Il primo annuncio nella comunità cristiana delle origini

La Chiesa ha bisogno continuo di ritrovare la sua identità, soprattutto quando la situazione storica diventa per essa una sfida che mette in gioco la sua capacità di realizzare i propri compiti e dunque la sua stessa legittimità di Chiesa.
Per la Chiesa la memoria delle radici diventa perciò una memoria vitale.
Quindi la rilettura delle sue origini, non è un lusso; non è nemmeno pura ricerca archeologica, ma un atto di memoria vitale (un memoriale), con notevoli ripercussioni dogmatiche e pastorali.
È in quest’ottica che si pone questa ricerca, con l’intento di chiarire meglio le idee, di superare stereotipi circolanti, esaminando con cura le fonti.
per la consultazione del contributo: Il primo annuncio nella comunità cristiana delle origini da Catechesi 2008 numero 93

Lavorare con il film

Tutti hanno esperienza di che cosa sia un film.
Ci sono però modi diversi per guardare un’opera cinematografica: una modalità percettiva affidata alle emozioni, una modalità estetica attenta alla natura e alla forma del linguaggio, una modalità contenutistica che prescinde dalla qualità linguistica, una modalità infine che tiene conto di tutti gli elementi in gioco.
 Allo stesso modo si danno approcci soggettivi che lasciano il destinatario interprete autonomo dell’atto di comunicazione che il film costituisce; approcci oggettivi attenti al testo e all’intenzione dell’autore, e approcci che vedono in esso una molteplicità di processi comunicativi, che variano a seconda del destinatario e del contesto culturale e sociale, oltre che del tempo in cui viene fruita l’opera.
Ciascuno adotterà l’approccio più congeniale e utilizzerà il film nella sua interezza oppure per frammenti; ciò che importa è non prescindere – come troppo spesso accade– dalla natura specifica del linguaggio cinematografico, a meno che non si intenda fare un uso pretestuale dell’opera filmica.
L’aspetto più importante è usare il film per parlare del film e non per parlare sul fim.
Ma in classe come si può usare un film ( o parte di esso ) e attraverso quale metodologia lo si può animare? Cercando di rispondere a questa domanda ho pensato di fissare alcuni criteri molto operativi, precisamente: 1.
di distinguere i punti di vista a partire dai quali accostarsi ad un film; 2.
di precisare i tre livelli a cui è possibile focalizzare l’attenzione dello studente -spettatore; 3.
di indicare alcune strategie di intervento ed animazione Mutuando parzialmente la terminologia della analisi della narrazione mi sembra che tre siano i rilievi metodologicamente significativi: essi riguardano il punto di vista, la focalizzazione e le strategie operative mediante cui strutturare il nostro intervento.
Vediamoli nello specifico.
Il punto di vista: parlare del film, parlare sul film Il parlare sul film traduce il punto di vista che Umberto Eco, definisce della lettura pretestuale: in quest’ottica il film è selezionato in funzione illustrativa e diviene un pretesto per introdurre una problematica o trovarne conferma nella concretezza delle immagini.
Confortata dalla consuetudine dei cinedibattiti televisivi, in cui il film funge semplicemente da input alla discussione in studio di un determinato argomento questa scelta autorizza di solito impressioni superficiali, soggettive ed estemporanee e rischia di configurarsi come prassi di dialogo che per nulla contribuisce alla educazione dello sguardo spettatoriale.
Il parlare del film, invece, da corpo ad un punto di vista sostanzialmente differente, un punto di vista di tipo testuale, in ordine al quale, superata l’ottica contenutistica ed illustrativa, il film diviene un campo metodologico da attraversare – come suggerisce R Barthes – un oggetto culturale da smontare e rimontare non per autorizzare percorsi di lettura arbitrari e soggettivi, ma per elaborarne di critici, sebbene personali, sempre e comunque autorizzati dalla materialità significante del testo (i limiti dell’interpretazione, come precisa U.
Eco, sono nel testo stesso).
La focalizzazione: vedere, sapere, credere (vedere) un primo livello di focalizzazione è quello che si appunta sul vedere.
Il cinema è uno sguardo sul mondo articolato in modo sempre più personale in rapporto all’evolvere del linguaggio oltre la camera fissa, grazie a panora­miche, carrèlli, montaggio…
Registrare questo sguardo, coglierne le diverse declinazioni, è sicuramente un primo grande campo di lavoro : è l’approccio del cinefilo, inteso come colui che fa pratica empirica di conoscenza e consumo di autori, di movimenti di tendenze estetiche ed ideologiche.
(sapere) ma un film non è soltanto il luogo entro cui si organizza un vedere.
Esso, proprio attra­verso questo vedere, contribuisce al prodursi di un sapere.
Verificare come questo sapere ven­ga realizzato, ricondurlo alle logiche culturali ed alle problematiche storiche del momento in cui è stato prodotto è il compito dell”approccio filmologico, applicazione di metodologie e ca­tegorie critiche spesso proprie di altre discipline ed ambiti comunicativi (psicologia, sociologia, letteratura); (credere) quando, infine, ad essere messo a fuoco è il credere che il film induce, mediante il vedere ed in virtù del sapere che lo caratterizzano, dall’ approccio cinefilo e filmologico, siamo passati a quello valoriale, attento alle strategie comu­nicative mediante le quali il film costruisce sistemi di credenze nel pubblico (ed in questo senso si espone alla valutazione etica) o alle modalità secondo cui affronta il proprio tema.
il nodo linguistico-espressivo.
È l’aspetto grammaticale e sintattico, che comprende l’ana­lisi dei seguenti elementi: la fotografia (illuminazione, contrasto, composizione, uso della pellicola), il colore (naturale, equilibrato, valore sim­bolico delle dominanti, effetti), i campi ed i piani (tipologie, utilizzo) angolazione ed inclinazione, uso della macchina (presente, nascosta), il montaggio ed il sonoro.
La competenza attivata è quella del saper vedere; 2.
il nodo narrativo-tematìco.
E l’aspetto con­tenutistico del film, il suo dire qualcosa raccon­tando qualcosa.
Comprende i rilievi relativi a: struttura narrativa del film (prima e ultima scena, momenti topici, evoluzione), personaggi (caratteristiche, rapporti reciproci, funzioni nel racconto), contenuto (temi ricorrenti, problemati­che, funzionamento simbolico).
La competenza attivata è quella del saper comprendere; 3.
il nodo etico-valoriale.
È l’aspetto “ideologico” del film, il suo dire qualcosa in un certo modo.
Esso implica tre interventi valutativi su: dignità estetica del film (qualità artistica, com­piutezza di sviluppo, ecc.), problematiche in gioco (valutazione sul tema e su come il film ha trattato il tema), impatto sul pubblico (impegno morale del regista, ecc.).
La competenza attivata è quella del saper valutare.
Leggere il frammento A volte, quando i ragazzi non sono abituati a uno sguardo attento e a un lavoro d’analisi esteso all’intero testo filmico, può essere didatticamente più efficace lavorare sul frammento: la sequenza o la singola scena.
Spesso sono gli inizi del fim (incipit ) a prestarsi al lavoro di analisi, perché anticipano a livello strutturale – nella messa in scena, in quadro, in serie, nell’uso del sonoro – i temi e i motivi che il film svilupperà.
