Il patibolo e la tomba vuota

Se, infatti, possiamo considerare come un’eccezione singolare l’affresco del cimitero di Pretestato con una coronazione di spine, relativo alla prima metà del iii secolo, soltanto dagli anni centrali del secolo seguente appaiono alcuni sarcofagi cosiddetti di passione o dell’anàstasis, con l’arresto dei principi degli apostoli, del Cristo, il giudizio di Pilato e ancora la coronazione di spine, mentre un originale affresco della seconda metà del iv secolo, nell’ipogeo di via Dino Compagni, rappresenta i soldati romani che si giocano le vesti di Cristo e, di lì a qualche anno, nella celebre lipsanoteca eburnea di Brescia, si fa ancora esplicito riferimento all’arresto del Salvatore e alla drammatica fine di Giuda Iscariota.
Ma per incontrare la prima rappresentazione della crocifissione dobbiamo attendere i pontificati di Celestino i (422-432) e di Sisto iii (432-440), quando fu scolpita la porta lignea della monumentale basilica titolare di Santa Sabina, sull’Aventino.
Nella splendida porta, miracolosamente giunta sino ai nostri giorni, seppure non in maniera integrale e provata da una serie infinita di restauri, si avvicendano episodi del Vecchio e del Nuovo Testamento, con l’intento di realizzare una sorta di concordia biblica, che trova il suo apex semantico in una formella, che vuole rappresentare il trionfo della Chiesa, raffigurata come una matrona orante fra i principi degli apostoli, in un contesto fortemente apocalittico.
Il grande casellario ligneo prende proprio avvio da una formella, che rappresenta il momento drammatico della crocifissione, collocata contro una parete continua in opera isodoma, caratterizzata da tre timpani, che definiscono le silhouettes dei tre giustiziati, nudi, se si esclude l’esiguo subligaculum, che cinge loro i fianchi.
Le tre figure del Cristo e dei ladroni sono proiettate in primo piano e mostrano un atteggiamento expansis manibus, senza che si intraveda il legno trasversale della croce, mentre soltanto i ladroni presentano le mani inchiodate.
Il Cristo supera, per dimensioni, i due uomini posti ai lati di oltre un terzo, ha gli occhi spalancati, la barba e le chiome fluenti; il suo corpo, come quello dei due ladroni, è atletico e, nonostante la resa fortemente schiacciata del rilievo, rispetta i canoni della plastica classica romana.
Questa redazione trionfale della crocifissione, nel senso che i giustiziati, con l’atteggiamento di orante, esprimono il trionfo della risurrezione, invece del dramma pietoso della morte violenta, rispetta coerentemente la tendenza della cultura figurativa romana, improntata a una visione positiva delle storie evangeliche, che è, comunque, infranta da una tavoletta eburnea del British Museum di Londra, riferibile proprio al 420-430 e prodotta da un atelier romano.
Qui, l’evento del Golgota è rievocato nei momenti salienti della morte e della risurrezione del Cristo.
Nella scena della crocifissione, Gesù è rappresentato nudo, issato e inchiodato alla croce – sebbene vivens – e l’iscrizione rex Iudeorum sormonta il patibolo, ai piedi del quale si dispongono i comprimari del dramma: Maria, Giovanni e Longino.
Nel margine sinistro dell’avorio è rappresentata, in simultanea, la fine di Giuda Iscariota, appeso all’albero, con la borsa dei denari gettata a terra.
La tavoletta eburnea è costituita da quattro formelle e, oltre alla scena di crocifissione, riporta rispettivamente un riquadro che concentra il giudizio di Pilato, il Cristo che porta la croce e la negazione di Pietro; un altro riquadro che rievoca l’incredulità di Tommaso; un ultimo pannello che raffigura il Santo Sepolcro; con la porta semiaperta, che lascia intravedere il sarcofago vuoto, le Marie e due soldati che dormono vicino all’edificio.
La rappresentazione del Santo Sepolcro entra precocemente nel repertorio paleocristiano per tradurre in figura il racconto evangelico di Matteo (28, 1-8), Marco (16, 1-8) e Luca (24, 1-10) nell’ambito del contesto narrativo in cui si svolge la scena della visita delle pie donne, come succede nell’antico affresco del battistero della domus ecclesiae di Dura Europos, allestita nella prima metà del iii secolo, nella colonia romana situata in un’ansa dell’Eufrate, nell’attuale Siria.
Qui, le figure femminili, munite di torce, passano attraverso una porta e giungono al sepolcro, che è rappresentato come una grande arca, fornita di un coperchio, che, ai lati, presenta due grandi stelle di luce, per alludere al mistero della risurrezione.
Dal momento costantiniano, il santo sepolcro viene raffigurato in maniera realistica e puntualmente aderente alla struttura che l’imperatore aveva fatto costruire, tra il 325 e il 336, sulla tomba di Cristo, isolando la roccia nella quale era scavata.
Quest’ultimo elemento diventa il nucleo principale della grande basilica e viene caratterizzato da un’edicola, che suggerisce un edificio a pianta centrale, con un deambulatorio, delimitato da colonne, la cosiddetta Anàstasis, collegata, verso oriente, a un atrio che si allaccia a sua volta al martyrium, ossia a una monumentale basilica a cinque navate, cui si accedeva attraverso un’ampia scalinata e un portico trapezoidale.
La restituzione architettonica del monumento, meticolosamente definita dal padre Virgilio C.
Corbo dello Studium Biblicum Franciscanum, risponde perfettamente alle descrizioni di Eusebio di Cesarea (Vita Constantini, 3, 25-40), di Cirillo di Gerusalemme (Catechesi 14, 9) e della pellegrina Egeria (Peregrinatio Etheriae 24-35).
Nell’arte paleocristiana viene rappresentata spesso la Rotonda dell’Anàstasis, anche se in maniera assai sintetica, a cominciare da un gruppo di sarcofagi provenzali del tardo iv secolo, ma trova le sue manifestazioni più particolareggiate in alcuni avori, tra i quali emerge il cosiddetto dittico Trivulzio, conservato al Castello Sforzesco di Milano e datato agli esordi del v secolo.
L’unica valva superstite è suddivisa in due pannelli: nel quadro superiore è proprio rappresentato il Santo Sepolcro, come una struttura circolare finestrata e sormontata dai simboli degli evangelisti Matteo (l’angelo) e Luca (il toro), mentre due soldati romani, in primo piano, sono addormentati; nel registro inferiore l’angelo nimbato è seduto su una roccia, mentre annuncia alle due Marie la risurrezione di Cristo.
Quest’ultima scena si svolge dinanzi alla porta semiaperta del sepolcro, i cui battenti sono decorati con formelle che riproducono tre episodi evangelici, ovvero la risurrezione di Lazzaro, la chiamata di Zaccheo e la guarigione dell’emorroissa.
Il nostro itinerario attraverso le testimonianze iconografiche relative alle prime rappresentazioni della crocifissione e della risurrezione si può chiudere analizzando le decorazione delle fiaschette metalliche per pellegrini, conservate a Monza, offerte, secondo la tradizione, da Papa Gregorio Magno a Teodolinda, regina longobarda di professione cattolica romana, che si datano tra la metà del vi secolo e gli esordi del vii.
Queste ampolle contenevano gli olii delle lampade che ardevano nei santuari dei luoghi santi e rappresentano, a stampo, i simboli degli episodi che hanno ispirato la costruzione di tali complessi monumentali.
Così, in alcune di queste ampolle, vengono raffigurate simultaneamente l’anàstasis, ovvero l’annuncio dell’angelo alle donne giunte al sepolcro reso nelle forme dell’edicola costantiniana e la crocifissione, con la croce a tronco di palma, sul monte da cui sgorgano i quattro fiumi paradisiaci.
Nella sommità della croce appare il Cristo barbato, con lunghi capelli e nimbo crucigero, affiancato dai simboli del sole e della luna, per sottolineare l’atmosfera epocale che avvolge l’episodio.
Ai lati della croce, sono inginocchiati due personaggi devoti che tendono le braccia verso il simbolo centrale, mentre, a destra e a sinistra, secondo la sceneggiatura della crocifissione, si dispongono i due ladroni, seminudi e appesi al loro patibolo, e, alle estremità, si riconoscono Maria e Giovanni.
Queste rappresentazioni dimostrano come, nelle più antiche raffigurazioni della passione e della risurrezione, il concetto del dramma evocato dal patibulum è eliso dalla natura stessa della croce, che si identifica con l’albero della vita, in perfetta sintonia con la concezione trionfale che vede nell’episodio cruento della crocifissione l’antefatto e la prefigurazione della risurrezione del Cristo, evocata da quel sepolcro vuoto verso cui corrono le Marie per incontrare l’angelo che proclama il termine della storia terrena dell’Uomo, chiudendo un cerchio che si apre e che si conclude con l’annuncio dell’angelo.
(©L’Osservatore Romano – 6-7 aprile 2009) La cultura figurativa paleocristiana, proverbialmente positiva e tesa a esprimere i risvolti soterici della passio Christi, non produce, nei primi secoli, un repertorio che si soffermi, se non con rare allusioni, sulle ultime tappe della vita terrena del Salvatore e anzi, non viene neppure affrontato, dal punto di vista iconografico, il tema del martirio ordinario, tanto che per venire a contatto con le prime immagini dei campioni della fede, dobbiamo attendere il momento della pace costantiniana.

