accurata attenzione il documento successivo Gn 2.5-3.24; in un racconto immaginifico e suggestivo pone l’uomo al centro di un intervento straordinario di JHWH, che ne traccia a grandi linee il destino e il significato nella creazione.
La riflessione biblica non è preoccupata di interpretare il passaggio dal nulla all’essere.
Muove dall’intuizione che qualcosa è in movimento; non si interessa dell’origine della realtà; si appassiona a quello che constata e si domanda dove tenda il suo dinamismo.
Il testo consente di identificare quattro elementi che, per così dire, popolano il caos iniziale, su cui interviene Dio creatore a dare ordine e dinamismo vitale.
In una ricostruzione di sintesi dunque all’origine si afferma: la forza vitale creatrice di Dio, che si impone su alcunché di indefinito ed inerte, vi conferisce la vita, lo mette in moto, ne valuta autorevolmente il significato – ed era cosa molto buona -.
La sapienza ordinatrice del cosmo Israele ha probabilmente meditato a lungo su questo rapporto di JHWH con la sua creazione.
Nei libri sapienziali, più tardivi, il tema ritorna in un orizzonte interpretativo ormai garantito: la creazione vi risulta patrimonio acquisito e si pone a sfondo chiarificatore e spesso risolutivo dei temi che man mano s’impongono alla riflessione credente.
In particolare il libro dei Proverbi offre una singolare interpretazione dell’ordine mirabile in cui l’universo si compagina.
La Sapienza con cui Dio opera nella sua creazione è addirittura personificata: ‘Quando ancora non aveva fatto la terra e i campi, né le prime zolle del mondo; quando egli fissava i cieli, io ero là.’ (Proverbi, 8, 26.27) Suggestiva figura, garante di sovrana razionalità del cosmo.
Lungo le generazioni i Salmi raccolgono la suggestione del creato in una gamma di modulazioni singolarmente sincere e intense che vanno dall’ammirazione spontanea alla celebrazione corale di una creazione che parla con voce vibrante e persuasiva del suo creatore.
I salmi costituiscono un’epopea religiosa che non ha paragone; del resto straordinariamente sfruttata dalla tradizione cristiana.
A titolo esemplificativo, anche per quanto concerne il tema della creazione, il riferimento ad un paio di salmi resta carico di suggestione.
– efficace l’immagine del re buono del mondo che tiene a freno il caos e ne delimita la violenza distruttrice ( Salmo 93); – Toccante nostalgia di Dio che pervade l’universo e lo celebra (Salmo 104).

Annuario Pontificio del 2009

Benedetto XVI ha mostrato vivo interesse per i dati illu­strati e ha ringraziato per l’omaggio tutti coloro che hanno collaborato alla nuova e­dizione dell’Annuario.
Numerose le notizie sulla vita delle 2.936 circoscrizioni ecclesiastiche di tutto il mon­do, contenute nel volume.
Il numero dei ve­scovi ad esempio è passato, dal 2006 al 2007, da 4.898 a 4.946, con un aumento dell’1%.
Il continente con maggiore incremento è l’Oceania (+ 4,7%), seguito da Africa (+ 3,0%) e da Asia (+ 1,7%), mentre al di sotto della media complessiva risulta l’Europa (+ 0,8%).
Nello stesso periodo l’America regi­stra una flessione dello 0,1%, mentre il pe­so delle varie aree geografiche è rimasto so­stanzialmente invariato nel tempo, con Eu­ropa ed America che, da sole, continuano ad aggirarsi attorno al 70% del totale.
Anche il numero dei sacerdoti si mantiene sul trend di crescita moderata inaugurato nel 2000, dopo oltre un ventennio piutto­sto deludente.
I preti, infatti, sono aumen­tati nel corso degli ultimi otto anni, pas­sando da 405.178 nel 2000 a 407.262 nel 2006 e a 408.024 nel 2007.
Il contributo del­le varie aree geografiche al dato comples­sivo appare diversificato.
Se Africa e Asia mostrano nel periodo 2000-2007 una dina­mica assai sostenuta (+ 27,6% e 21,2%) e l’America si mantiene pressoché staziona­ria, Europa e Oceania registrano, invece, nello stesso periodo, tassi di crescita nega­tivi: meno 6,8% e meno 5,5% rispettiva­mente.
In espansione pure il numero dei diaconi permanenti.
Aumentano nel 2007, di oltre il 4,1% rispetto al 2006, passando da 34.520 a 35.942.
La consistenza dei diaconi mi­gliora a ritmi sostenuti in Africa, A­sia e Oceania, dove il loro numero non raggiunge ancora il 2% del to­tale mondiale, ma anche in aree do­ve la loro presenza è quantitativa­mente più rilevante.
In America ed in Europa, dove risiede circa il 98% della popolazione complessiva, i diaconi sono aumentati, dal 2006 al 2007, del 4,0%.
Più o meno stabile, invece, il numero dei seminaristi, passato da 115.480 nel 2006 a 115.919 nel 2007, con un incremento dello 0,4%, e un’evoluzione dif­ferente nei vari continenti.
Mentre, infatti, Africa e Asia hanno mostrato una sensibi­le crescita, nello stesso periodo l’Europa e l’America hanno registrato una contrazio­ne.
Mimmo Muolo Da Avvenire 01 03 2009 I dati statistici riferiti all’anno 2007 forniscono un’analisi sintetica delle principali dinamiche riguardanti la Chiesa Cattolica nelle 2.936 circoscrizioni ecclesiastiche del pianeta.
Nel corso degli ultimi due anni, la presenza dei fedeli battezzati nel mondo rimane stabile attorno al 17,3% , quale risultato dell’espansione del numero dei cattolici (1,4%) a ritmo sostanzialmente assimilabile a quello della popolazione mondiale nello stesso periodo (1,1%).
Nel 2007, si contano poco meno di 1.147 milioni di cattolici, a fronte dei 1.131 milioni circa nel 2006.
Il numero dei vescovi nel mondo è passato, dal 2006 al 2007, da 4.898 a 4.946, con un aumento dell’1%.
Il continente con maggiore incremento è quello dell’Oceania (+4,7%), seguito da Africa (+3,0%) e da Asia (+1,7%), mentre al di sotto della media complessiva risulta l’Europa (+0,8%).
Nello stesso periodo l’America registra un tasso di variazione di 0,1%, mentre il peso delle varie aree geografiche è rimasto sostanzialmente invariato nel tempo, con Europa ed America che, da sole, continuano ad aggirarsi attorno al 70% del totale.
Il numero dei sacerdoti si mantiene sul trend di crescita moderata inaugurato nel 2000, dopo oltre un ventennio di performance piuttosto deludente.
I sacerdoti, infatti, sono aumentati nel corso degli ultimi otto anni, passando da 405.178 nel 2000 a 407.262 nel 2006 e a 408.024 nel 2007.
Il contributo delle varie aree geografiche al dato complessivo appare diversificato.
Se Africa e Asia mostrano nel periodo 2000-2007 una dinamica assai sostenuta (+27,6% e 21,2%) e l’America si mantiene pressoché stazionaria, Europa e Oceania registrano, invece, nello stesso periodo, tassi di crescita negativi, del 6,8%e del 5,5%.
Il numero dei diaconi permanenti continua a mostrare una significativa dinamica evolutiva.
Aumentano, al 2007, di oltre il 4,1%, rispetto al 2006, passando da 34.520 a 35.942.
La consistenza dei diaconi migliora a ritmi sostenuti sia in Africa, Asia e Oceania, dove essi non raggiungono ancora il 2% del totale, sia in aree dove la loro presenza è quantitativamente più rilevante.
In America ed in Europa, dove al 2007 risiede circa il 98% della popolazione complessiva, i diaconi sono aumentati, dal 2006 al 2007, del 4,0% .
A livello globale, il numero dei candidati al sacerdozio è aumentato, passando da 115.480 nel 2006 a 115.919 nel 2007, con un incremento dello 0,4%, e un’evoluzione differente nei vari continenti.
Mentre, infatti, Africa e Asia hanno mostrato una sensibile crescita, nello stesso periodo l’Europa e l’America hanno registrato una contrazione, rispettivamente, del 2,1 e dell’1 per cento.
(©L’Osservatore Romano – 1 marzo 2009) È stabile nel mondo la presenza dei cattolici.
Poco meno di un miliardo e 147 milioni di persone distribuite nei cinque continenti.
Anzi, si può dire che il lo­ro numero cresce con lo stesso trend di cre­scita della popolazione mondiale, per cui i fedeli della Chiesa di Roma rappresentano il 17,3 per cento degli abitanti del pianeta.
I dati, riferiti all’anno 2007, sono contenu­ti nell’Annuario Pontificio del 2009, pre­sentato ieri al Papa dal cardinale segreta­rio di Stato Tarcisio Bertone e dal sostituto della segretaria di Stato, monsignor Fer­nando Filoni, alla presenza dei curatori del­l’opera (monsignor Vittorio Formenti ed Enrico Nenna dell’Ufficio centrale di stati­stica della Chiesa), che è stata stampata dalla Tipografia Vaticana e che sarà tra bre­ve in vendita nelle librerie.

