1) Per Bartolomeo Una ragazza energica e generosa Lia Varesio nasce a Torino nel 1945 da una famiglia in cui la fede è il valore fondamentale.
Un suo ricordo d’infanzia sempre vivo è quello della macchina da cucire con cui la mamma confezionava semplici sacchetti di stoffa, da riempire con il riso acquistato dal papà in grandi quantità; li avrebbero portati alle famiglie poverissime che abitavano nelle soffitte del centro storico…
Lia cresce di età, ma rimane piccola e minuta: a 9 anni, una malattia le ha bloccato la crescita e le ha causato una malformazione ossea e difficoltà di respirazione.
I problemi di salute, tuttavia, non hanno mai ostacolato la sua voglia di vivere, il suo ottimismo, la sua energia, il suo desiderio di comunicare con gli altri e di offrire solidarietà.
Già da ragazza, in Parrocchia, si era data un gran da fare seguendo persone malate e anziani soli, collaborando con una missione di Capoverde; in FIAT, era impiegata nell’assistenza sociale e si occupava delle persone indigenti che scrivevano alla Fondazione Agnelli.
Una mattina, proprio andando al lavoro, Lia fa un incontro particolare, che le rivoluzionerà la vita.
Ha 33 anni.
«Mentre camminavo per strada mi sono imbattuta in una donna scalza, scarmigliata, con mani e piedi laccati di rosso, che urlava.
Sono rimasta sconvolta, non tanto perché lei urlava ma perché la gente scappava via terrorizzata.
Mi sono chiesta “Scappi anche tu?” e mi sono data la risposta.
Mi sono avvicinata e le ho chiesto “Perché gridi così?”.
La risposta è stata “Grido al mondo la mia disperazione ma nessuno si ferma”.
La salutai: “Sono Lia”; mi disse che si chiamava Ester, era uscita dal manicomio e nessuno si era preso cura di lei; erano tre giorni che non mangiava.
Vicino c’era un bar che conoscevo perché ci andavo ogni tanto, invece di andare al lavoro ho telefonato in FIAT e mi sono presa un giorno di ferie.
Quando ci siamo sedute al tavolo del bar la donna ha cominciato a mangiare cornetti e cappuccini; intanto mi ha raccontato la sua storia.
Era stata in manicomio, adesso era per strada, andava a mangiare al Cottolengo e dormiva alla stazione.
Io l’accompagnai al Cottolengo e poi a Porta Nuova dove mi fece incontrare gli altri, i suoi amici, gli abitanti della stazione”.
Da quel giorno nasce ancora più forte in Lia il desiderio di conoscere queste persone, di parlare con loro, di aiutare.
Ne parla al fratello e a un gruppo di amici e con loro prende l’abitudine di andare a trovare questa gente, portando bevande calde, cibo, coperte, all’inizio solo a Porta Nuova, poi anche nelle altre stazioni, infine le “ronde” in giro per la città.
Una sera d’inverno del 1980 manca all’appello uno dei soliti, Bartolomeo, lo cercano nei posti consueti, non lo trovano.
Decidono di andare a vedere nel centro storico, fra i ruderi di una vecchia casa.
Non lo trovano neanche lì, stanno per andarsene quando Lia inciampa in un mucchio di stracci; quando si rialza si accorge che da quel mucchio di stracci spuntano un piede e una gamba.
È Bartolomeo, morto di freddo e di stenti nel cuore della città.
Si fortifica quella sera la necessità di continuare il cammino intrapreso e viene così fondata dopo breve tempo l’associazione “Bartolomeo & C”.
In quegli anni sindaco della città è Diego Novelli.
Lia lo convince ad accompagnarla nei suoi giri notturni; lui, conquistato da tanta determinazione, la chiama a lavorare in comune, all’ufficio dei senza fissa dimora.
Dal 1986 al 1990 lavora anche nelle carceri di Corso Vittorio e delle Vallette come assistente volontaria penitenziaria.
In quegli anni frequenta la Scuola di Cultura religiosa diocesana; è anche componente della Commissione diocesana per la sanità e l’assistenza.
«Sono laica ma credente, il mio impegno è un atto di fede in Dio in favore degli uomini».
Nel 1994 va in pensione e inizia a dedicarsi a tempo pieno alle attività della Bartolomeo & C.
Negli anni viene aperto un dormitorio, la sede si allarga, il numero degli utenti cresce.
Nelle vie della grande città, Lia cerca i vicoli e gli angoli della disperazione e incontra tossicodipendenti e alcolizzati totalmente abbandonati, malati psichici, ex carcerati…
Li conosce, li ascolta, si dà da fare per procurare una doccia, abiti, qualche soldo…
Per molti, grazie a lei, è l’inizio di una vita nuova, con una casa, un lavoro.
2) Lia scrive…
Ma niente paura per chi crede, c’è un bel dono che il Signore fa a chi ha ancora voglia di vivere la fede.
Fede semplice ma concreta che ha nutrito i nostri antenati, fede fatta di poche cose essenziali, ma che dà speranza quando ti senti in crisi, ti dà forza quando ti senti spento.
Non lasciamola morire, Amici, è il perno della nostra vita, è la sorgente delle nostre aspirazioni, è il movimento della nostra anima e delle nostre azioni.
È tutto per chi crede, perché è un dono che il Signore fa …fede non è sapere che l’altro esiste, è vivere dentro di lui, calarsi nella pelle dell’amico che passa, che ti interpella come un pugno nello stomaco, non ti lascia tregua, ti ricorda che esisti… E ti fa chiedere: perché vivi? Per chi vivi, dove stai andando?» (da Giornalino Bartolomeo & C, anno 2005) L’associazione «Ne abbiamo sistemati 250», ricorda Lia con fierezza.
All’inizio dell’avventura dell’Associazione, trova subito l’appoggio e la collaborazione dei suoi famigliari.
Fra i primi ad accorrere alla stazione per passare le notti insieme ai barboni ci fu anche il fratello di Lia.
Molta più sorpresa creò questa “conversione” fra i vicini di casa, che da quel giorno cominciarono a vedere bussare alla porta dei Varesio personaggi come Zeus, 39 anni, perito elettrotecnico, afflitto da delirio mistico (ha tappezzato tutta la città di scritte «Zeus ti vede» e si arrabbia un sacco perché non riesce a fare miracoli); come Angelo, che distrutto da un trattamento sbagliato, ha vissuto i suoi anni come un animale in perenne fuga.
La Bartolomeo & C ha cominciato la sua attività di “ronde notturne” alla ricerca dei disperati nel 1979.
Nel 1984 si è costituita in associazione.
Nel frattempo il Comune ha offerto a Lia Varesio la possibilità di occuparsi a tempo pieno dei “senza fissa dimora” come assistente sociale.
Dopo qualche esitazione ha accettato.
«Ma non ho smesso», ci tiene a precisare, «di rompere le scatole ai responsabili perché si rendano conto dei loro doveri».
Adesso le “ronde notturne” si sono un po’ ridotte di numero e di… pericolosità.
«I primi anni eravamo proprio degli incoscienti», ricorda Lia.
«Per fortuna, però, fra minacce, coltelli e sparatorie ci è sempre andata bene».
Ora i volontari del gruppo si limitano quasi esclusivamente ad andare a trovare le persone “sistemate” in alloggi, offrendo loro tutto il supporto necessario dal punto di vista psicologico e pratico (assistenza per documenti o certificati, piccoli lavori, ma anche feste, cene, gite).
Poi c’è l’ufficio aperto tutti i pomeriggi e tutte le sere (fino alle 23) alla stazione di Porta Nuova.
È qui, nel crocevia della disperazione, che la Bartolomeo & C.
è nata ed è qui che continua ad essere presente.
Nel 1990 quella soglia di speranza è stata varcata per 5193 volte; 229 persone sono entrate per la prima volta al centro.
Oltre la sede di Porta Nuova da qualche tempo la Bartolomeo & C.
ne ha anche un’altra, in via Fiocchetto 13, proprio dietro Porta Palazzo.
Un altro crocevia di disperazione per un’altra casa della speranza.
Qui si ritrovano gli alcolisti in trattamento, i volontari per i corsi di formazione, tutti coloro che hanno bisogno dell’ambulatorio per le cure mediche o della cappella per un momento di preghiera.
La Bartolomeo & C.
si finanzia attraverso l’autotassazione dei soci, qualche contributo pubblico e le offerte donate dalla generosità della gente.
«Le sovvenzioni che ci sono più care, anche se sono le più misere», dice Lia Varesio, «sono quelle degli ex-barboni, la gente che noi abbiamo aiutato e che adesso ha una casa, un lavoro, una vita sociale.
Ci vengono a trovare e per quanto possibile ci danno il loro contributo perché altri possano tornare a vivere, come è successo a loro».
«Non mi spavento, sai? Sono abituata a lottare, se avessi avuto paura mi sarei fermata molto tempo fa».
Lia continua, anno dopo anno: ogni inverno vede ancora “amici” che muoiono di freddo, nel centro caotico e indifferente della città.
Negli ultimi anni, nonostante i problemi di salute e i frequenti ricoveri, la sua attenzione resta sempre rivolta agli altri.
Dei momenti passati in ospedale ricorda: «Soprattutto la sera, quando tutto era in silenzio, le mie emozioni erano tutte rivolte all’ascolto dei malati che telefonavano ai loro cari, a qualche persona amica: quanto bisogno di contatti umani! Si raccontavano, ed è proprio questo che a volte manca.
Non siamo più capaci di raccontarci, abbiamo troppa fretta e non riusciamo a sentire i gemiti di chi soffre.
Passiamo accanto alla gente e non ci accorgiamo di loro, dei loro bisogni.
Devo dire che ho trovato tanta solidarietà attorno a me, ma ho scoperto anche tanta solitudine e disperazione.
A volte è sufficiente una parola, un gesto, un sorriso e le persone possono guarire psicologicamente e uscire dal loro autismo.
Ed è proprio questo che mi stimola ad andare avanti e continuare a lavorare per uomini e donne della città che non hanno ancora trovato spazio, cure, dignità, attenzione, giustizia e solidarietà».
L’11 marzo 2008, circondata dall’affetto del fratello e degli amici, Lia muore, all’Ospedale Mauriziano, mentre risuonano nelle orecchie di tutti le parole che tante volte aveva pronunciato: «Non dobbiamo fare da spettatori ma chiederci che cosa stiamo facendo concretamente per gli altri.
Se il nostro fratello non ce la fa da solo a portare la croce, noi abbiamo il dovere di aiutarlo.
È ora di smetterla di essere spettatori.
Occorre diventare protagonisti attraverso il nostro impegno concreto e quotidiano».
Prima fase dell’attività L’insegnante presenta l’esperienza di Lia Varesio e degli amici dell’associazione “Bartolomeo & C”.
Al termine della lettura, gli allievi potranno: – sottolineare in rosso le “azioni importanti” di Lia, dall’infanzia alla morte; – sottolineare in blu le affermazioni e i comportamenti che ne rivelano il carattere e le qualità umane; – sottolineare in verde le affermazioni e i comportamenti che ne rivelano la fede.
Seconda fase dell’attività L’insegnante propone il ripasso di alcuni concetti generali studiati con gli allievi.
– La Chiesa è la comunità dei battezzati credenti in Cristo risorto; vive e testimonia il Vangelo.
– La Chiesa si esprime tramite: • l’evangelizzazione, che comprende iniziative di annuncio, diffusione di conoscenze e testimonianze di vita che presentino il messaggio evangelico a chi non lo conosce o lo conosce in modo superficiale; • la catechesi, percorso educativo dei Cristiani che vogliono approfondire le verità di fede; • le azioni liturgiche, con tutti i momenti di preghiera comunitaria, le celebrazioni eucaristiche e i Sacramenti con cui le comunità cercano l’unione con il Padre attraverso il Figlio e per opera dello Spirito Santo; • la promozione umana, che è azione della Chiesa in favore dell’intera umanità, amore che si traduce, imitando Cristo, in una lotta contro le ingiustizie e contro tutte le violazioni della dignità della persona.
L’affamato, l’emarginato devono trovare nella Chiesa la loro difesa; la Chiesa ha denunciato le ingiustizie planetarie, dallo sfruttamento del Terzo Mondo alla corsa agli armamenti, attraverso le parole e le encicliche dei Papi e tutti i documenti del magistero; attraverso il sostegno dei cristiani a iniziative in favore dell’integrazione di ogni uomo nella società; attraverso l’azione di Cristiani presenti in politica, in favore di leggi in difesa della famiglia e della vita… • I ministeri, compiti diversi e specifici, sono quelli del Papa, successore di Pietro e guida della Chiesa universale; dei Vescovi, successori degli Apostoli, responsabili delle comunità cristiane locali (diocesi) e con il potere di consacrare altri vescovi, sacerdoti e diaconi; dei sacerdoti, che hanno il compito di predicare il Vangelo, celebrare la Messa e i Sacramenti; dei diaconi, che collaborano con i sacerdoti nella liturgia, nelle opere di carità e nella catechesi tramite un impegno costante; dei religiosi, frati e suore che vivono in povertà, castità e obbedienza alla Chiesa mettendo in pratica un Vangelo profetico ed estremo; dei laici, battezzati che fanno parte del “popolo di Dio” (da “laòs”, popolo) e sono chiamati a vivere il Vangelo nell’esistenza quotidiana, attraverso la famiglia, il lavoro…
L’insegnante propone gli allievi un approfondimento sul ministero dei laici, seguito da dibattito, analizzando l’esperienza di Lia Varesio; sarà opportuno tenere sott’occhio le sottolineature in vari colori.
– «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso» (Lc 10,27).
Il “Comandamento Nuovo” di Gesù è l’anima dell’azione del Cristiano nel mondo: in quali modi Lia ne mette in pratica i tre aspetti? – Lia agisce “all’interno” della Chiesa e “nel mondo fuori”, migliorandolo.
Distingui e completa la descrizione del suo modo di essere Cristiana “laica”.
All’interno della Chiesa…
– Lia coinvolge amici e familiari che condividono l’ideale evangelico nella sua attività a favore degli ultimi, diffonde uno “stile di vita”, il più coerente possibile con il Vangelo.
Nel mondo…
– Lia agisce nell’immediato facendo il “poco” che può (esempio di Ester), senza delegare la soluzione dei problemi alle istituzioni; tuttavia, richiama le istituzioni alle loro responsabilità.
Continua tu! – In quali campi e modi i laici, secondo te, possono contribuire alla promozione umana? E all’evangelizzazione e alla catechesi? In particolare, che cosa possono fare i giovani? E le famiglie in quanto tali? – La fede può fornire una forza e delle motivazioni particolari in un percorso di solidarietà? Se sì, quali? La sintesi delle osservazioni, preparata con l’aiuto dell’insegnante, potrà essere riportata sui quaderni.
A casa.
Racconta per scritto una vicenda di laicato cristiano “ben riuscito”, pensando a qualcuno che conosci (anche a un’associazione, a un gruppo particolare…) o facendo una ricerca tra gli articoli di giornale.
Potrai presentare alla classe i risultati; i testi potranno essere esposti su cartelloni.
Unità di Lavoro di approfondimento sull’apostolato dei laici nella Chiesa cattolica, tramite l’analisi di un’esperienza, in seguito allo studio sulla missione e l’identità della Chiesa stessa.
OSA di riferimento Conoscenze – La missione della Chiesa nel mondo e la testimonianza della carità.
Abilità – Documentare come le parole e le opere di Gesù abbiano ispirato scelte di vita fraterna, di carità.
– Individuare caratteristiche e responsabilità di ministeri e stati di vita.
Obiettivi Formativi ipotizzabili – Nell’ambito della descrizione dei compiti della Chiesa (evangelizzazione, catechesi e promozione umana), conoscere e saper spiegare in particolare il concetto di “promozione umana”, anche tramite esempi concreti.
– Conoscere e saper descrivere i diversi ministeri nell’ambito ecclesiale; in particolare, saper descrivere il ruolo del laico.
– Saper analizzare l’esperienza presentata cogliendo i valori umani e religiosi della protagonista (sentimenti, convinzioni, obiettivi).
– Saper esprimere opinioni personali riguardanti l’urgenza dell’accoglienza e della solidarietà nella società attuale.