Che fatica star dietro a quel prete

“Si avvicina l’ora in cui ci sarà ancora gusto a fare il prete (…) il Signore saldi sulla Croce il tuo slancio”.
Nel dire queste parole a un giovane avviato al sacerdozio don Mazzolari parlava con piena cognizione di causa.
Fin da ragazzo aveva coltivato la virtù della vigilanza e quindi la consapevolezza che il tempo propizio, il kàiros – e l’opportunità di poterlo afferrare – è “adesso”.
Nel flusso volubile delle vicende umane, animato dalle attese del futuro o involuto e ripiegato nostalgicamente sul passato, l’attimo prezioso da cogliere al volo, e perfino con evangelica violenza – poiché “dei violenti è il Regno dei Cieli” – è proprio ora.
In tal senso anche il credente può e deve dire: carpe diem.
Il presente riflette il tempo eterno di Dio e quindi valorizza la quotidianità dell’uomo; e ciò è vero soprattutto per chi sceglie di consacrare la propria vita al servizio della Sposa di Cristo.
Il presente è il tempo del prete.
“L’adesso è la croce che va portata se uno vuol tenere dietro a Cristo.
“Adesso” è la briciola che porta tutto a Cristo.
Nella fedeltà al poco che è l'”adesso” comunico con Dio e gli rendo testimonianza (…) Non soltanto Dio, ma ogni creatura mi dà appuntamento nell'”adesso”: il mio prossimo mi dà appuntamento (…) Vi sono soluzioni che non si possono rimandare in attesa della soluzione perfetta, che non danneggi nessuno, soprattutto chi sta bene.
Chi ha fame non può attendere.
Il pane che va dato è il pane di oggi”.
Con queste parole si apre un’agile antologia di articoli mazzolariani dedicati proprio alla dimensione sacerdotale intitolata Il prete di “Adesso” (Roma, Rogate, 2009, pagine 141, euro 12 ) curata dal padre rogazionista Leonardo Sapienza, addetto al Protocollo della Prefettura della Casa Pontificia.
Sacerdote, giornalista, scrittore e partigiano, don Primo Mazzolari era nato il 13 gennaio 1890 a Cremona e morì da parroco a Bozzolo (Mantova) cinquant’anni fa il 12 aprile 1959.
Di famiglia contadina, aveva fatto i suoi studi nel seminario diocesano di Cremona, dalla seconda ginnasiale fino agli studi teologici, sotto il vescovo Geremia Bonomelli (1831-1914).
I periodi di vacanza li trascorreva a Verolanuova (Brescia) dove suo padre si era stabilito, pur mantenendo sempre stretto contatto con il resto della famiglia rimasta a Boschetto di Cremona.
Fu ordinato sacerdote il 25 agosto 1915 a Verolanuova dal vescovo di Brescia monsignor Giacinto Gaggia (1847-1933).
Il mese di esercizi spirituali di preparazione all’ordinazione Primo lo aveva trascorso a Chiari (Brescia) presso l’abbazia dei monaci benedettini francesi di Solesmes.
Nei primi otto mesi di sacerdozio fu coadiutore nella parrocchia di Spinadesco, presso Cremona, quindi fu incaricato di insegnare italiano, storia e geografia nelle prime classi ginnasiali del seminario e, allo stesso tempo, prestò servizio domenicale a Boschetto dove il parroco titolare era ammalato.
Con lo scoppio della prima guerra mondiale don Mazzolari ebbe subito il dolore di perdere il fratello Peppino caduto sul Sabotino, a nord di Gorizia.
Anch’egli fu costretto a partire per la guerra.
Dapprima da soldato semplice, quindi come caporale della sanità e infine in qualità di cappellano militare.
Dopo la guerra, nel 1920, fu destinato a Bozzolo in veste di delegato vescovile della parrocchia della Santissima Trinità rimanendovi fino al 31 dicembre 1921.
Senonché i suoi metodi pastorali e la sua ampiezza di vedute, tra cui non ultima la rispettosa e dialogante amicizia col sindaco del posto, Umberto Donini che era socialista, furono motivo di forte incomprensione e di critica da parte dell’arciprete della parrocchia principale.
A complicare le cose ci si mise, a un certo punto, anche la ferma presa di posizione di don Primo in difesa delle operaie tessili della locale fabbrica di calze.
Allora il vescovo lo nominò parroco a Cicognara di Viadana dove, con il sacerdote precedente, si erano verificati seri problemi di convivenza con la gente del luogo a causa dei fittabili della prebenda.
Don Mazzolari prese possesso della parrocchia il 31 dicembre 1921 e vi restò fino al luglio del 1932, quando il suo vescovo, monsignor Giovanni Cazzani (1867-1952) decise di trasferirlo nuovamente a Bozzolo, riunendo sotto le sue cure le due parrocchie del paesino tra le quali persisteva una sorta di campanilistico antagonismo.
L’unificazione realizzata da don Primo pose fine all’incresciosa situazione.
A Bozzolo egli sarebbe rimasto fino alla morte.
Tutti in genere gli riconoscevano un forte senso evangelico e pastorale, capace di calarsi con realismo e pertinenza nella vita concreta e nei problemi più reali e umani della gente, oltre a una grande capacità di incidere sulle coscienze.
L’autorità ecclesiastica, soprattutto per i suoi molti scritti giudicati a volte troppo arditi e provocatori a un certo punto lo colpì con diversi interdetti.
Ne La più bella avventura (1934) per esempio, don Mazzolari leggendo la parabola del figliol prodigo, aveva preso le difese del fratello minore scialacquatore e accusava il vuoto perbenismo – da schiavo più che da figlio – del fratello maggiore.
Sfortuna volle che un pastore protestante di un centro vicino si servisse di quelle pagine per polemizzare con la cattolicità.
Il libro, denunciato, da qualche caritatevole zelante, al Sant’Uffizio, fu ritirato.
Don Primo inoltre si era già segnalato a livello pubblico per essersi opposto all’arroganza del fascismo fin dai tempi della marcia su Roma e specialmente nel novembre 1925 quando, dopo l’attentato – fallito – di Tito Zaniboni a Mussolini, si rifiutò di cedere alla pretesa dei fascisti del paese che gli avevano ordinato di presiedere una funzione religiosa di ringraziamento strumentalmente stabilita per controllare chi avesse “fede fascista” senza “confondersi con la solita gente che frequenta la chiesa alla domenica”.
Don Mazzolari rispose che “la Chiesa non può prestarsi a dimostrazioni politiche di nessun genere bastando, a questa bisogna, la piazza e che Cristo non poteva essere preso a discrimine di fede politica.
Che nessuno doveva vergognarsi di mettersi in ginocchio accanto alla buona gente che si ricorda di essere cristiana non in certe occasioni soltanto, ma tutte le domeniche e che più cordialmente di tutti, perché più religiosa, avrebbe ringraziato il Signore per lo scampato pericolo del Presidente del Consiglio”.
Quando nonostante tutto i fascisti inquadrarono e irreggimentarono la popolazione, “con la minaccia del bastone e della rivoltella”, per condurla al canto del Te Deum, don Mazzolari tenne testa alla prepotenza e dopo un discorso di cinque minuti – “il Signore sa quello che ho detto, perché Lui solo me l’ha ispirato e io non ricordo più” – concluso con la recita del Padre Nostro, congedò l’assemblea.
Denunciato dalla Regia procura di Cremona ai superiori ebbe una blanda reprimenda dal vescovo monsignor Cazzani il quale intimamente approvava le posizioni del suo sacerdote e lo avrebbe dimostrato in diverse circostanze, basti solo ricordare le reiterate polemiche che il presule avrebbe avuto con Farinacci, e la forte omelia pronunciata nella cattedrale di Cremona nell’Epifania del 1939 a condanna delle leggi razziali promulgate dal fascismo.
Omelia, che lo stesso don Mazzolari avrebbe definito “magistrale”.
Negli anni della seconda guerra mondiale don Primo partecipò attivamente alla lotta di liberazione.
Si adoperò per nascondere e salvare diversi ebrei e antifascisti – ma dopo la guerra avrebbe fatto lo stesso per difendere alcune persone compromesse col regime e ingiustamente perseguitate.
Fu anche arrestato e rilasciato e dovette vivere in clandestinità fino al 25 aprile del 1945.
Nel dopoguerra fondò il periodico quindicinale “Adesso” (1949-1962) e diversi suoi scritti avrebbero attirato nuove sanzioni e richiami da parte dell’autorità ecclesiastica.
Vicende che avrebbero portato anche alla momentanea chiusura del giornale nel 1951.
Nel luglio dello stesso anno venne imposto a don Primo il divieto di predicare fuori della sua diocesi senza autorizzazione e il divieto di pubblicare articoli senza preventiva revisione dell’autorità ecclesiastica.
“Adesso” riprese le pubblicazioni, don Mazzolari però dovette apparire di meno pur continuando a scrivere sotto pseudonimo.
Negli anni Cinquanta maturò la sua visione sociale prossima alle classi più deboli e soprattutto incentrata sulle tematiche della pace con la condanna della dottrina della “guerra giusta” e dell’ideologia della vittoria (Tu non uccidere, 1955, pubblicato anonimo), espressione di quell’ideale di non violenza e di obiezione di coscienza che soprattutto nel mondo del cattolicesimo fiorentino avrebbe trovato numerosi e convinti assertori quali lo scolopio Ernesto Balducci, Giorgio La Pira, Nicola Pistelli e soprattutto don Lorenzo Milani – collaboratore e lettore assiduo di “Adesso”.
Nonostante la perdurante diffidenza e gli interdetti delle autorità ecclesiastiche – sopportate silenziosamente in sostanziale e rispettosa obbedienza, aliena da clamori e da atteggiamenti vittimistici – le visioni di don Primo Mazzolari così legate al Vangelo e all’etica delle Beatitudini avrebbero anticipato diverse prospettive pastorali e dottrinarie del concilio Vaticano ii.
E proprio negli ultimi mesi di vita il parroco di Bozzolo ricevette le prime e più alte attestazioni di stima da parte delle alte gerarchie.
È noto come Papa Giovanni xxiii ricevendolo in udienza il 5 febbraio del 1959 lo salutasse con un appellativo gioioso rimasto celebre: “La Tromba dello Spirito Santo” dopo che nel novembre del 1957 l’arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini lo aveva chiamato a predicare agli universitari.