Scuola: varati i due regolamenti sulla riforma e il dimensionamento

Questa mattina il Consiglio dei Ministri, su proposta del ministro dell’Istruzione, dell’Universita’ e della Ricerca, Mariastella Gelmini ha approvato i due regolamenti che riguardano la riforma della scuola, in particolare il “maestro unico-prevalente”, e il dimensionamento scolastico.
Sui due regolamenti, spiega il comunicato di Palazzo Chigi, sono stati acquisiti i pareri della Conferenza unificata e del Consiglio di Stato, per quello che riguarda “la riorganizzazione e la razionalizzazione, rispettivamente, della rete scolastica e dell’utilizzo delle risorse umane, nonchè della scuola dell’infanzia e del primo ciclo dell’istruzione”.
Questi i punti salienti del primo regolamento: “entrano in vigore le norme che introducono la figura del maestro unico – prevalente nella scuola primaria e i modelli di orario su 24, 27 e 30 ore.
Restano confermati gli attuali modelli per gli anni successivi alle prime classi con la riduzione delle compresenze, garantendo, comunque, l’assistenza alle mense.
E’ confermato il tempo pieno secondo il modello delle 40 ore settimanali con 2 docenti per classe”.
“Per la scuola secondaria di primo grado restano confermate le 30 ore settimanali di cui una dedicata allo studio della Cittadinanza e della Costituzione.
È confermato anche il tempo prolungato anche alle scuole medie, con 36 ore settimanali elevabili a 40.
E’ prevista, inoltre, l’organizzazione oraria su base annuale oltre che settimanale per consentire una maggiore flessibilità all’autonomia delle scuole”.
“Per le scuole dell’infanzia e per le sezioni primavera resta confermata la normativa attuale, ma viene attribuito un ruolo più incisivo ai docenti che valuteranno pedagogicamente l’opportunità dell’anticipo”.
Circa il secondo regolamento, “prevale il principio per il quale le scelte sul dimensionamento scolastico saranno oggetto di un confronto condiviso con gli enti locali e le Regioni, per individuare insieme gli eventuali interventi di supporto e di aiuto come l’organizzazione delle mense e il trasporto scolastico, puntando a ridurre al minimo i disagi per le famiglie e per gli studenti.
Viene inoltre salvaguardata l’attuale normativa per i docenti di sostegno”.
——————————————————————————– tuttoscuola.com venerdì 27 febbraio 2009