Competenze di riferimento dell’allievo in prospettiva triennale: – Saper prendere in considerazione il progetto di vita cristiano e la visione cristiana dell’esistenza come ipotesi di interpretazione della realtà sociale e individuale.
– Sul piano della crescita umano-relazionale, sviluppare capacità di dialogo, ascolto, conoscenza e rispetto dell’altro, condivisione e accoglienza.
– Possedere essenziali conoscenze inerenti il Cristianesimo (in particolare, l’identità e la storia della Chiesa cattolica).
Categoria: Formazione
Classe prima – Marzo
Seconda fase dell’attività a) La classe si divide in gruppetti di quattro o cinque persone, con portavoce.
In ciascun gruppo, tutti saranno dotati di un testo dei Vangeli.
Alcuni gruppi leggeranno, in Luca e Matteo, i “Vangeli dell’infanzia”; gli altri, dai racconti della Passione e Resurrezione alla conclusione, nell’ambito di uno dei quattro Vangeli.
I gruppi riassumeranno per scritto gli “interventi angelici” ritrovati nei testi, annotando poi: – la missione dell’Angelo o degli Angeli; – il modo di interagire con gli esseri umani e il tipo di rapporto instaurato con loro; – eventuali rapporti instaurati tra gli Angeli e Gesù.
I testi elaborati verranno presentati dai portavoce, confrontando le risposte dei gruppi in relazione agli stessi passi esaminati.
L’insegnante aiuterà poi la classe a sintetizzare per scritto, in breve, le giuste osservazioni.
b) L’insegnante propone agli allievi un questionario scritto; seguirà un confronto conclusivo delle risposte, in dibattito.
– Rispondi in breve: chi sono gli Angeli, secondo l’Antico e il Nuovo Testamento? Qual è il loro ruolo nella “Storia della Salvezza”? – Quale importanza può avere la loro esistenza, nell’ambito della storia umana e della storia di ogni singola persona, secondo i credenti? – Ci sono valori, vissuti o insegnati dagli Angeli, che qualsiasi essere umano, anche non credente, potrebbe condividere? Per l’inserimento dell’argomento in Unità di Apprendimento articolate, vedere Tiziana Chiamberlando, Sentinelle del Mattino, SEI, Volume per il biennio e Guida 2) Nella Bibbia: Antico Testamento Nella Torah e nei Profeti l’angelo è soprattutto una “figura teologica” che indica una manifestazione di Dio, una personificazione della Sua Parola che salva e giudica.
Nel roveto ardente, Mosè vede “l’angelo del Signore”, ma subito dopo la narrazione continua così: «Il Signore vide che Mosè si era avvicinato e lo chiamò dal roveto» (Es 3,2-4).
L’identificazione Angelo-Dio si ritrova in molti altri passi biblici, per esempio in quello del sacrificio di Isacco (Gn 22,11-17).
In questo ruolo, l’angelo può assumere l’aspetto umano per rendersi visibile: Dio è “Altro” dall’uomo, ma anche a lui vicino, simile.
Nel capitolo 18 della Genesi, ripreso nella celebre icona del pittore A.
Rublev, quasi simboleggiando la Trinità tre Angeli si presentano davanti alla tenda di Abramo come viandanti, per annunciargli la nascita di Isacco; come un uomo misterioso un angelo lotta di notte con il patriarca Giacobbe, convinto tuttavia di “aver visto Dio faccia a faccia”.
L’Angelo è Parola che benedice, ma anche Parola che giudica: pensiamo all’essere che toglie la vita ai primogeniti degli Egiziani nell’Esodo…
Nella visione della “scala di Giacobbe” (Gn 28,12), gli Angeli che salgono e scendono indicano una Parola che rivela il collegamento tra cielo e terra, finito e infinito, Dio e uomo.
In moltissimi altri testi, gli Angeli si presentano non come simboli ma come entità reali, con identità proprie, soprattutto a partire dai testi successivi all’esilio babilonese degli Ebrei (dal VI secolo a.C.
in poi).
Diviene indiscutibile la presenza di un “angelo custode” a tutela del giusto.
L’idea di un angelo che non lascia solo il povero ritorna nei Salmi: «L’angelo del Signore si accampa attorno a quelli che lo temono e li salva…
Il Signore darà ordine ai suoi Angeli di custodirti in tutti i tuoi passi; sulle loro mani ti porteranno perché non inciampi nella pietra il tuo piede» (Sal 34, 91,11-12).
Nei Libro di Giobbe appare anche l’angelo che intercede per l’uomo presso il Signore.
Oltre a vegliare sugli individui, nella Bibbia miriadi di Angeli presiedono al destino delle nazioni (Dn 10,13-21); in una sorta di gerarchia angelica, spiccano Angeli con nomi che rivelano la loro missione, come Michele (“Chi è come Dio?”), protettore di Israele, grande combattente contro il male; Gabriele (“Dio è mia forza”), interprete incaricato di rendere comprensibili all’uomo i misteri della Rivelazione e Raffaele (“Dio guarisce”), incaricato delle guarigioni.
I “Cori angelici” esprimono la melodia e l’armonia perfetta dell’Amore di Dio; le loro gerarchie corrispondono a compiti d’immensa importanza.
Nella Gerarchia suprema, che loda e contempla Dio, i Serafini rappresentano il perfetto Amore, i Cherubini la conoscenza e la sapienza, i Troni la giustizia…
Nella seconda Gerarchia gli Angeli portano al mondo giusto ordine e bellezza e contrastano il male; nella Gerarchia inferiore, gli Angeli hanno incarichi di grande importanza presso gli uomini, sono ambasciatori della volontà di Dio.
Afferma S.
Agostino: «Dio li investe della Sua sapienza e della Sua gloria, e il loro sguardo sull’umanità è tenerezza infinita, innocenza di bambino…» 1) Chi sono? Il palcoscenico è avvolto nel buio.
Si accende un cono di luce che va a inquadrare un angelo, avvolto in una veste bianca.
È il prologo di un dramma di Santucci, uno dei più noti scrittori contemporanei, dal titolo L’angelo di Caino.
«Battezzati – esclama l’angelo rivolgendosi agli spettatori – porgetemi orecchio.
Nel dramma che ascolterete io sono l’angelo.
Chi sono gli angeli? C’è qualcuno tra voi che lo ricorda?».
Sulla platea scende un fitto silenzio.
L’angelo guarda negli occhi i suoi spettatori.
La pausa è densa di interrogativi.
«Ho udito i vostri pensieri.
No, non tutte queste cose soltanto».
Stende la mano e punta l’indice sulla platea immersa nel buio.
«Tu hai pensato a tua madre.
E tu al tuo piccino morto.
E voi altri a una musica, ad una immagine appesa in capo al letto.
Ma è giusto che voi sappiate.
Forse non potrete sopportare la nostra presenza, se ci pensate come siamo davvero, vicini a voi, in ogni istante!…
Ci pensiate o no, noi siamo con voi, o battezzati, nel modo preciso e perentorio che Dio ha voluto, sempre, sempre.
Senza distrazioni, senza vacanze».
(C.
Fiore, I temi male detti, p.
29, Elledici) Afferma ancora lo scrittore Santucci: «Tanto rozzi siamo diventati che agli angeli più nessuno pensa.
Non vedendoli sul metrò o negli snack-bar o ai caselli dell’autostrada con gomito sporgente dal finestrino, li abbiamo aboliti.
Ne facciamo qualche accenno ai bambini.
Neppure più diremmo alla donna del cuore: sei il mio angelo.
Rideremmo entrambi…
Eppure gli angeli ci strappano come nessun’altra cosa dal puzzo di benzina, dal gracchiare del telegiornale…» In tutte le culture antiche compaiono esseri superiori agli uomini ma inferiori a Dio, “esseri-tramite”: li ritroviamo nelle primitive religioni animiste, in quelle dell’area mesopotamica, nei miti greco-romani; oggi nell’Induismo, nel Buddhismo, nell’Islam…
Soprattutto, sono chiaramente presenti nella Bibbia, nell’Antico e nel Nuovo Testamento; per i credenti, la “prova” dell’esistenza degli angeli risiede nella Parola di Dio.
Il termine greco “anghelos”, “messaggero”, traduce l’ebraico “mal ’akh”; esso ricorre nella Bibbia 215 volte.
Secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica, «gli angeli sono creature spirituali che incessantemente glorificano Dio e servono i Suoi disegni salvifici nei confronti delle altre creature»; sono creature libere di scegliere, interamente spirituali, incaricate di sostenere gli uomini, di illuminarli, di aiutarli a compiere la volontà di Dio.
Secondo il teologo G.
Gozzelino, «hanno un misterioso potere sul cosmo e sulla storia.
Contribuiscono con Gesù, con la Chiesa e i Cristiani alla lotta contro le forze del male.
Annunciano agli uomini gli interventi divini e li aiutano a comprenderne il senso.
In breve: sono adoratori di fronte a Dio, governatori del cosmo e della storia di fronte al mondo, annunciatori e guide di fronte agli uomini».
3) Nel Nuovo Testamento L’angelo “interprete” del Nuovo Testamento aiuta e spiega l’azione di Dio (vedi Apocalisse), soprattutto il significato dell’Incarnazione di Cristo.
Le gerarchie angeliche hanno grandi poteri, ma è chiaro come siano semplicemente incaricate di un ministero: Gesù è l’unico Mediatore di una Nuova Alleanza tra Dio e uomo; l’angelo “spiega” e invita all’adesione della fede.
Nei Vangeli, gli Angeli compaiono soprattutto in quelli “dell’infanzia” (Mt 1-2 e Lc 1-2) e nei racconti di resurrezione (Mc 15 e paralleli).
Gabriele annuncia a Zaccaria la nascita di Giovanni Battista (Lc 1,11-20) e a Maria la nascita di Gesù (Lc 1,26-28); un angelo guida Giuseppe alla scoperta della sua missione nei confronti di Gesù, cori angelici annunciano la Natività…
Angeli annunciano la resurrezione, presentati anche come “un giovane” (Mc 16,5), due uomini (Lc 24,4)…
Si ritrovano inoltre nei momenti in cui Gesù prega (Mt 4,11; Mc 1,13), specialmente nel Getsemani (Lc 22,43).
Gli Angeli proteggono gli uomini (Mt 18,10) e faranno da corona quando il Cristo tornerà per il giudizio finale e la vittoria definitiva sul male e sulla morte, alla fine dei tempi (Mt 16,27, Lc 12,8)…
Nel Nuovo Testamento Michele, l’Angelo del popolo ebraico, sembra divenire protettore della Chiesa universale (Ap 12,7).
La certezza della presenza dell’angelo custode (Mt 12,15) è ratificata dal Salvatore (Mt 18,10); gli Angeli sono anche accompagnatori delle anime nell’altra vita (Lc 16,22).
Essi, come noi, sono stati voluti dal Creatore di “tutte le cose visibili e invisibili”.
Il diavolo, dal greco “diabolos”, “colui che divide”, in ebraico “satan”, “avversario”, indica uno degli Angeli – potentissimo – che hanno usato male la loro libertà contrapponendosi a Dio in un sogno folle di potere; Satana sceglie il male, tenta di contrastare il Disegno di Dio soprattutto agendo come tentatore nei confronti dell’uomo.
Il Nuovo Testamento mette in risalto la vittoria di Cristo su ogni forma di male e sul diavolo.
Ci sono dunque esseri, secondo la Bibbia, che riempiono l’universo con la pienezza della Verità e dell’Amore; esseri capaci di lodare Dio e di servirlo con incessante fermezza (essi sono ciò che noi non siamo…
ma che possiamo diventare), potenti perché uniti a Lui e per amore Suo capaci di amare immensamente noi esseri umani, aiutandoci a elevarci; proteggendoci dai pericoli e da noi stessi, suscitando in noi il desiderio del bene; divenendo portatori della Parola, nella Scrittura e nei cuori.
Gli Angeli ci insegnano la dedizione assoluta a una missione di bene, l’amore-donazione gratuito e illimitato.
Unità di Lavoro biblica, per l’approfondimento e l’attualizzazione OSA di riferimento Conoscenze – Ricerca umana e Rivelazione di Dio nella storia.
– Il libro della Bibbia, documento storico-culturale e Parola di Dio. Abilità – Individuare il messaggio centrale di alcuni testi biblici, utilizzando informazioni storico-letterarie e seguendo metodi diversi di lettura.
Obiettivi Formativi ipotizzabili Conoscenze e abilità – Conoscere e descrivere le caratteristiche degli angeli e il loro ruolo nella “Storia della Salvezza”.
– Comprendere e saper spiegare il significato essenziale di alcuni brani biblici inerenti gli angeli.
– Elaborare ed esprimere opinioni personali in merito ai valori espressi dal messaggio biblico sugli angeli. Competenze di riferimento dell’allievo in prospettiva triennale – Possedere essenziali conoscenze bibliche, storiche e dottrinali inerenti il Cristianesimo e riconoscere il contributo del pensiero cristiano al progresso culturale, artistico e sociale dell’intera umanità.
– Sapersi esprimere in modo personale oralmente e per scritto nell’ambito del linguaggio specifico, tramite testi di riflessione ed esperimenti di analisi e sintesi.
Prima fase dell’attività L’insegnante presenta agli allievi i testi-guida motivando il percorso.
Nella tradizione cristiana, gli angeli occupano un ruolo discreto, ma di primo piano; creature più evolute nella vicinanza a Dio, possono rappresentare il meglio di ciò che è “invisibile”, ma che può essere reale e che può spalancare nuovi, meravigliosi orizzonti all’esperienza umana.
Essi trasmettono valori degni di attenzione per chiunque voglia provare a migliorare il mondo.
Classe terza – Marzo
Marta e Maria (Lc 10,38-42) 38Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò.
39Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola.
40Marta invece era distolta per i molti servizi.
Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti».
41Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, 42ma di una cosa sola c’è bisogno.
Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».
«Oggi noi assistiamo nel nostro mondo occidentale a questo darsi da fare, a questo correre, a questa superficialità, a questa premura di cui siamo tutti un po’ vittime.
Non c’è tempo per scrivere una lettera, per leggere un libro, per fare una visita.
Non c’è tempo.
Il brano di Marta e Maria cade a proposito: intendiamo bene che il Signore non rimprovera a Marta il servizio; Gesù stesso ha detto “Sono venuto per servire”.
Egli rimprovera a Marta l’agitazione, l’affanno e la preoccupazione: nella nostra vita, che è tesa, piena di cose da fare, come si situa l’ascolto del Maestro che abbiamo scelto di seguire? La preghiera è dialogo autentico, non monologo con noi stessi; è uscire da noi stessi per ascoltare prima di tutto Lui» (P.
Francesco Peyron) (Nella seconda parte: le varie forme di preghiera possibili oggi; i giovani e la preghiera – testimonianze –; l’effetto trasformante della preghiera; le attività per valutare il raggiungimento degli Obiettivi Formativi). Per l’inserimento dell’argomento in Unità di Apprendimento articolate, vedere Tiziana Chiamberlando, Sentinelle del Mattino, SEI, Volume per il biennio e Guida Parabola della “vedova importuna” (Lc 18,2-8) 2«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno.
3In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”.
4Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, 5dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi».
6E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto.
7E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? 8Io vi dico che farà loro giustizia prontamente.
Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».
4) Regole essenziali Gesù insegna a chiedere con perseveranza, certi della risposta (vedi “parabola dell’amico importuno”, Lc 11,5-13; Lc 18,1-8), con fede assoluta nella bontà del Padre (Mt 7,11); occorre essere umili e autentici, presentarsi a Lui senza barriere, senza maschere né giustificazioni, riconoscendo limiti ed errori per lasciarsi “guarire” (vedi “il fariseo e il pubblicano”, Lc 18,9-14).
Occorre chiedere il dono del Suo Spirito per essere illuminati, per ricevere forza e saggezza; occorre comprendere come il fine della preghiera sia fare la volontà del Padre, non indurre Lui a fare la nostra (Mt 6,10; Lc 22,42).
Non si può raggiungere Dio-Amore senza sforzarsi contemporaneamente di amare i fratelli, di promuovere la riconciliazione e di perdonare (Mt 5,23-24; 6,12).
La “scuola di preghiera” di Gesù culmina nel “Padre Nostro”, come abbiamo visto nel secondo anno (Mt 6,9-13; Lc 11,2-4).