In seguito proprio Paolo VI avrebbe detto ricordando don Primo: “Lui aveva il passo troppo lungo e noi si stentava a tenergli dietro.
Così ha sofferto lui e abbiamo sofferto anche noi.
Questo è il destino dei profeti”.
(©L’Osservatore Romano – 8 aprile 2009) Pubblichiamo un estratto dalla recentissima antologia Il prete di “Adesso” (Roma, Rogate, 2009, pagine 141, euro 12) a cura di Leonardo Sapienza.
Una sbarra tra i ricchi e i poveri di Primo Mazzolari Dicono tutti che è l’ora dei poveri, sotto nomi diversi di “povera gente”, “massa lavoratrice”, “proletariato”.
Di quest’ora che mi fa pensare all’evangelico “è giunto il momento, ed è questo” (Giovanni, 4, 23), nessuno se ne rallegra al pari di un prete, che, nonostante il “si dice”, con la povera gente vive veramente gomito a gomito in campagna e alla periferia, e vede come tira e quanto patisce: ma non vorrei che un giorno i poveri, arcistufi di tante e sviscerate concorrenti dichiarazioni di amore, dicessero a questi e a quelli: “vogliateci un po’ meno bene e trattateci un po’ meglio”.
L’allarme è (…) per timore di un possibile baratto – purtroppo già in atto un po’ ovunque – tra una “primogenitura e un piatto di lenticchie” (cfr.
Genesi, 25, 29ss.).
La colpa però di una simile tentazione, se si vuol essere onesti e non pesare soltanto su chi ha fame, ricade in gran parte su coloro che li hanno lasciati nella necessità.
Quand’uno non ne può più, come pretendere che ragioni da uomo e misuri se il baratto gli convenga o no? Molto più che da questa parte, la nostra, ove c’è la “promessa” della primogenitura, ci sono parecchi cui non importa affatto la primogenitura, si fan belli di essa al solo scopo di tener indietro coloro che offrono ai poveri il piatto di lenticchie.
Il piatto di lenticchie è prelevato su quello che credono di avere, mentre la primogenitura può divenire un comodo pretesto di resistenza al comunismo.
E molti preti abboccano e ringraziano tali infidi e poco onorevoli alleati, dimenticando che non sono i comunisti che ci perdono, ma la povera gente, la quale rimane qual era, senza “primogenitura” e senza “lenticchie”, mentre i ricchi si pappano queste e credono di avere diritto pur su quella, quasi non fosse stato detto: “È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli” (Matteo, 19, 24).
I poveri vanno amati “Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità” (1 Giovanni, 3, 18) come poveri, cioè come sono, senza far calcoli sulla loro povertà, senza pretesa o diritto di ipoteca, neanche quella di farli cittadini del Regno dei Cieli, molto meno dei proseliti.
Cittadini del Regno dei Cieli i poveri sono già per diritto di chiamata evangelica.
La carità di ogni specie non c’è bisogno che renda: è feconda e perfetta in sé quand’è vera carità.
Gesù disse al paralitico: “Alzati e cammina” (Matteo, 9, 5).
Alla parola sacramentale che opera il miracolo, non aggiunge: “E va’ in Chiesa” e molto meno: “Vota questa lista”.
Neanche un “grazie” si può pretendere, dato che la carità non è una cosa che uno possa fare o non fare, un’azione “superogatoria”, “un di più”.
Il secondo comandamento, che è simile al primo e gli fa da compimento o di riprova: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”, è un fondamentale dovere, non un consiglio.
Ed è su quello che verremo giudicati.
Per questo accade che sono molti quelli che dicono di amare i poveri e pochi coloro che li amano di cuore.
I poveri lo sanno e s’adattano al baratto, e si credono pari, mentre sul piano quantitativo son gli altri che ci guadagnano, poiché la primogenitura è come l’olio della lampada, non si può neanche imprestare (cfr.
Matteo, 25, 1 ss.).
Io prete, sprovveduto per investitura di ogni mira temporale, dovrei essere il più adatto per il “ministero dei poveri”.
La Parola è predicata ai poveri: la Grazia è per i poveri.
(Chi più povero di un peccatore?).
Tutto è per il “povero”, poiché basta essere uomo per essere “povero”, sostanzialmente e irrimediabilmente “povero”.
Prete dei poveri quindi, come si è definito, secondo il Vangelo, san Vincenzo de’ Paoli: che non fa torto a nessuno, e non scantona davanti a nessuno, poiché tutti gli uomini, i ricchi in prima fila, sono dei poveri.
La povertà è l’unica condizione dell’uomo, che il peccato ha finito per alterare al pari di ogni altra condizione: e così avviene che ci sono poveri che si credono ricchi e poveri che si rifiutano o si vergognano di esserlo.
Il primo diviene cattivo per paura di perdere ciò che stima di avere: e l’altro si incupisce per timore di essere stato defraudato.
Il benestante è malato come il fariseo.
Essendosi appropriato di qualche cosa che è solo del Padre, si crede diverso dagli altri che non hanno niente.
E davanti all’altare prega come il fariseo: “O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini…” (cfr.
Luca, 18, 11), ho casa, campi, automobile e ville.
Quando i poveri sentono pregare in tal modo e vedono che c’è qualche prete che sarebbe disposto a mettere l’imprimatur su tale preghiera, non solo si sentono offesi e umiliati, ma sono in tentazione di non credere che ci sia un Padre comune, il quale, se è vero – così ragionano nella loro disperazione – che vuol bene a tutti e può tutto, le cose di quaggiù non le dovrebbe lasciare andare così.
E i ricchi, a loro volta, ispessiti nel cuore dai loro averi e sempre timorosi di perderli, se la prendono col Signore, che mette al mondo tante bocche.
Così nessuno è contento di Dio, per questione di una ricchezza “che tignola e ruggine consumano e ladri scassinano e rubano” (Matteo, 7, 20).
E se non c’è la ruggine o la tignola, se non vengono i ladri, arriva la morte: “Stolto, questa notte tu morirai” (Luca, 12, 20).
Il sacerdote, pur avendo lo sguardo sulla condizione dell’uomo, che è di comune e irrimediabile povertà finché si rimane sul piano delle cose che “oggi sono e domani non sono” (cfr.
Matteo, 6, 30) e che anche quando sono “ingombrano invece di saziare”, si inserisce in questo momento esterrefatto del peccato, che separa gli uomini in ricchi e poveri.
Il suo ufficio non è quello di far ricchi i poveri o poveri i ricchi con accorgimenti legali o di ordine economico-sociale.
Che vi sia chi lo tenti questo lavoro di equità, è buona e doverosa cosa specialmente per un cristiano che non voglia rinnegare la fraternità.
Ed è pure buona cosa che il sacerdote inviti e suggerisca tale sforzo, che entra nei normali doveri della società cristiana; ma la sua propria funzione è di portar via il peccato, che crea le disuguaglianze e ogni male.
“Ecco l’Agnello di Dio, ecco Colui che porta via i peccati del mondo” (cfr.
Giovanni, 1, 36).
Se va via il peccato dal nostro cuore, si fa anche l'”eguaglianza” e i vasi comunicano.
E siccome il peccato è purtroppo un retaggio comune, patrimonio tanto dei ricchi come dei poveri, dato che il male è dentro di noi, e il “bicchiere va lavato dal di dentro”, il sacerdote deve predicare agli uni e agli altri: ai ricchi che fanno del possedere il “mammona”, ai poveri che misconoscono la loro grande dignità per il solo fatto che non ha contropartita immediata.
Da secoli, da quando Cristo ci ha mandato “a predicare la buona novella ai poveri” (cfr.
Luca, 4, 18) ci troviamo in questo poco comodo ufficio.
Né i poveri ci ascoltano, né i ricchi ci ascoltano: e ciò che ancor più ci umilia, par che abbiano lor buone ragioni tanto questi che quelli.
I ricchi dicono: è coi poveri contro di noi: adula i poveri per averli in mano contro di noi.
I poveri dicono: tiene coi ricchi perché sono i più forti e lo foraggiano.
Non è raro il caso che ricchi e poveri si mettan d’accordo, come Erode e Pilato, per farlo tacere (cfr.
Luca, 23, 12).
A sua volta il prete, che è un uomo, cioè un pover’uomo, come ognuno se non di più, può essere preso dalla tentazione di togliersi da questa scomoda e assurda condizione, spostandosi verso destra o verso sinistra, e non per motivi volgari, ma dietro pretesti magistralmente ragionati.
“I ricchi sono irriverenti, mangiapreti, irreligiosi, senza cuore”.
“I poveri, socialisti, bolscevichi, materialisti, atei…”.
E in una vicenda che è spirituale, si finisce con alleati e mezzi di tutt’altro genere.
Ma i ricchi, che son più accorti, ci fanno la corte volentieri, e noi ci caschiamo dentro nell’inganno: con loro contro i poveri.
D’onde le sequele di accuse e di pregiudizi che ben conosciamo e che fortunatamente non meritiamo, ma che tengono lontano ricchi e poveri dalla strada buona.
Il Regno dei Cieli non è a destra né a sinistra, né coi poveri né coi ricchi, finché ricchi e poveri si differenziano soltanto per quello che hanno, non per quello che sono.
Tra questi due fronti, che il peccato ha innalzato e che il peccato tiene in piedi, ci sta, crocifisso, il sacerdote: crocifisso tra due ladroni, uno buono l’altro un po’ meno, ma ladroni entrambi.
Questo è il suo grande e tremendo destino, aggravato dal fatto, che mentre lui ha mani e piedi inchiodati, i suoi compagni, che son legione, muovono mani e piedi, e tiran sassi e calci, l’uno contro l’altro; ma tanto i sassi come i calci finiscono contro il crocifisso che sta di mezzo e fa da sbarra.
Il prete è una sbarra che ha il cuore, e il colpo, venga da destra o da sinistra lui lo riceve nel cuore, e non può ricambiarlo, neanche lamentarsi.
Oscilla soltanto, ed è per grande carità: ma gli altri dicono che parteggia perché se viene colpito a destra oscilla verso sinistra e viceversa.
E così perde anche l’onore.
(dal periodico “Adesso”, n.
5, 1° marzo 1953).
(©L’Osservatore Romano – 8 aprile 2009)