Laicità e bene comune

Una laicità definita da Benedetto XVI “sana” e “positiva”, è quella che congiunga all’autonomia delle attività umane e all’indipendenza dello Stato non già la preclusione ma l’apertura nei confronti delle fondamentali istanze etiche e del “senso religioso” che portiamo dentro di noi.
Solo una laicità così intesa sembra realmente corrispondere alle esigenze attuali del bene comune, perché capovolge quelle strane tendenze che sembrano compiacersi di prosciugare le riserve di energia vitale e morale di cui vive ciascuno di noi, il nostro popolo e l’intero Occidente, senza darsi pensiero di come sostituirle, o meglio non avvertendo che esse in concreto non sono sostituibili.
Proprio la percezione del valore decisivo di queste riserve di energie è ciò che invece accomuna oggi molti cattolici e laici e che, a parere del Card Ruini, indica un grande compito comune che ci attende: dare qualcosa di noi stessi per rinvigorire, e non per depauperare, tali riserve.
Laicità e bene comune di Camillo Ruini Riflettere sulla laicità in rapporto al bene comune mi sembra un approccio fondamentale, e assai stimolante, in ordine alla comprensione e all’apprezzamento della laicità, in particolare per il discernimento e la valutazione dei vari e molto diversi significati che il concetto di laicità ha ormai assunto.
A questo scopo, però, dobbiamo anzitutto avere un’idea il più possibile chiara e determinata del significato dell’espressione “bene comune”, alla luce della quale cercheremo di renderci conto dei fondamenti e delle funzioni della laicità.
Come è noto, “bene comune” è un concetto tipico – anche se non esclusivo – del pensiero sociale cattolico.
Sembra giusto pertanto riferirsi al significato che gli viene attribuito in questo contesto.
Il “Compendio della dottrina sociale della Chiesa”, pubblicato nel 2004 dal pontificio consiglio della giustizia e della pace, considera il bene comune come il primo dei principi di questa dottrina e lo fa derivare “dalla dignità, unità e uguaglianza di tutte le persone”.
Esso indica anzitutto “l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono sia alla collettività sia ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più celermente”.
In concreto il bene comune è “bene di tutti gli uomini e di tutto l’uomo”, dato che “la persona non può trovare compimento solo in se stessa, a prescindere cioè dal suo essere ‘con’ e ‘per’ gli altri”.
Il bene comune, pertanto, “non consiste nella semplice somma dei beni particolari di ciascun soggetto del corpo sociale.
Essendo di tutti e di ciascuno è e rimane comune, perché indivisibile e perché soltanto insieme è possibile raggiungerlo, accrescerlo e custodirlo, anche in vista del futuro”.
Pur essendo così fondato nella natura e dignità del nostro essere, il bene comune ha una sua evidente storicità: infatti “le esigenze del bene comune derivano dalle condizioni sociali di ogni epoca e sono strettamente connesse al rispetto e alla promozione integrale della persona e dei suoi diritti fondamentali” (“Compendio”, nn.
164-166).
Non è possibile, e forse non sarebbe nemmeno utile ai nostri fini, disporre di una determinazione altrettanto chiara e organica del concetto di laicità.
È indispensabile però una precisazione iniziale: in questo contesto parliamo di “laicità” non nel senso teologico ed ecclesiale, per il quale, come dice il Concilio Vaticano II nella “Lumen gentium” (n.
31), “Col nome di laici si intendono…
tutti i fedeli a esclusione dei membri dell’ordine sacro e dello stato religioso…, i fedeli cioè, che, dopo essere stati incorporati in Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio…
per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano”.
Dei laici così intesi è proprio e peculiare “il carattere secolare”, nel senso che “per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio”.
Questo carattere secolare e il rapporto con le realtà temporali costituiscono in qualche modo il ponte che consente un collegamento e un passaggio all’altro grande significato dei termini “laici” e “laicità”, che è quello a cui ci riferiremo d’ora in poi.
Qui laico e laicità sono infatti concetti che indicano e implicano un’autonomia e una distinzione da ciò che è ecclesiastico e che fa capo alla Chiesa, e più ampiamente al cristianesimo e ad ogni religione.
Per la genesi di questo concetto resta fondamentale il grande studio di G.
de Lagarde “La naissance de l’esprit laïque, au déclin du moyen âge”.
Indicativo della pluralità e anche del contrasto delle interpretazioni che vengono date oggi di tale concetto è il modo in cui Giovanni Fornero, nella terza edizione da lui stesso curata del “Dizionario di filosofia” di Nicola Abbagnano, tratta la voce “Laicismo”, che nel linguaggio comune sta ad indicare una versione dura, polemica ed “esclusiva” della laicità.
Per Fornero con “laicismo” si intende “il principio dell’autonomia delle attività umane, cioè l’esigenza che tali attività si svolgano secondo regole proprie, che non siano ad esse imposte dall’esterno, per fini o interessi diversi da quelli a cui esse si ispirano”.
Ma questa autonomia è affermata, in termini formalmente assai simili, dal Concilio Vaticano II (“Gaudium et spes”, n.
36), che afferma: “Se per autonomia delle realtà terrene intendiamo che le cose create e la stessa società hanno leggi e valori propri, che l’uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare, allora si tratta di un’esigenza legittima, che non solo è postulata dagli uomini del nostro tempo, ma anche è conforme al volere del Creatore.
Infatti è dalla stessa loro condizione di creature che le cose tutte ricevono la loro propria consistenza, verità, bontà, le loro leggi proprie e il loro ordine; e tutto ciò l’uomo è tenuto a rispettare, riconoscendo le esigenze di metodo proprie di ogni singola scienza o arte”.
È anche assai interessante che Fornero riconduca l’origine del concetto di laicismo a papa Gelasio I il quale, alla fine del V secolo, formula con chiarezza il principio della distinzione dei due poteri del papa e dell’imperatore e su queste basi rivendica l’autonomia della sfera religiosa da quella politica.
In termini simili si esprime l’allora cardinale Joseph Ratzinger, nel libro “Senza radici” (pp.
51-52), che individua qui anche la matrice di una profonda differenza tra cristianesimo d’Occidente e d’Oriente, tra cattolicesimo e ortodossia, nella quale invece l’imperatore era capo anche della Chiesa e questa appariva quasi identificata con l’impero.
*** Ma questa convergenza, o consenso, sul principio della laicità non può nascondere le divergenze che si sono formate nella storia e che oggi emergono sempre di nuovo.
Il tornante decisivo è quel “nuovo scisma” – per usare le parole del cardinale Ratzinger nel libro già citato (pp.
56-57) – che si è verificato soprattutto in Francia tra la fine del secolo XVIII e l’inizio del XIX e che tuttora è tipico soprattutto dei paesi latini di matrice cattolica.
È qui che la rivendicazione della ragione e della libertà affermatasi con l’illuminismo assume un volto decisamente ostile alla Chiesa e, non di rado, chiuso ad ogni trascendenza, mentre la Chiesa a sua volta fatica e tarda a lungo nel distinguere tra le istanze anti-cristiane, a cui evidentemente non poteva non opporsi, e la rivendicazione della libertà sociale e politica, che invece avrebbe potuto e dovuto essere accolta positivamente.
Il “nuovo scisma” è pertanto tra cattolici e “laici”, dove la parola “laico” assume un significato di opposizione alla religione che prima non aveva.
È interessante notare che uno scisma analogo non si è verificato nel mondo protestante, perché il protestantesimo, che fin dall’inizio ha concepito se stesso come un movimento di liberazione e purificazione dai vincoli dell’autorità ecclesiastica, ha sviluppato facilmente un rapporto di parentela con l’illuminismo, con il rischio però – e a volte non soltanto il rischio – di svuotare dall’interno la verità cristiana e di ridursi a un dato di cultura, piuttosto che di fede in senso autentico.
Il terreno più immediatamente sensibile – anche se a mio parere non il più profondo – delle tensioni tra cristianesimo e illuminismo è stato quello dei rapporti tra Chiesa e Stato.
E qui si è sviluppata una seconda e importantissima divaricazione, anzitutto all’interno del mondo protestante.
Mentre in Europa le Chiese nate dalla Riforma si sono costituite come Chiese di Stato, in una maniera assai più pregnante di quel che è avvenuto nel cattolicesimo, dove le Chiese di Stato hanno sempre dovuto fare i conti con l’unità e l’universalità transnazionale della Chiesa cattolica, del tutto diversa è la vicenda degli Stati Uniti d’America.
La loro stessa nascita infatti è dovuta, in larga misura, a quei gruppi di cristiani protestanti che erano fuggiti dal sistema delle Chiese di Stato vigente in Europa e che formavano libere comunità di credenti.
Il fondamento della società americana è costituito pertanto dalle Chiese libere, per le quali è essenziale non essere Chiese dello Stato ma fondarsi sulla libera unione dei credenti.
In questo senso si può dire che alla base della società americana c’è una separazione tra Chiesa e Stato determinata, anzi, reclamata dalla religione e rivolta anzitutto a proteggere la religione stessa e il suo spazio vitale, che lo Stato deve lasciare libero.
Non siamo dunque lontani dagli intenti e dagli obiettivi della distinzione affermata da papa Gelasio I.
Siamo invece lontanissimi da quella separazione fondamentalmente “ostile” alla religione e tendente a subordinare le Chiese allo Stato che è stata imposta dalla Rivoluzione francese e dai sistemi statali che ad essa hanno fatto seguito.
Per conseguenza, tutto il sistema dei rapporti tra sfera statale e non statale in America si è sviluppato diversamente che in Europa, attribuendo anche alla sfera non statale un concreto carattere pubblico, favorito dal sistema giuridico e fiscale.
In questa America, con la sua specifica identità, i cattolici si sono integrati bene, nonostante le resistenze di quell’ideologia che voleva riservare la piena titolarità “nordamericana” soltanto ai protestanti.
In concreto i cattolici hanno riconosciuto ben presto il carattere positivo della separazione tra Stato e Chiesa legata a motivazioni religiose e l’importanza della libertà religiosa così garantita.
*** Fino al Concilio Vaticano II però rimaneva una difficoltà, o una riserva di principio, che non riguardava i cattolici americani come tali, ma la Chiesa cattolica nel suo complesso.
Questa difficoltà si riferiva al riconoscimento della libertà religiosa, non semplicemente come accettazione di un dato di fatto, ma come affermazione di un diritto, fondato sulla dignità che appartiene per natura alla persona umana.
Non per caso la dichiarazione conciliare “Dignitatis humanae” sulla libertà religiosa, che afferma chiaramente tale diritto – evitando però di fondarlo su di un approccio relativistico che metta in forse la verità del cristianesimo –, è stata redatta con il forte contributo dei vescovi e dei teologi nordamericani.
Il Vaticano II non si è limitato a togliere di mezzo l’ostacolo riguardante la libertà religiosa, ma ha rappresentato il superamento, almeno in linea di principio, di quel ritardo storico del cattolicesimo a cui ho accennato in precedenza.
Esso infatti ha posto le basi di una vera conciliazione tra Chiesa e modernità e della riscoperta della profonda corrispondenza che esiste tra cristianesimo e illuminismo.
In concreto, il Concilio ha fatto propria la “svolta antropologica” che fin dall’inizio dell’età moderna aveva posto l’uomo al centro: ha mostrato infatti le radici cristiane di questa svolta e l’infondatezza dell’alternativa tra centralità dell’uomo e centralità di Dio.
Analogamente ha affermato, come si è visto, la legittima autonomia delle realtà terrene, i diritti e le libertà degli uomini e dei popoli, riconoscendo al contempo la validità del grande sforzo che l’umanità sta compiendo per trasformare il mondo.