Analizzare il frammento prima della visione integrale del film consente ai ragazzi di realizzare per intero il percorso di analisi senza demotivarsi; permette loro di formulare ipotesi circa il testo completo e di guardare questo, in seguito, con maggiore interesse, in una prospettiva di verifica delle ipotesi formulate.
La strategia vale evidentemente per i film impegnativi, che affidano il racconto al piano della rappresentazione, piuttosto che a quello della narrazione.
Ma lavorare sul frammento ha senso anche con film che fanno leva sull’azione e su una dimensione spettacolare.
In questo caso, al percorso d’analisi che evidenzierebbe solo la povertà del testo filmico si preferirà un lavoro pretestuale a partire da una scena, un dialogo, una situazione, che permettano di portare l’attenzione sul tema che si intende affrontare al di là del film.

La vocazione nel suo «stato nascente»

1.
La vocazione La vocazione è un fatto di natura teandrica, cioè divino-umano.
Agisce Dio e agisce l’uomo singolo e anche la comunità.
L’agire di Dio coincide con l’iniziativa fondamentale, mentre l’agire dell’uomo coincide con la risposta del singolo e la verifica della comunità.
Quindi, è un fatto anche umano e umanizzante, una dinamica attuata dall’uomo ma capace di condurlo verso orizzonti di umanità decisamente irraggiungibili nella sua coscienza all’inizio del cammino.
La vocazione si verifica nel momento in cui conduce l’uomo o la donna alla loro più grande intimità, quando si prendono le decisioni della vita, ma allo stesso tempo porta alla più grande estroversione della loro storia, quando le decisioni si manifestano e si compiono.
Con la vocazione l’interiorità si apre all’Altro e a tutti gli altri in modo nuovo.
È una novità che potrebbe paragonarsi all’aurora nella vita umana.
Un chiarore, un bagliore, che poi diventa luce illuminante che consente di realizzare assolutamente tutti gli altri compiti della vita.
La vocazione, dunque, non è un fatto solo esterno all’uomo o solo divino.
Paolo VI aveva identificato bene la realtà della vocazione.
Nella Populorum Progressio egli scrisse: «Ogni vita è vocazione» (n.
2).
«La vocazione si identifica con la stessa realtà della persona: la persona semplicemente è una vocazione».
La vita di ogni uomo è una vocazione, è frutto di una chiamata.
E cogliere la vita come vocazione sarà il compito più grande dell’essere umano.
La vocazione quindi, manifesta il duplice carattere di trascendenza e di immanenza.
Dal punto di vista della trascendenza, la chiamata di Dio, la vocazione, viene dall’Alto e/o dall’esterno attraverso le persone e gli avvenimenti della propria vita, ma scaturisce contemporaneamente dal più profondo di noi stessi, e si manifesta come chiamata e sviluppo, come appello e risveglio.
Sentirsi «chiamati» significa provare un’attrattiva profonda verso particolari valori perché corrispondono ad aspirazioni profonde del proprio essere.
In fondo, la vocazione è stata seminata dentro di noi ed è promossa fuori di noi dal Signore che chiama.
La risposta è personale e irripetibile, sfumata in mille tonalità spirituali diverse, nonostante le numerose somiglianze.
Dal punto di vista dell’immanenza, la vocazione prende forma dentro la propria storia, nella scoperta delle ricchezze, dei limiti e delle potenzialità, nella lettura dei propri sentimenti, desideri, paure, sogni e delusioni, nelle aspettative e nostalgie che tutti ci portiamo dentro, nei distacchi che ci sono richiesti e negli incontri che ci viene donato di vivere.
Spesso, la vocazione, come una speciale forma d’innamoramento, sembra un fenomeno spontaneo, rapido, dovuto ad affinità esteriori, superficiali, secondarie… Mentre per arrivare alla verità completa dell’amore contenuta nell’interiorità, si parte dalle affinità esteriori.
L’amore vero poi poggia su affinità interiori profonde preannunciate e preparate da quelle più esterne.
2.
Lo «stato nascente» Il momento originante della vocazione è quasi magico.
Esso lascia nel cuore una traccia indelebile, un ricordo vivo, una luminosità travolgente, tutto cambia di senso, tutto si riorienta e tutto si ripropone alla luce di una voce soave e mite, ma forte e ferma che non tace, anzi, urla nell’intimo dell’essere umano.
La voce di colui che chiama è una voce d’amore, è un «chi-che-ama»; la vocazione allo stato nascente è la percezione di un amore grande che non lascia ombra di dubbio: Egli mi ha scelto, Egli mi chiama, Egli mi invia, Egli sarà con me! Quando ci sentiamo chiamati, sentiamo di entrare serenamente e saldamente in un oceano d’amore, o come dicono gli inglesi di «fall in love» (cadere nell’amore) o anche di essere rapiti, sedotti, di essere letteralmente «innamorati» in un atto d’amore infinito e puro.
Sentire quell’amore e sentirsi molto piccoli è la stessa cosa… Tutte le vocazioni, sia quella laicale matrimoniale, sia quella sacerdotale ministeriale, sia quella consacrata, hanno alla base una forte carica emotiva e spirituale.
La fenomenologia di questo momento iniziale cambia secondo le varie età psicologiche e cronologiche.
Comunque, quando la vocazione visita un cuore giovanile capace di dire di sì con tutto se stesso, lo stato nascente diventa travolgente e simile al sorgere dell’amore.
Infatti, ognuno di noi è sessuato (da «sexus», che in latino significa tagliato in due, sdoppiato) cioè bisognoso di completamento.
Ognuno di noi scopre gradualmente il senso della propria incompletezza e asimmetria.
Ciò che si manifesta a livello sessuale, si estende anche a livello dell’interiorità dell’amore.
La vocazione all’amore umano o all’amore di Dio costituisce l’irruzione del ricongiungimento dell’unità nella nostra radicale incompiutezza.
La vocazione fa sorgere l’amore, sia per unirsi a un altro essere umano, sia per unirsi all’amore infinito di Dio, e con ciò riporta nel proprio cuore la simmetria interna mancante nella natura umana.
La vocazione nel suo stato nascente, l’innamoramento vocazionale, quindi, è rottura di un equilibrio e di un modo di essere e suppone un esodo da sé verso l’A-altro (con maiuscole e minuscole), verso la comunione.
È un momento di uscita da sé e di entrata nell’A-altro, di apparente perdita di noi stessi e di acquisizione della ricchezza e bellezza dell’A-altro.
L’innamoramento fa uscire l’io dal guscio, lo decentra, aprendolo alla relazione interpersonale, lo libera dalla propria autosufficienza, lo costituisce come «essere in rapporto» con il «T-tu» (con maiuscole e minuscole) che lo trascende e lo attira nel suo mistero.
La vocazione, il momento dell’innamoramento, ci impone di migrare, di «lasciare la propria casa», le proprie sicurezze e le ceneri della solitudine e dell’egoismo.
Nella solitudine l’uomo avverte la sua insufficienza per essere felice «da solo», e percepisce che non saranno tanto le cose o gli avvenimenti a dare un volto nuovo alla sua vita, bensì l’incontro con una persona, con l’«A-altro» che è la fonte della propria gioia.