Concordato: riforma incompiuta.

Vorrei soffermarmi, in apertura, sul contesto storico della riforma del Concordato nel 1984 e sulle prospettive che la revisione ha aperto nel nostro e in altri ordinamenti.
Vorrei trattare, cioè, del Concordato italiano del 1984 in un orizzonte riformatore più ampio rispetto al testo dell’accordo, in relazione all’ordinamento italiano e all’evoluzione del diritto europeo.
In altri termini, vorrei riprendere la lezione di Francesco Ruffini che già nell’Ottocento aveva sprovincializzato la cultura italiana introducendo e facendo conoscere le grandi acquisizioni della laicità in diversi paesi, e che per primo a livello scientifico (dopo Alexis de Tocqueville) aveva chiarito la differenza tra il separatismo amico delle Chiese degli Stati Uniti d’America e il separatismo ostile alle Chiese e alla religione della Francia illuminista.
Per la consultazione del contributo  concordato .Cardia Regno-att.
n.4, 2009, p.120

La preghiera e la scienza

Lo studio si è concentrato esclusivamente sulla religione cristiana ed è stato condotto da Uffe Schjodt, dell’università di Aarhus in Danimarca pubblicato sulla rivista Social Cognitive and Affective Neuroscience e riportato sul magazine britannico New Scientist.
Gli esperti hanno chiesto ai venti devoti volontari in prima battuta di recitare il Padrenostro o una filastrocca per bambini: in entrambi casi la risonanza magnetica mostra che nel loro cervello si accendono aree associate alla ripetizione.
Poi hanno chiesto loro di parlare con Dio, con preghiere personali, o di parlare con Babbo Natale per esprimere i propri desideri sotto l’albero.
In questo caso la risonanza mostra che si accendono le aree della conversazione e che, in particolare, quando ci si rivolge a Dio sono attive anche aree della corteccia prefrontale che servono a capire intenzioni ed emozioni altrui, cosa che succede sempre di fronte a un interlocutore in carne ed ossa.
Ciò però non avviene quando si parla con Babbo Natale.
In base a questi risultati, secondo Schjodt rivolgersi a Dio è come parlare con una persona, mentre Babbo Natale non sprigiona gli stessi effetti perché si è consapevoli dell’aspetto simbolico e lo si considera più un “oggetto”, il protagonista di una leggenda.
(7 aprile 2009) NON c’è nulla di mistico in una preghiera.
Per il nostro cervello rivolgersi a dio è come parlare a un amico in carne e ossa.
Un gruppo di scienziati ha infatti esaminato le reazioni cerebrali di un gruppo di fedeli impegnati nella ricerca di un conforto spirituale attraverso un dialogo con dio, scoprendo che si attivano le stesse aree di una normalissima conversazione.
Cosa che non capita quando ci si rivolge a Babbo Natale.
Mentre quando si recita una preghiera a memoria si attivano esclusivamente le zone adibite alla ripetizione.

Numeri e fede/9: I domatori di stelle

L’ntervista al professor Massimo Buscema Che cosa serve per fare un’eccellente matematica? «Immaginazione e rigore analitico.
L’immaginazione è la componente creativa della matematica.
È un portento del cervello, che non conosciamo.
È l’attività tramite la quale si avanzano ipotesi insolite sulla struttura invisibile del mondo, che genera quella visibile.
La capacità analitica consiste nel dimostrare logicamente e sperimentalmente tali ipotesi.
Il rigore analitico permette di raggiungere la verità ma anche di ottenere una ‘democrazia della scienza’, per cui ogni altro ricercatore può ripercorrere i tuoi passi e andare oltre.
Il matematico è come uno che salta su una stella sconosciuta e poi deve verificare se è in grado di costruire – da quella stella, fino al punto della Terra da cui è saltato – una scala che qualunque essere umano (anche non particolarmente dotato) possa percorrere».
La matematica applicata può commettere errori? «Quella che facciamo al ‘Semeion’, nel campo dell’imaging medico, si è dimostrata capace di trasformare nell’informazione-chiave ciò che da altri ricercatori era stato scartato come ‘rumore’ o inutile disturbo.
Ma la scienza non esiste se non fa errori.
Di fronte alla complessità della natura, i pensieri di un uomo di scienza non possono che essere sfumati, flessibili, spesso contraddittori.
Oggi purtroppo alcuni scienziati hanno invece pensieri categorici (e comportamenti ambigui)».
Esistono anche limiti oggettivi.
«La matematica sa individuarli.
Prima di tutto: limiti di computabilità.
Siamo in grado di calcolare l’angolo con cui rimbalza la palla sul bordo rettilineo di un biliardo.
Ma, se il biliardo ha il bordo a cresta di montagna, cioè irregolare, la traiettoria della palla è diversa.
Dopo ‘n’ rimbalzi, la differenza diventa esponenziale e la posizione della palla è sempre più imprevedibile.
Il secondo limite è l’incertezza della misurazione: quando misuro entità molto piccole, interferisco con l’entità stessa.
Un elettrone, prima che io ne verifichi la posizione, è rappresentato come una nube di probabilità, cioè potrebbe essere dovunque in un certo ‘intorno’.
Ma quando lo misuro, lo trovo in un punto specifico.
Qui nasce l’arcano: è come se chi osserva determinasse la posizione dell’elettrone.
È il sistema osservatore-osservato che fa passare un oggetto da pura informazione a materia.
Alcuni teorici hanno immaginato che lo stesso Big Bang sia un collasso della pura informazione in massa-energia.
Allora si può porre la domanda: in quella circostanza chi era l’osservatore? A livello di congettura non dimostrabile, questa domanda è ragionevole».
Che rapporto c’è tra matematica e fede? «È come se mi chiedesse: ‘In casa preferisce una finestra o un televisore?’ La finestra è essenziale per vedere ciò che succede fuori casa.
Il televisore mi serve per sapere che cosa succede nel mondo che non posso vedere dalla finestra.
Nessun architetto obbligherebbe un futuro padrone di casa a scegliere tra finestra e televisore.
Perciò non ha senso sostenere che, se sei credente, non puoi essere un bravo scienziato.
È come dire: ‘poiché hai una casa con finestre, non puoi comprare anche il televisore’.
Per quanto mi riguarda, penso che credere in un Dio-persona, come quello cristiano, mi dia il coraggio di guardare da ogni finestra e di accendere ogni televisore».
Ma allora com’è nata la contrapposizione tra scienza e fede? «La risposta è: a chi giova questa contrapposizione? Non agli scienziati, semmai a quelli che tramite la scienza acquisiscono soldi, fama e potere.
Da una ricerca risulta che credono in un Dio trascendente il 4% dei biologi, il 7% dei fisici e il 14% dei matematici.
Queste percentuali corrispondono, grosso modo, ai rispettivi flussi di finanziamento industriale che arrivano ai vari rami della ricerca.
Le multinazionali che producono tecnologia possono influenzare in maniera crescente il campo biologico e un po’ anche la fisica.
Ma molto meno i matematici.
Chi sforna prodotti ci vuole consumatori, ha interesse a far credere a ogni persona sul globo che l’imperativo è il consumo perché ‘tutto è qui, adesso’, e ‘del doman non v’è certezza’».
È nelle informazioni-chiave dell’universo e del mondo che va cercata la risposta agli interrogativi fondamentali? «Sì, e anche nelle informazioni che riguardano la singola persona.
Dobbiamo pensare all’identità di ognuno come a un’incredibile quantità organizzata di atomi.
Ma durante la sua vita, ogni individuo non fa che cedere vecchi atomi e prenderne nuovi.
È credibile che all’età di 50 anni, io non abbia più neanche un atomo di quelli che avevo a cinque anni.
Ma allora perché mi sento la stessa identità e mi ricordo anche di quando avevo cinque anni, se tutta la materia di cui ero fatto è cambiata? Dove sono stato registrato? Dov’è il disco rigido su cui è stato fatto il backup di me stesso? Non c’è.
E allora perché ho memoria? E’ più probabile che la mia identità non sia fornita dalla mia struttura bio-materiale (che cambia continuamente) ma dalla funzione matematica che connette tutte le traiettorie di qualsiasi mio atomo.
In altri termini: la mia identità è solo un’organizzazione di informazioni, un pensiero.
Ora, se tutta la complessità che esploriamo nasconde un pensiero, e se è così ben congegnato da permetterci di esistere e di formulare una domanda sensata sull’origine del cosmo, è più che ragionevole credere che l’informazione iniziale non sia stata buttata lì a casaccio.
‘Penso quindi esisto’ oppure ‘Esisto perché sono pensato’? Luigi Dell’Aglio «La matematica è l’arte di immaginare e di dimostrare, cogliendo le invarianti più astratte della realtà.
Procedendo solo con un pensiero astratto e con le sue conseguenze logiche, ci si allontana infinitamente dalla realtà ma per trovarsi, alla fine, nel cuore stesso della realtà.
Ecco il prodigio della matematica, arte di trasformare, in maniera analitica, l’impossibile nel possibile».
Questa è oggi la scienza di Euclide e Leibniz, secondo il professor Massimo Buscema, computer scientist di grande successo, che ha conseguito fama internazionale con nuovi modelli e algoritmi di intelligenza artificiale, alcuni dei quali confluiti in 14 brevetti internazionali.
È fondatore e direttore del centro di ricerche «Semeion» ed è il secondo tra gli autori più prolifici, a livello mondiale, nel campo delle reti neurali artificiali (fonte: GoPubMed 2008).
Consulente di New Scotland Yard, con il Progetto Central Drug Trafficking Database ha fornito alla più famosa polizia del mondo il know how per scoprire le rotte del traffico internazionale di droga dal momento dell’entrata e della capillare distribuzione sul territorio britannico.