È «il programma di una relazione in cui immettersi» (E.
Bianchi) ed è anche una promessa di impegno, essenziale nella preghiera.
Ci si impegna a costruire e diffondere il Suo Regno, il mondo nuovo basato sull’amore, con energia e creatività; a testimoniare la grandezza del Signore facendolo conoscere e insegnando ad amarlo; ci si impegna ad accogliere la Sua volontà anche quando “capire” e “accettare” sembrano due verbi impossibili; a lottare contro le tentazioni di egoismo, a lavorare su di sé per riuscire a perdonare…
Nella gerarchia dei valori di un Cristiano convinto, il rapporto con Dio occupa il primo posto, è modello di ogni altro rapporto e diviene il motore e l’obiettivo finale di tutte le esperienze.
Se credente, sono certo che i rapporti che coltivo, gli sforzi che faccio per contribuire a “fare giustizia” mi condurranno a conoscere Lui che è Amore e Verità e a incontrarlo nel profondo del cuore, sempre meglio.
1) Tutti gli uomini pregano? Afferma C.M.
Martini, già Arcivescovo di Milano: «Anche chi si dice lontano dalla pratica religiosa ha non di rado moti interiori e aspirazioni che si possono definire preghiera.
Vi sono esempi di preghiera di non credenti, per quanto paradossale possa sembrare la cosa».
Poche, commoventi parole, da un muro di Roma, sono arrivate a un giornale: «In questa città ho paura, nessuno mi conosce, solo Dio».
Molti psicanalisti confermano: anche colui che è certo di non credere in Dio, talvolta, prega; per un po’, segretamente, spera di essersi sbagliato, di vedere smentite tutte le sue convinzioni razionali di ateo e di incontrare la Fonte della vita e del suo significato, una potente Forza amorosa e “riordinatrice”.
È innegabile: nel cuore della persona umana esiste un’“area di solitudine”, incolmabile dagli effetti umani, abitata dalle paure più grandi e dalle domande senza risposta…
Chi prega tenacemente apre le porte interiori a una Presenza che riempia la solitudine, a una Parola di Verità che gli venga rivolta personalmente.
IN DIRETTA DAI VANGELI Parabola dell’“amico importuno” (Lc 11,5-13) 5Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: “Amico, prestami tre pani, 6perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”, 7e se quello dall’interno gli risponde: “Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani”, 8vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono.
9Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto.
10Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto.
11Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? 12O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? 13Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».
3) La preghiera di Gesù «Nessuno viene al Padre se non attraverso di me»…
(Gv 14,6) Gesù è la Parola definitiva del Padre; attraverso di Lui, mentre agisce e mentre insegna, si manifesta il Volto amoroso di Dio: è come il pastore che cerca ansiosamente la pecorella smarrita, come il padre del figlio spendaccione e ingrato della parabola, che ritorna da lui senza sperare nel perdono, e che pure lo riceve…
Sempre per amore, il Padre è giusto, può essere severo…
mai indifferente.
Il Cristiano raggiunge il Padre attraverso il Figlio; il rapporto con Lui è prioritario, Egli è il Maestro da cui farsi istruire in tutto, il Dio-Uomo vicinissimo a noi per Sua scelta, anche con le esperienze vissute tramite la Sua umanità; attraverso di Lui riceviamo lo Spirito Santo, Forza di Dio che agisce in noi anche perché impariamo a pregare nel modo giusto…
Il Figlio è della stessa natura divina del Padre, eppure Gesù-uomo Gli è totalmente sottomesso («Non come voglio io, ma come vuoi Tu…», dice nel Getsemani, prima dell’arresto); Gli si rivolge con il termine aramaico “Abbà” (“papà”, “babbo”), usato dai bambini, è cosciente di un legame di totale intimità con Lui che Lo ha generato “da sempre”.
Gesù pregava nei momenti delle feste religiose ebraiche comunitarie, in sinagoga e al Tempio…
spesso si ritirava in luoghi solitari per dialogare con il Padre (Mt 14,23, Mc 1,35; 6,46…).
Egli pregò con particolare intensità in momenti cruciali della Sua esperienza terrena: in occasione del Battesimo, prima di chiamare gli Apostoli, prima di far risorgere l’amico Lazzaro, durante l’ultima drammatica notte prima dell’arresto e al momento della morte…
Tuttavia, ogni istante della Sua giornata era vissuta alla presenza di Dio: il dialogo era in realtà costante, ininterrotto.
Prima fase dell’attività L’insegnante presenta alla classe i primi testi-guida, che propongono la visione biblica della preghiera approfondendo temi già avviati nel secondo anno.
In tutte le religioni è fondamentale la preghiera, la ricerca umana di comunicazione con Dio in molte forme; la preghiera autentica conduce al dialogo e poi al rapporto profondo, un rapporto che può “plasmare” la persona, trasformarla e permetterle di vedere ogni cosa in un’ottica particolare…
dal punto di vista di Dio stesso.
Parabola “il fariseo e il pubblicano” (Lc 18,9-14) 9Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: 10«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
11Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano.
12Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
13Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
14Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
Unità di Lavoro-Riflessione sull’esperienza, con approfondimenti biblici e teologici Prima parte OSA di riferimento Conoscenze – La fede, alleanza tra Dio e l’uomo, vocazione e progetto di vita.
– Gesù, via, verità e vita per l’umanità.
Abilità – Riconoscere le dimensioni fondamentali dell’esperienza di fede.
– Individuare l’originalità della speranza cristiana.
Obiettivi Formativi ipotizzabili Conoscenze e abilità – Conoscere e saper descrivere aspetti vari della preghiera cristiana.
– Conoscere e saper descrivere l’azione trasformante della preghiera secondo i credenti.
– Conoscere e saper spiegare il significato essenziale di alcuni passi biblici riguardanti la preghiera.
– Elaborare e saper esprimere opinioni personali motivate inerenti l’importanza della preghiera nell’esperienza umana.
Competenze di riferimento dell’allievo in prospettiva triennale – Consolidare o almeno avviare percorsi di introspezione, in vista di una sempre più approfondita conoscenza di sé e dello sviluppo di opinioni personali.
– Prendere in considerazione il progetto di vita cristiano e la visione cristiana dell’esistenza.
– Possedere essenziali conoscenze bibliche e dottrinali inerenti il Cristianesimo.
2) Preghiera biblica: Antico Testamento Nella Bibbia il “Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe” (Es 3,6.15) si rivela nella storia, prende l’iniziativa di una relazione e rivolge all’uomo una Parola, tramite profeti ed eventi, che richiede ascolto; manifesta la Sua Volontà in essa e chiama per amore a un rapporto profondo, l’Alleanza.
L’uomo “può” rispondere: è «libertà dialogante con Dio» (E.
Bianchi), con il suo volergli rispondere diviene persona umana nella pienezza di tutto il suo essere.
La preghiera biblica è ascolto della Parola e risposta nella fede, tramite lode e supplica.
Nei Salmi le due dimensioni sono evidenti come benedizione e ringraziamenti e anche come invocazioni, richieste e intercessioni (suppliche per altri).
Nell’Antico Testamento le grandi figure profetiche trovano nella preghiera la forza di obbedire a Dio senza temere gli uomini o gli ostacoli: pensiamo ad Abramo, Mosè, Geremia…
La risposta alla Parola, nella preghiera, può e deve essere personale come comunitaria, espressione della fede e della speranza che unisce il “Popolo di Dio” – ieri il popolo ebraico, oggi la Chiesa –, dell’unione di anime che insieme lodano o chiedono.
Il papa si confessa.
L’impressionante lettera che Benedetto XVI ha scritto sei giorni fa ai vescovi di tutto il mondo è molto più che un’occasionale risposta alla “valanga di proteste” contro la sua decisione di revocare la scomunica ai lefebvriani.
È una lettera che ricorda quelle di Paolo e dei Padri apostolici.
Non a caso il papa vi ha citato la lettera ai Galati (nell’illustrazione, il suo inizio in un papiro egiziano dell’anno 200).
Erano testi rivolti a comunità cristiane concrete, di cui prendevano di petto le debolezze e le lacerazioni.
Ma anche andavano dritti ai fondamenti della fede, dicevano ciò per cui la Chiesa sta o cade.
Benedetto XVI ha fatto lo stesso.
Nella sua lettera non ha taciuto nulla delle contestazioni che l’hanno colpito.
Ma ha anche scritto ciò che per lui vale più di ogni cosa, in queste poche righe fulminanti: “Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia: questa è la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del successore di Pietro in questo tempo.
Da qui deriva come logica conseguenza che dobbiamo avere a cuore l’unità dei credenti”.
La lettera del 10 marzo 2009 è quindi un testo capitale per capire il pontificato di Joseph Ratzinger.
Segna la strada che egli sta percorrendo deciso, senza deflettere in nulla sotto i colpi della contestazione.
Proprio nei giorni in cui Benedetto XVI stava scrivendo la sua lettera, c’è stato un cardinale che ha provato, di sua iniziativa, a decifrare il senso profondo di questo pontificato, a individuarne le “priorità” e a spiegarle a una platea di ascoltatori, in una conferenza pubblica.
“La prima e maggiore priorità è Dio stesso”, ha esordito, quasi con le stesse parole di Benedetto XVI nella sua lettera.
La stupefacente sintonia tra l’analisi del cardinale e la confessione che il papa ha fatto di sé, nella lettera, induce a leggere per esteso il testo della conferenza.
Il cardinale è Camillo Ruini, che fino a un anno fa è stato il vicario di Benedetto XVI nel reggere la diocesi di Roma.
Ha tenuto la conferenza il 1 marzo 2009 a Vicenza, nella scuola di cultura cattolica “Mariano Rumor”.
Le priorità del pontificato di Benedetto XVI di Camillo Ruini Nell’omelia di inizio del pontificato, Benedetto XVI affermava di non avere un proprio programma, se non quello che ci viene dal Signore Gesù Cristo.
Era questo un chiaro richiamo a ciò che è essenziale nel cristianesimo.
Il nuovo pontificato si poneva inoltre nella continuità sostanziale con quello di Giovanni Paolo II, di cui Joseph Ratzinger era stato, per i contenuti decisivi, il primo collaboratore.
In questo quadro non è difficile individuare alcune priorità del pontificato di Benedetto XVI.
La prima e maggiore priorità è Dio stesso, quel Dio che troppo facilmente viene messo al margine della nostra vita, protesa al “fare”, soprattutto mediante la “tecno-scienza”, e al godere-consumare.
Quel Dio, anzi, che è espressamente negato da una “metafisica” evoluzionistica che riduce tutto alla natura, cioè alla materia-energia, al caso (le mutazioni casuali) e alla necessità (la selezione naturale), o più frequentemente è dichiarato non conoscibile in base al principio che “latet omne verum”, ogni verità è nascosta, in conseguenza della restrizione degli orizzonti della nostra ragione a ciò che è sperimentabile e calcolabile, secondo la linea oggi prevalente.
Quel Dio, infine, di cui è stata proclamata la “morte”, con l’affermarsi del nichilismo e con la conseguente caduta di tutte le certezze.
Il primo impegno del pontificato è dunque riaprire la strada a Dio: non però facendosi dettare l’agenda da coloro che in Dio non credono e contano soltanto su se stessi.
Al contrario, l’iniziativa appartiene a Dio e questa iniziativa ha un nome, Gesù Cristo: Dio si rivela in qualche modo a noi nella natura e nella coscienza, ma in maniera diretta e personale si è rivelato ad Abramo, a Mosè, ai profeti dell’Antico Testamento, e in maniera inaudita si è rivelato nel Figlio, nell’incarnazione, croce e risurrezione di Cristo.
Vi sono dunque due vie, quella della nostra ricerca di Dio e quella di Dio che viene alla ricerca di noi, ma soltanto quest’ultima ci permette di conoscere il volto di Dio, il suo mistero intimo, il suo atteggiamento verso di noi.
Giungiamo così alla seconda priorità del pontificato: la preghiera.
Non soltanto quella personale ma anche e soprattutto quella “nel” e “del” popolo di Dio e corpo di Cristo, ossia la preghiera liturgica della Chiesa.
Nella prefazione al primo volume delle sue “Opera omnia”, uscito da poco in lingua tedesca, Benedetto XVI scrive: “La liturgia della Chiesa è stata per me, fin dalla mia infanzia, l’attività centrale della mia vita ed è diventata anche il centro del mio lavoro teologico”.
Possiamo aggiungere che oggi è il centro del suo pontificato.
Arriviamo così a un punto controverso, specialmente dopo il motu proprio che consente l’uso della liturgia preconciliare e ancor più dopo la remissione della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani.
Già in precedenza però Joseph Ratzinger aveva chiarito questo punto molto bene.
Egli è stato uno dei grandi sostenitori del movimento liturgico che ha preparato il Concilio e uno dei protagonisti del Vaticano II, e tale è sempre rimasto.
Fin dall’attuazione della riforma liturgica nei primi anni del dopo-Concilio, egli aveva contestato però la proibizione dell’uso del messale di San Pio V, vedendovi una causa di sofferenza non necessaria per tante persone amanti di quella liturgia, oltre che una rottura rispetto alla prassi precedente della Chiesa che, in occasione delle riforme della liturgia succedutesi nella storia, non aveva proibito l’uso delle liturgie fino allora in uso.
Da pontefice ha pertanto ritenuto di dover rimediare a questo inconveniente consentendo più facilmente l’uso del rito romano nella sua forma preconciliare.
Lo spingeva a questo anche il suo dovere fondamentale di promotore dell’unità della Chiesa.
Si muoveva inoltre nella linea già iniziata da Giovanni Paolo II.
In questo spirito la remissione della scomunica è stata concessa per facilitare il ritorno dei lefebvriani, ma non certamente per rinunciare alla condizione decisiva di questo ritorno, che è la piena accettazione del Concilio Vaticano II, compresa la validità della messa celebrata secondo il messale di Paolo VI.
In positivo Benedetto XVI ha precisato l’interpretazione del Vaticano II nel discorso alla curia romana del 22 dicembre 2005, prendendo le distanze da una “ermeneutica della rottura”, che ha due forme: una prevalente, in base alla quale il Concilio costituirebbe una novità radicale e sarebbe importante “lo spirito del Concilio” ben più della lettera dei suoi testi; l’altra, contrapposta, per la quale conterebbe soltanto la tradizione precedente al Concilio, rispetto a cui il Concilio avrebbe rappresentato una rottura densa di conseguenze funeste, come sostengono appunto i lefebvriani.
Benedetto XVI propone invece l'”ermeneutica della riforma”, ossia della novità nella continuità, sostenuta già da Paolo VI e Giovanni Paolo II: il Concilio costituisce cioè una grande novità ma nella continuità dell’unica tradizione cattolica.
Soltanto questo tipo di ermeneutica è teologicamente sostenibile e pastoralmente fruttuoso.
Abbiamo messo a fuoco così un’ulteriore priorità del pontificato: promuovere l’attuazione del Concilio, sulla base di questa ermeneutica.
Nella medesima prospettiva, possiamo parlare di una “priorità cristologica” o “cristocentrica” del pontificato.
Essa si esprime in particolare nel libro “Gesù di Nazaret”, impegno non consueto per un papa, al quale Benedetto XVI dedica “tutti i momenti liberi”.
Gesù Cristo infatti è la via a Dio Padre, è la sostanza del cristianesimo, è il nostro unico Salvatore.
Perciò è terribilmente pericoloso il distacco tra il Gesù della storia e il Cristo della fede, distacco che è frutto di un’assolutizzazione unilaterale del metodo storico-critico e più precisamente di un impiego di questo metodo sulla base del presupposto che Dio non agisca nella storia.
Un tale presupposto, già da solo, rappresenta infatti la negazione dei Vangeli e del cristianesimo.
Anche in questo caso si tratta di allargare gli spazi della razionalità, dando credito a una ragione aperta, e non chiusa, alla presenza di Dio nella storia.
Questo libro ci mette in contatto con Gesù e così ci introduce nella sostanza, nella profondità e novità del cristianesimo: leggerlo è un impegno che costa un po’ di fatica ma che ripaga abbondantemente.