Con il Vaticano II, pertanto, è stata inaugurata una nuova stagione dei rapporti tra Chiesa e laicità, come tra religione cattolica e libertà: una stagione nella quale si è coltivata inizialmente la speranza che ogni contenzioso sulla laicità fosse ormai alle nostre spalle.
Non era una speranza priva di ragioni concrete, anche e particolarmente per quanto riguarda il terreno “sensibile” dei rapporti tra Chiesa e Stato.
Con il pieno riconoscimento della libertà religiosa da parte del Concilio Vaticano II veniva meno, infatti, la giustificazione di principio di una “religione di Stato”, che aveva costituito l’ostacolo sostanziale alla laicità dello Stato stesso e delle sue istituzioni.
Anche la differenza tra regimi “concordatari” e regimi di separazione tra Stato e Chiesa diventava a questo punto meno rilevante, dato che anche i Concordati – come mostra esemplarmente l’accordo di revisione del Concordato stipulato tra lo Stato italiano e la Santa Sede nel 1984 – si pongono ormai espressamente al di fuori di un’ottica di religione di Stato.
Si legge infatti nel protocollo addizionale di tale accordo, in relazione all’articolo 1: “Si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato nei Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano”.
*** Le vicende degli ultimi decenni sembrano però smentire crudamente una tale speranza: ci troviamo infatti dentro a una fase nuova, e acuta, della contesa intorno alla laicità.
A ben vedere, tuttavia, l’oggetto del contendere si è profondamente modificato: non si tratta più, almeno in linea principale, dei rapporti tra Chiesa e Stato come istituzioni.
A questo riguardo infatti la distinzione e l’autonomia reciproca sono sostanzialmente accettate e condivise sia dai cattolici sia dai laici, e con esse l’apertura pluralista degli ordinamenti dello Stato democratico e liberale alle posizioni più diverse, che di per sé hanno tutte, davanti allo Stato, uguali diritti e uguale dignità.
Le polemiche che vengono sollevate su queste tematiche sembrano dunque piuttosto pretestuose e sono probabilmente il riflesso dell’altro e ben più consistente contenzioso di cui ora dobbiamo occuparci.
Oggetto di quest’ultimo sono principalmente le grandi problematiche etiche ed antropologiche che sono emerse negli ultimi decenni, a seguito sia dei profondi cambiamenti intervenuti nei costumi e nei comportamenti sia delle nuove applicazioni al soggetto umano delle biotecnologie, che hanno aperto orizzonti fino ad un recente passato imprevedibili.
Queste problematiche hanno infatti chiaramente una dimensione non soltanto personale e privata ma anche pubblica e non possono trovare risposta se non sulla base della concezione dell’uomo a cui si fa riferimento: in particolare della domanda di fondo se l’uomo sia soltanto un essere della natura, frutto dell’evoluzione cosmica e biologica, o invece abbia anche una dimensione trascendente, irriducibile all’universo fisico.
Sarebbe strano, dunque, che le grandi religioni non intervenissero al riguardo e non facessero udire la loro voce sulla scena pubblica.
Come è naturale, di questo si fanno carico anzitutto, nelle diverse aree geografiche e culturali, le religioni in esse prevalenti: in Occidente quindi il cristianesimo e in particolare in Italia la Chiesa cattolica.
In concreto la loro voce risuona con una forza che pochi avrebbero previsto quando una secolarizzazione sempre più radicale era ritenuta il destino inevitabile del mondo contemporaneo, o almeno dell’Occidente: quando cioè sembrava fuori dall’orizzonte quel risveglio, su scala mondiale, delle religioni e del loro ruolo pubblico che è una delle grandi novità degli ultimi decenni.
Vorrei ricordare, a questo proposito, la sorpresa e lo sconcerto che provocarono, anche in ambito cattolico, le affermazioni fatte da Giovanni Paolo II al convegno della Chiesa italiana a Loreto, nell’ormai lontano aprile 1985, quando invitò a riscoprire “il ruolo anche pubblico che il cristianesimo può svolgere per la promozione dell’uomo e per il bene dell’Italia, nel pieno rispetto, anzi, nella convinta promozione della libertà religiosa e civile di tutti e di ciascuno, e senza confondere in alcun modo la Chiesa con la comunità politica”.
Giovanni Paolo II domandò pertanto alla Chiesa italiana di “operare, con umile coraggio e piena fiducia nel Signore, affinché la fede cristiana abbia o ricuperi – anche e particolarmente in una società pluralista e parzialmente scristianizzata – un ruolo-guida e un’efficacia trainante nel cammino verso il futuro”.
*** Il contenzioso riguardo alla laicità incentrato sulle grandi problematiche etiche ed antropologiche ha oggi d’altronde un altro protagonista, che proprio riguardo a tali problematiche si pone in modo antitetico rispetto alla Chiesa e al cristianesimo.
Il suo nucleo concettuale è la convinzione che l’uomo sia integralmente riconducibile all’universo fisico, mentre sul piano etico e giuridico il suo assunto fondamentale è quello della libertà individuale, in rapporto alla quale va evitata ogni discriminazione.
Questa libertà, per la quale in ultima analisi tutto è relativo al soggetto, viene eretta a supremo criterio etico e giuridico: ogni altra posizione può essere quindi lecita soltanto finché non contrasta ma rimane subordinata rispetto a questo criterio relativistico.
In tal modo vengono sistematicamente censurate, quanto meno nella loro valenza pubblica, le norme morali del cristianesimo.
Si è sviluppata così in Occidente quella che Benedetto XVI ha ripetutamente denominato “la dittatura del relativismo”, una forma di cultura cioè che taglia deliberatamente le proprie radici storiche e costituisce una contraddizione radicale non solo del cristianesimo ma più ampiamente delle tradizioni religiose e morali dell’umanità.
Proprio questo taglio radicale è però lontano dall’essere da tutti condiviso in quello che si suole chiamare “il mondo laico”.
Anzi, molti “laici” ritengono di dover rifiutare un simile taglio per rimanere fedeli alle radici e motivazioni autentiche del liberalismo, che giudicano incompatibili con la dittatura del relativismo.
L’allora cardinale Ratzinger, nel libro che ho già ricordato, ha fornito una motivazione storica e anche teologica di questa nuova sintonia tra laici e cattolici, arrivando a sostenere che la distinzione tra gli uni e gli altri “dev’essere relativizzata” (“Senza radici”, pp.
111-112).
In una lettera scritta a Marcello Pera in occasione della recente pubblicazione del libro di quest’ultimo “Perché dobbiamo dirci cristiani.
Il liberalismo, l’Europa, l’etica”, Benedetto XVI ha preso di nuovo e fortemente posizione a favore del legame intrinseco tra liberalismo e cristianesimo.
Inoltre, nella relazione tenuta a Subiaco il 1° aprile 2005, il giorno prima della morte di Giovanni Paolo II, aveva avanzato “una proposta ai laici”: sostituire la formula di Ugo Grozio “etsi Deus non daretur” – anche se Dio non esistesse –, ormai storicamente consunta perché nel corso del secolo XX è progressivamente venuta meno quella larga coincidenza di contenuti tra etica pubblica civile e morale cristiana che costituiva il senso concreto di tale formula, con la formula inversa, “veluti si Deus daretur” – come se Dio esistesse –.
Anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe cioè cercare di vivere e indirizzare la propria vita come se Dio ci fosse: “Così nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgente bisogno” (J.
Ratzinger, “L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture”, pp.
60-63).
È doveroso aggiungere che non tutti, tra i cattolici, condividono l’apertura cordiale a questo genere di laici.
Non mancano infatti coloro che li vedono con sospetto – a mio parere ingiusto –, temendo che strumentalizzino la fede cristiana a fini ideologici e politici.
Il motivo principale di tale diffidenza è che non pochi, sebbene cattolici, non appaiono realmente convinti della necessità di un impegno forte nel campo dell’etica pubblica.
In concreto questi cattolici rimangono piuttosto legati in materia di laicità al quadro classico della divisione di competenze tra istituzioni civili ed istituzioni ecclesiastiche e sembrano non cogliere pienamente la portata della novità costituita dall’emergere delle attuali problematiche etiche ed antropologiche.
*** L’analisi del concetto di laicità nel suo concreto articolarsi storico consente di tentare una risposta non generica alla questione del rapporto tra laicità e bene comune.
Quando è intesa come autonomia delle attività umane, che devono reggersi secondo norme loro proprie, e in particolare come indipendenza dello Stato dall’autorità ecclesiastica, la laicità è certamente richiesta dal bene comune, come del resto ha ampiamente mostrato la storia dell’Europa moderna a partire dalle guerre di religione.
Ernst-Wolfgang Böckenförde, nel suo classico saggio su “La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione”, è tra coloro che hanno meglio evidenziato come soltanto l’indipendenza dello Stato dalle diverse confessioni religiose poteva assicurare la pace delle nazioni e la stessa libertà dei credenti.
Diverso è invece il discorso quando il concetto di laicità viene esteso ad escludere ogni riferimento delle attività umane e in particolare delle leggi dello Stato e dell’intera sfera pubblica a quelle istanze etiche che trovano il loro fondamento nell’essenza stessa dell’uomo, oltre che a quel “senso religioso” nel quale si esprime la nostra costitutiva apertura alla trascendenza.
Come infatti ha mostrato lo stesso Böckenförde alla fine del saggio che ho ricordato, lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non può garantire e tra questi, come già sosteneva Hegel, sembrano svolgere un ruolo peculiare gli impulsi e i vincoli morali di cui la religione è la sorgente.
Molto recentemente Rémi Brague, in un intervento su “Fede e democrazia” pubblicato sulla rivista “Aspenia” nel 2008 (pp.
206-208), ha proposto un assai interessante aggiornamento della tesi di Böckenförde: anzitutto estendendola dallo Stato all’uomo di oggi, che in larga misura ha smesso di credere nel proprio valore, a causa di quella sua riduzione alla natura e di quel totale relativismo che sono all’origine delle predette interpretazioni della laicità.
È l’uomo dunque, e non solo lo Stato, ad aver bisogno oggi di un sostegno che non è in grado di garantirsi da se stesso.
In secondo luogo la religione non è soltanto, e nemmeno primariamente, fonte di impulsi e vincoli etici, come sembra pensare Böckenförde.
Oggi, prima che di assicurare dei limiti e degli argini, si tratta di trovare delle ragioni di vita, e questa è, fin dall’inizio, la funzione, o meglio la missione più propria del cristianesimo: esso infatti ci dice anzitutto non “come” vivere, ma “perché” vivere, perché scegliere la vita, perché gioirne e perché trasmetterla.
Sono questi i motivi per i quali Benedetto XVI ha ripetutamente proposto una laicità da lui stesso definita “sana” e “positiva”, che congiunga all’autonomia delle attività umane e all’indipendenza dello Stato non già la preclusione ma l’apertura nei confronti delle fondamentali istanze etiche e del “senso religioso” che portiamo dentro di noi.
Solo una laicità così intesa sembra realmente corrispondere alle esigenze attuali del bene comune, perché capovolge quelle strane tendenze che sembrano compiacersi di prosciugare le riserve di energia vitale e morale di cui vive ciascuno di noi, il nostro popolo e l’intero Occidente, senza darsi pensiero di come sostituirle, o meglio non avvertendo che esse in concreto non sono sostituibili.
Proprio la percezione del valore decisivo di queste riserve di energie è ciò che invece accomuna oggi molti cattolici e laici e che, a mio parere, indica un grande compito comune che ci attende: dare qualcosa di noi stessi per rinvigorire, e non per depauperare, tali riserve.