Un mito contro i vecchi miti: Easy Rider

I ragazzi di Easy Rider oggi hanno quarant’anni in più.
Uno è diventato una star dello show-biz, un altro, componente della più famosa famiglia d’attori americana, si è perso per strada dopo un pugno di pellicole troppo figlie del loro tempo per poter sperare di valicarne i confini, il terzo, all’epoca anche improvvisato benché non sprovveduto regista, ricompare saltuariamente, ma regolarmente in linea col suo personaggio di outsider un po’ studiato a tavolino.
Era il 1969 quando con le loro Harley Davidson erravano per un’America insolitamente ostile alla ricerca di risposte a domande divenute tutto d’un tratto mastodontiche.
Promuovendo un nuovo mito di libertà che nascondeva la crisi d’identità di tutta una generazione.
E salvando il cinema del loro Paese ingrato grazie anche ad un pizzico d’opportunismo.
Come capita spesso alle opere che possono fregiarsi del titolo di pietre miliari, infatti, anche il paradigma del road-movie, più che un evento realmente rivoluzionario, è stato il risultato di correnti e influenze pregresse giunte a piena maturazione: ciò che ne fa un mito pressoché intramontabile, più del ribellismo dalla facile presa o di meriti strettamente artistici che oggi appaiono un po’ sbiaditi, è il fatto che non si tratta solo di un film, ma del punto d’approdo di un processo storico, sociale, cinematografico decisivo per la cultura americana.
La strada che porta alle sue interstatali sconfinate e allucinate, a ben vedere, parte da molto lontano.
Almeno da quella seconda metà degli anni Cinquanta in cui tutto sembrava congiurare contro le majors del cinema mainstream e del loro studiosystem dalla struttura piramidale, attaccato su più fronti da fattori correlati e inesorabilmente convergenti ancorché di natura diversa: leggi antitrust, diffusione massiccia della televisione, graduale deurbanizzazione della società dell’immediato dopoguerra con conseguente perdita del rito cittadino dello spettacolo del grande schermo, affermarsi di cinematografie – le nouvelles vagues europee ma anche la scena east-side del New American Cinema – che prendevano di mira i moduli espressivi pedissequamente narrativi del prodotto medio hollywoodiano.
Con una sincronicità casuale quanto si vuole, ma che non manca di ribadire l’importanza del cinema nella società americana, poi, questa crisi della fabbrica dei sogni andava a prendere forma proprio alle porte del decennio che più avrebbe fatto traballare i valori nazionali e sconvolto l’opinione pubblica.
Vietnam e attentato a Kennedy avrebbero rappresentato solo l’inizio di un processo autodistruttivo destinato a durare a lungo, ma era già abbastanza per una generazione cresciuta con il mito dell’America come nazione eletta a guidare l’occidente verso lidi di pace e prosperità.
È da questo fertile humus costituito dalla simbiotica crisi hollywoodiana e nazionale, che trae linfa vitale il nuovo cinema indipendente.
Un movimento ancora disgregato, ma già insospettabilmente vitale che intravede, nel moderno gusto europeo del primato del significato e dello stile sulla tecnica, la legittimazione a operare anche con scarsa disponibilità di mezzi; nella perdita di un tessuto di valori comuni – nonché nel contemporaneo declino del codice di autocensura Hays, caduto sotto i colpi di una realtà che lo ha reso oltremodo ipocrita e anacronistico – più d’uno spiraglio per cominciare a imbastire un discorso di revisionismo storico parallelo a quello che, di lì a poco, promuoverà “in superficie” il contro-western di stampo liberal alla Soldato blu e Piccolo grande uomo.
Ma che qui, ossia nel sottobosco delle produzioni low-budget divenute improvvisamente spavalde e aggressive, assumerà piuttosto i toni di una nuova forma di horror-movie, debitrice a sua volta dell’iconografia western di cui però esibirà generosamente un uso improprio e straniante, spogliandola così di quella vecchia mitopoietica che ora si vuole combattere a ogni costo.
Anche se pochi sul momento se ne accorgono, infatti, è in questi primi anni Sessanta che viene precocemente alla luce, grazie a un manipolo di registi destinati a rimanere per lo più nell’anonimato, quell’immagine di una provincia rurale orribilmente retrograda e violenta che avrebbe fatto la fortuna dell’horror del decennio successivo, e di pellicole destinate a divenire cult imprescindibili per generazioni di cinefili – se è vero che sopravvivono ancora oggi in una serie impressionante di varianti e remake – come Non aprite quella porta di Tobe Hooper o Le colline hanno gli occhi di Wes Craven, pietre miliari, anche in questo caso, che si sono avvalse almeno in parte di intuizioni altrui.
È l’epoca in cui comincia a serpeggiare – anche grazie all’avallo ancora scevro da ideologie di Hitchcock e del suo Psyco – un tòpos che avrebbe fatto scuola: quello che vede un gruppo di giovani forestieri abbandonare per motivi contingenti la strada maestra per inoltrarsi lungo percorsi secondari e perigliosi, dove regolarmente scopriranno un’America allergica al nuovo, e adagiata sui simboli ormai putrescenti della storia nazionale.
Da qui in avanti si moltiplicheranno case dallo stile gotico o coloniale, ancor meglio se costruite su cimiteri indiani, fregi animali che rimandano all’addomesticamento spesso brutale della wilderness e alla conquista della frontiera, vessilli di una guerra di secessione mai del tutto risolta, in virtù di lacerazioni sociali ancora imbevute di razzismo e intolleranza.
Nell’ottica della controcultura cinematografica, insomma, gli eventi fondanti della nazione smetteranno di rappresentare motivo d’orgoglio come accadeva nel vecchio cinema western per divenire simboli del rimosso della coscienza collettiva, e di un peccato originale alla luce del quale ora si vuole inquadrare tutta la storia del Paese per arrivare a comprendere quelle pericolose forze centripete di cui è diventato preda.
Quando il film del trentatreenne Dennis Hopper – attore proveniente non a caso proprio dal fulcro dello studiosystem – finalmente approda su questo terreno figurativo e tematico già in gran parte spianato, allora, il suo merito sarà semmai quello di incanalarne i caotici fermenti in un contesto più organico e persino accattivante, conciliando le istanze metaforiche della critica sociale e politica – anche qui non mancherà il martirio dei “figli” per mano dei “padri” sullo sfondo di un’America profonda e arretrata – con quelle di un nuovo vitalismo un po’ modaiolo, condito sapientemente da un uso deflagrante della colonna sonora e strizzatine d’occhio agli eccessi libertari dell’epoca.
Finendo così per rappresentare, paradossalmente, tanto il riepilogo e la celebrazione del cinema indipendente del decennio che va a concludersi, quanto già uno dei più fulgidi prodromi di quella che sarà la New Hollywood, ovvero di un nuovo cinema americano che, memore della severa lezione ricevuta da oltreoceano e dalla traumatica crisi interna, cercherà di conciliare le ragioni dello spettacolo con quelle della cosiddetta politica degli autori.
Punto cruciale di questo lunghissimo e all’epoca non ancora terminato processo di distruzione e ricostruzione, Easy Rider lungo tale direzione anticiperà, in particolare, pur con accorgimenti ruffiani che in seguito saranno meglio assorbiti dai nuovi mezzi espressivi, quella epica della contro-epica che farà grande la generazione dei cineasti degli anni Settanta – Scorsese, Coppola, Cimino – e i loro losers dalla statura tragica, capace di accogliere le contraddizioni ormai conclamate della società di cui sono espressione.
Quarant’anni fa, insomma, mentre la sua patria d’appartenenza era ancora in pieno subbuglio, il cinema americano non solo ne registrava la crisi con uno sguardo impietoso, ma ritrovava inaspettatamente se stesso tornando a fare ciò che gli era sempre riuscito meglio, ovvero nutrirsi di leggende, poco importa se moralmente irrisolte o destinate alla sconfitta.
Come quei bikers pronti a farsi inghiottire dalle fauci di un Paese cui non appartengono più.
(©L’Osservatore Romano – 3 aprile 2009)