La vocazione è una chiamata che fa sorgere la vita in una forma mai provata prima.
Con la vocazione la tua vita è in mano a qualcun A-altro a cui senti di appartenere in modo preferenziale ed emozionante.
Cadono le barriere dell’estraneità di Dio o della persona amata.
Essi diventano familiari, vicini «di casa»; è un’esperienza di improvvisa intimità col M-mistero (con maiuscole e minuscole), S-suo e mio.
L’inizio della vocazione si concentra in un momento particolare, in un’ora («le quattro del pomeriggio», Gv 1,39), in un luogo, in una circostanza, in un ambiente, con elementi che agiscono sul conscio, ma anche sull’inconscio, ma poi si identifica con tutta la vita.
Lo stato nascente della vocazione è un momento in cui la ragione lascia partire il cuore… un momento in cui il cuore ha delle ragioni che la ragione non comprende (Pascal), e l’A-amore diventa ideale, diventa polo e calamita che attira, che trasforma e illumina tutta la realtà.
Alcuni dicono che il primo innamoramento non lascia vedere la verità – l’amore è cieco! –.
È vero che il primo innamoramento non è ancora la verità completa.
Essa è compito dello Spirito Santo.
Infatti l’innamoramento, soprattutto quello provocato dalla vocazione, ha qualcosa di religioso, di sacro.
Non per niente l’innamoramento era rappresentato da cupidi che lanciavano delle frecce al cuore degli uomini o delle donne.
L’amore è stato spesso collegato all’intervento divino nelle diverse culture (Cupido: latini; Eros: greci; Xochipilli: aztechi; Maris: etruschi).
La conclusione della fede cristiana, che ha sperimentato l’amore di Cristo, è che «l’amore viene da Dio» perché «Diò è amore» (1Gv 4,7-8).
Nell’innamoramento vero, come nella vocazione, vi è un processo di destrutturazione-ristrutturazione (lo «stato nascente») per il quale la condizione precedente perde senso e si ricostruisce nella prospettiva dell’A-amato.
Si tratta di un processo simile alla conversione religiosa, di un cambiamento grande, forte, dinamico, che spinge a modificarsi, a formarsi, a farsi degni dell’amore provato e a dare maggiore verità all’amore dichiarato.
La scoperta della vocazione provoca una forte discontinuità con la vita passata e diventa il motore della conversione, del proprio migliorare per Lui e per la missione.
La vocazione – come l’innamoramento – ci rende migliori, più buoni, più bravi, più belli.
Si tratta di un passaggio, di un cambiamento di stato.
Con la vocazione ci rendiamo conto che la nostra vita precedente era sbagliata e incompleta, che il mondo è differente da come lo vedevamo e che è necessario cambiarlo con lo sguardo e la Volontà di Dio.
Questo si percepisce nelle storie vocazionali dei profeti, dei discepoli biblici, dei santi… Nel momento della loro vocazione essi si sono resi conto che dovevano cambiare perché ciò che facevano e ricercavano nella vita era privo di senso, che il mondo doveva essere mutato e che il Signore lo voleva.
Lo stato nascente della vocazione conduce la persona ad abbandonare ciò che è noto e sicuro e a gettarsi in ciò che è ignoto, ma che la riempie di tantissimo entusiasmo e novità al punto da darle la certezza degli innamorati: «è roba da pazzi, ma io lo voglio!» La vocazione non è un ragionamento, lo include; è un fatto emotivo e intuitivo, ma non per questo folle o assurdo.
La vocazione ha un po’ il sapore della Pasqua, è un’esperienza di morte e di rinascita che genera un nuovo tipo di azione sociale, una nuova solidarietà, perciò normalmente la vocazione spinge la persona verso il prossimo, verso il bisognoso, verso colui che non ha avuto la tua fortuna, verso colui che non conosce Colui che tu conosci… I chiamati nello stato nascente cambiano, si modificano, migliorano; peccato che non sempre l’innamoramento e/o il primo colpo vocazionale perdurino con questa forma trasformante e rimanga la tendenza a non crescere, a rinunciare alla perfezione di sé, a sedersi nel cammino.
Se non si cresce nell’amore, il sorgere di altri amori o il divorzio sono una conseguenza triste, ma più che logica.
Sarà la coscienza rinnovata giorno dopo giorno, quella che renderà dinamico e crescente l’amore.
La cultura «moderna», edonistica e soggettivistica, che pretende di ridurre l’uomo a un fascio di bisogni da soddisfare, sembra aver abolito, di fatto, l’amore e la vocazione come cammino di crescita e di responsabilità.
Si pensa che la vocazione dell’uomo sia quella di star bene, ma la vocazione non ha come fine principale quello di «stare bene», poiché questo snatura la gradualità di un necessario processo formativo verso l’amore responsabile.
La vocazione ha come fine il bene dell’altro che diventa anche il mio bene, in forma superabbondante… è il 100 x 1 per cui poi «si trova più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,35).
Per la consultazione dell’intero contributo La vocazione nel suo «stato nascente»Mario Oscar Llanos Da Orientamenti pedagogici n.ro 1 del 2009.
La vocazione è l’esperienza più intima e sconvolgente del vissuto di qualsiasi uomo o donna di questo mondo.
Le età e le circostanze in cui la si sente variano da persona a persona, ma viene sperimentata come un «dono», come una «luce», come una «voce interiore», come un «brivido» che trasforma lo spirito, l’anima e il corpo.
La vocazione viene generalmente accompagnata dalla sensazione dello scarto tra ciò che ci viene proposto e ciò che noi siamo.
Si tratta di un dono asimmetrico nei confronti della nostra capacità di risposta, ma simmetrico nella sua capacità di elevare il nostro cuore fino a renderlo capace di amare l’A-altro (con maiuscole e minuscole) in un modo assolutamente nuovo.
Alla scoperta devono seguire poi varie azioni affinché il dono percepito non cada nel nulla.

Numeri e fede/10: Le cifre sono deboli

Aveva ragione Socrate, il filo­sofo impertinente, ammo­nendo gli scienziati con il suo «so di non sapere», che stupiva e irritava l’establishment ateniese.
Gli scienziati (e in particolare i ma­tematici) di oggi se ne stanno ren­dendo conto, con una meraviglia crescente.
Il «so di non sapere» rap­presenta per difetto il paradossale stato che oggi caratterizza la cono­scenza scientifica.
«Man mano che andiamo avanti, scopriamo sempre più cose, ma quello che scopriamo veramente è quanto aumenti, di continuo, tutto ciò che non cono­sciamo » dice Mario Girardi, ordina­rio di Analisi matematica all’Uni­versità Roma Tre, dove è stato per 13 anni, fino a due mesi fa, preside di Facoltà (e da 40 anni pratica uno sport, il volo in aliante, che sembra una metafora della conoscenza).
Co­me se non bastasse l’ansia socrati­ca, i ricercatori non riescono proprio a capire come mai la madre di tutte le scienze, la matematica, possa fun­zionare in modo rigoroso anche se non può dimostrare, con puri me­todi logici o con metodi elementari, la propria coerenza scientifica (vedi Kurt Godel e il suo «teorema di in­completezza »).