Cattolici, laici e società civile

“L’Occidente deve decidersi a capire quale peso ha la fede nella vita pubblica dei suoi cittadini, non può rimuovere il problema”.
Queste parole fulminanti, espresse da un vescovo mediorientale ad Amman durante il comitato scientifico internazionale della rivista “Oasis”, mi sono tornate alla mente in questi giorni, nei quali si è acceso sui media un vivo dibattito circa l’azione dei cristiani nella società civile, il dialogo tra laici e cattolici – che secondo qualcuno sarebbe addirittura giunto al capolinea –, la presunta sconfitta del cristianesimo e l’ingerenza degli uomini di Chiesa nelle vicende pubbliche.
In una parola, circa lo stile con cui i cattolici dovrebbero intervenire o meno sui delicati temi della vita comune, quali quelli della bioetica.
Mi sembra che spesso si perda di vista il cuore della questione: ogni fede va sempre soggetta a un’interpretazione culturale pubblica.
È un dato inevitabile.
Da una parte perché, come scrisse Giovanni Paolo II, “una fede che non diventi cultura sarebbe non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta”.
Dall’altra, essendo la fede – quella giudaica e quella cristiana – frutto di un Dio che si è compromesso con la storia, ha inevitabilmente a che fare con la concretezza della vita e della morte, dell’amore e del dolore, del lavoro e del riposo e dell’azione civica.
Perciò è essa stessa inevitabilmente investita da diverse letture culturali, che possono entrare in conflitto tra di loro.
In questa fase di “post-secolarismo”, nella società italiana si confrontano, in particolare, due interpretazioni culturali del cristianesimo.
A me sembrano entrambe riduttive.
La prima è quella che tratta il cristianesimo come una religione civile, come mero cemento etico, capace di fungere da collante sociale per la nostra democrazia e per le democrazie europee in grave affanno.
Se una simile posizione è plausibile in chi non crede, a chi crede deve essere evidente la sua strutturale insufficienza.
L’altra, più sottile, è quella che tende a ridurre il cristianesimo all’annuncio della pura e nuda Croce per la salvezza di “ogni altro”.
Occuparsi, per esempio, di bioetica o biopolitica distoglierebbe dall’autentico messaggio di misericordia di Cristo.
Come se questo messaggio fosse in sé astorico e non possedesse implicazioni antropologiche, sociali e cosmologiche.
Un simile atteggiamento produce una dispersione, una diaspora dei cristiani nella società e finisce per nascondere la rilevanza umana della fede in quanto tale.
Al punto che di fronte ai drammi anche pubblici della vita si giunge a domandare un silenzio che rischia di svuotare il senso dell’appartenenza a Cristo e alla Chiesa agli occhi degli altri.
Nessuna di queste due interpretazioni culturali, secondo me, riesce ad esprimere in maniera adeguata la vera natura del cristianesimo e della sua azione nella società civile: la prima perché lo riduce alla sua dimensione secolare, separandolo dalla forza sorgiva del soggetto cristiano, dono dell’incontro con l’avvenimento personale di Gesù Cristo nella Chiesa; la seconda perché priva la fede del suo spessore carnale.
A me sembra più rispettosa della natura dell’uomo e del suo essere in relazione un’altra interpretazione culturale.
Essa corre lungo il crinale che separa la religione civile dalla diaspora e dal nascondimento.
Propone l’avvenimento di Gesù Cristo in tutta la sua interezza – irriducibile ad ogni umano schieramento –, ne mostra il cuore che vive nella fede della Chiesa a beneficio di tutto il popolo.
In che modo? Attraverso l’annuncio, ad opera del soggetto ecclesiale, di tutti i misteri della fede nella loro integralità, sapientemente compendiati nel catechismo della Chiesa.
Giungendo però ad esplicitare tutti gli aspetti e le implicazioni che da tali misteri sempre sgorgano.
Essi si intrecciano con le vicende umane di ogni tempo, mostrando la bellezza e la fecondità della fede per la vita di tutti i giorni.
Solo un esempio: se credo che l’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio, avrò una certa concezione della nascita e della morte, del rapporto tra uomo e donna, del matrimonio e della famiglia.
Concezione che inevitabilmente incontra e chiede di confrontarsi con l’esperienza di tutti gli uomini, anche dei non credenti.
Qualunque sia il loro modo di concepire questi dati elementari dell’esistenza.
Rispettando lo specifico compito dei fedeli laici in campo politico, è tuttavia evidente che se ogni fedele, dal papa all’ultimo dei battezzati, non mettesse in comune le risposte che ritiene valide alle domande che quotidianamente agitano il cuore dell’uomo, cioè se non testimoniasse le implicazioni pratiche della propria fede, toglierebbe qualcosa agli altri.
Sottrarrebbe un positivo, non contribuirebbe al bene civile di edificare la vita buona.
Oggi poi, in una società plurale e perciò tendenzialmente molto conflittuale, questo paragone deve essere a 360 gradi e con tutti, nessuno escluso.
In un simile confronto, che porta i cristiani, papa e vescovi compresi, a dialogare umilmente ma tenacemente con tutti, si vede che l’azione ecclesiale non ha come scopo l’egemonia, non punta a usare l’ideale della fede in vista di un potere.
Il suo vero scopo, a imitazione del suo Fondatore, è offrire a tutti la consolante speranza nella vita eterna.
Una speranza che, già godibile nel “centuplo quaggiù”, aiuta ad affrontare i problemi cruciali che rendono affascinante e drammatico il quotidiano di tutti.
Solo attraverso questo instancabile racconto, teso al riconoscimento reciproco, rispettoso delle procedure pattuite in uno stato di diritto, si può mettere a frutto quel grande valore pratico che scaturisce dal fatto di vivere insieme.

La quaresima nella tradizione bizantina

Nella tradizione bizantina il periodo di dieci settimane che precede la Pasqua viene chiamato Triodion – nome che indica le tre odi bibliche cantate nell’ufficiatura mattutina – e comprende la pre-quaresima e la quaresima.
Il periodo pre-quaresimale è comune a tutte le tradizioni liturgiche cristiane, dal Triodion bizantino, al Digiuno dei niniviti siriaco, al Digiuno di Giona dei copti, alla Settuagesima nell’antica tradizione latina.
La quaresima bizantina vera e propria comprende quaranta giorni – dal lunedì della prima settimana al venerdì prima della domenica delle Palme – e svolge le settimane dal lunedì alla domenica, presentando il cammino settimanale verso la domenica a modello della stessa quaresima verso la Pasqua.
Inoltre fa una chiara distinzione tra il sabato e la domenica e gli altri giorni: nei primi si celebra la Divina liturgia (domenica con l’anafora di san Basilio, sabato con quella di san Giovanni Crisostomo), mentre nei giorni feriali solo l’ufficiatura delle ore, con l’aggiunta durante il vespro del mercoledì e del venerdì della liturgia dei Presantificati, cioè la comunione con il Corpo e il Sangue del Signore consacrati la domenica precedente.
La quaresima bizantina è un periodo molto ricco nella scelta dei testi biblici: salmi, letture; nell’innografia e nelle letture dei padri.
I testi innografici si soffermano soprattutto sul tema dell’anima umana, dominata dal peccato, che trova per mezzo della quaresima la possibilità della salvezza.
Nelle quattro domeniche della pre-quaresima troviamo i grandi temi che segneranno il percorso quaresimale: l’umiltà (domenica del pubblicano e del fariseo); il ritorno a Dio misericordioso (domenica del figlio prodigo); il giudizio finale (domenica di carnevale), il perdono (domenica dei latticini).
In quest’ultima domenica viene commemorata l’espulsione di Adamo dal paradiso: Adamo, creato da Dio per vivere in comunione con lui nel paradiso, a causa del peccato ne è stato cacciato, ma nella quaresima comincia il cammino di ritorno che culminerà quando Cristo stesso, nel mistero pasquale, scende negli inferi e gli dà la sua mano per levarlo dalla morte e riportarlo in paradiso, che viene quasi personificato nella preghiera della Chiesa.
Alla fine del vespro della quarta domenica si celebra il rito del perdono con cui si inizia la quaresima.
La quaresima dura quaranta giorni, con cinque domeniche.
In ciascuna di esse vediamo un doppio aspetto: da una parte le letture bibliche che preparano al battesimo, dall’altra gli aspetti storici o agiografici.
Nella domenica dell’ortodossia la vocazione di Filippo e Natanaele è modello della vocazione di ogni essere umano e si celebra il trionfo dell’ortodossia sull’iconoclasmo e il ristabilimento della venerazione delle icone.
Nella domenica di san Gregorio Palamas si ricorda la fede del paralitico guarito da Cristo.
La domenica dell’esaltazione della santa Croce è dedicata alla venerazione della Croce vittoriosa di Cristo, portata solennemente al centro della chiesa e venerata dai fedeli per tutta la settimana come segno di vittoria e di gioia, non di sofferenza.
Nella domenica di san Giovanni Climaco, modello di ascesi, si celebra la guarigione dell’indemoniato, e in quella di santa Maria Egiziaca, modello di pentimento, l’annuncio della risurrezione.
Il sabato della quinta settimana si canta l’inno Akathistos, ufficiatura dedicata alla Madre di Dio.
La sesta e ultima settimana di quaresima, chiamata delle Palme, ha come centro la figura di Lazzaro, l’amico del Signore, dal momento della malattia, fino alla morte e alla sua risurrezione.
I testi liturgici ci fanno avvicinare a quello che si manifesterà pienamente nei giorni della Settimana santa, cioè la filantropia di Dio manifestata in Cristo, il suo amore reale e concreto per l’uomo.
Tutta la settimana viene inquadrata nella contemplazione dell’incontro ormai vicino tra Gesù e la morte, quella dell’amico per primo, quella propria la settimana dopo.
I testi liturgici riescono a coinvolgerci in questo cammino di Gesù verso Betania, verso Gerusalemme.
Nella liturgia bizantina non siamo mai spettatori, ma sempre partecipanti e concelebranti, presenti nella liturgia e nell’evento di salvezza che la liturgia celebra.
Col vespro del sabato di Lazzaro si conclude il periodo quaresimale.
Lungo l’intera quaresima, la tradizione bizantina recita alla fine di tutte le ore dell’ufficiatura la preghiera attribuita a sant’Efrem il Siro, che riassume il cammino di conversione di ogni cristiano: “Signore e sovrano della mia vita, non darmi uno spirito di pigrizia, d’indolenza, di superbia, di vaniloquio.
Dà a me, tuo servitore, uno spirito di sapienza, di umiltà, di pazienza e di amore.
Sì, Signore e re, dammi di vedere i miei peccati e di non condannare mio fratello, perché tu sei benedetto nei secoli”.
(©L’Osservatore Romano – 25 febbraio 2009) ”Digiunando dai cibi, anima mia, senza purificarti dalle passioni, invano ti rallegri per l’astinenza, perché se essa non diviene per te occasione di correzione, sei in odio a Dio come menzognera e ti rendi simile ai perfidi demoni che non si cibano mai.
Non rendere dunque inutile il digiuno peccando, ma rimani irremovibile sotto gli impulsi sregolati, facendo conto di stare presso il Salvatore crocifisso, o meglio di essere crocifissa insieme a Colui che per te è stato crocifisso, gridando a lui: ricordati di me Signore, quando verrai nel tuo regno”.
Questo tropario della terza settimana della pre-quaresima nella tradizione bizantina, riassume in modo incisivo quello che è il periodo quaresimale di qualsiasi tradizione cristiana: il digiuno e l’astinenza sono vani se non corrispondono a una vera conversione del cuore.