Videoclip

A differenza del cinema o della televisione dove la musica è sottofondo o commento all’azione, nel clip essa diventa invece il nodo centrale per iniziare a raccontare una storia anche e soprattutto a livello tecnico-espressivo: ad esempio, uno degli elementi fondanti dell’immagine cinetelevisiva, il montaggio, è nel video positivamente limitato dalla presenza musicale, in quanto i suoi stacchi sono sempre scanditi dalla sezione ritmica e non viceversa.
Tutto ciò è determinato dal fatto che la canzone preesiste al filmato in quanto si tratta di un prodotto dell’industria discografica.
Cosa succede quando l’immagine è bella, ma la canzone è brutta? O viceversa quando una musica valida non è ben supportata dall’impianto figurativo? Questi interrogativi arrivano al nocciolo centrale della questione, che dunque riguarda i criteri con cui giudicare oggettivamente il valore e la qualità di un video.
La domanda però va impostata diversamente, nel senso che per una critica esaustiva su forme e contenuti del video-clip, fino a individuare il suo «specifico», non basta analizzare la compresenza dei codici musicali e figurativi ulteriormente ripartiti in sottocodici.Il fatto è che nella riuscita del clip intervengono altre componenti più psicologiche, le quali si fondano a loro volta sull’intreccio di codici espressivi quali look e telegenia.: • con look si intende tutto quanto attiene alla cura e al comportamento della persona fisica, dalla bellezza al sex-appeal, dal trucco agli abiti, dalla petti­natura agli accessori, dal modo di parlare, gesticolare, camminare fino agli hobbies preferiti e alle manie più bislacche • con telegenia si intende invece la capacità di trasferire tutte queste doti, più o meno positive, sul piccolo schermo, non solo in virtù delle capacità personali, ma anche grazie a opportuni accorgimenti intrinseci al lavoro col mezzo televisivo 
 Alla base del video-clip c’è il codice televisivo, poiché il clip è anzitutto televisione per il semplice fatto che passa e vive attraverso il monitor e poi perché molte delle immagini sono costruite con una regia e una tecnica televisive.
( immagini semoventi) Anche i clip più tradizionali, riescono a produrre effetti di irrealtà, come se il pubblico assistesse a uno spettacolo distaccato.
La maniera originale con cui è impostata, rispetto ad altri testi televisivi, la parte visiva del video-clip, è definibile, come un cinema-cinema, si tratta insomma di metalinguaggio con grande ostentazione della tecnica, dai movimenti di macchina all’alternanza di campi e piani, dai flashback alle dissolvenze, senza risparmiare le varie tipologie di montaggio.
In rapporto alla visione individuale e privata del clip da parte dei ragazzi, i consigli da fornire sono essenzialmente di tre tipi in ordine crescente 
 Il primo è non limitarsi alla fruizione esclusiva dei video o di qualsiasi altro genere televisivo (cartoons, telefilm, soap-operas, sport, ecc.), ma di impiegare il tempo libero in maniera differenziata, alternando le ore passate davanti al monitor con altre attività ricreative sia intellettuali sia motorie: oltre le solite raccomandazioni sul piacere della lettura di libri e giornali, può anche essere utile vivere in altri modi la musica stessa; dal piccolo schermo al disco o alla videocassetta, dalla riviste specializzate alla pratica esecutiva, insomma la musica deve diventare non solo un fatto visivo, ma qualcosa di assai più coinvolgente, poiché può essere guardata, ascoltata, letta, cantata, eseguita, ballata, composta, ecc.
 Il secondo è predisporsi di fronte al video-clip nella maniera meno passiva, cercando non soltanto di godersi meccanicamente uno spettacolo piacevole, ma di usare la propria intelligenza nei suoi confronti; in questo senso anche a casa, da soli o con amici, si possono improvvisare alcuni giochi col clip: ad esempio a ogni serie di video, tra uno spot e l’altro, ogni ragazzo può sceglierne uno e osservarlo con attenzione, riguardarlo con calma grazie alla videoregistrazione; e successivamente riflettere su una serie di questioni: a livello formale la scelta delle immagini, i riferimenti culturali e le associazioni psichiche che sorgono spontaneamente; a livello contenutistico l’argomento della trama, i modi in cui viene raccontata, la morale che se ne deve trarre; a un livello più profondo l’analisi del protagonista del clip, in riferimento a look e telegenia con l’impatto emotivo e il grado di piacevolezza e identificazione.
 Il terzo è verificare con amici e compagni di classe le proprie scelte, discutere con loro i propri gusti, spiegare il più chiaramente possibile i motivi delle preferenze; verificare gli interessi comuni e le cause di unanimità o divergenze su certi video, cercando di formulare un giudizio personale e critico; passare infine dalla teoria alla prassi, nel senso di provare a inventare uno storyboard o una sceneggiatura per tante occasioni: nuove immagini per quelle già note, o aggiunta della parte visiva su canzoni vecchie molto famose che non hanno mai avuto una veste iconica (magari su generi particolari come la classica o il jazz), o ancora tentare una vera e propria operazione multimediale costruendo canzone e immagine, giocando a suddividersi i ruoli con tutti.