*** A questo punto possiamo ritornare alla prima priorità, Dio, per prendere in considerazione l’impegno anche razionale e culturale di Benedetto XVI al fine di allargare a Dio la ragione contemporanea e di fare spazio a Dio nei comportamenti e nella vita personale e sociale, pubblica e privata: sono particolarmente importanti qui il discorso di Ratisbona, quello più recente di Parigi e anche quello di Verona del 2006.
Quanto alla ragione contemporanea, Benedetto XVI sviluppa una “critica dall’interno” della razionalità scientifico-tecnologica, che oggi esercita una leadership culturale.
La critica non riguarda questa razionalità in se stessa, che ha anzi grande valore e grandi meriti, dato che ci fa conoscere la natura e noi stessi come mai era stato possibile prima e ci permette di migliorare enormemente le condizioni pratiche della nostra vita.
Riguarda invece la sua assolutizzazione, come se questa razionalità costituisse l’unica conoscenza valida della realtà.
Tale assolutizzazione non proviene dalla scienza come tale, né dai grandi uomini di scienza, che ben conoscono i limiti della scienza stessa, bensì da una “vulgata” oggi molto diffusa e influente, che però non è la scienza ma una sua interpretazione filosofica, piuttosto vecchia e superficiale.
La scienza infatti deve i suoi successi alla sua rigorosa limitazione metodologica a ciò che è sperimentabile e calcolabile.
Se però questa limitazione viene universalizzata, applicandola non solo alla ricerca scientifica ma alla ragione e alla conoscenza umana come tali, essa diventa insostenibile e disumana, dato che ci impedirebbe di interrogarci razionalmente sulle domande decisive della nostra vita, che riguardano il senso e lo scopo per cui esistiamo, l’orientamento da dare alla nostra esistenza, e ci costringerebbe ad affidare la risposta a queste domande soltanto ai nostri sentimenti o a scelte arbitrarie, distaccate dalla ragione.
È questo, forse il problema più profondo e anche il dramma della nostra attuale civiltà.
Joseph Ratzinger-Benedetto XVI fa un passo in più, mostrando che la riflessione sulla struttura stessa della conoscenza scientifica apre la strada verso Dio.
Una caratteristica fondamentale di tale conoscenza è infatti la sinergia tra matematica ed esperienza, tra le ipotesi formulate matematicamente e la loro verifica sperimentale: si ottengono così i risultati giganteschi e sempre crescenti che la scienza mette a nostra disposizione.
La matematica è però un frutto puro e “astratto” della nostra razionalità, che si spinge al di là di tutto ciò che noi possiamo immaginare e rappresentare sensibilmente: così avviene in particolare nella fisica quantistica – dove una medesima formulazione matematica corrisponde all’immagine di un’onda e al tempo stesso di un corpuscolo – e nella teoria della relatività, che implica l’immagine della “curvatura” dello spazio.
La corrispondenza tra matematica e strutture reali dell’universo, senza la quale le nostre previsioni scientifiche non si avvererebbero e le tecnologie non funzionerebbero, implica dunque che l’universo stesso sia strutturato in maniera razionale, così che esista una corrispondenza profonda tra la ragione che è in noi e la ragione “oggettivata” nella natura, ossia intrinseca alla natura stessa.
Dobbiamo chiederci però come questa corrispondenza sia possibile: emerge così l’ipotesi di un’Intelligenza creatrice, che sia l’origine comune della natura e della nostra razionalità.
L’analisi, non scientifica ma filosofica, delle condizioni che rendono possibile la scienza ci riporta dunque verso il “Logos”, il Verbo di cui parla san Giovanni all’inizio del suo Vangelo.
Benedetto XVI non è però un razionalista, conosce bene gli ostacoli che oscurano la nostra ragione, la “strana penombra” in cui viviamo.
Perciò, anche a livello filosofico, non propone il ragionamento che abbiamo visto come una dimostrazione apodittica, ma come “l’ipotesi migliore”, che richiede da parte nostra “di rinunciare a una posizione di dominio e di rischiare quella dell’ascolto umile”: il contrario dunque di quell’atteggiamento oggi diffuso che viene chiamato “scientismo”.
Allo stesso modo non può essere presentata come “scientifica” la riduzione dell’uomo a un prodotto della natura, in ultima analisi omogeneo agli altri, negando quella differenza qualitativa che caratterizza la nostra intelligenza e la nostra libertà.
Una simile riduzione costituisce in realtà il capovolgimento totale del punto di partenza della cultura moderna, che consisteva nella rivendicazione del soggetto umano, della sua ragione e della sua libertà.
Perciò, come Benedetto XVI ha detto a Verona, la fede cristiana proprio oggi si pone come il “grande sì” all’uomo, alla sua ragione e alla sua libertà, in un contesto socio-culturale nel quale la libertà individuale viene enfatizzata sul piano sociale facendone il criterio supremo di ogni scelta etica e giuridica, in particolare nell'”etica pubblica”, salvo però negare la libertà stessa come realtà a noi intrinseca, cioè come nostra capacità personale di scegliere e di decidere, al di là dei condizionamenti ed automatismi biologici, psicologici, ambientali, esistenziali.
Proprio il ristabilimento di un genuino concetto di libertà è un’altra priorità del pontificato, l’ultima di cui parlerò.
Essa riguarda la vita personale e sociale, le strutture pubbliche come i comportamenti personali.
Benedetto XVI contesta cioè quell’etica e quella concezione del ruolo dello Stato e della sua laicità che egli stesso ha definito “dittatura del relativismo”, per la quale non esisterebbe più qualcosa che sia bene o male in se stesso, oggettivamente, ma tutto dovrebbe subordinarsi alle nostre scelte personali, che diventano automaticamente “diritti di libertà”.
Vengono escluse così, almeno a livello pubblico, non solo le norme etiche del cristianesimo e di ogni altra tradizione religiosa, ma anche le indicazioni etiche che si fondano sulla natura dell’uomo, cioè sulla realtà profonda del nostro essere.
È questa una cesura radicale, un autentico taglio, rispetto alla storia dell’umanità: una cesura che isola l’Occidente secolarizzato dal resto del mondo.
In realtà la libertà personale è intrinsecamente relativa alle altre persone e alla realtà, è libertà non solo “da” ma “con” e “per”, è libertà condivisa che si realizza soltanto unitamente alla responsabilità.
In concreto, Benedetto XVI è talvolta accusato di insistere unilateralmente sui temi antropologici e bioetici, come la famiglia e la vita umana, ma in realtà egli insiste analogamente sui temi sociali ed ecologici (certamente senza indulgere ad “inquinamenti ideologici”).
Proprio ai temi sociali sarà dedicata la sua terza enciclica ormai imminente.
La radice comune di questa duplice insistenza è il “sì” di Dio all’uomo in Gesù Cristo, e in concreto è l’etica cristiana dell’amore del prossimo, a cominciare dai più deboli.
Concludo tornando all’inizio.
Parlando a Subiaco il giorno prima della morte di Giovanni Paolo II, il cardinale Ratzinger invitava tutti, anche quegli uomini di buona volontà che non riescono a credere, a vivere “veluti si Deus daretur”, come se Dio esistesse.
Ma al tempo stesso affermava la necessità di uomini che tengano lo sguardo fisso verso Dio e in base a questo sguardo si comportino nella vita.
Soltanto così infatti Dio potrà tornare nel mondo.
È questo il senso e lo scopo dell’attuale pontificato.
__________ __________ 16.3.2009 La lettera del 10 marzo 2009 di Benedetto XVI ai vescovi di tutto il mondo: > “Se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi gli uni gli altri” __________ Gli altri grandi testi del pontificato di Benedetto XVI citati dal cardinale Ruini: > Alla curia romana, 22 dicembre 2005 > A Ratisbona, 12 settembre 2006 > A Verona, 19 ottobre 2006 > A Parigi, 12 settembre 2008__________ Il commento del cardinale Ruini alla lettera di Benedetto XVI del 10 marzo 2009, pubblicato su “L’Osservatore Romano” del 14 marzo: > Il senso della Chiesa In esso tra l’altro Ruini scrive: “Di fronte all’inclinazione a ‘mordersi e divorarsi a vicenda’, purtroppo oggi presente tra noi come fu presente tra i Galati a cui scriveva san Paolo, tocchiamo un nervo scoperto del cattolicesimo degli ultimi secoli, un punto di fragilità e di sofferenza di cui dobbiamo diventare più e meglio consapevoli.
Mi riferisco all’indebolirsi, e a volte praticamente all’estinguersi, del senso di appartenenza ecclesiale, della gioia cioè e della gratitudine di far parte della Chiesa cattolica”.
Il segreto del tempio di Raffaello
In occasione del bicentenario della Pinacoteca di Brera il 19 marzo viene presentato il restauro dello Sposalizio della Vergine di Raffaello.
Sulla storia e le caratteristiche del dipinto pubblichiamo stralci di un testo scritto nel 1992 da uno degli autori del catalogo (edizioni Electa) che illustra l’intervento di recupero del capolavoro dell’urbinate.
Brera rappresenta con punte assai alte la cultura di quella Urbino che nel 1504 Raffaello lasciava preceduto da una lettera di Giovanna Feltria della Rovere a Pier Soderini, gonfaloniere di Firenze.
Urbino era stata il grande laboratorio di sperimentazione e ricerca che riuniva pittura e architettura.
Nella pala dello Sposalizio, non solo il tempio s’impone per la sua superba invenzione architettonica, ma irradia un’energia che costringe tutti i volumi – persone singole o gruppi – a disporsi in uno spazio razionale.
E ci rendiamo conto di come il colore squillante dell’edificio, quasi evocazione d’un fondo oro, che il restauro ha ora messo in piena luce, non abbia meno potenza della sapientissima costruzione prospettica.
Non ci si stancherà mai di confrontare il dipinto di Brera con il suo modello, ovvero con la pala del Perugino dello stesso tema, già a Perugia e trasferita, col déplacement napoleonico, a Caen.
Sembra anzi che una distanza di decenni separi le due opere, mentre, sappiamo, il Perugino non aveva ancora terminato la sua nel dicembre del 1503.
È allora impressionante la rivoluzione che compie Raffaello rispetto allo sfondo architettonico, già di per sé innovativo, immaginato dal Perugino.
Il fatto è che nel dipinto di Brera il tempio non è più fondale, ma volume collocato nello stesso spazio dei protagonisti.
Tanto che solo a un’attenta osservazione ci accorgiamo che le lastre che pavimentano la piazza non partono a raggiera dai gradini del tempio, ma corrono parallele in prospettiva.
Raffaello non è intervenuto soltanto sulla disposizione delle figure rispetto ad uno spazio architettonicamente definito; ha insistito sull’avvenimento, e ce ne ha fatti testimoni.
È emozionante osservare come, dall’esempio ancora non compiuto, il giovane maestro estragga figure che vi apparivano secondarie, portandole alla ribalta e traendone una forza plastica impensata.
Si veda la figura del pretendente deluso che spezza la verga, dal Perugino posta verso il fondo e distante dal centro della storia e inspiegabilmente accompagnata da un personaggio seminudo – reminiscenza, forse, di altre composizioni classicheggianti dello stesso Perugino.
Raffaello porta il pretendente in primo piano, gli dà il rilievo e il peso d’una scultura e fa sì che la sua ombra sia proiettata in diagonale sino a fondersi con le ombre di Giuseppe e del sacerdote.
Cogliamo qui la sicurezza con cui Raffaello punta dritto al nucleo narrativo della storia.
Poiché ora davvero nulla può distrarci dal raccoglimento di quella dextrarum junctio.
Raffaello lo portò dunque in primo piano e lo ritrasse speculare rispetto al modello.
Se era il modello…
Infatti è dimostrato come in quegli anni vi fosse uno scambio di cartoni tra il Perugino e Raffaello e dunque non è affatto improbabile che la figuretta dipinta dal Perugino non sia che la versione ridotta, la flebile eco, di una figura molto più elaborata e forte di Raffaello.
Konrad Oberhuber ha giustamente scritto di “limpidezza statuaria delle figure” nello Sposalizio di Brera.
E notiamo anche, nel volto del giovane, una concentrazione che ci rammenta una delle creazioni più famose dell’antichità, lo Spinario trasferito dal Laterano in Campidoglio.
L’aveva già visto, Raffaello? È la stessa domanda che ci si pone per il destriero posto lontano, oltre il tempio, sulla sinistra della pala di Brera – cui il restauro dà ora la giusta evidenza -, o per la comparsa della torre delle Milizie sullo sfondo della piccola tavola con san Giorgio che Raffaello dipinse poco dopo il 1504, in occasione della nomina di Guidubaldo di Montefeltro a cavaliere dell’Ordine della giarrettiera.
Gli argomenti addotti da John Shearman provano, al di là di ogni possibile dubbio, il passaggio di Raffaello a Roma intorno al 1502-1503, all’epoca della sua collaborazione con Pinturicchio per gli affreschi nella biblioteca Piccolomini a Siena.
Sicuramente Raffaello visitava Roma con ricordi precisi di quanto aveva appreso a Urbino, specie da Francesco di Giorgio.
Il tempio a pianta centrale dello Sposalizio è infatti in debito con le invenzioni di Francesco di Giorgio.
Ma a Roma incontrava un altro urbinate, un concittadino con una lunga esperienza lombarda, Bramante.
Le volute che ingentiliscono i contrafforti del tempio riprendono le ricerche di Bramante sul duomo di Pavia e forse sono in debito con altri incontri con architetti di tradizione bramantesca, che poterono avvenire nella stessa Città di Castello.
Ma è comunque sia inevitabile pensare a un incontro di grande significato nello studio di Bramante a Roma.
E forse il colloquio con Bramante avrà persuaso Raffaello a costruire un modellino tridimensionale del tempio.
Se è impensabile, il tempio, senza un previo studio in pianta, così certamente senza un modello tridimensionale Raffaello non avrebbe studiare il gioco delle volte nel portico, né quello delle luci sui ricci dei contrafforti.
Sulla sinistra la luce li colpisce con tale forza da farli apparire di metallo battuto, mentre man mano che si procede verso sinistra si smorza, attraversa una zona intermedia di oro caldo per finire dove i ricci si profilano scuri, plumbei, sul cielo vespertino.
Mettere per prima cosa un volume in pianta era un’operazione ben nota a Raffaello, poiché l’aveva raccomandata Piero della Francesca nel trattato sulla prospettiva conservato nella biblioteca ducale.
E come per Piero, così per lui un’architettura dipinta doveva essere chiara e logica, funzionale e pratica.
John Shearman si pose il problema delle funzioni assegnate da Raffaello alla terrazza dell’edificio posto sullo sfondo dell’Incoronazione di Enea Silvio a poeta laureato negli affreschi della biblioteca di Siena: to smelling flowers, to drying the washing, and to beating a wife.
Anche nello Sposalizio, le azioni sono consentanee all’architettura.
Mentre il Perugino lasciava un piccolo mendicante sui gradini del tempio in rassegnata sfiducia, il mendicante di Raffaello è attivo, ha sceso le scale e si è avvicinato a un gruppo di gentiluomini.
Intanto sotto il portico sostano in tutto tre persone: due in conversazione e una che sembra accertarsi della solidità di una colonna.
L’idea di un tempio a pianta centrale, intorno a cui aveva lavorato Francesco di Giorgio, era maturata alla corte di Urbino, dove Federico di Montefeltro voleva erigere per sé un mausoleo nel cortile di Pasquino.
Nei riflessi sulla corazza di Federico, nella pala oggi a Brera, si può osservare come Piero avesse previsto quale sarebbe stato il gioco delle luci all’interno del tempietto, se questo fosse stato edificato.
Raffaello, come scrisse bene Pierluigi De Vecchi, al momento del congedo da Urbino riandava alle proprie origini.
Ma senza superbia, come accertano proprio le riflettografie.
Poiché oggi che sappiamo che il committente dello Sposalizio fu Ser Filippo di Ludovico Albizzini, sappiamo anche che la cappella Albizzini in San Francesco era dedicata a san Giuseppe e al Santo Nome di Gesù.
E allora, non a caso le riflettografie eseguite per la Soprintendenza mettono in luce i ripensamenti di Raffaello proprio sul volto di san Giuseppe.
La collocazione della cappella Albizzini nella chiesa di San Francesco appare significativa anche per l’inversione, che compie Raffaello rispetto al Perugino, delle rispettive posizioni dei due gruppi degli uomini e delle donne.