Numeri e fede/7: L’infinito è logico? L’aritmetica dice di sì

La matematica permette di indagare con successo gli aspetti logico- razionali del­la realtà.
«Offre alla scienza il modo di scoprire, ad ogni passo, straordinarie strutture logiche nell’universo, che fanno luce su armonie inattese e mostrano le­gami profondi fra fatti e feno­meni che a volte ci sembrano del tutto estranei fra loro.
Chi crede, chi ha già fatto qualche passo nel cammino della fede, non trova contrasto fra questi ri­sultati scientifici e la propria fe­de, ma anzi un’armonica, bellis­sima consonanza.
La matemati­ca ci costringe ad alzare lo sguardo: per ogni problema ci fa cercare una logica che lo inqua­dri e ne renda conto.
E questo porta a prospettive impreviste e sempre più elevate» .
È il pensie­ro del professor Antonio Mari­no, ordinario di Analisi matema­tica all’Università di Pisa.
Mari­no si rifà a Ennio De Giorgi, uno fra i maggio­ri matemati­ci del ’ 900.
De Giorgi a­veva messo in risalto u­no degli a­spetti più sorprendenti della scienza di Pitagora e di Euclide: «… per stu­diare le cose più concrete, bisogna passare attraverso la riflessione su con­cetti che sembrano superare la nostra esperienza sensibile».
L’intervista Tramite la matematica, dun­que, la scienza ci può spiegare l’Universo? «La matematica è lo strumento logico che permette di studiare ‘ come’ si svolgono certi feno­meni.
Quando si dice che la Scienza spiega il “come” e il “perché” delle cose, bisogna sta­re attenti ai termini: in sintesi la scienza dice il “come” ma non il “perché”.
Per fare un esempio, consideriamo la forza di gravità: alla base dell’analisi scientifica classica dei fenomeni che ricon­duciamo al concetto di forza di gravità, abbiamo la legge di gra­vitazione universale e la legge fondamentale della dinamica newtoniana.
Entrambe sono formulate in termini matemati­ci, anzi Isaac Newton inventò apposta – a modo suo e in con­correnza con Pierre Simon de Laplace – gli elementi fonda­mentali di quello che chiamia­mo ‘ calcolo differenziale’, sen­za il quale le leggi della dinami­ca non possono essere espresse e direi nemmeno pensate».
Che cosa ci dice questo esem­pio? «Anzitutto il fenomeno che con­sideriamo ha una struttura logi­co- razionale che ci permette di studiarlo, così razionale da essere esprimibile solo in termini matematici.
In secondo luogo, grazie a questa analisi fisico­matematica, possiamo dire “co­me” si comportano due corpi “dotati di massa” esposti alla re­ciproca attrazione ( il Sole e la Terra o la Terra e una mela, co­me quella mitica che sarebbe caduta sulla testa di Newton).
La scienza ci dice “come”, con qua­li leggi, certi fenomeni si svolgo­no, almeno dal punto di vista che lo scienziato di volta in volta si propone.
E quelle leggi, espri­mibili solo in formule logico­matematiche, permettono alla scienza di svolgere un suo com­pito essenziale: fare previsioni, a volte deterministiche a volte solo probabilistiche.
In questo senso diciamo che la scienza “spiega”».
Ed è sufficiente? «La scienza getta sguardi lumi­nosi sull’universo.
A volte è in grado di ricondurre tante leggi particolari ad una più semplice legge generale.
E questo è un al­tro bellissimo scorcio sulla ra­zionalità del creato.
Ma il pro­blema del vero “perché” resta: perché Terra e Sole si attraggo­no? Cioè, perché esiste quella legge fisica? Perché esistono le leggi fisiche? O se si vuole: per­ché è possibile organizzare parti della nostra conoscenza in for­mule logiche senza le quali gli oggetti stessi non sono nemme­no concepibili? Questa doman­da è filosofica e non ammette ri­sposte scientifiche, non nel sen­so rigoroso della scienza di oggi.
Tanto meno trova risposte defi­nitive sul piano strettamente lo­gico perché ogni sistema logico parte da assiomi “ragionevoli” ma non dimostrati.
La risposta dipende della proprie inclina­zioni.
Si può ad esempio dire che quella razionalità la inven­tiamo noi ma non c’è davvero, o altre cose, ma non si tratta di af­fermazioni scientifiche.
Qualcu­no dice che è inutile porsi do­mande alle quali non è possibile rispondere».
E come risponde chi crede? «Trova completa armonia fra la propria fede e il fatto che la mente umana possa cogliere la razionalità nel creato, dato che li pensa entrambi frutto di quello che potremmo chiamare il pen­siero creatore di Dio.
Direi che in questo universo logico sem­bra di scorgere un aspetto del Logos che pervade il creato, qualcosa dell’intelligenza del linguaggio, del Verbo: quell’ar­monia logica che si scopre nello studio di un problema e condu­ce poi essa stessa a fare nuove congetture e nuove scoperte.
Ma mi sento di dire che tutti gli stu­diosi, di qualunque credo o cul­tura, sono accomunati dalla me­raviglia per l’orizzonte scientifi­co che loro si prospetta, e avver­tono il senso di una comune im­presa.
Nell’ambito scientifico non trovano posto contrapposi­zioni filosofiche o religiose».
La matematica fa uso del con­cetto di infinito nella pratica quotidiana.
Come le riesce pos­sibile? «La matematica fa un uso quasi costante dell’insieme infinito dei numeri.
Il calcolo differen­ziale e il calcolo integrale ( il “calcolo infinitesimale”) sono fondati sull’intero insieme infi­nito dei numeri.
Ora gli studi sull’infinito matematico hanno portato a scoperte assai sor­prendenti, che sembrano con­trastare il senso comune, fra i quali un incredibile risultato: in parole assai grossolane, quale che sia il nostro progresso, l’in­sieme infinito dei numeri natu­rali ( 0,1,2, …
) mantiene e man­terrà sempre qualcosa che non possiamo compiutamente e­sprimere in modo formale.
Ep­pure la matematica si fonda sul­l’uso di questo infinito».
È questa la risposta all’enigma? «La risposta è solo una ragione­vole fiducia.
In questo campo come in tutta la scienza.
Ogni studioso compie un atto di fidu­cia a priori: egli studia un qual­che aspetto dell’universo, fidan­do in un’organizzazione razio­nale della natura, in un suo mo­do di essere esprimibile con del­le leggi, e anche nutrendo fidu­cia nella capacità di conoscere dell’uomo.
È un altro elemento di un comune percorso, nel qua­le sono coinvolte non solo le qualità strettamente logico- ra­zionali dello studioso, ma altre, forse tutte, le facoltà del suo es­sere persona pensante».
di Luigi Dell’Aglio

Per il bene comune.