 L’intervista a Mario Girardi Professore, si può dire che più co­nosciamo e più diventa difficile rag­giungere la verità scientifica, data la sua galoppante complessità? «La scienza moderna s’imbatte in un’infinità di problemi, ha una vi­sione molto più ampia della com­plessità.
Appena conosciamo un pezzettino in più, ci si apre uno ster­minato orizzonte di questioni che neanche immaginavamo.
Lo può notare qualsiasi scienziato.
Faccia­mo un esempio.
Prima che venisse studiato il genoma umano, nem­meno si sospettava l’enorme vastità dei problemi che avrebbe dischiu­so.
Scoprire dove sono collocati i ge­ni non vuol dire avere scoperto la fit­ta rete di interrelazioni tra i geni.
Nel­la matematica poi esistono questio­ni classiche, a volte molto semplici nella formulazione, la cui soluzione, quando si raggiunge, è molto com­plessa (si pensi al Teorema di Fer­mat).
Tutta questa complessità che ci circonda suscita meraviglia e va in parallelo con la profonda sorpre­sa che provano i matematici».
Ma perché alla matematica manca la solidità dei fondamenti? «Abbiamo una scienza matematica così bella, rigorosa sul piano forma­le, ma i suoi fondamenti non sono affatto solidi.
E tutto questo, secon­do me, da un certo punto di vista è un’indicazione molto precisa della nostra insufficienza, cioè della ne­cessità che ci sia un qualche altro substrato».
E quali sono i fondamenti? «Le regole della logica formale che garantiscono tutto, e la struttura di base dei numeri naturali.
Ora non c’è una dimostrazione logica o una dimostrazione matematica elemen­tare che la teoria dei numeri naturali sia ‘coerente’.
Questo è un termine tecnico.
Si dice che una teoria è coe­rente quando non può dimostrare che sia vera un’affermazione e anche il suo contrario.
Viceversa una teo­ria incoerente vìola le leggi fonda­mentali della logica.
Accade se io posso dimostrare come vera sia la proposizione ‘A’ sia la negazione della proposizione ‘A’.
Si ha cioè in­coerenza quando una teoria sostie­ne che una proposizione è vera ed è falsa.
Noi dovremmo riuscire a di­mostrare, con la sola logica o con metodi matematici elementari, che la teoria dei numeri naturali, quelli che usiamo tutti i giorni, è coeren- te.
Ma, in virtù del teorema di Go­del, non lo possiamo fare».
Eppure i numeri salvano vite, fan­no correre i treni e volare gli aerei.
«Non è possibile dimostrare la coe­renza della matematica, ma questa “funziona”, ha successo.
E la cosa è quasi incredibile, è una caratteristi­ca straordinaria».
Ma è vero che, per essere bravi ma­tematici, bisogna essere atei? «Ovviamente no.
La domanda è pri­va di senso (in termini più precisi, dovrei dire che è mal posta).
Chi ab­bina matematica e ateismo cerca di confondere i piani.
Non si limita ad affermare “So di non sapere”.
Fa u­na professione di fede a rovescio.
In proposito vorrei invece sottolineare che, a mio avviso, chiunque faccia scienza non può che rimanere sor­preso e stupefatto di fronte alla realtà da conoscere.
Nonostante le difficoltà e i pro­blemi sui fonda­menti, esistono tutta una serie di segnali, che non possiamo igno­rare.
C’è da do­mandarsi: può essere soltanto un caso che tut­to funzioni in questa maniera? Esi­stono una serie di indicazioni mol­to precise – segni, segnali e “punta­tori” – sparse dovunque, che danno un altro significato a tutto quello che troviamo e vediamo.
Non ci danno certezze scientifiche: siamo stati la­sciati liberi di poter interpretare, op­pure no, questi segnali che ci cir­condano.
Ma basta sapersi guarda­re intorno».
I mass media attribuiscono grande valore scientifico all’esperimento in corso al Cern di Ginevra con il Lar­ge Hadron Collider.
L’obiettivo è tro­vare il bosone di Higgs, che il Nobel Leon Max Lederman ha definito «la particella di Dio».
Porterà a scopri­re l’intima struttura della materia? «Direi che ormai abbiamo perso completamente l’idea che sia pos­sibile conoscere l’intima struttura della realtà che ci circonda.
L’obiet­tivo dell’esperimento è la validazio­ne di un modello che comprenda tutto quello che sappiamo, che ab­biamo scoperto con un lungo per­corso nell’ambito delle particelle e­lementari, che parte dalla fisica clas­sica per proseguire con la relativi­stica e con quella quantistica.
Se verrà trovata questa particella fino­ra mai osservata, si darà una siste­mazione a tutto ciò che è noto fino ad ora sulla struttura della materia».
Non ci si spinge più in là? «Si unifica quello che si sa, ma poi si farà qualche altro passo avanti nel­la conoscenza e si scopriranno un abisso di cose in più che sono sco­nosciute.
Se nel super-acceleratore si riesce a dimostrare che quella par­ticella esiste, allora vorrà dire che il modello standard (che mette insie­me tutto ciò che si è appreso finora ) è un modello coerente.
Se non si scopre, siamo al punto di prima.
Stephen Hawking ha detto: “Come tutti gli scienziati, spero che si trovi il bosone di Higgs; Luigi Dell’Aglio

Narrare la fede… coi gialli /2

“Ridere ci avvicina alla grazia di Dio” (Karl Barth) I Simpson fanno ridere, sono sarcastici, spesso irriverenti, talvolta cinici: si potrebbe quindi avere il dubbio che sia un rischio proporli nel nostro gruppo in parrocchia.
Certo, il buonsenso ci fa sottolineare una doverosa verità: i Simpson non sono un cartone animato per bambini, in quanto i vari tipi di comicità presenti potrebbero risultare per lo più incomprensibili o addirittura urtare la sensibilità dei più piccoli.
Ma un giovane delle superiori possiede già diverse chiavi con cui poter affrontare una rilettura di certe battute e, forte della comicità –spesso contorta– di altri programmi che già segue, possiede gli strumenti per cogliere le sfumature più sottili e ha l’esperienza per carpire certi riferimenti e allusioni, andando oltre la semplice gag.
Inoltre, al di là di quello che comunemente si pensa, la volgarità non è così frequente in questa serie animata e anche per quanto concerne il turpiloquio, solamente in alcune (pochissime) puntate c’è qualche parola che va oltre le righe.
Nei Simpson c’è una satira molto stratificata: si va dalla semplice scenetta con “botta e risposta”, alle parodie di altre serie tv o programmi (alcune a dire il vero per noi incomprensibili, in quanto riferite al palinsesto statunitense), ci sono le allusioni alla cultura alta come a quella popolare e poi doppi sensi, umorismo autoreferenziale, battute che più che ridere fanno sorridere e pensare…
 tutte comicità che accendono la mente degli spettatori e che riescono a sintonizzarsi molto bene col linguaggio dei giovani (anch’esso oggi fatto di riferimenti, battute, allusioni…).
E poi spesso una battuta resta molto più impressa nella mente di qualsiasi discorso “serio”: se si ride si sta bene e si sta bene e più facile ascoltare, dialogare, aprirsi.