Poiché la separazione dei due sessi ha una motivazione liturgica, come già si era osservato nella presentazione del 1983, dato che il dipinto del Perugino si trovava in una cappella addossata alla facciata nel duomo di Perugia, nella navata destra, mentre la pala di Raffaello era collocata in una cappella che si affacciava sull’unica navata di San Francesco a Città di Castello.
La cappella di Perugia ospitava la reliquia dell’anello del matrimonio di Maria.
Le fedeli che entravano nella cappella, da destra, per adorare l’importante reliquia, sembravano accodarsi al gruppo delle testimoni delle nozze.
Del tutto diversa era la situazione per la pala di Città di Castello.
Come era d’uso nelle chiese francescane, i due sessi erano distribuiti nell’unica navata, ponendo gli uomini più vicini al coro dei frati e le donne più vicine all’entrata.
Di conseguenza, chi osservava il dipinto di Raffaello, trovando gli uomini a destra, li considerava dalla parte del coro.
In tutti e due i casi i pittori erano stati ben consapevoli del rapporto che le due pale avrebbero istituito con lo spazio liturgico cui erano destinate.
(©L’Osservatore Romano – 19 marzo 2009)
“Se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi gli uni gli altri”
BENEDETTO XVI E LA LETTERA AI VESCOVI Sfidato dalla storia di Ernesto Galli Della Loggia Per il suo carattere eccezionale e per le parole che contiene la lettera di Benedetto XVI ai vescovi cattolici dice molto di più delle personali ambasce di un Papa il quale, a proposito del caso Williamson, si è visto attaccato e insidiato anche dai suoi, e che vede, in generale, come anche nella Chiesa — nella stessa Curia, ha fatto capire il direttore dell’Osservatore romano — «ci si morde e ci si divora».
La lettera e il suo contenuto tradiscono sentimenti di sconcerto e di disappunto che lasciano intravedere qualcosa di ben più importante, in realtà: e cioè una complessiva difficoltà di direzione che oggi grava sugli stessi vertici della Chiesa.
Da molti sintomi sembra, in effetti, che stiano venendo al pettine alcune contraddizioni accumulatesi nell’ultimo mezzo secolo intorno al ruolo del papato via via che questo ha conosciuto una profonda trasformazione storica.
Tale trasformazione ha avuto due aspetti principali con i quali la figura del Pontefice ha dovuto fare i conti: l’avvento della televisione e il Concilio.
L’avvento della televisione ha voluto dire la virtuale trasformazione del Papa da capo della Chiesa di Roma in una figura della scena mondiale quotidianamente alle prese con l’opinione pubblica planetaria, per lo più non cattolica e neppure cristiana.
Alle prese cioè con i media, che di tale opinione sono i servi-padroni.
Giovanni XXIII, eletto alla fine degli Anni 50, cioè in coincidenza con la piena diffusione planetaria della Tv, è stato il primo Pontefice che ha potuto godere dell’indubbia opportunità offerta da questo cambiamento: diventare di fatto un leader etico-carismatico universale, in certo senso meta-religioso (il papa «buono», quasi che i predecessori fossero «cattivi»: ma in certo senso così essi venivano fatti indirettamente apparire dalla potenza dei media, e di fatto così divenivano).
Ma naturalmente questa intrinsichezza con l’opinione pubblica mondiale e con i media rappresenta per il Pontefice un vincolo non da poco.
Specialmente perché è un vincolo che non ha sostanzialmente alcuna natura religiosa (neppure spirituale, forse), e però esso influenza non poco la popolarità del Papa nello stesso mondo cattolico, alle cui divergenze interne i media mondiali, tra l’altro, non mancano mai di offrirsi puntualmente come sponda interessata, quasi sempre, tra l’altro, definendo e enfatizzando quelle divergenze nel modo ideologicamente più banale.
Il Papa rischia così di divenire prigioniero da un lato dell’obbligo del carisma, dell’obbligo di «venire bene» in tv, di avere una congrua propensione scenica, di essere «simpatico », dall’altro dell’obbligo del politicamente corretto da cui il conformismo mediatico fa dipendere di solito il proprio consenso.
Insomma una specie di Dalai Lama con i paramenti pontificali.
La seconda trasformazione gravida di tensioni l’ha arrecata, al ruolo istituzionale del papato, il Vaticano II.
In pratica, infatti, il Concilio ha voluto dire la nascita dei partiti all’interno della Chiesa.
Intendiamoci, nella Curia ci sono sempre stati dei «partiti»: ma nella Curia, appunto, ai vertici dell’organizzazione e con tutta la felpata cautela del caso, non tra i fedeli, non nell’universo cattolico in generale.
Con il Vaticano II, e intorno ad esso, intorno ai suoi dettami e al suo «spirito », invece, questo universo cattolico si è diviso in due grandi tronconi: i cauti e i radicali.
I quali da quarant’anni si combattono apertamente e incessantemente, ognuno avendo i propri capi e rappresentanti più o meno autentici e più o meno interessati dentro la Curia.
I cui «partiti» in questo modo, però, potendo contare su un effettivo retroterra diciamo così di «seguaci», sono diventati ben più battaglieri, e quindi ben più riottosi e insidiosi, che nel passato.
Fino al punto, a quel che si capisce, di opporsi apertamente o di boicottare dietro le quinte la stessa autorità del Papa quando questi appartiene per caso al partito avverso.
E’ a questo punto che si configura in pieno la contraddittoria situazione che la storia ha creato.
Il Pontefice in realtà ha oggi una sola arma per superare l’ostilità del partito cattolico che gli si oppone, per affermare nel suo stesso regno la propria indiscutibile autorità di sovrano assoluto: l’arma dell’appeal carismatico-mediatico, del consenso metareligioso della platea mondiale, del gesto e della parola che bucano lo schermo della Cnn, che arrivano sulla prima pagina del New York Times.
Ma per farlo egli rischia di perdere un tratto essenziale del retaggio che si accompagna storicamente al suo ruolo: l’indipendenza spirituale.
Quell’indipendenza che non garantisce certo dagli errori, anche dai più riprovevoli, per carità, ma che almeno serve a tenere sempre aperta la possibilità di dare voce a qualcosa di diverso dai comandi del secolo.
Una cosa sembra certa: nella ricerca di una difficile via che possa conservare la libertà della Monarchia assoluta tra i partiti da un lato e l’opinione pubblica mediatico-mondiale dall’altro, tra queste due tipiche creature della modernità, Benedetto XVI appare dolorosamente, irrevocabilmente solo.
Corrriere della Sera 14 marzo 2009 Cari confratelli nel ministero episcopale! La remissione della scomunica ai quattro vescovi, consacrati nell’anno 1988 dall’arcivescovo Lefebvre senza mandato della Santa Sede, per molteplici ragioni ha suscitato all’interno e fuori della Chiesa cattolica una discussione di una tale veemenza quale da molto tempo non si era più sperimentata.
Molti vescovi si sono sentiti perplessi davanti a un avvenimento verificatosi inaspettatamente e difficile da inquadrare positivamente nelle questioni e nei compiti della Chiesa di oggi.
Anche se molti vescovi e fedeli in linea di principio erano disposti a valutare in modo positivo la disposizione del papa alla riconciliazione, a ciò tuttavia si contrapponeva la questione circa la convenienza di un simile gesto a fronte delle vere urgenze di una vita di fede nel nostro tempo.
Alcuni gruppi, invece, accusavano apertamente il papa di voler tornare indietro, a prima del Concilio [Vaticano II]: si scatenava cosi una valanga di proteste, la cui amarezza rivelava ferite risalenti al di là del momento.
Mi sento perciò spinto a rivolgere a voi, cari confratelli, una parola chiarificatrice, che deve aiutare a comprendere le intenzioni che in questo passo hanno guidato me e gli organi competenti della Santa Sede.
Spero di contribuire in questo modo alla pace nella Chiesa.
Una disavventura per me imprevedibile è stata il fatto che il caso Williamson si è sovrapposto alla remissione della scomunica.
Il gesto discreto di misericordia verso quattro vescovi, ordinati validamente ma non legittimamente, è apparso all’improvviso come una cosa totalmente diversa: come la smentita della riconciliazione tra cristiani ed ebrei, e quindi come la revoca di ciò che in questa materia il Concilio aveva chiarito per il cammino della Chiesa.
Un invito alla riconciliazione con un gruppo ecclesiale implicato in un processo di separazione si trasformò cosi nel suo contrario: un apparente ritorno indietro rispetto a tutti i passi di riconciliazione tra cristiani ed ebrei fatti a partire dal Concilio – passi la cui condivisione e promozione fin dall’inizio era stato un obiettivo del mio personale lavoro teologico.
Che questo sovrapporsi di due processi contrapposti sia successo, e per un momento abbia disturbato la pace tra cristiani ed ebrei come pure la pace all’interno della Chiesa, è cosa che posso soltanto deplorare profondamente.
Mi è stato detto che seguire con attenzione le notizie raggiungibili mediante l’internet avrebbe dato la possibilità di venir tempestivamente a conoscenza del problema.
Ne traggo la lezione che in futuro nella Santa Sede dovremo prestar più attenzione a quella fonte di notizie.
Sono rimasto rattristato dal fatto che anche cattolici, che in fondo avrebbero potuto sapere meglio come stanno le cose, abbiano pensato di dovermi colpire con un’ostilità pronta all’attacco.
Proprio per questo ringrazio tanto più gli amici ebrei che hanno aiutato a togliere di mezzo prontamente il malinteso e a ristabilire l’atmosfera di amicizia e di fiducia, che – come nel tempo di papa Giovanni Paolo II – anche durante tutto il periodo del mio pontificato è esistita e, grazie a Dio, continua ad esistere.
Un altro sbaglio, per il quale mi rammarico sinceramente, consiste nel fatto che la portata e i limiti del provvedimento del 21 gennaio 2009 non sono stati illustrati in modo sufficientemente chiaro al momento della sua pubblicazione.
La scomunica colpisce persone, non istituzioni.
Un’ordinazione episcopale senza il mandato pontificio significa il pericolo di uno scisma, perchè mette in questione l’unità del collegio episcopale con il papa.
Perciò la Chiesa deve reagire con la punizione più dura, la scomunica, al fine di richiamare le persone punite in questo modo al pentimento e al ritorno all’unità.
A vent’anni dalle ordinazioni, questo obiettivo purtroppo non è stato ancora raggiunto.
La remissione della scomunica mira allo stesso scopo a cui serve la punizione: invitare i quattro vescovi ancora una volta al ritorno.
Questo gesto era possibile dopo che gli interessati avevano espresso il loro riconoscimento in linea di principio del papa e della sua potestà di pastore, anche se con delle riserve in materia di obbedienza alla sua autorità dottrinale e a quella del Concilio.
Con ciò ritorno alla distinzione tra persona ed istituzione.
La remissione della scomunica era un provvedimento nell’ambito della disciplina ecclesiastica: le persone venivano liberate dal peso di coscienza costituito dalla punizione ecclesiastica più grave.
Occorre distinguere questo livello disciplinare dall’ambito dottrinale.
Il fatto che la Fraternità San Pio X non possieda una posizione canonica nella Chiesa, non si basa in fin dei conti su ragioni disciplinari ma dottrinali.
Finché la Fraternità non ha una posizione canonica nella Chiesa, anche i suoi ministri non esercitano ministeri legittimi nella Chiesa.
Bisogna quindi distinguere tra il livello disciplinare, che concerne le persone come tali, e il livello dottrinale in cui sono in questione il ministero e l’istituzione.
Per precisarlo ancora una volta: finché le questioni concernenti la dottrina non sono chiarite, la Fraternità non ha alcuno stato canonico nella Chiesa, e i suoi ministri – anche se sono stati liberati dalla punizione ecclesiastica – non esercitano in modo legittimo alcun ministero nella Chiesa.
Alla luce di questa situazione è mia intenzione di collegare in futuro la pontificia commissione “Ecclesia Dei” – istituzione dal 1988 competente per quelle comunità e persone che, provenendo dalla Fraternità San Pio X o da simili raggruppamenti, vogliono tornare nella piena comunione col papa – con la congregazione per la dottrina della fede.
Con ciò viene chiarito che i problemi che devono ora essere trattati sono di natura essenzialmente dottrinale e riguardano soprattutto l’accettazione del Concilio Vaticano II e del magistero post-conciliare dei papi.
Gli organismi collegiali con i quali la Congregazione studia le questioni che si presentano (specialmente la consueta adunanza dei cardinali al mercoledì e la plenaria annuale o biennale) garantiscono il coinvolgimento dei prefetti di varie congregazioni romane e dei rappresentanti dell’episcopato mondiale nelle decisioni da prendere.
Non si può congelare l’autorità magisteriale della Chiesa all’anno 1962: ciò deve essere ben chiaro alla Fraternità.
Ma ad alcuni di coloro che si segnalano come grandi difensori del Concilio deve essere pure richiamato alla memoria che il Vaticano II porta in sé l’intera storia dottrinale della Chiesa.
Chi vuole essere obbediente al Concilio, deve accettare la fede professata nel corso dei secoli e non può tagliare le radici di cui l’albero vive.
Spero, cari confratelli, che con ciò sia chiarito il significato positivo come anche il limite del provvedimento del 21 gennaio 2009.
Ora però rimane la questione: era tale provvedimento necessario? Costituiva veramente una priorità? Non ci sono forse cose molto più importanti? Certamente ci sono delle cose più importanti e più urgenti.
Penso di aver evidenziato le priorità del mio pontificato nei discorsi da me pronunciati al suo inizio.
Ciò che ho detto allora rimane in modo inalterato la mia linea direttiva.
La prima priorità per il successore di Pietro è stata fissata dal Signore nel Cenacolo in modo inequivocabile: “Tu…
conferma i tuoi fratelli” (Luca 22, 32).
Pietro stesso ha formulato in modo nuovo questa priorità nella sua prima lettera: “Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1 Pietro 3, 15).
Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio.
Non a un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine (cfr.
Giovanni 13, 1), in Gesù Cristo crocifisso c risorto.
Il vero problema in questo nostro momento della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini e che con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più.
Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia: questa è la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del successore di Pietro in questo tempo.
Da qui deriva come logica conseguenza che dobbiamo avere a cuore l’unità dei credenti.
La loro discordia, infatti, la loro contrapposizione interna mette in dubbio la credibilità del loro parlare di Dio.
Per questo lo sforzo per la comune testimonianza di fede dei cristiani – per l’ecumenismo – è incluso nella priorità suprema.
A ciò si aggiunge la necessità che tutti coloro che credono in Dio cerchino insieme la pace, tentino di avvicinarsi gli uni agli altri, per andare insieme, pur nella diversità delle loro immagini di Dio, verso la fonte della Luce.
È questo il dialogo interreligioso.
Chi annuncia Dio come Amore “sino alla fine” deve dare la testimonianza dell’amore: dedicarsi con amore ai sofferenti, respingere l’odio e l’inimicizia: è la dimensione sociale della fede cristiana, di cui ho parlato nell’enciclica “Deus caritas est”.
Se dunque l’impegno faticoso per la fede, per la speranza e per l’amore nel mondo costituisce in questo momento (e, in forme diverse, sempre) la vera priorità per la Chiesa, allora ne fanno parte anche le riconciliazioni piccole e medie.
Che il sommesso gesto di una mano tesa abbia dato origine a un grande chiasso, trasformandosi proprio cosi nel contrario di una riconciliazione, è un fatto di cui dobbiamo prendere atto.
Ma ora domando: era ed è veramente sbagliato andare anche in questo caso incontro al fratello che “ha qualche cosa contro di te” (cfr.
Matteo 5, 23s) e cercare la riconciliazione? Non deve forse anche la società civile tentare di prevenire le radicalizzazioni e di reintegrare i loro eventuali aderenti – per quanto possibile – nelle grandi forze che plasmano la vita sociale, per evitarne la segregazione con tutte le sue conseguenze? Può essere totalmente errato l’impegnarsi per lo scioglimento di irrigidimenti e di restringimenti, cosi da far spazio a ciò che vi è di positivo e di ricuperabile per l’insieme? Io stesso ho visto, negli anni dopo il 1988, come mediante il ritorno di comunità prima separate da Roma sia cambiato il loro clima interno; come il ritorno nella grande ed ampia Chiesa comune abbia fatto superare posizioni unilaterali e sciolto irrigidimenti, cosi che poi ne sono emerse forze positive per l’insieme.