«La situazione dell’Italia d’oggi mostra con evidenza i tratti di un paese stanco e diviso.
La stanchezza si profila non solo nei segni preoccupanti di recessione economica, nella perdita di competitività di molte delle nostre aziende, nella diffusa incapacità a elaborare e perseguire una progettualità di largo respiro, ma anche e soprattutto nella perdita di carica utopica, riscontrabile specialmente fra i giovani, nella penuria di speranza che si avverte tanto nella vita personale, quanto nell’impresa collettiva, nella disaffezione all’impegno politico».
È il punto di partenza delle riflessioni che mons.
Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, ha indirizzato l’11 gennaio ai rappresentanti delle istituzioni, ai politici e agli amministratori della cosa pubblica, operanti sul territorio dell’arcidiocesi.
Le riflessioni riprendono due suoi precedenti interventi pubblici: il primo richiama le qualità del cristiano nell’impegno politico al servizio della giustizia e della pace quali l’orizzonte ultimo, la necessità del giudizio morale, il bene comune come fine, la parola come mezzo, comunione e solidarietà, lo stile di vita, il primato della santità; e il secondo le priorità cui dedicarsi in vista del bene comune sul territorio abruzzese.
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“Cristo nostra Pasqua”

  Pubblicato il sussidio liturgico-pastorale per il periodo di Quaresima-Pasqua 2009 degli Uffici e Servizi pastorali e degli organismi collegati della CEI.
Il titolo è “Cristo nostra Pasqua” (1Cor 5,7).
Il sussidio, edito dalla San Paolo, è disponibile in tutte le librerie cattoliche e si apre con la presentazione di S.E.
Mons.
Mariano Crociata, Segretario Generale della CEI.
“Anno dopo anno, il cammino quaresimale viene a chiederci di rivolgere il nostro pensiero a ciò che è davvero essenziale – spiega il Segretario generale della CEI -.
Ecco quindi l’invito alla preghiera e alla carità, l’appello alla conversione e al digiuno dalle cose che appesantiscono il nostro procedere.
Ma tutto ciò è la vita, non la meta.
L’orizzonte, che rende lieto anche un tempo di purificazione qual è la Quaresima, è tutto nelle parole di San Paolo messe nel titolo del sussidio”.
Proprio l’apostolo delle genti, del quale si celebra il bimillenario della nascita ha messo al centro della sua predicazione apostolica il mistero di passione, morte e risurrezione del Signore Gesù, “mistero sul quale si incentra la riflessione del credente particolarmente nei Tempi liturgici di Quaresima e Pasqua – spiega don Domenico Falco, direttore dell’Ufficio liturgico nazionale -.
Presentandosi alla comunità di Corinto, San Paolo afferma di non sapere altro in mezzo a loro “se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso” (1Cor 2,2), anche se la sua educazione farisaica e la sua cultura ellenistica lo rendono ben consapevole che la predicazione della croce “è scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani”(1Cor 1,23)”.
Scopo del Sussidio è offrire alle comunità cristiane (particolarmente ai parroci e ai loro diretti collaboratori) alcune indicazioni pastorali per vivere questo tempo forte dell’anno liturgico, con un riferimento anche all’Anno Paolino indetto dal Santo Padre.
Come già dallo scorso anno, la diffusione del Sussidio è stata affidata alla Periodici San Paolo.
La stessa Casa Editrice si è già preoccupata di inviare a tutti i parroci una comunicazione, dando indicazioni su eventuali prenotazioni di copie.
Il numero verde indicato per eventuali prenotazioni presso la Periodici San Paolo è 800.509645.
Allo stesso tempo, ci sembra utile informare che anche le Suore Pie Discepole hanno preparato una serie di posters per il tempo di Quaresima-Pasqua, corredato di sussidio.
Tra i contenuti del sussidio anche “la preghiera intorno alla mensa” e la testimonianza (preparata dalla Caritas Italiana).