  Allora simpsonizziamoci e parliamo di fede In realtà l’idea di utilizzare questo cartone animato come strumento per parlare di Dio non è nuova: su internet –e non solo– se ne sta discutendo già da diverso tempo e vi sono accreditati sostenitori della tesi che dietro i Simpson ci sia una vera e propria teologia, ossia un modo di condurre l’argomento “Dio e gli uomini” con una serie di tecniche e linguaggi propri del pubblico che li sta osservando.
Questo cartoon ha una valida struttura portante che merita di essere ripresa per qualche riflessione: a riprova di questo fatto abbiamo diversi testi usciti in questi ultimi anni nelle librerie, come “Da Bart a Barth: per una teologia all’altezza dei Simpson” di Brunetto Salvarani, ma anche “I Simpson e la filosofia”, traduzione di un testo pubblicato negli States.
                                          Qualche consiglio su come poter utilizzare questo strumento:     Guardiamoci innanzitutto la puntata (20 minuti) per conto nostro: non da subito con gli occhi dell’educatore che deve riproporla ai ragazzi; inizialmente godiamocela per quello che è…
poi ne trarremo le conclusioni e penseremo a come proporla, come giocarla per poi ricavarne eventualmente un’attività.
  Ci sono delle affinità di pensiero/comportamento tra alcuni dei personaggi della puntata e i nostri giovani?   Un’attività semplice e lineare è quella di proporre la puntata (o lo stralcio di puntata) e, al termine, avviare una discussione nel gruppo.
  Ma si potrebbe anche partire dal brano del Vangelo o da una “situazione tipo” e chiedersi come avrebbero commentato la scena i vari Simpson se si fossero trovati a passare di là.
(Un Homer come avrebbe reagito all’invito di Gesù di gettare le reti e seguirlo)? Questo naturalmente richiede una buona conoscenza della serie tv da parte dei ragazzi e degli animatori.
  Tutti i “d’oh!” che ci frullano in testa.
Pensiamo al nostro rapporto con Dio, al cammino di fede, alle incoerenze, alle cadute di un Pietro che rinnega il maestro dopo averlo tanto osannato…
Diamo ai ragazzi una serie di fumetti con la scritta “d’oh!” e chiediamo loro di scrivere sul retro situazioni di contraddizione che hanno sperimentato su sé stessi nel contesto della fede.
  Affrontiamo i temi e gli stati d’animo che emergono da un brano del Vangelo chiedendo ai ragazzi se trovano dei riscontri in una puntata del cartone animato.
            Bibliografia:   –          Irwin William H., Conard Mark T.
e Skoble Aeon J.
, “I Simpson e la filosofia”, Isbn Edizioni, 2005.
  –          Salvarani Brunetto, “Da Bart a Barth.
Per una teologia all’altezza dei Simpson”, Claudiana (collana “Nostro tempo”), 2008.
  –          Salvarani Brunetto, “Dio, Homer e la ciambella”, rivista Jesus, Anno XXX, num.
2, febbraio 2008.
  –          www.thesimpson.it       Qualche consiglio su come poter utilizzare questo strumento:   Guardiamoci innanzitutto la puntata (20 minuti) per conto nostro: non da subito con gli occhi dell’educatore che deve riproporla ai ragazzi; inizialmente godiamocela per quello che è…
poi ne trarremo le conclusioni e penseremo a come proporla, come giocarla per poi ricavarne eventualmente un’attività.
    Ci sono delle affinità di pensiero/comportamento tra alcuni dei personaggi della puntata e i nostri giovani?     Un’attività semplice e lineare è quella di proporre la puntata (o lo stralcio di puntata) e, al termine, avviare una discussione nel gruppo.
    Ma si potrebbe anche partire dal brano del Vangelo o da una “situazione tipo” e chiedersi come avrebbero commentato la scena i vari Simpson se si fossero trovati a passare di là.
(Un Homer come avrebbe reagito all’invito di Gesù di gettare le reti e seguirlo)? Questo naturalmente richiede una buona conoscenza della serie tv da parte dei ragazzi e degli animatori.
    Tutti i “d’oh!” che ci frullano in testa.
Pensiamo al nostro rapporto con Dio, al cammino di fede, alle incoerenze, alle cadute di un Pietro che rinnega il maestro dopo averlo tanto osannato…
Diamo ai ragazzi una serie di fumetti con la scritta “d’oh!” e chiediamo loro di scrivere sul retro situazioni di contraddizione che hanno sperimentato su sé stessi nel contesto della fede.
    Affrontiamo i temi e gli stati d’animo che emergono da un brano del Vangelo chiedendo ai ragazzi se trovano dei riscontri in una puntata del cartone animato.
      Allora simpsonizziamoci e parliamo di fede In realtà l’idea di utilizzare questo cartone animato come strumento per parlare di Dio non è nuova: su internet –e non solo– se ne sta discutendo già da diverso tempo e vi sono accreditati sostenitori della tesi che dietro i Simpson ci sia una vera e propria teologia, ossia un modo di condurre l’argomento “Dio e gli uomini” con una serie di tecniche e linguaggi propri del pubblico che li sta osservando.
Questo cartoon ha una valida struttura portante che merita di essere ripresa per qualche riflessione: a riprova di questo fatto abbiamo diversi testi usciti in questi ultimi anni nelle librerie, come “Da Bart a Barth: per una teologia all’altezza dei Simpson” di Brunetto Salvarani, ma anche “I Simpson e la filosofia”, traduzione di un testo pubblicato negli States.
    Bibliografia:   –          Irwin William H., Conard Mark T.
e Skoble Aeon J.
, “I Simpson e la filosofia”, Isbn Edizioni, 2005.
  –          Salvarani Brunetto, “Da Bart a Barth.
Per una teologia all’altezza dei Simpson”, Claudiana (collana “Nostro tempo”), 2008.
  –          Salvarani Brunetto, “Dio, Homer e la ciambella”, rivista Jesus, Anno XXX, num.
2, febbraio 2008.
  –          www.thesimpson.it

Francesco oggi è ancora “Il giullare di Dio”?

Nel suo “Testamento” scritto poco prima di morire, Francesco annotò: “Nessuno mi insegnava quel che io dovevo fare; ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo il Santo Vangelo”.
Per questo è considerato il più grande santo della fine del Medioevo; egli fu una figura sbocciata completamente dalla grazia e dalla sua interiorità, non spiegabile per niente con l’ambiente spirituale da cui proveniva.
Ma proprio a lui toccò in un modo provvidenziale, di dare la risposta agli interrogativi più profondi del suo tempo.
Avendo messo in luce con la sua vita i principi universali del Vangelo, con una semplicità e amabilità stupefacenti, senza imporre mai nulla a nessuno, ebbe un influsso straordinario, che dura tuttora, non solo nel mondo cristiano ma anche al di fuori di esso.
Origini e gioventù Francesco, l’apostolo della povertà, in effetti era figlio di ricchi, nacque ad Assisi nei primi del 1182 da Pietro di Bernardone, agiato mercante di panni e dalla nobile Giovanna detta “la Pica”, di origine provenzale.
In omaggio alla nascita di Gesù, la religiosissima madonna Pica, volle partorire il bambino in una stalla improvvisata al pianterreno della casa paterna, in seguito detta “la stalletta” o “Oratorio di s.