Può lasciarci totalmente indifferenti una comunità nella quale si trovano 491 sacerdoti, 215 seminaristi, 6 seminari, 88 scuole, 2 istituti universitari, 117 frati, 164 suore e migliaia di fedeli? Dobbiamo davvero tranquillamente lasciarli andare alla deriva lontani dalla Chiesa? Penso ad esempio ai 491 sacerdoti.
Non possiamo conoscere l’intreccio delle loro motivazioni.
Penso tuttavia che non si sarebbero decisi per il sacerdozio se, accanto a diversi elementi distorti e malati, non ci fosse stato l’amore per Cristo e la volontà di annunciare Lui, e con Lui il Dio vivente.
Possiamo noi semplicemente escluderli, come rappresentanti di un gruppo marginale radicale, dalla ricerca della riconciliazione e dell’unità? Che ne sarà poi? Certamente, da molto tempo e poi di nuovo in quest’occasione concreta abbiamo sentito da rappresentanti di quella comunità molte cose stonate: superbia e saccenteria, fissazione su unilateralismi ecc.
Per amore della verità devo aggiungere che ho ricevuto anche una serie di testimonianze commoventi di gratitudine, nelle quali si rendeva percepibile un’apertura dei cuori.
Ma non dovrebbe la grande Chiesa permettersi di essere anche generosa nella consapevolezza del lungo respiro che possiede; nella consapevolezza della promessa che le è stata data? Non dovremmo come buoni educatori essere capaci anche di non badare a diverse cose non buone e premurarci di condurre fuori dalle strettezze? E non dobbiamo forse ammettere che anche nell’ambiente ecclesiale è emersa qualche stonatura? A volte si ha l’impressione che la nostra società abbia bisogno di un gruppo, almeno, al quale non riservare alcuna tolleranza; contro il quale poter tranquillamente scagliarsi con odio.
E se qualcuno osa avvicinarglisi – in questo caso il papa – perde anche lui il diritto alla tolleranza e può pure lui essere trattato con odio senza timore e riserbo.
Cari confratelli, nei giorni in cui mi è venuto in mente di scrivere questa lettera, è capitato per caso che nel seminario romano ho dovuto interpretare e commentare il brano di Galati 5, 13-15.
Ho notato con sorpresa l’immediatezza con cui queste frasi ci parlano del momento attuale: “Che la libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri.
Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso.
Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!”.
Sono stato sempre incline a considerare questa [ultima] frase come una delle esagerazioni retoriche che a volte si trovano in san Paolo.
Sotto certi aspetti può essere anche cosi.
Ma purtroppo questo “mordere e divorare” esiste anche oggi nella Chiesa come espressione di una libertà mal interpretata.
È forse motivo di sorpresa che anche noi non siamo migliori dei Galati? Che almeno siamo minacciati dalle stesse tentazioni? Che dobbiamo imparare sempre di nuovo l’uso giusto della libertà? E che sempre di nuovo dobbiamo imparare la priorità suprema: l’amore? Nel giorno in cui ho parlato di ciò nel seminario maggiore, a Roma si celebrava la festa della Madonna della Fiducia.
Di fatto: Maria ci insegna la fiducia.
Ella ci conduce al Figlio, di cui noi tutti possiamo fidarci.
Egli ci guiderà, anche in tempi turbolenti.
Vorrei cosi ringraziare di cuore tutti quei numerosi vescovi che in questo tempo mi hanno donato segni commoventi di fiducia e di affetto e soprattutto mi hanno assicurato la loro preghiera.
Questo ringraziamento vale anche per tutti i fedeli che in questo tempo mi hanno dato testimonianza della loro fedeltà immutata verso il successore di san Pietro.
Il Signore protegga tutti noi e ci conduca sulla via della pace.
È un augurio che mi sgorga spontaneo dal cuore in questo inizio di Quaresima, che è tempo liturgico particolarmente favorevole alla purificazione interiore e che tutti ci invita a guardare con speranza rinnovata al traguardo luminoso della Pasqua.
Con una speciale benedizione apostolica mi confermo Vostro nel Signore BENEDICTUS PP.
XVI Dal Vaticano, 10 Marzo 2009 DOPO LA LETTERA SUI LEFEBVRIANI «La Chiesa risponde al suo Papa» “Il Papa non è solo, tutti i suoi più vicini collaboratori sono lealmente fedeli al pontefice e profondamente uniti a lui”.
È quanto ha affermato il segretario di Stato vaticano, cardinal Tarcisio Bertone.
Riferendosi a quanto scritto oggi sui principali giornali italiani circa la solitudine del Papa, il porporato ha parlato di “comunione” e “amore” della Chiesa nei suoi confronti, e ha aggiunto: “Benedetto XVI in questi momenti ha sentito anche la comunione di molti vescovi, nonostante qualche voce stonata”.
“Tutti i suoi più vicini collaboratori sono lealmente fedeli al pontefice e profondamente uniti a lui – ha detto Bertone prima di cominciare il suo discorso a conclusione di un seminario di tre giorni sulle comunicazioni sociali per i vescovi responsabili – a partire dai capi di dicastero e dal segretario di Stato, anche per la familiarità dei rapporti”.
Il segretario di Stato ha poi affermato che il Papa ha sentito “anche la comunione di tanti vescovi del mondo, nonostante qualche voce stonata, forse dovuta proprio a mancanza di fiducia nel Papa e nelle decisioni che compie, profondamente consapevole della sua missione che compie davanti a Dio, di essere pastore della Chiesa universale, pastore di tutti”.
Solidarietà da vescovi Germania, Svizzera e Francia.
Piena solidarietà a Benedetto XVI è arrivata oggi dagli episcopati tedesco, francese e svizzero; “il Papa non è solo”, affermano – in interviste alla Radio Vaticana – i rappresentanti dei presuli dei tre paesi, da cui si sono levate nelle scorse settimane forti riserve sulla revoca della scomunica ai lefebvriani.
””Non mi è mai capitato di leggere uno scritto di un Papa così personale e così aperto.
E questo mi piace molto”, ha detto il presidente dei vescovi tedeschi, Mons, Robert Zollitsch, che stamani ha incontrato Benedetto XVI.
È “un segno – ha sottolineato – della comunicazione, un segno del fatto che il Papa stesso desidera entrare in colloquio con i vescovi e spiegare a tutto il collegio episcopale quali sono state le ragioni che lo hanno spinto e come lui ha percepito tutta la situazione”.
Sulla stessa lunghezza d’onda il cardinale di Parigi, Andrè Vingt-Trois, e il vescovo di Lugano, mons.
Pier Giacomo Grampa.
Il “grazie” da Austria, Belgio e Inghilterra.
È arrivato anche il “grazie” dei vescovi belgi e inglesi al Papa per la lettera scritta riguardo alla remissione della scomunica ai vescovi lefebvriani.
Lettera riproposta oggi sui siti ufficiali delle Conferenze episcopali europee nelle diverse lingue.
In una breve nota scritta, i vescovi del Belgio parlano di unalettera “al tempo stesso umile e forte”.
Ed aggiungono: “Il suo contenuto mostra chiaramente che la remissione delle scomuniche dei 4 vescovi tradizionalisti vuole essere un gesto di riconciliazione e non una rimessa in discussione del Concilio Vaticano II”.
In una dichiarazione, la Conferenza episcopale di Inghilterra e Galles parla di “un atto collegiale” e di una lettera “profondamente umile”.
I vescovi inglesi sottolineano il “forte” impegno del Papa “per il dialogo interreligioso, soprattutto con gli ebrei, e per il dialogo ecumenico con gli altri cristiani.
Egli rivela la sua passione per la riconciliazione e invitando tutti nella Chiesa a dare una migliore testimonianza, il Papa sottolinea che la priorità fondamentale della Chiesa è quello di condurre gli uomini e le donne a Dio”.
“Essenziale a questo compito – aggiungono i vescovi – è la necessità di unità e l’ufficio petrino è il centro e il promotore dell’unità della Chiesa e, come tale, una voce profetica”.
Gratitudine viene espressa al Papa anche dall’episcopato austriaco, riunito in questi giorni nell’assemblea di primavera.
In una nota, i vescovi dell’Austria sottolineano l’attenzione pastorale di Benedetto XVI, che ha voluto spiegare con ampiezza le ragioni che lo hanno portato a revocare la scomunica ai presuli lefebvriani.
Le altre reazioni.
Il card.
Antonio Canizares, prefetto della Congregazione per il Culto divino, ha espresso “amarezza” per la “sofferenza” arrecata a papa Benedetto XVI dalle polemiche sul caso della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani.
“Abbiamo ricevuto, letto e approfondito la lettera che ha inviato a tutto l’episcopato cattolico circa la remissione della scomunica”, ha detto Canizares, salutando il papa in occasione dell’udienza che questi ha concesso ai partecipanti alla Plenaria della Congregazione per il Culto.
“Condividiamo l’amarezza della sofferenza recata a vostra Santità – ha proseguito – e mi faccio portavoce dell’unanime adesione di tutti i membri della Congregazione per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti, a quanto espresso con chiarezza e fermezza dalla Santità vostra.
Il cardinale ha concluso esprimendo “la più sincera e profonda vicinanza e amorevole solidarietà soprattutto in questo particolare momento”.
La Lettera di Benedetto XVI ai vescovi di tutto il mondo sulla revoca delle scomuniche ai lefebvriani, “non nasconde certo le difficoltà del momento e le loro cause immediate, anzi le sottolinea, ma per andare più in profondità, alle radici spirituali, culturali ed ecclesiali di quegli ostacoli che rendono faticoso il cammino della Chiesa e che richiedono a ciascuno di noi conversione e rinnovamento”.
Lo afferma il card.
Camillo Ruini che firma l’editoriale dell’Osservatore Romano.
La Lettera, scrive il cardinale, rappresenta “un’autentica novità” che “si manifesta anzitutto nel carattere fortemente personale di questa lettera, che pure è rivolta a tutti i vescovi della Chiesa cattolica e di fatto, essendo stata resa pubblica, anche a tutti i fedeli: una comunicazione personale che supera i limiti dell’ufficialità e si offre al lettore in maniera trasparente, consentendogli di entrare, per così dire, nell’animo del Papa e di prender parte dal di dentro alla sua sollecitudine pastorale, alle motivazioni fondamentali che guidano le sue scelte e anche all’atteggiamento interiore con cui egli vive il suo ministero”.
La lettera ai vescovi cattolici resa nota ieri.
«Una parola chiarificatrice, che deve aiutare a comprendere le intenzioni che in questo passo hanno guidato me e gli organi competenti della Santa Sede.
Spero di contribuire in questo modo alla pace nella Chiesa».
Con queste parole Benedetto XVI spiega il senso della «lettera ai vescovi della Chiesa cattolica riguardo alla remissione della scomunica dei quattro vescovi consacrati dall’arcivescovo Lefebvre».
I quattro vescovi – Bernard Fellay, Bernard Tissier de Mallerais, Richard Williamson e Alfonso del Gallareta – erano stati consacrati il 30 giugno 1988 senza mandato pontificio ed erano quindi incorsi nella scomunica latae sententiae, cioè automatica, dichiarata formalmente dalla Congregazione per i vescovi il 1° luglio 1988.
La remissione della scomunica è giunta con un Decreto della medesima Congregazione, firmato il 21 gennaio 2009 dal cardinale prefetto Giovanni Battista Re.
Questo atto, scrive il Papa nella lettera resa nota oggi, «per molteplici ragioni ha suscitato all’interno e fuori della Chiesa cattolica una discussione di una tale veemenza quale da molto tempo non si era più sperimentata».
«Una disavventura per me imprevedibile – scrive Benedetto XVI – è stata il fatto che il caso Williamson si è sovrapposto alla remissione della scomunica».
All’improvviso, spiega, «il gesto discreto di misericordia verso quattro vescovi è apparso come la smentita della riconciliazione tra cristiani ed ebrei».
A tal riguardo il Pontefice precisa che “la condivisione” e la promozione fin dall’inizio dei «passi di riconciliazione tra cristiani ed ebrei fatti a partire dal Concilio» erano state «un obiettivo del mio personale lavoro teologico».
Il fatto che si siano sovrapposti «due processi contrapposti», prosegue il Papa, «è cosa che posso soltanto deplorare profondamente».
Ed aggiunge: «Mi è stato detto che seguire con attenzione le notizie raggiungibili mediante Internet avrebbe dato la possibilità di venir tempestivamente a conoscenza del problema.
Ne traggo la lezione che in futuro nella Santa Sede dovremo prestar più attenzione a quella fonte di notizie».
Benedetto XVI si dice «rattristato» dal fatto che «anche cattolici, che in fondo avrebbero potuto sapere meglio come stanno le cose, abbiano pensato di dovermi colpire con un’ostilità pronta all’attacco».
Proprio per questo ringrazia «tanto più gli amici ebrei che hanno aiutato a togliere di mezzo prontamente il malinteso e a ristabilire l’atmosfera di amicizia e di fiducia», che «continua ad esistere» come «nel tempo» di Giovanni Paolo II.
La risposta dei lefebvriani.
“Ringraziamo profondamente il Santo Padre di aver riportato il dibattito al livello al quale deve svolgersi, quello della fede”: lo scrive, in un comunicato, il Superiore generale della lefebvriana Fraternità Sacerdotale San Pio X, mons.
Bernard Fellay, in seguito alla diffusione della lettera di papa Benedetto XVI ai vescovi cattolici per spiegare il senso della revoca della scomunica dei quattro vescovi lefebvriani.
“Condividiamo pienamente – scrive Fellay – la sua preoccupazione prioritaria della predicazione ‘nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimentò”.
“La Chiesa – osserva ancora Fellay – attraversa una grande crisi, che non potrà essere risolta se non con il ritorno integrale alla purezza della fede”.
Il superiore dei lefebvriani spiega che la sua comunità è “ben lontana dal voler arrestare la Tradizione al 1962” – come detto dal pontefice nella sua lettera – ma vuole “considerare il Concilio Vaticano II e l’insegnamento post-conciliare alla luce di questa Tradizione, senza rottura e all’interno di uno sviluppo perfettamente omogeneo.
La Fraternità – conclude Fellay – assicura al pontefice la sua “volontà di affrontare i colloqui dottrinali riconosciuti come ‘necessarì” dal decreto di revoca della scomunica, “con il desiderio di servire la Verità rivelata, il che è la prima carità da manifestare verso tutti gli uomini, cristiani e non”.
Avvenire 12 Marzo 2009
8 MARZO 2009
E qualche battuta, tra il vero e il faso su di noi, ci farà sorridere di certo.
Eccole: 1.
Qual e’ la differenza fra le donne di 8, 18, 28, 38 e 48 anni? Quelle di 8 anni le si mettono a letto e si racconta loro delle storie; quelle di 18 anni si raccontano loro delle storie e si mettono a letto; quelle di 28 anni non hanno bisogno che si racconti loro delle storie per metterle a letto; quelle di 38 anni vi raccontano delle storie e vi portano a letto; a quelle di 48 bisogna che le raccontiate delle storie per evitare di andarci a letto.
2.
Potremo dire di avere raggiunto la parità tra i sessi quando donne mediocri occuperanno posizioni di responsabilità.
(Francois Giroud) 3.
Cosa vuol dire quando una donna e’ fuori della cucina? Che la catena e’ troppo lunga.
4.
Una donna affascinante e’ l’inferno dell’anima, il purgatorio del portafoglio, ed il paradiso degli occhi.
(Fontenelle) 5.
Una donna e’ come un buon libro: divertente, ispira, istruisce.
Talvolta ci sono troppe parole, ma se la rilegatura e le decorazioni sono belle e’ irresistibile.
Vorrei potermi permettere una biblioteca.
(Marcus Long) 6.
Le donne sarebbero più affascinanti se si potesse cadere fra le loro braccia senza cadere nelle loro mani.
(Ambrose Bierce) 7.
Era così piatta che di reggiseno non aveva la prima, ma la retromarcia.
(Giorgio Faletti) 8.
Quando la donna che t’ama ti loda, non t’insuperbire: loda se stessa.
9.