Adolescenza

1.
Studi sull’a.
Nell’ultimo sec.
l’a.
è stata studiata da diverse scienze; le scienze psicologiche (nell’ambito delle quali ci situiamo) hanno affrontato il tema da molti punti di vista.
Ci sembra che le varie prospettive possano essere organizzate intorno a tre gruppi di studi.
In un primo gruppo di lavori, che tiene presente una preoccupazione speculativa, è possibile scorgere un tentativo di far aderire la realtà alla teoria (e non viceversa); in altri termini, la preoccupazione è quella di applicare e «imporre» alla realtà adolescenziale le caratteristiche definite aprioristicamente.
La concezione psicoanalitica, che in questo gruppo si situa, offre un’ipotesi interpretativa secondo la quale il periodo di crisi e di grande disagio proprio dell’a.
va attribuito all’emergere degli istinti e delle forze pulsionali, che provoca uno squilibrio psichico che si manifesta con quei comportamenti disadattivi, a diversi livelli di «patologia», tipici degli adolescenti; si tratta, evidentemente, di una interpretazione di tipo biologico che presenta l’a.
come una realtà con caratteristiche legate e condizionate dalla fisiologia dei soggetti.
Un secondo gruppo di studi, con preoccupazione sociologica, prende in considerazione i dati reali che emergono da incontri psicologici di tipo clinico con soggetti «atipici» o «diversi» e da osservazioni di tipo sociologico su soggetti «emarginati» o «disadattati».
Si tratta di interpretazioni di tipo socio-culturale secondo le quali l’a.
sarebbe un «prodotto» della realtà sociale delle diverse strutture nazionali ed internazionali.
A questa prospettiva interpretativa si richiama la teoria sociologica secondo la quale le difficoltà adolescenziali, ed i relativi comportamenti disadattivi, sono frutto dell’influsso della società e sono correlati al processo di socializzazione ed alla diversità di ruoli attribuiti all’adolescente.
Interpretazioni sempre di tipo sociologico, ma più complete e meno rigide, propongono categorie che consentono una più ampia e realistica visione della condizione giovanile: «marginalità», «frammentarietà», «cambio culturale», «eccedenza delle opportunità» e «lotta per l’identità».
Queste due note ipotesi interpretative della psicologia dell’a., biologica e sociale, pongono l’accento solo su uno dei due fattori di sviluppo (endogeno ed esogeno) e non tengono presente, in modo adeguato, il contributo di ciascuno e la possibilità che entrambi hanno di integrarsi.
Inoltre, vogliamo evidenziare l’insufficienza di queste posizioni poiché non vi è alcuna corrispondenza tra le caratteristiche adolescenziali da esse indicate, i conseguenti tentativi interpretativi offerti, ed i numerosi dati empirici ormai acquisiti sugli adolescenti.
Diversamente, la preoccupazione empirica è ciò che caratterizza il terzo gruppo di studi.
La realtà adolescenziale, nell’orizzonte di una definita prospettiva teorica, viene avvicinata sperimentalmente.
In altre parole, alla luce di una teoria di riferimento, una ipotesi interpretativa viene confrontata con i dati ottenuti tramite ricerche condotte su adolescenti «normali».
Se queste tre categorie di studi prese isolatamente mostrano limiti e carenze, integrandosi possono diventare una chiave di lettura molto utile per approssimarsi nel modo più adeguato e completo alla ricca realtà adolescenziale.
  2.
Pista di lettura dell’a.
Senza pretendere di essere completi e senza voler schematizzare la ricchezza della persona, proponiamo la nostra lettura della realtà adolescenziale.
Nella riflessione sull’adolescente, per avere una visione il più completa possibile, è necessario tener presente gli aspetti comportamentali, cognitivi e tendenziali della persona in sviluppo e avvicinarli alla luce di una pluralità di teorie psicologiche.
a) Capacità dell’adolescente.
L’adolescente è in grado di vedersi dall’esterno, di percepirsi oggettivamente, distaccandosi dalle prime impressioni soggettive; nello stesso tempo, si trova a dover fare i conti con l’ambiente sociale e con la sensibilità che ancora lo rende vulnerabile al giudizio altrui e che, spesso in misura notevole, condiziona e ridimensiona la sua oggettiva capacità di autorealizzazione.
Sempre in riferimento allo sviluppo cognitivo, una seconda osservazione vuole evidenziare tanto la capacità dell’adolescente di creare realtà ipotetiche e di immaginare, quanto le sue esigenze di giustizia, uguaglianza e amore universali, che appaiono come una ricerca del senso della vita, di rifiuto della realtà concreta e, alle volte, di sublimazione dei suoi desideri, pensieri e sentimenti.
La ricerca della trascendenza attraverso la modalità intellettuale è uno degli aspetti che più caratterizza l’adolescente (riconoscere questo bisogno profondo è un modo stupendo per avvicinarsi a lui).
L’adolescente ha difficoltà ad accettare i propri sentimenti; per convivere con tali sentimenti non integrati nella personalità, li «iperdifferenzia».
L’iperdifferenziazione dell’esperienza profonda lo rende «unico», lo caratterizza con una diversità tale da fargli pensare che la sua sia una realtà incomunicabile e che nessuno sia in grado di capirlo.
Il rapporto interpersonale diventa, quindi, difficile e, alle volte, impossibile; ma, poiché è doloroso vivere incompreso, può nascere in lui la ricerca di un essere così grande, così distante, e persino così diverso, da avere la capacità di capirlo e di comprenderlo.
Proprio perché emergente da questo bisogno, da questa ricerca di comprensione, definiamo il rapporto dell’adolescente con la realtà trascendente di falso ascetismo (in quanto derivante, appunto, dalla sublimazione di alcuni bisogni ai quali non si trova una risposta corrispondente).
L’adolescente si caratterizza anche per una grande apertura agli altri.
Il desiderio della socialità, generalmente, trova soddisfazione nell’incontro con il gruppo dei pari.
In esso, il giovane ha la possibilità di confrontarsi, di realizzare attività, progetti o, semplicemente, di «stare con» gli altri; inoltre, visto che il gruppo si propone come referente normativo e affettivo, progressivamente va ad affiancare e sostituire i ruoli parentali consentendo un distacco sempre maggiore dalla famiglia; infine, l’esperienza della relazione con i coetanei, costituisce un valido aiuto alla formazione del senso di identità, poiché permette all’adolescente di conoscersi e di stimarsi di più in quanto, nel gruppo, viene accettato per ciò che è e per ciò che realizza.
La capacità cognitiva di cui l’adolescente è dotato e l’importanza dell’ambiente sociale vengono ad interagire con il suo mondo profondo che comprende il passato (a volte pesante da sopportare), i sentimenti autentici, la difficoltà dell’integrazione armonica delle diverse componenti della personalità, le ambivalenze, i bisogni ed altro ancora.
In sintesi, possiamo dire che l’adolescente viene visto come una persona capace di mettersi in rapporto proattivo con il mondo circostante e di rispondere ai compiti di sviluppo che gli si presentano e che, progressivamente e armonicamente, lo portano verso la maturità.
b) Difficoltà dell’adolescente.
Anziché parlare di «problemi», parola che fa pensare a qualcosa da sopportare od a disturbi propri dell’età per cui non si può far altro che aspettare il superamento della fase, useremo le espressioni «aspetti problematici» e «punti focali» che, ci sembra, consentono di cogliere le peculiarità dell’a.
e i possibili conflitti intra ed interpersonali senza stigmatizzarli, ma leggendoli in termini processuali di impegno verso una maturità più grande.
Un primo, e generale, aspetto problematico consiste, allora, nella difficoltà che l’adolescente incontra nel compiere un’integrazione transazionale delle tre componenti (cognitiva, affettiva, relazionale) della sua personalità; soprattutto, l’adolescente trova difficoltà ad integrare l’aspetto cognitivo e quello tendenziale: malgrado abbia la capacità di auto-vedersi oggettivamente, non riesce a cogliere la positività delle sue esperienze e non riesce a dare una spiegazione soddisfacente delle proprie tendenze, dei sentimenti o di ciò che prova nelle diverse situazioni.
Un secondo, e più «banale», aspetto problematico è legato all’immagine corporea.
Non è facile per l’adolescente integrare i mutamenti corporei che, spesso, sfuggono al controllo razionale e che non sempre è possibile armonizzare in modo da sentirsi a proprio agio sia con se stessi che nel gruppo dei pari.
La conoscenza, l’accettazione e la rielaborazione dell’immagine corporea e la formazione di una adeguata identità psicosessuale, sono compiti molto impegnativi che richiedono la presenza e la mediazione di un educatore.
Un terzo punto focale è costituito dalla conquistata capacità di pensare in termini ipotetici, che porta l’adolescente a vivere in un mondo fantastico, nel quale è possibile costruire sia eventi che persone ideali.
Due conseguenze di questa conquista possono creare difficoltà all’adolescente.
In primo luogo, il cambio della relazione «reale-possibile», che conduce l’adolescente a relazionarsi con il «possibile» come se fosse «realtà», ostacola la capacità di ragionare e di comportarsi in base ai fatti concreti ed all’esperienza vissuta e riflessa.
D’altra parte, e arriviamo alla seconda conseguenza, la capacità di vedere come possibili tante risposte e tanti modi di combinare gli eventi e le risorse in suo possesso, porta l’adolescente all’incertezza, all’indecisione e, quindi, blocca la sua azione; non potendo accettare tale immobilità, nel suo disorientamento, chiede aiuto.
I problemi emergono allorché l’adolescente confronta la scelta che gli è stata consigliata, e che lui ha messo in pratica, con tutte le altre che la sua capacità di pensiero gli presenta (realizzabili o ipoteticamente possibili che siano) e constata che l’alternativa attuata è più povera di quelle che avrebbe potuto attuare.
Questa scoperta può portare l’adolescente ad un sentimento ambivalente: colpevolizza le persone da cui ha ricevuto l’orientamento (ribellione) e, successivamente, nel momento in cui riesce a vedere sia gli aspetti positivi del consiglio ricevuto sia l’interessamento delle persone adulte a cui si è rivolto in cerca di consiglio, si sente colpevole.
Un quarto aspetto problematico riguarda la vita relazionale dell’adolescente; la tendenza ad aprirsi agli altri può trasformarsi in tendenza all’isolamento per due ordini di difficoltà.
In primo luogo, la non accettazione del proprio mondo personale può portare l’adolescente a costruirsi delle «maschere sociali» che hanno lo scopo di difenderlo dai pregiudizi e dalle etichette sociali e, soprattutto, dal pericolo di venir scoperto negli aspetti negativi che crede di avere o negli aspetti che realmente ha e non gli piacciono.
In secondo luogo, la tendenza all’isolamento dell’adolescente è favorita dall’impossibilità di manifestare chiaramente e apertamente nel mondo sociale la sua ricchezza intrapsichica.
  3.
Suggerimenti educativi.
Da un punto di vista educativo è necessario partire da una concezione dell’uomo che permetta di coglierne tutta la ricchezza e che, di conseguenza, offra una visione dell’adolescente come persona che realizza in modo proprio, non solo in funzione dell’adulto che diventerà o del fanciullo che non è più, il compito di essere uomo.
Da un punto di vista psicologico in generale e della psicologia dell’a.
in particolare, è bene tener presente che un processo educativo si realizza seguendo alcuni passi.
Per prima cosa, è necessario «stare con» il soggetto in modo da conoscere la sua struttura cognitiva, il suo modo di ragionare, le sue risorse.
L’adolescente si sviluppa continuamente; le sue risposte non sono mai definitive.
È necessario saper decodificare e proporre le risposte considerandole parte di un processo, di un dinamismo in continuo sviluppo e mai come entità chiuse e definite.
Indichiamo alcune mete che, se comunicate in modo chiaro, possono essere raggiunte favorendo così la crescita dell’adolescente: accettare le opinioni per il loro valore, differire la soddisfazione dei bisogni, operare un equilibrio tra dipendenza e indipendenza, richiedere secondo le esigenze e non solo secondo le apparenze.
L’educatore deve essere in grado di capire e di accettare le risposte e le sollecitazioni che gli vengono dal mondo adolescenziale in qualsiasi modo gli arrivino; nello stesso tempo, deve essere capace di dar ragione esplicita delle sue proposte in modo tale che l’adolescente le possa accettare per il loro valore intrinseco (senza dimenticare l’importanza che la persona dell’educatore ha per l’adolescente).
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Baiocco – C.
Del Miglio, Adolescenti e nuove dipendenze.
Le basi teoriche, i fattori di rischio, la prevenzione, Bari, Laterza, 2006; Marcelli D.
A.
Bracconnier, A.
e psicopatologia, Milano, Masson, 2006; Montuschi F.
– A.
Palmonari, Nuovi adolescenti: dalla conoscenza all’incontro, Roma, EDB, 2006. A.
Arto Classicamente, l’adolescenza è considerata come il periodo della vita situato tra 1’infanzia e l’età adulta.
In termini biologici, l’inizio viene segnalato dalla pubertà e la durata, in genere, viene attribuita ad un arco di tempo che va dai 12 ai 18 anni d’età (le differenze sessuali e delle condizioni ambientali, sociali e razziali fanno oscillare questi limiti temporali).
In base ad un criterio di tipo cognitivo-sociale, l’a.
va dal momento in cui il ragazzo comincia ad essere capace di utilizzare con una certa autonomia il pensiero logico, fino a quando giunge alla piena integrazione delle sue capacità logico-cognitive ed ha la possibilità di vivere una vita indipendente a livello affettivo, economico e relazionale.