Francesco piccolino”, ubicata presso la piazza principale della città umbra.
La madre in assenza del marito Pietro, impegnato in un viaggio di affari in Provenza, lo battezzò con il nome di Giovanni, in onore del Battista; ma ritornato il padre, questi volle aggiungergli il nome di Francesco che prevarrà poi sul primo.
Questo nome era l’equivalente medioevale di ‘francese’ e fu posto in omaggio alla Francia, meta dei suoi frequenti viaggi e occasioni di mercato; disse s.
Bonaventura suo biografo: “per destinarlo a continuare il suo commercio di panni franceschi”; ma forse anche in omaggio alla moglie francese, ciò spiega la familiarità con questa lingua da parte di Francesco, che l’aveva imparata dalla madre.
Crebbe tra gli agi della sua famiglia, che come tutti i ricchi del luogo, godeva dei tanti privilegi imperiali, concessi loro dal governatore della città, il duca di Spoleto Corrado di Lützen.
Come istruzione aveva appreso le nozioni essenziali presso la scuola parrocchiale di San Giorgio e le sue cognizioni letterarie erano limitate; ad ogni modo conosceva il provenzale ed era abile nel mercanteggiare le stoffe dietro gli insegnamenti del padre, che vedeva in lui un valido collaboratore e l’erede dell’attività di famiglia.
Non alto di statura, magrolino, i capelli e la barbetta scura, Francesco era estroso ed elegante, primeggiava fra i giovani, amava le allegre brigate, spendendo con una certa prodigalità il denaro paterno, tanto da essere acclamato “rex iuvenum” (re dei conviti) che lo poneva alla direzione delle feste.
Soldato e sua conversione Con la morte dell’imperatore di Germania Enrico IV (1165-1197) e l’elezione a papa del card.
Lotario di Segni, che prese il nome di Innocenzo III (1198-1216), gli scenari politici cambiarono; il nuovo papa sostenitore del potere universale della Chiesa, prese sotto la sua sovranità il ducato di Spoleto compresa Assisi, togliendolo al duca Corrado di Lützen.
Ciò portò ad una rivolta del popolo contro i nobili della città, asserviti all’imperatore e sfruttatori dei loro concittadini, essi furono cacciati dalla rocca di Assisi e si rifugiarono a Perugia; poi con l’aiuto dei perugini mossero guerra ad Assisi (1202-1203).
Francesco, con lo spirito dell’avventura che l’aveva sempre infiammato, si buttò nella lotta fra le due città così vicine e così nemiche.
Dopo la disfatta subita dai suoi concittadini a Ponte San Giovanni, egli fu fatto prigioniero dai perugini a fine 1203 e restò in carcere per un lungo terribile anno; dopo che i suoi familiari ebbero pagato un consistente riscatto, egli ritornò in famiglia con la salute ormai compromessa.
La madre lo curò amorevolmente durante la lunga malattia; ma una volta guarito egli non era più quello di prima, la sofferenza aveva scavato nel suo animo un’indelebile solco, non sentiva più nessuna attrattiva per la vita spensierata e i suoi antichi amici non potevano più stimolarlo.
Come ogni animo nobile del suo tempo, pensò di arruolarsi nella cavalleria del conte Gualtiero di Brenne, che in Puglia combatteva per il papa; ma giunto a Spoleto cadde in preda ad uno strano malessere e la notte ebbe un sogno rivelatore con una voce misteriosa che lo invitava a “servire il padrone invece che il servo” e quindi di ritornare ad Assisi.
Colpito dalla rivelazione, tornò alla sua città, accolto con preoccupazione dal padre e con una certa disapprovazione di buona parte dei concittadini.
Lasciò definitivamente le allegre brigate per dedicarsi ad una vita d’intensa meditazione e pietà, avvertendo nel suo cuore il desiderio di servire il gran Re, ma non sapendo come; andò anche in pellegrinaggio a San Pietro in Roma con la speranza di trovare chiarezza.
Ritornato deluso ad Assisi, continuò nelle opere di carità verso i poveri ed i lebbrosi, ma fu solo nell’autunno 1205 che Dio gli parlò; era assorto in preghiera nella chiesetta campestre di San Damiano e mentre fissava un crocifisso bizantino, udì per tre volte questo invito: “Francesco va’ e ripara la mia chiesa, che come vedi, cade tutta in rovina”.
Pieno di stupore, Francesco interpretò il comando come riferendosi alla cadente chiesetta di San Damiano, pertanto si mise a ripararla con il lavoro delle sue mani, utilizzando anche il denaro paterno.
A questo punto il padre, considerandolo ormai irrecuperabile, anzi pericoloso per sé e per gli altri, lo denunziò al tribunale del vescovo come dilapidatore dei beni di famiglia; notissima è la scena in cui Francesco denudatosi dai vestiti, li restituì al padre mentre il vescovo di Assisi Guido II, lo copriva con il mantello, a significare la sua protezione.
Il giovane fu affidato ai benedettini con la speranza che potesse trovare nel monastero la soddisfazione alle sue esigenze spirituali; i rapporti con i monaci furono buoni, ma non era quella la sua strada e ben presto riprese la sua vita di “araldo di Gesù re”, indossò i panni del penitente e prese a girare per le strade di Assisi e dei paesi vicini, pregando, servendo i più poveri, consolando i lebbrosi e ricostruendo oltre San Damiano, le chiesette diroccate di San Pietro alla Spira e della Porziuncola.
La vocazione alla povertà e l’inizio della sua missione Nell’aprile del 1208, durante la celebrazione della Messa alla Porziuncola, ascoltando dal celebrante la lettura del Vangelo sulla missione degli Apostoli, Francesco comprese che le parole di Gesù riportate da Matteo (10, 9-10) si riferivano a lui: “Non procuratevi oro, né argento, né moneta di rame nelle vostre cinture, né bisaccia da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché l’operaio ha diritto al suo nutrimento.
E in qualunque città o villaggio entriate, fatevi indicare se ci sia qualche persona degna, e lì rimanete fino alla vostra partenza”.
Era la risposta alle sue preghiere e domande che da tempo attendeva; comprese allora che le parole del Crocifisso a San Damiano non si riferivano alla ricostruzione del piccolo tempio, ma al rinnovamento della Chiesa nei suoi membri; depose allora i panni del penitente e prese la veste “da povero”, cingendosi i fianchi con una rude corda e coprendosi il capo con il cappuccio in uso presso i contadini del tempo e camminando a piedi scalzi.
Iniziò così la vita e missione apostolica, sposando “madonna Povertà” tanto da essere poi definito “il Poverello di Assisi”, predicando con l’esempio e la parola il Vangelo come i primi apostoli.
Francesco apparve in un momento particolarmente difficile per la vita della Chiesa, travagliata da continue crisi provocate dal sorgere di movimenti di riforma ereticali e lotte di natura politica, in cui il papato era allora uno dei principali protagonisti.
In un ambiente corrotto da ecclesiastici indegni e dalle violenze della società feudale, egli non prese alcuna posizione critica, né aspirò al ruolo di riformatore dei costumi morali della Chiesa, ma ad essa si rivolse sempre con animo di figlio devoto e obbediente.