Se una donna desidera un diadema di diamanti, vi spiegherà che e’ per evitarvi di comperarle un cappello.
(Jerome K.
Jerome) 10 Dopo tanto discorrere resta dubbio se le donne preferiscano essere prese, comprese o sorprese.
(Gesualdo Bufalino) 11.
Le donne non hanno mai niente da dire.
Ma lo sanno dire così bene! (Oscar Wilde).
12.
Le donne sono straordinarie con la loro mania di far dormire gli altri nel modo in cui loro gli rifanno il letto.
(Samuel Beckett) La prima donna italiana a prendere la penna con intenti letterari fu Compiuta Donzella, una musica fiorentina del 1200, di cui ci restano tre sonetti.
Da Compiuta ad oggi, molte grandi donne italiane si sono avvicinate alla scrittura, ognuna per un motivo e con un intento differente.
I risultati sono stati i più disparati.
Nel percorso che presento, vi sono alcune tra le scrittrici italiane più significative, nella speranza che, attraverso le loro vite, spesso difficili, e le loro opere, sia possibile comprendere anche li diversi momenti che ha attraversato, nel tempo, la società italiana.
Senza strombazzature e botti pirotecnici.
Naturalmente, di ognuna indicherò solo il periodo storico, fermandomi agli Anni Settanta, altrimenti… 1347-80 S.
Caterina da Siena 1450 Antonia Pulci Alessandra Macinghi Strozzi Isotta Nogarola Cassandra Fedele Laura Cereta Gaspara Stampa 1450 – 1500 Lucrezia detta Imperia Vittoria Colonna Tullia d’Aragona Chiara Matraini Laura Battiferri Amannati Veronica Franco Isabella di Morra 1530 Olympia Morata 1550 Moderata Fonte Isabella Andreini Lucrezia Marinella 1600 – 1700 Maria Clemente Ruoti Faustina Maratti Zappi Luisa Bergagli fine 1700 Diodata Saluzzo Roero Gaetana Agnesi Eleonora Fonseca Pimentel Cristina Tivulzio Belgioioso 1850 – 1900 Matilde Serao Caterina Percoto Contessa Lara Vittoria Aganoor Pompilj Grazia Deledda Neera Maria Messina 1900 Amalia Guglielminetti Ada Negri Sibilla Aleramo Futurismo: Rosa Rosà Gianna Manzini Anna Banti Neorealismo: Fausta Cialente Alba de Cespedes Elsa Morante SECONDA GUERRA MONDIALE Natalia Ginzburg II° DOPOGUERRA Antonia Pozzi Amelia Rosselli Giulia Niccolai Margherita Guidacci Maria Luisa Spanzani ANNI ’70 Amanda Guiducci Gina Lagorio Dacia Maraini ……….
Invece le annotazioni che seguono sono preziose per coloro che intendono meglio approfondire i loro studi sul contributo femminile nei vari campi del sapere: Indirizzi: A Celebration of Women Writers: Un sito dedicato alle donne scrittrici, con elenchi suddivisi per epoca e per paese.
Interessante per ricerche specialistiche, dato che compaiono nomi di scrittrici provenienti anche dai paesi più piccoli.
African Women’s Bibliographic Database Un database – suddiviso per paese e per zona – specifico sulle donne africane: dalla situazione sociale alla letteratura, agli studi di genere.
American Women History Un database sulla storia delle donne americane: libri, riviste, tesi, con un indice per soggetto.
E-book by Women Writers – University of Virginia Sito dell’Università della Virginia che offre un elenco di donne scrittrici, soprattutto per il periodo 1800-1900.
I libri sono stati riportati in versione html, e possono quindi essere letti direttamente.
Early Modern Women Database Database delle biblioteche dell’Università del Maryland, suddiviso per temi, paesi, e tipi di documenti cercati.
Feminist Science Fiction, Fantasy and Utopia Sito che offre molto materiale sulla fantascienza e sul genere fantasy scritto da donne e da un punto di vista femminista: bibliografia suddivisa in ordine alfabetico, riviste, documentari e film.
Feminist Studies Collections: Women in History Sito della Stanford University (California) molto ricco di materiale sugli Women’s Studies: amplia soprattutto la parte dedicata alla storia delle donne, con link a siti specifici.
Medieval Feminist Index Questo sito offre la possibilità di consultare giornali, libri, articoli, saggi, riviste sulle donne, la sessualità e il genere nel Medio Evo.
Sito serio, collegato alle Università di Notre Dame, Yale, Princeton, Berkley e Toronto.
SOSIG Women and Education Questo sito, che fa parte dello UK Resource Discovery Network, offre una serie di link che si occupano del campo di Women’s and Gender Studies da vari punti di visti: ogni link viene ampliamente descritto e presentato.
WMST-L File Collection Sito contenente molto materiale suddiviso per tema: dai libri alla storia, dalla sessualità al linguaggio.
The World Wide Web Virtual Library Women’s History Reference Offre molti dati interessanti per quanto riguarda gli Women’s Studies: dallle riviste ai link alle università di tutto il mondo che si occupano di questo campo.
Women’s EuroMap Sito del Centro di Women’s Studies di Anversa, Belgio.
Vuole essere una “guida” ai siti di particolare interesse per gli Women’s Studies nella rete.
Si focalizza soprattutto sull’Europa.
Women’s Studies Database Database dell’Università del Maryland: bibliografie, saggi e informazioni utili per i posti di lavoro vacanti nell’area di Women’s Studies.
Women’s studies information sources Sito dell’Università di York (Inghilterra), con un database specifico, una lista di riviste che si occupano di Women’s e Gender Studies e la possibilità di consultare la biblioteca via internet.
Toglimi il pane, se vuoi, toglimi l’aria, ma non togliermi il tuo sorriso(Pablo Neruda) Non si può ancora affermare che la nostra società dia alle donne la possibilità di svolgere contemporaneamente i propri compiti di madri, di mogli e anche di altri lavori.
Questo e’ quello che occorre ancora ottenere e- sinceramente- impegnarsi per onorare la lotta intrapresa dalle donne più di cent’anni fa.
Mi imbarazza, ma ci sono troppe giovani donne che non sanno il perché di questa “memoria”- non festa- quindi un minimo di vicenda bisogna proporla.
E poi desidero offrire due o tre cose che sfuggono a tanti, ma che vale la pena di conoscere, visto che ci possiamo “abbracciare” come umanità in ricerca con Internet.
Nel 1908 Preceduta da una marcia di 15.000 donne nel 1908 per il miglioramento delle condizioni di lavoro e l’ottenimento del diritto al voto, la prima festa della donna si è svolta il 28 febbraio 1909 negli Stati Uniti d’America.
La sua istituzione internazionale risale al 1910 nel corso della seconda Conferenza dell’Internazionale Socialista svoltasi a Copenaghen nella Folkets Hus (Casa del Popolo) chiamata poi “ungdomshuset”.
Qui più di 100 donne rappresentanti di 17 paesi scelsero di istituire una festa per onorare la lotta femminile per l’ottenimento dell’uguaglianza sociale.
Dal 1912 la festa vuole ricordare anche un grave incendio avvenuto nel 1911 a New York, nella Triangle Shirtwaist Company dove morirono 140 donne in prevalenza italiane ed ebree.
Nel febbraio del 1913 anche le donne russe parteciparono alla loro prima festa con l’intento di dichiarare la loro posizione contro la guerra, ma si ritrovarono a manifestare il 23 febbraio 1917 (l’8 marzo del calendario giuliano) per la morte di circa 2 milioni di soldati russi scomparsi in guerra.
Le proteste continuarono per vari giorni fintanto che lo Zar fu costretto ad abdicare ed il governo dovette concedere il diritto al voto anche alle donne.
Da quell’anno la festa viene celebrata in una data fissa, mentre precedentemente era onorata l’ultima domenica di febbraio.
In Italia, nel secondo dopoguerra, la giornata internazionale della donna fu ripresa e rilanciata dall’UDI (Unione Donne Italiane) associando nel contempo alla data dell’8 marzo l’ormai tradizionale fiore della mimosa.
Una speranza solida e affidabile in tempi di crisi
Una speranza solida e affidabile in tempi di crisi Il mondo ha bisogno di “una speranza salda e affidabile”: non “un ideale o un sentimento, ma una persona viva, Gesù Cristo”.
Lo scrive il Papa nel messaggio per la XXIV Giornata mondiale della gioventù, che si celebrerà nelle singole diocesi il 5 aprile, domenica delle Palme.
“Abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente” (1 Tm 4, 10) Cari amici, la prossima Domenica delle Palme celebreremo, a livello diocesano, la XXIV Giornata Mondiale della Gioventù.
Mentre ci prepariamo a questa annuale ricorrenza, ripenso con viva gratitudine al Signore all’incontro che si è tenuto a Sydney, nel luglio dello scorso anno: incontro indimenticabile, durante il quale lo Spirito Santo ha rinnovato la vita di numerosissimi giovani convenuti dal mondo intero.
La gioia della festa e l’entusiasmo spirituale, sperimentati durante quei giorni, sono stati un segno eloquente della presenza dello Spirito di Cristo.
Ed ora siamo incamminati verso il raduno internazionale in programma a Madrid nel 2011, che avrà come tema le parole dell’apostolo Paolo: “Radicati e fondati in Cristo, saldi nella fede” (cfr.
Col 2, 7).
In vista di tale appuntamento mondiale dei giovani, vogliamo compiere insieme un percorso formativo, riflettendo nel 2009 sull’affermazione di san Paolo: “Abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente” (1 Tm 4, 10), e nel 2010 sulla domanda del giovane ricco a Gesù: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?” (Mc 10, 17).
La giovinezza, tempo della speranza A Sydney, la nostra attenzione si è concentrata su ciò che lo Spirito Santo dice oggi ai credenti, ed in particolare a voi, cari giovani.
Durante la Santa Messa conclusiva, vi ho esortato a lasciarvi plasmare da Lui per essere messaggeri dell’amore divino, capaci di costruire un futuro di speranza per tutta l’umanità.
La questione della speranza è, in verità, al centro della nostra vita di esseri umani e della nostra missione di cristiani, soprattutto nell’epoca contemporanea.
Avvertiamo tutti il bisogno di speranza, ma non di una speranza qualsiasi, bensì di una speranza salda ed affidabile, come ho voluto sottolineare nell’Enciclica Spe salvi.
La giovinezza in particolare è tempo di speranze, perché guarda al futuro con varie aspettative.
Quando si è giovani si nutrono ideali, sogni e progetti; la giovinezza è il tempo in cui maturano scelte decisive per il resto della vita.
E forse anche per questo è la stagione dell’esistenza in cui affiorano con forza le domande di fondo: perché sono sulla terra? che senso ha vivere? che sarà della mia vita? E inoltre: come raggiungere la felicità? perché la sofferenza, la malattia e la morte? che cosa c’è oltre la morte? Interrogativi che diventano pressanti quando ci si deve misurare con ostacoli che a volte sembrano insormontabili: difficoltà negli studi, mancanza di lavoro, incomprensioni in famiglia, crisi nelle relazioni di amicizia o nella costruzione di un’intesa di coppia, malattie o disabilità, carenza di adeguate risorse come conseguenza dell’attuale e diffusa crisi economica e sociale.
Ci si domanda allora: dove attingere e come tener viva nel cuore la fiamma della speranza? Alla ricerca della “grande speranza” L’esperienza dimostra che le qualità personali e i beni materiali non bastano ad assicurare quella speranza di cui l’animo umano è in costante ricerca.
Come ho scritto nella citata Enciclica Spe salvi, la politica, la scienza, la tecnica, l’economia e ogni altra risorsa materiale da sole non sono sufficienti per offrire la grande speranza a cui tutti aspiriamo.
Questa speranza “può essere solo Dio, che abbraccia l’universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere” (n.
31).
Ecco perché una delle conseguenze principali dell’oblio di Dio è l’evidente smarrimento che segna le nostre società, con risvolti di solitudine e violenza, di insoddisfazione e perdita di fiducia che non raramente sfociano nella disperazione.
Chiaro e forte è il richiamo che ci viene dalla Parola di Dio: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, e pone nella carne il suo sostegno, allontanando il suo cuore dal Signore.
Sarà come un tamerisco nella steppa; non vedrà venire il bene” (Ger 17, 5-6).
La crisi di speranza colpisce più facilmente le nuove generazioni che, in contesti socio-culturali privi di certezze, di valori e di solidi punti di riferimento, si trovano ad affrontare difficoltà che appaiono superiori alle loro forze.
Penso, cari giovani amici, a tanti vostri coetanei feriti dalla vita, condizionati da una immaturità personale che è spesso conseguenza di un vuoto familiare, di scelte educative permissive e libertarie e di esperienze negative e traumatiche.
Per alcuni – e purtroppo non sono pochi – lo sbocco quasi obbligato è una fuga alienante verso comportamenti a rischio e violenti, verso la dipendenza da droghe e alcool, e verso tante altre forme di disagio giovanile.
Eppure, anche in chi viene a trovarsi in condizioni penose per aver seguito i consigli di “cattivi maestri”, non si spegne il desiderio di amore vero e di autentica felicità.
Ma come annunciare la speranza a questi giovani? Noi sappiamo che solo in Dio l’essere umano trova la sua vera realizzazione.
L’impegno primario che tutti ci coinvolge è pertanto quello di una nuova evangelizzazione, che aiuti le nuove generazioni a riscoprire il volto autentico di Dio, che è Amore.
A voi, cari giovani, che siete in cerca di una salda speranza, rivolgo le stesse parole che san Paolo indirizzava ai cristiani perseguitati nella Roma di allora: “Il Dio della speranza vi riempia, nel credere, di ogni gioia e pace, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo” (Rm 15, 13).
Durante questo anno giubilare dedicato all’Apostolo delle genti, in occasione del bimillenario della sua nascita, impariamo da lui a diventare testimoni credibili della speranza cristiana.
San Paolo, testimone della speranza Trovandosi immerso in difficoltà e prove di vario genere, Paolo scriveva al suo fedele discepolo Timoteo: “Abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente” (1 Tm 4, 10).
Come era nata in lui questa speranza? Per rispondere a tale domanda dobbiamo partire dal suo incontro con Gesù risorto sulla via di Damasco.
All’epoca Saulo era un giovane come voi, di circa venti o venticinque anni, seguace della Legge di Mosè e deciso a combattere con ogni mezzo quelli che egli riteneva nemici di Dio (cfr.
At 9, 1).
Mentre stava andando a Damasco per arrestare i seguaci di Cristo, fu abbagliato da una luce misteriosa e si sentì chiamare per nome: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”.
Caduto a terra, domandò: “Chi sei, o Signore?”.
E quella voce rispose: “Io sono Gesù, che tu perseguiti!” (cfr.
At 9, 3-5).
Dopo quell’incontro, la vita di Paolo mutò radicalmente: ricevette il Battesimo e divenne apostolo del Vangelo.
Sulla via di Damasco, egli fu interiormente trasformato dall’Amore divino incontrato nella persona di Gesù Cristo.
Un giorno scriverà: “Questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2, 20).
Da persecutore diventò dunque testimone e missionario; fondò comunità cristiane in Asia Minore e in Grecia, percorrendo migliaia di chilometri e affrontando ogni sorta di peripezie, fino al martirio a Roma.
Tutto per amore di Cristo.
La grande speranza è in Cristo Per Paolo la speranza non è solo un ideale o un sentimento, ma una persona viva: Gesù Cristo, il Figlio di Dio.
Pervaso intimamente da questa certezza, potrà scrivere a Timoteo: “Abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente” (1 Tm 4, 10).
Il “Dio vivente” è Cristo risorto e presente nel mondo.
È Lui la vera speranza: il Cristo che vive con noi e in noi e che ci chiama a partecipare alla sua stessa vita eterna.
Se non siamo soli, se Egli è con noi, anzi, se è Lui il nostro presente ed il nostro futuro, perché temere? La speranza del cristiano è dunque desiderare “il Regno dei cieli e la vita eterna come nostra felicità, riponendo la nostra fiducia nelle promesse di Cristo e appoggiandoci non sulle nostre forze, ma sull’aiuto della grazia dello Spirito Santo” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1817).
Il cammino verso la grande speranza Come un giorno incontrò il giovane Paolo, Gesù vuole incontrare anche ciascuno di voi, cari giovani.