Niente storia, si studia Internet

Il nuovo programma di studi afferma che i bambini devono uscire dalle elementari in possesso di una familiarità sufficiente con le nuove forme di comunicazione digitale: dunque devono saper usare un computer e navigare su Internet, sapere cosa sono un blog e un podcast, conoscere Facebook, Twitter e Wikipedia.
La fluidità nell’uso scritto e parlato della lingua inglese deve avanzare di pari passo con quella dell’uso del web.
Per esempio, i bambini dovranno sapere come utilizzare i programmi automatici di correzione di errori di “spelling” che esistono online, così come dovranno imparare a fare lo “spelling” da soli.
Lo studio della storia, viceversa, sarà ridotto, nell’arco di tutta la scuola elementare, a due periodi del passato britannico, a scelta dell’insegnante.
Si potrà così decidere di studiare o l’era vittoriana o quella della seconda guerra mondiale, o al limite nessuna delle due, optando per altri periodi.
La ragione è che la storia patria, e quella mondiale, vengono poi ripetute alla scuola media inferiore e di nuovo in quella superiore, e gli ispettori ministeriali ritengono che non sia necessaria una duplicazione di tale studio.
Più in generale, il piano riduce dalle attuali 13 a soltanto sei le materie di studio, raggruppandole in aree di interesse: comprensione dell’inglese, delle comunicazioni e dei linguaggi; comprensione della matematica; comprensione scientifica e tecnologica; comprensione umana, sociale e ambientale; comprensione della salute fisica e dell’esercizio; comprensione delle arti e del disegno.
L’obiettivo di fondo è aumentare la flessibilità, dare agli insegnanti più libertà di scelta su cosa insegnare e su come farlo.
Coordinatore del nuovo curriculum è sir Jim Rose, ex direttore degli ispettori del ministero dell’Istruzione, nominato dal governo come esperto qualificato per la più radicale riforma della scuola elementare britannica in due generazioni.
I primi commenti sono tuttavia piuttosto critici.
Dice John Bangs, capo del dipartimento istruzione della National Union of Teachers: “E’ una riforma che sembra preoccupata di saltare sul treno degli ultimi trend alla moda, come Twitter e Wikipedia.
La capacità di usare il computer e navigare su Internet è certamente importante nel mondo di oggi, ma non mi pare una buona idea puntare su di questo a scapito della capacità di leggere e scrivere secondo i metodi tradizionali”.
Concorda Teresa Cremin, presidente della United Kingdom Literacy Association: “Siamo preoccupati dall’assenza nel nuovo programma di un impegno per una maggiore alfabetizzazione”.
E Mary Bousted, segretario generale della Association of Teachers and Lecturers, lamenta che i sindacati degli insegnanti non siano stati sufficientemente consultati: “Sono i nostri membri che dovranno insegnare questo curriculum, è inaccettabile che non venga ascoltato il nostro punto di vista”, afferma, pur lodando l’intenzione di dare agli insegnanti più flessibilità, con programmi meno rigidi e più vari.
Repubblica (25 marzo 2009) Basta con lo studio dell’era vittoriana o della seconda guerra mondiale: nelle scuole elementari britanniche, d’ora in avanti, verranno studiati piuttosto i blog, Facebook, Twitter e Wikipedia, insomma l’abc di Internet.
Il cambiamento fa parte di una rivoluzionaria riforma della scuola di primo grado, contenuta in un piano che sarà presentato formalmente il mese prossimo dal ministero dell’Istruzione.
Il nuovo curriculm di studi per le elementari, preparato da una commissione di specialisti incaricati dal ministero, è stato però anticipato da una “talpa” ministeriale al quotidiano Guardian di Londra, che stamane lo pubblica con ampio rilievo in prima pagina.
E già fioccano le reazioni, non tutte positive.

Narrare la fede… coi gialli /1

Stravaganti, irriverenti, sarcastici, con la battuta sempre pronta, occhi a palla e pelle gialla: sono i Simpson! Diciamo la verità: alzi la mano chi non ha mai sentito parlare di Homer, Marge, Bart, Lisa e della piccola Maggie (se qualcuno alza la mano, ecco pronto un bel “d’oh!” da parte dell’autore).
“I Simpson” è la serie animata televisiva più famosa e seguita da quindici anni ad oggi: incollano davanti allo schermo un pubblico abbastanza eterogeneo, che va dagli adolescenti sino agli adulti.
Cosa c’è di tanto ammaliante in questa famiglia di esseri gialli da riuscire a catturare l’attenzione di giovani e non? Ma soprattutto: che c’azzecca questa tipica famiglia della classe media americana e le sue sgangherate avventure con il percorso sulla narrazione della fede di quest’anno? Forse che un cartone animato possa esserci d’aiuto per affrontare qualche riflessione in parrocchia? Breve identikit di una famiglia-tipo all’occidentale Non è escluso che chi ora sta leggendo sappia poco o nulla della sitcom animata in questione…
Ecco quindi una breve descrizione della storia e dei personaggi.
I Simpson vivono nella città di Springfield, negli Stati Uniti: assieme alla loro eterogenea comunità, questa famiglia rappresenta in maniera umoristica e per lo più sarcastica uno spaccato della società e dello stile di vita statunitense (ma, data la sempre più diffusa “americanizzazione” che anche il nostro tessuto sociale sta conoscendo, possiamo dire che molto spesso ritrae vizi e virtù non solo degli States, ma del mondo occidentale in generis).
I personaggi Narrare la fede…
coi gialli
i Simpson Come ogni serial, anche questo comincia con la sigla che, nei modi più bizzarri e rocamboleschi, rappresenta la frenetica corsa dei componenti della famiglia per prender posto sul divano di casa e accendere la tv che trasmette proprio…
i Simpson! L’irruenza del tubo catodico nella vita moderna è la deduzione forse più banale cui si può giungere guardando la sigla in questione, ma a questa riflessione si può aggiungere una altrettanto semplice ed onesta intuizione: tutti i ragazzi hanno familiarità con i linguaggi della tv e, considerazione ancor più importante, molti di loro conoscono e seguono i Simpson.
Certo, non è questo il motivo principale per cui si è scelta la strada di tentare un approccio alla discussione sulla fede mediante questo cartone animato, ma è bene tenerlo presente, specie se ad un primo impatto questo vivace quintetto ci trasmette sensazioni contrastanti, capaci di mettere in subbuglio la nostra coscienza circa l’opportunità o meno di proporre qualche spezzone di questo serial in parrocchia.
I giovani vedono i Simpson e ridono alle loro provocatorie battute: che tutto questo possa rivelarsi utile per parlare di fede nei nostri oratori? Consapevoli del fatto che i “Simpson” sono una serie televisiva nel complesso discutibile e non adatta ai più piccoli, ma anche molto famosa e largamente seguita dai giovani, proponiamo una selezione di puntate (con relativa guida) per tentare un nuovo approccio al dialogo sulla fede nei gruppi parrocchiali.
Un altro aspetto importante di questa sitcom è che nelle svariate sfumature dei personaggi, nei loro comportamenti e caratteri non è poi così difficile intravedere delle somiglianze con i modi di pensare e di agire nostri o di persone a noi vicine.
I Simpson dunque siamo noi (anche se preferiremmo non esserlo)? In un certo modo è così.
Chiaramente non all’estremo: lungi Homer Simpson dall’essere il padre medio italiano (per fortuna non siamo ancora arrivati a questo punto!), però a ben vedere in questo cartone animato ci sono numerosi richiami ai luoghi comuni (il politico corrotto, l’imprenditore tirchio e senza scrupoli, la madre che farebbe qualunque cosa per i figli, il sacerdote dalla predica lunga e noiosa,…) e alle dinamiche classiche della nostra società (a scuola: i bulli e i secchioni, gli scontri di personalità tra l’alunno ed il professore…
e tra professore e bidello…).
Sotto questo aspetto i Simpson pongono il riflettore su diversi contesti del nostro vivere quotidiano, con il rispettivo mix di stati d’animo e con quella punta di ironia e sarcasmo che ci permette di ridere anche sui nostri difetti.