Rendendosi interprete di sentimenti diffusi nel suo tempo, prese a predicare la pace, l’uguaglianza fra gli uomini, il distacco dalle ricchezze e la dignità della povertà, l’amore per le creature di Dio e al disopra di ogni cosa, la venuta del regno di Dio.
I primi seguaci dell’Ordine dei Frati Minori Ben presto attirati dalla sua predicazione, si affiancarono a Francesco, quelli che sarebbero diventati suoi inseparabili compagni nella nuova vita: Bernardo di Quintavalle un ricco mercante, Pietro Cattani dottore in legge, Egidio contadino e poco dopo anche Leone, Rufino, Elia, Ginepro ed altri fino al numero di dodici, proprio come gli Apostoli, formanti una specie di ‘fraternità’ di chierici e laici, che vivevano alla luce di un semplice proposito di ispirazione evangelica.
Il loro era un vivere alla lettera il Vangelo, senza preoccupazioni teologiche e senza ambizioni riformatrici o contestazioni morali, indicando così una nuova vita a chi voleva vivere in carità e povertà all’interno della Chiesa; per la loro obbedienza alla gerarchia ecclesiastica, il vescovo di Assisi Guido prese a proteggerli, seguendoli con interesse e permettendo loro di predicare.
Ai primi del 1209 il gruppo si riuniva in una capanna nella località di Rivotorto, nella pianura sottostante la città di Assisi, presso la Porziuncola, iniziando così la “prima scuola” di formazione, dove durante un intero anno Francesco trasmise ai compagni il suo carisma, alternando alla preghiera, l’assistenza ai lebbrosi, la questua per sostenersi e per riparare le chiese danneggiate.
Giacché ormai essi sconfinavano fuori dalla competenza della diocesi, e ciò poteva procurare problemi, il vescovo Guido consigliò Francesco e il suo gruppo di recarsi a Roma dal papa Innocenzo III per farsi approvare la prima breve Proto-Regola del nuovo Ordine dei Frati Minori.
Regola che fu approvata oralmente dal papa, dopo un suggestivo incontro con il gruppetto, vestito dalla rozza tunica e scalzo, colpito fra l’altro da “quel giovane piccolo dagli occhi ardenti”; nacque così ufficialmente l’Ordine dei Frati Minori, che riceveva la tonsura entrando a far parte del clero.
Chiara e le clarisse Tutta Assisi parlava delle ‘bizzarie’ del giovane Francesco, che viveva in povertà con i compagni laggiù nella pianura e che spesso saliva in città a predicare il Vangelo con il permesso del vescovo, augurando a tutti “pace e bene”; nella primavera del 1209 aveva predicato perfino nella cattedrale di S.
Rufino, dove nell’attigua piazza abitava la nobile famiglia degli Affreduccio e sicuramente in quell’occasione, fra i fedeli che ascoltavano, c’era la giovanissima figlia Chiara.
Colpita dalle sue parole, prese ad innamorarsi dei suoi ideali di povertà evangelica e cominciò a contattarlo, accompagnata dall’amica Bona di Guelfuccio e inviandogli spesso un poco di denaro.
Nella notte seguente la Domenica delle Palme del 1211, abbandonò di nascosto il suo palazzo e correndo al buio attraverso i campi, giunse fino alla Porziuncola dove chiese a Francesco di dargli Dio, quel Dio che lui aveva trovato e col quale conviveva.
Francesco, davanti all’altare della Vergine, le tagliò la bionda e lunga capigliatura (ancora oggi conservata) consacrandola al Signore.
Poi l’accompagnò al monastero delle benedettine a Bastia, per sottrarla all’ira dei parenti, i quali dopo un colloquio con Chiara che mostrò loro il capo senza capelli, si convinsero a lasciarla andare.
Successivamente Chiara e le compagne che l’avevano raggiunta, si spostò dopo alterne vicende, nel piccolo convento annesso alla chiesetta di San Damiano, dove nel 1215 a 22 anni Chiara fu nominata badessa; Francesco dettò alle “Povere donne recluse di S.
Damiano” (il nome ‘Clarisse’ fu preso dopo la morte di s.
Chiara) una prima Regola di vita, sostituita più tardi da quella della stessa santa.
Chiara con le compagne, sarà l’incarnazione al femminile dell’ideale francescano, a cui si assoceranno tante successive Congregazioni di religiose.
L’ideale missionario Francesco non desiderò solo per sé e i suoi frati, l’evangelizzazione del mondo cristiano deviato dagli originari principi evangelici, ma anche raggiungere i non credenti, specie i saraceni, come venivano chiamati allora i musulmani.
Se in quell’epoca i rapporti fra il mondo cristiano e quello musulmano erano tipicamente di lotta, Francesco volle capovolgere questa mentalità, vedendo per primo in loro dei fratelli a cui annunciare il Vangelo, non con le armi ma offrendolo con amore e se necessario subire anche il martirio.
Mandò per questo i suoi frati prima dai Mori in Spagna, dove vennero condannati a morte e poi graziati dal Sultano e dopo in Marocco, dove il gruppo di frati composti da Berardo, Pietro, Accursio, Adiuto, Ottone, mentre predicavano, furono arrestati, imprigionati, flagellati e infine decapitati il 16 gennaio 1220.
Il ritorno in Portogallo dei corpi dei protomartiri, suscitò la vocazione francescana nell’allora canonico regolare di S.
Agostino, il dotto portoghese e futuro santo, Antonio da Padova.
Francesco non si scoraggiò, nel 1219-1220 volle tentare personalmente l’impresa missionaria diretto in Marocco, ma una tempesta spinse la nave sulla costa dalmata, il secondo tentativo lo fece arrivare in Spagna, occupata dai musulmani, ma si ammalò e dovette tornare indietro, infine un terzo tentativo lo fece approdare in Palestina, dove si presentò al sultano egiziano Al-Malik al Kamil nei pressi del fiume Nilo, che lo ricevette con onore, ascoltandolo con interesse; il sultano non si convertì, ma Francesco poté dimostrare che il dialogo dell’amore poteva essere possibile fra le due religioni monoteiste, dalle comuni origini in Abramo.
La seconda Regola Verso la metà del 1220, Francesco dovette ritornare in Italia per rimettere ordine fra i suoi frati, cresciuti ormai in numero considerevole, per cui l’originaria breve Regola era diventata insufficiente con la sua rigidità.
Il Poverello non aveva inteso fondare conventi ma solo delle ‘fraternità’, piccoli gruppi di fratelli che vivessero in mezzo al mondo, mostrando che la felicità non era nel possedere le cose ma nel vivere in perfetta armonia secondo i comandamenti di Dio.
Ma la folla di frati ormai sparsi per tutta l’Italia, poneva dei problemi di organizzazione, di formazione, di studio, di adattamento alle necessità dell’apostolato in un mondo sempre in evoluzione; quindi il vivere in povertà non poteva condizionare gli altri aspetti del vivere nel mondo.
Nell’affollato “capitolo delle stuoia”, tenutosi ad Assisi nel 1221, Francesco autorizzò il dotto Antonio venuto da Lisbona, d’insegnare ai frati la sacra teologia a Bologna, specie a quelli addetti alla predicazione e alle confessioni.