Sì, prima di essere un nostro desiderio, questo incontro è un vivo desiderio di Cristo.
Ma qualcuno di voi mi potrebbe domandare: Come posso incontrarlo io, oggi? O piuttosto, in che modo Egli si avvicina a me? La Chiesa ci insegna che il desiderio di incontrare il Signore è già frutto della sua grazia.
Quando nella preghiera esprimiamo la nostra fede, anche nell’oscurità già Lo incontriamo perché Egli si offre a noi.
La preghiera perseverante apre il cuore ad accoglierlo, come spiega sant’Agostino: “Il Signore Dio nostro vuole che nelle preghiere si eserciti il nostro desiderio, così che diventiamo capaci di ricevere ciò che Lui intende darci” (Lettere 130, 8, 17).
La preghiera è dono dello Spirito, che ci rende uomini e donne di speranza, e pregare tiene il mondo aperto a Dio (cfr.
Enc.
Spe salvi, 34).
Fate spazio alla preghiera nella vostra vita! Pregare da soli è bene, ancor più bello e proficuo è pregare insieme, poiché il Signore ha assicurato di essere presente dove due o tre sono radunati nel suo nome (cfr.
Mt 18, 20).
Ci sono molti modi per familiarizzare con Lui; esistono esperienze, gruppi e movimenti, incontri e itinerari per imparare a pregare e crescere così nell’esperienza della fede.
Prendete parte alla liturgia nelle vostre parrocchie e nutritevi abbondantemente della Parola di Dio e dell’attiva partecipazione ai Sacramenti.
Come sapete, culmine e centro dell’esistenza e della missione di ogni credente e di ogni comunità cristiana è l’Eucaristia, sacramento di salvezza in cui Cristo si fa presente e dona come cibo spirituale il suo stesso Corpo e Sangue per la vita eterna.
Mistero davvero ineffabile! Attorno all’Eucaristia nasce e cresce la Chiesa, la grande famiglia dei cristiani, nella quale si entra con il Battesimo e ci si rinnova costantemente grazie al sacramento della Riconciliazione.
I battezzati poi, mediante la Cresima, vengono confermati dallo Spirito Santo per vivere da autentici amici e testimoni di Cristo, mentre i sacramenti dell’Ordine e del Matrimonio li rendono atti a realizzare i loro compiti apostolici nella Chiesa e nel mondo.
L’Unzione dei malati, infine, ci fa sperimentare il conforto divino nella malattia e nella sofferenza.
Agire secondo la speranza cristiana Se vi nutrite di Cristo, cari giovani, e vivete immersi in Lui come l’apostolo Paolo, non potrete non parlare di Lui e non farlo conoscere ed amare da tanti altri vostri amici e coetanei.
Diventati suoi fedeli discepoli, sarete così in grado di contribuire a formare comunità cristiane impregnate di amore come quelle di cui parla il libro degli Atti degli Apostoli.
La Chiesa conta su di voi per questa impegnativa missione: non vi scoraggino le difficoltà e le prove che incontrate.
Siate pazienti e perseveranti, vincendo la naturale tendenza dei giovani alla fretta, a volere tutto e subito.
Cari amici, come Paolo, testimoniate il Risorto! Fatelo conoscere a quanti, vostri coetanei e adulti, sono in cerca della “grande speranza” che dia senso alla loro esistenza.
Se Gesù è diventato la vostra speranza, ditelo anche agli altri con la vostra gioia e il vostro impegno spirituale, apostolico e sociale.
Abitati da Cristo, dopo aver riposto in Lui la vostra fede e avergli dato tutta la vostra fiducia, diffondete questa speranza intorno a voi.
Fate scelte che manifestino la vostra fede; mostrate di aver compreso le insidie dell’idolatria del denaro, dei beni materiali, della carriera e del successo, e non lasciatevi attrarre da queste false chimere.
Non cedete alla logica dell’interesse egoistico, ma coltivate l’amore per il prossimo e sforzatevi di porre voi stessi e le vostre capacità umane e professionali al servizio del bene comune e della verità, sempre pronti a rispondere “a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1 Pt 3, 15).
Il cristiano autentico non è mai triste, anche se si trova a dover affrontare prove di vario genere, perché la presenza di Gesù è il segreto della sua gioia e della sua pace.
Maria, Madre della speranza Modello di questo itinerario di vita apostolica sia per voi san Paolo, che ha alimentato la sua vita di costante fede e speranza seguendo l’esempio di Abramo, del quale scrive nella Lettera ai Romani: “Egli credette, saldo nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli” (Rm 4, 18).
Su queste stesse orme del popolo della speranza – formato dai profeti e dai santi di tutti i tempi – noi continuiamo ad avanzare verso la realizzazione del Regno, e nel nostro cammino spirituale ci accompagna la Vergine Maria, Madre della Speranza.
Colei che ha incarnato la speranza di Israele, che ha donato al mondo il Salvatore ed è rimasta, salda nella speranza, ai piedi della Croce, è per noi modello e sostegno.
Soprattutto, Maria intercede per noi e ci guida nel buio delle nostre difficoltà all’alba radiosa dell’incontro con il Risorto.
Vorrei concludere questo messaggio, cari giovani amici, facendo mia una bella e nota esortazione di san Bernardo ispirata al titolo di Maria Stella maris, Stella del mare: “Tu che nell’instabilità continua della vita presente, ti accorgi di essere sballottato tra le tempeste più che camminare sulla terra, tieni ben fisso lo sguardo al fulgore di questa stella, se non vuoi essere spazzato via dagli uragani.
Se insorgono i venti delle tentazioni e ti incagli tra gli scogli delle tribolazioni, guarda alla stella, invoca Maria …
Nei pericoli, nelle angustie, nelle perplessità, pensa a Maria, invoca Maria…
Seguendo i suoi esempi non ti smarrirai; invocandola non perderai la speranza; pensando a lei non cadrai nell’errore.
Appoggiato a lei non scivolerai; sotto la sua protezione non avrai paura di niente; con la sua guida non ti stancherai; con la sua protezione giungerai a destinazione” (Omelie in lode della Vergine Madre, 2, 17).
Maria, Stella del mare, sii tu a guidare i giovani del mondo intero all’incontro con il tuo Figlio divino Gesù, e sii ancora tu la celeste custode della loro fedeltà al Vangelo e della loro speranza.
Mentre assicuro il mio quotidiano ricordo nella preghiera per ognuno di voi, cari giovani, di cuore tutti vi benedico insieme alle persone che vi sono care.
Dal Vaticano, 22 febbraio 2009
Dieci anni di scuola statale in Italia
Più alunni, meno prof e precari ecco la foto della scuola italiana di Salvo Intravaia Mai così “precaria”, almeno nell’ultimo decennio.
E’ la scuola italiana descritta dall’ultimo rapporto del ministero dell’Istruzione dal titolo “10 anni di scuola statale”.
I ponderoso volume contiene migliaia di dati e si riferisce al decennio (dal 1998/1999 al 2007/2008) che probabilmente ha visto il maggior numero di riforme sulla scuola.
A fronte di un incremento degli alunni si è registrato un calo dei docenti stabili, quelli di ruolo, e un vero e proprio boom del precariato.
Ma non solo: le classi si sono riempite grazie all’ingresso degli alunni stranieri ha permesso alla popolazione scolastica italiana di crescere.
Il decennio viene contrassegnato anche da una svolta: la corsa ai licei e il crollo degli istituti tecnici.
E ancora: il progressivo spopolamento delle scuole del Sud a vantaggio degli istituti settentrionali.
In due lustri, la popolazione scolastica è cresciuta quasi del 3 per cento ma non è stato così in tutte le zone del Paese.
Nelle regioni del Nord le scuole hanno dovuto fare posto a 352 mila alunni in più vedendo crescere gli alunni del 13 per cento.
Al Sud le classi si sono svuotate inesorabilmente: in pochi anni, la popolazione scolastica si è assottigliata del 6 per cento.
Dieci anni fa, il Sud poteva contare su un milione di alunni in più rispetto al Nord, adesso il vantaggio è di appena 350 mila alunni.
Con ogni probabilità, a fare la differenza sono stati gli alunni stranieri.
Il loro numero è cresciuto di 6 volte e se non fosse stato per la loro presenza gli alunni italiani sarebbero diminuiti del 3 per cento.
Il decennio 1999/2008, nonostante abbia registrato un incremento della popolazione scolastica, ha visto calare il numero dei docenti di ruolo (del 3,4 per cento) e più che raddoppiare (da 64 mila a 141 mila) il numero dei supplenti impegnati dietro la cattedra.
Dieci anni fa, si contava un precario ogni 12 insegnanti, oggi ce n’è uno ogni 6.
Anche per questa ragione l’ex ministro della Pubblica istruzione, Giuseppe Fioroni, mise in cantiere un piano per stabilizzare 150 mila precari, messo in soffitta dall’attuale governo.
Oggi, le classi sono più affollate di dieci anni fa, soprattutto nei licei.
Gli scientifici hanno vissuto un decennio di grazia: più 27 per cento.
Stesso discorso per i classici e per i licei socio-psico-pedagogici (gli ex istituti magistrali) dove gli alunni sono cresciuti di un quinto.
E in misura minore anche gli istituti professionali hanno visto aumentare gli alunni (più 13 per cento).
Il tutto a scapito dell’istruzione tecnica, fiore all’occhiello del boom economico degli anni sessanta, che ha perso quasi il 7 per cento dei suoi alunni.
A conti fatti oltre 65mila studenti.
Repubblica (4 marzo 2009) Il ministero dell’istruzione ha messo in linea la pubblicazione “10 anni di scuola statale: a.s.
1998/99-a.s.
2007/08 – Dati, fenomeni e tendenze del sistema di istruzione ” che riporta e commenta le principali serie storiche del sistema di istruzione, rilevando dati dell’ultimo decennio sugli alunni, le classi, gli organici, il personale, le scuole.
I numerosi dati, riportati ed elaborati in tabelle e grafici, oltre che nei valori complessivi, sono riportati per settore scolastico e per territorio geografico e regioni.
Si tratta di un lavoro notevole, particolarmente interessante per capire fenomeni, tendenze e prospettive del sistema di istruzione.
Tra i tantissimi dati che meritano attenzione e valutazione anche da parte dei decisori politici vi è quello dell’andamento della popolazione scolastica che è specchio delle variazioni demografiche nazionali.
Nel decennio considerato si è determinata una specie di linea di demarcazione: dal centro in su vi è stato un aumento generalizzato di alunni; dal centro in giù tutte le regioni hanno perso iscritti.
Le variazioni sono dipese da due fenomeni: da una parte, l’immigrazione straniera verso le regioni settentrionali e centrali, dall’altra, il calo di nascite nelle regioni meridionali e insulari.
Il Sud e le Isole nel decennio hanno perso rispettivamente, si osserva nel commento dell’opera, 162 mila e 73 mila.
Un totale che supera l’attuale popolazione scolastica della Sardegna.
Se i 235 mila studenti in meno fossero stati tutti sardi, oggi l’intera isola non avrebbe né alunni, né scuole né docenti.
Alunni in meno, classi chiuse, calo di organici che si sono distribuiti, invece, in tutte le regioni del Sud e delle Isole.
L’opera è a cura della Direzione Generale per gli Studi e la Programmazione e per i Sistemi Informativi del MIUR.
Attraverso questo link, è possibile acquisire il file (3,5 Mb) dello studio.
Pubblicazione del MIUR ————————————————————————- tuttoscuola.com martedì 3 marzo 2009
Il linguaggio nell’educazione religiosa
2.
Il quadro organizzativo.
Lo studio si apre con una panoramica, necessariamente rapida, sul linguaggio, la sua rilevanza nella cultura odierna, su autori e scuole che vi hanno dato rilevanza ed hanno offerto stimoli particolarmente significativi (Marchetto).
In questo quadro di insieme viene richiamata in particolare la novità della riflessione recente proprio in quegli apporti che offrono suggestioni preziose alla ricerca ermeneutica anche in ambito religioso (Freni).
Da quelle premesse muove l’analisi più specifica sul linguaggio religioso, le connotazioni che lo qualificano, le condizioni che rendono possibile l’accesso al mondo della Trascendenza: legittimano il linguaggio su Dio (Trenti).
Il tema del linguaggio viene pure verificato in un tentativo di andare oltre l’ermeneutica per salvaguardare la novità del rapporto con Dio e il primato della sua presenza; confermando forse la logica ermeneutica dal versante opposto a quello consueto (Currò).
Viene insomma esplorato l’orizzonte in cui situare il linguaggio specifico della tradizione religiosa; a cominciare da quella biblica, espressa a grandi linee nella ricchezza e varietà di apporti che offre (Bissoli).
E’ sembrato anche importante riservare almeno un cenno alla grande tradizione orientale, proposta in ciò che ha di più caratterizzante e significativo (De Souza).
E aprire infine uno squarcio sufficientemente avvertito e attento alla grande provocazione che i testi fondanti offrono a documentazione della varietà e profondità della ricerca religiosa, anche oltre la tradizione occidentale (Pajer).
Un orizzonte dunque piuttosto ambizioso, interpretativo del linguaggio religioso e della sua significatività culturale e pedagogica.
Proprio questa valenza educativa del linguaggio religioso viene sottolineata con l’ ultimo intervento di carattere esplicitamente didattico (Romio).
Corroborato da una breve appendice applicativa.
3.
L’intento Il tema del linguaggio è centrale per ogni ricerca.
Gli studi che lo hanno recentemente rinnovato offrono suggestioni straordinariamente significative per l’incontro con i grandi temi della ricerca umana, anche là dove incrocia la pista che ha da sempre qualificato la riflessione religiosa.
Dire Dio, chiamarlo per nome, è aspirazione che attraversa la ‘presunzione umana’ fin dal suo nascere alla cultura, dai primi inni vedici.
L’apporto singolare offerto dalla riflessione ermeneutica ci ha resi avvertiti di quanto dire Dio può risultare illuminante e risolutivo anche per dire uomo.
La traccia religiosa non è dunque una pausa di riposo, un’oasi felice nella corsa all’incontro con noi stessi; ne è una condizione straordinariamente rivelativa appena ci si interroghi su chi siamo e sull’approdo cui siamo incamminati.
Donde il richiamo esplicito alla sua valenza educativa, spesso richiamata in ciascuno dei contributi, esplicitamente suggerita nella parte conclusiva.
Cfr.
TRENTI Z.
( a cura ), Il linguaggio nell’educazione religiosa, Leumann, Elledici, 2008, pp.
7-8.
PS.
Per gentile concessione dell’Editore pubblichiamo, man mano, ampi stralci di uno studio, appena apparso in Libreria; tende a far e il punto sugli aspetti più significativi del linguaggio in ambito educativo, soprattutto giovanile.
Gli Autori intendono far opera di stimolo e di richiamo su un aspetto provocante dell’educazione religiosa attuale.
La Redazione della Rivista ringrazia per ogni indicazione, suggerimento e magari contributo che Collaboratori e Lettori vogliano farle pervenire.
1.
L’attenzione al linguaggio L’importanza che il linguaggio assume nella ricerca attuale è un fatto sorprendente, ma allo stesso tempo comprensibile; documenta la situazione tipica del nostro tempo, carico di provocazioni e fervido di novità.
Il prenderne coscienza in maniera lucida è urgenza perentoria ed avvertita.
Tanto più quando l’esperienza lascia presagire l’orma misteriosa e sollecitante della trascendenza.
Il linguaggio si porta al cuore dell’esplorazione esistenziale: si piega sulla vita, anche nella sua quotidianità, tende e a decifrarla in tutti i suoi richiami, quello religioso compreso.
Anzi la riflessione religiosa muove per lo più da interrogativi profondi e appassionanti: si sforza di darvi comprensione e risposta.
Va quindi forgiando un linguaggio singolarmente affinato e pertinente, di cui gli interventi che proponiamo offrono ampia documentazione.
Il quadro organizzativo globale dello Studio ha privilegiato la riflessione ermeneutica per la rilevanza e autorevolezza che gode nel panorama culturale odierno; dovuta anche al fatto che vi sono approdati studiosi e pensatori eminenti: hanno contribuito e contribuiscono a decifrare l’esperienza umana anche nel presagio che la rapporta alla Trascendenza.