Tornare al Concilio! A quello di Calcedonia del 451

Il testo che segue non è una recensione del libro “Chi ha paura del Vaticano II?”.
Prende però spunto dalla sua pubblicazione per esporre – nella forma di un dialogo – le questioni che la Chiesa di oggi si trova ad affrontare.
Come si vedrà, sono questioni di importanza capitale, che arrivano a toccare le fondamenta del Credo cristiano.
Questioni alle quali hanno dato risposta non solo il Vaticano II ma prima di esso i Concili cristologici dei primi secoli, di Nicea, di Efeso, di Calcedonia.
L’autore, Francesco Arzillo, 49 anni, romano, è magistrato amministrativo di rara competenza in filosofia e teologia.
Breve dialogo sul Concilio, tra un maestro e un allievo di Francesco Arzillo Il maestro (M.) è un professore di teologia sessantenne, moderatamente progressista, disposto a dialogare con tutti; si innervosisce solo con chi appare poco propenso a valorizzare appieno il Concilio della sua giovinezza, che gli ricorda, tra l’altro, i tumultuosi anni del seminario.
L’allievo (A.) è più giovane e non è un chierico; è un po’ irriverente, mai però verso il magistero ecclesiale; molti lo considerano un ultraconservatore; ma anche i tradizionalisti lo criticano perché consulta – anche se con cautela – gli scritti teologici di Henri de Lubac e difende sempre Giovanni XXIII e Paolo VI.
––––– M.
– Ciao! Sempre con un libro in mano.
Vediamo un po’ il tuo ultimo acquisto.
A.
– Eccolo: “Chi ha paura del Vaticano II?”, a cura di Alberto Melloni e Giuseppe Ruggieri.
M.
– Mi sorprendi.
Leggi Melloni e i teologi cattolico-progressisti da te sempre criticati.
Ho capito: il titolo del libro ha fatto leva sul tuo senso di colpa e vuoi espiare.
A.
– Maestro, vedo che non hai perso l’abitudine di sovrapporre la psicoanalisi alla teologia.
Io sensi di colpa non ne ho, almeno su questo punto.
Tu sai che ho sempre accettato con tutto il cuore il Vaticano II.
Come si può parlare oggi della Chiesa senza la “Lumen gentium”? O della Rivelazione divina senza la “Dei Verbum”? O della liturgia senza la “Sacrosanctum Concilium”? M.
– Allora dov’è il problema? A.
– Il problema è in questa interminabile disputa sul Concilio, in questo intricatissimo conflitto delle interpretazioni.
Certo, i saggi contenuti in questo libro sono assai raffinati, contengono spunti interessanti, si confrontano con le indicazioni di Benedetto XVI.
Però… M.
– Però? A.
– Essi mi richiamano alla mente – almeno in parte – ambienti, climi e luoghi comuni di quell’area cattolico-progressista che tende a fare del Concilio un mito.
Ma bada, non voglio etichettare gli autori, uso un indicatore idealtipico e orientativo.
M.
– La verità è che tu dici di accettare il Concilio, ma con una riserva mentale, perché critichi chi si batte per il Concilio.
A.
– Vedi che parli di una battaglia? Ecco, proprio questo è il punto, questa sovraeccitazione di alcuni durante e dopo il Concilio, questo clima di lotta continua, questa “agitation croissante aux alentours du Concile”: parole non mie ma del cardinale Henri de Lubac.
E poi questo modo di raccontarne la storia! La famosa “settimana nera”…
Ma che significa? Qual è il valore euristico di questa espressione? Nessuno! Se leggo le memorie di un aiutante di campo di Napoleone a Waterloo posso comprendere che parli di una “giornata nera”; ma da uno storico contemporaneo mi aspetto un tono più calmo, che mi faccia capire.
Ancora de Lubac, nel suo libro “Entretien autour de Vatican II” pubblicato nel 1985, parla di un “language historico-manichéen, qui sous un mode mineur s’est assez largement répandu”.
O non ti va più bene neppure de Lubac, del quale mi hai sempre parlato con sconfinata ammirazione? M.
– Una storiografia neutrale non esiste.
A.
– Sì, però occorre almeno essere pacati.
E comunque parlo di una sovraeccitazione che non è solo autobiografica e storiografica.
Ma è anche filosofica, oserei dire.
M.
– Cioè? A.
– Vedi, prendiamo ad esempio il problema dello “spirito” e della “lettera”.
M.
– Non mi tirare fuori la storia secondo cui i documenti conciliari andrebbero letti solo secondo la lettera! A.
– Perché vuoi banalizzare il discorso? È vero che la lettera va sempre tenuta in debito conto, ma non è comunque sufficiente per un’ermeneutica completa.
Su questo concordano il giurista romano Celso e san Paolo.
Il che mi basta.
M.
– E allora? A.
– Dipende da cosa intendiamo con “spirito”.
Qui entra in gioco la sovraeccitazione.
Prendi per esempio Hegel a Jena.
Era chiaramente sovraeccitato: in Napoleone vedeva la Storia che passa a cavallo…
Ricordi quel passo delle “Lezioni di Jena”, che non a caso è stato anche citato dal “negativista” Kojève quale esergo della sua “Introduzione alla lettura di Hegel”? Ricordi il tono? “Signori! Ci troviamo in un’epoca importante, in un fermento in cui lo Spirito ha fatto un passo in avanti.
Ha superato la sua precedente forma concreta e ne ha acquisita una nuova…”.
Ecco, quando io leggo certi teologi, certi storici di oggi, non posso fare a meno di pensare a quel tono lì.
M.
– Tu insinui, alludi e non concludi.
Non è mica questione di tono! A.
– Non sta a me dire fino a che punto si tratti soltanto di tono, o di legittima assunzione di spunti teoretici, o di cedimento alle logiche immanentistiche.
Ogni autore è diverso dall’altro.
M.
– Torniamo al Concilio.
Tu citi il giurista romano Celso, insisti sul testo, e trascuri l’evento.
A.
– Altra parola-chiave: l’evento.
Hegel? Heidegger? Pareyson? M.
– Ma lascia stare i filosofi! A.
– Non lascio stare niente! Voi teologi di oggi conoscete poco la filosofia, volete fare una teo-logia senza “logos”, a-filosofica o trans-filosofica.
Ma spesso è solo retorica.
E poi la cosa peggiore è quella di essere influenzati da Hegel senza neppure esserne consapevoli.
Se Hegel fosse qui tra noi sarebbe sorpreso dal gran numero di suoi discendenti intellettuali, di figli e figliastri… E comunque non sapete neppure scrivere i manuali.
È una fatica trovarne uno che non salti da San Tommaso a Rahner, omettendo tutto ciò che vi sta in mezzo! Oggi ci si può diplomare in teologia senza sapere pressoché nulla di Scoto, di Suarez, di Melchior Cano, del Caietano.
Prova a chiedere a dieci neodiplomati se abbiano mai sentito parlare di Scheeben, e dimmi se ne trovi più di un paio che ti rispondano affermativamente.
M.
– Ora stai esagerando.
A.
– Hai ragione.
Mi calmo.
M.
– L’evento! Pensa alla teologia, pensa alla “Dei Verbum”: Dio si rivela attraverso eventi e parole intimamente connessi tra loro…
A.
– Certo che penso alla teologia! Penso che la Rivelazione divina culmina in Cristo, nel quale Dio ci ha detto tutto.
Essa è compiuta, anche se non è ancora completamente esplicitata, come ricorda il Catechismo al paragrafo 66.
E poi al paragrafo 83: la tradizione “viene dagli Apostoli e trasmette ciò che costoro hanno ricevuto dall’insegnamento e dall’esempio e ciò che hanno appreso dallo Spirito Santo”.
Sarebbe erroneo pensare a un evoluzionismo storicistico.
Non è la realtà rivelata da Dio che si modifica o si evolve; è l’intelligenza credente che cresce approfondendosi.
Se questo è vero, l’Evento unico è Cristo, non esiste un’età dello Spirito che superi quella di Cristo.
M.
– Risparmiami la storia di Gioacchino da Fiore, per favore… A.
– E perché no? Se proprio vogliamo cercare un evento epocale pensiamo a san Francesco! Chi è stato più epocale di lui, per l’intero secondo millennio? Su questo potremmo essere d’accordo tutti, conservatori, progressisti, persino molti non credenti.
Però l’interpretazione di chi vedeva in Francesco l’inaugurazione dell’età dello Spirito fu giustamente respinta.
Francesco stesso ne sarebbe rimasto stupito, lui vedeva solo Cristo e la Trinità, in tutto.
M.
– Però la storiografia francescana è complessa.
Occorre tener conto della politica di san Bonaventura nel narrare la storia del fondatore… A.
– Ma quale politica! Già questo uso del termine, riferito a un ambito che un medievale non avrebbe mai qualificato come “politico”, mi dà fastidio, perché è frutto di una cattiva ermeneutica.
Si leggono gli eventi teologici, filosofici, giuridici di quel tempo con la lente del panpoliticismo moderno, si considera “politico” ogni ambito del reale.
Bel modo di calarsi in un’altra epoca, da parte di chi parla in continuazione di storia e di storicità! M.
– Insomma, dove vuoi andare a parare? A.
– Voglio solo dire che dobbiamo smetterla con questa storia dell’evento epocale.
Non esistono eventi epocali, a stretto rigore logico e teologico.
Quella dell’evento epocale rischia di essere solo una retorica buona per la “mobilitazione”, una forma di cripto-ideologia.
M.
– Ma cosa auspichi, l’eterno ritorno dell’identico? A.
– No.
Agostino ha dimostrato che la ciclicità pagana è superata per sempre.
Si tratta, piuttosto, di saper vedere l’Eterno nel tempo, che interseca un punto del tempo, “quel” punto del tempo, incarnandosi.
M.
– Tu torni indietro…
A.
– Torno alle fonti.
E alla Fonte.
M.
– Ma l’Evento unico rivive oggi o no? A.
– Esso è compiuto.
Il tempo è compiuto, vedi Marco 1, 15.
Anche se ne attendiamo la piena manifestazione.
M.
– E il Concilio Vaticano II? Ti aiuta o no nel cammino? A.
– Certo che mi aiuta! Esso però presuppone l’Evento unico e la sua definizione dogmatica irreversibilmente compiuta nei primi sette Concili ecumenici.
Capisci che non posso pensare a un evento che “de-calcedonizzi” Cristo – cioè gli tolga ciò che di lui è stato definito a Calcedonia – per inculturarlo nella modernità.
M.
– Ma nessuno vuole questo! A.
– Apparentemente quasi nessuno.
Certo non vuole questo il Vaticano II, che non ha inteso innovare la fede, come sostengono specularmente, con opposti scopi, le versioni estreme del tradizionalismo e del progressismo.
Mi chiedo però quanto arianesimo tendenziale e virtuale ci sia oggi in giro, quanto troppo ci si spinga a umanizzare Gesù.
Penso per esempio ai critici della “Dominus Iesus”, che nel 2000 ha dovuto richiamare l’abc della cristologia.
Mi chiedo: chi ha paura dei Concili di Nicea, di Efeso, di Calcedonia? M.
– Il tuo è un suggestivo espediente retorico.
Tu gerarchizzi i Concili per togliere vita in modo subdolo al Vaticano II.
A.
– No.
Però mi sembra che oggi siano in gioco i fondamenti della fede.
Gradirei quindi che si dia evidenza adeguata anche ai convegni su Nicea e su Calcedonia, invece di lasciarli a pochi specialisti eruditi.
M.
– Basta, sono stanco.
Torno a casa e leggo qualcosa dal mio libro più caro, il “Giornale dell’anima” di Angelo Giuseppe Roncalli.
A.
– Che coincidenza, lo sto leggendo anch’io…
__________ Il libro: “Chi ha paura del Vaticano II?”, a cura di Giuseppe Ruggieri e Alberto Melloni, Carocci, Roma, 2009, pp.
152, euro 16,50.
Chi ha paura del Vaticano II? Con questa domanda il teologo Giuseppe Ruggieri e lo storico del cristianesimo Alberto Melloni intitolano un volumetto a più voci da loro curato, uscito pochi giorni fa in Italia.
Il libro non è una novità.
È la ristampa del fascicolo 2 del 2007 di “Cristianesimo nella Storia”, la rivista dell’Istituto per le Scienze Religiose di Bologna, cioè del cenacolo di studiosi che – assieme a collaboratori di vari paesi – ha pubblicato la “Storia del Concilio Vaticano II” più letta al mondo, in cinque volumi completati nel 2001 ed editi in sette lingue.
Una “Storia” d’orientamento molto marcato, che interpreta il Concilio più come “evento epocale” che per i suoi documenti, più nello “spirito” che nella lettera, più come “nuovo inizio” che in continuità con la Chiesa precedente.
Oltre che Ruggieri e Melloni – l’unico ad aggiungere un nuovo capitolo ai testi già noti – gli altri autori del libro sono il francese Christoph Theobald, l’americano Joseph A.
Komonchak e il tedesco Peter Hünermann.
Nella prefazione, Ruggieri e Melloni negano che il libro sia un’apologia della “Storia” bolognese del Concilio Vaticano II.
Ma leggendolo si ricava proprio questo: che sono essi le eroiche sentinelle della giusta interpretazione del Concilio stesso; sono essi quelli che non ne hanno “paura” e ne preservano la vera “novità”; sono essi a fare ciò che neppure Benedetto XVI fa più: troppo cambiato rispetto al giovane Ratzinger che scriveva i discorsi esplosivi letti in Concilio dal cardinale Frings.
Per un’analisi dettagliata dei saggi contenuti nel volume, basta riandare al servizio che vi dedicò www.chiesa dopo che essi erano usciti sulla rivista “Cristianesimo nella Storia”: > Confermato: il Concilio fu “svolta epocale”.
La scuola di Bologna annette il papa (11.12.2007) Mentre l’interpretazione di papa Joseph Ratzinger del Concilio Vaticano II è quella da lui esposta nel memorabile discorso alla curia romana del 22 dicembre 2005: > “Svegliati, uomo…”