La nuova Regola fu dettata da Francesco a frate Leone, accolta con soddisfazione dal cardinale protettore dell’Ordine, Ugolino de’ Conti, futuro papa Gregorio IX e da tutti i frati; venne approvata il 29 novembre 1223 da papa Onorio III.
In essa si ribadiva la povertà, il lavoro manuale, la predicazione, la missione tra gl’infedeli e l’equilibrio tra azione e contemplazione; si permetteva ai frati di avere delle Case di formazione per i novizi, si stemperò un poco il concetto di divieto della proprietà.
Il presepe vivente di Greccio La notte del 24 dicembre 1223, Francesco si sentì invadere il cuore di tenerezza e di slancio volle rivivere nella selva di Greccio, vicino Rieti, l’umile nascita di Gesù Bambino con figure viventi.
Nacque così la bella e suggestiva tradizione del Presepio nel mondo cristiano, che sarà ripresa dall’arte e dalla devozione popolare lungo i secoli successivi, con l’apporto dell’opera di grandi artisti, tale da costituire un filone dell’arte a sé stante, comprendenti orafi, scenografi, pittori, scultori, costumisti, architetti; il cui apice per magnificenza, realismo, suggestività, si ammira nel Presepe settecentesco napoletano.
Il suo Calvario personale Ormai minato nel fisico per le malattie, per le fatiche, i continui spostamenti e digiuni, Francesco fu costretto a distaccarsi dal mondo e dal governo dell’Ordine, che aveva creato pur non avendone l’intenzione.
Nell’estate del 1224 si ritirò sul Monte della Verna (Alverna) nel Casentino, insieme ad alcuni dei suoi primi compagni, per celebrare con il digiuno e intensa partecipazione alla Passione di Cristo, la “Quaresima di San Michele Arcangelo”.
La mattina del 14 settembre, festa della Esaltazione della Santa Croce, mentre pregava su un fianco del monte, vide scendere dal cielo un serafino con sei ali di fiamma e di luce, che gli si avvicinò in volo rimanendo sospeso nell’aria.
Fra le ali del serafino, Francesco vide lampeggiare la figura di un uomo con mani e piedi distesi e inchiodati ad una croce; quando la visione scomparve lasciò nel cuore di Francesco un ammirabile ardore e nella carne i segni della crocifissione; per la prima volta nella storia della santità cattolica, si era verificato il miracolo delle stimmate.
Disceso dalla Verna, visibilmente dolorante e trasformato, volle ritornare ad Assisi; era anche prostrato da varie malattie, allo stomaco, alla milza e al fegato, con frequenti emottisi, inoltre la vista lo stava lasciando, a causa di un tracoma contratto durante il suo viaggio in Oriente.
Il lungo declino fisico, il “Cantico delle creature”, la morte Dopo le ultime prediche all’inizio del 1225, Francesco si rifugiò a San Damiano, nel piccolo convento annesso alla chiesetta da lui restaurata tanti anni prima e dove viveva Chiara e le sue suore.
E in questo suggestivo e spirituale luogo di preghiera, egli compose il famoso “Cantico di frate Sole” o “Cantico delle Creature”, sublime poesia, ove si comprende quanto Francesco fosse penetrato nella più intima realtà della natura, contemplando sotto ogni creatura la presenza di Dio.
Se la fede gli aveva fatto riscoprire la fratellanza universale degli uomini, tutti figli dello stesso Padre, nel ‘Cantico’ egli coglieva il legame d’amore che lega tutte le creature, animate ed inanimate, tra loro e con l’uomo, in un abbraccio planetario di fratelli e sorelle che hanno un solo scopo, dare gloria a Dio.
In questo periodo, ospite per un certo tempo nel palazzo vescovile, dettò anche il suo famoso ‘Testamento’, l’ultimo messaggio d’amore del Poverello ai suoi figli, affinché rimanessero fedeli a madonna Povertà.
Poi per l’interessamento del cardinale Ugolino e di frate Elia, Francesco accettò di sottoporsi alle cure dei medici della corte papale a Rieti; poi ancora a Fabriano, Siena e Cortona, ma nell’estate del 1226 non solo non era migliorato, ma si fece sempre più evidente il sorgere di un’altra grave malattia, l’idropisia.
Dopo un’altra sosta a Bagnara sulle montagne vicino a Nocera Umbra, perché potesse avere un po’ di refrigerio, i frati visto l’aggravarsi delle sue condizioni, decisero di trasportarlo ad Assisi e su sua richiesta all’amata Porziuncola, dove a tarda sera del 3 ottobre 1226, Francesco morì recitando il salmo 141, adagiato sulla nuda terra: aveva circa 45 anni.
Le allodole, amanti della luce e timorose del buio, nonostante che fosse già sera, vennero a roteare sul tetto dell’infermeria, a salutare con gioia il santo, che un giorno (fra Camara e Bevagna), aveva invitato gli uccelli a cantare lodando il Signore; e in altra occasione in un campo verso Montefalco aveva tenuto loro una predica, che gli uccelli immobili ascoltarono, esplodendo poi in cinguettii e voli di gioia.
La mattina del 4 ottobre, il suo corpo fu traslato con una solenne processione dalla Porziuncola alla chiesa parrocchiale di S.
Giorgio ad Assisi, dove era stato battezzato e dove aveva cominciato nel 1208 la predicazione.
Lungo il percorso il corteo si fermò a San Damiano, dove la cassa fu aperta, affinché santa Chiara e le sue “povere donne” potessero baciargli le stimmate.
Nella chiesa di San Giorgio rimase tumulato fino al 1230, quando venne portato nella Basilica inferiore, costruita da frate Elia, diventato Ministro Generale dell’Ordine.
Intanto il 16 luglio 1228, papa Gregorio IX a meno di due anni dalla morte, proclamò santo il Poverello d’Assisi, alla presenza della madre madonna Pica, del fratello Angelo e altri parenti, del vescovo Guido di Assisi, di numerosi cardinali e vescovi e di una folla di popolo mai vista, fissandone la festa al 4 ottobre.
Il culto, le leggende, i suoi Fioretti.
Gli episodi della sua vita e dei suoi primi seguaci, furono raccolti e narrati nei “Fioretti di San Francesco”, opera di anonimo trecentesco, che contribuì nel tempo alla larga diffusione del suo culto, unitamente alla prima e seconda ‘Vita’, scritte dal suo discepolo Tommaso da Celano (1190-1260), su richiesta di papa Gregorio IX.
Alcuni episodi sono entrati nell’iconografia del santo e riprodotti dall’arte, come la predica agli uccelli, il roseto in cui si rotolò per sfuggire alla tentazione, il lupo che ammansì a Gubbio, il ricevimento delle Stimmate, ecc.
È patrono dell’Umbria e di molte città, fra le quali San Francisco negli USA che da lui prese il nome; innumerevoli sono le chiese, le parrocchie, i conventi, i luoghi pubblici che portano il suo nome; come pure tanti altri santi e beati, venuti dopo di lui, che ebbero al battesimo o adottarono nella vita religiosa il suo nome.
Il grande santo di Assisi fu riconosciuto da papa Pio XII, come il “più italiano dei santi e più santo degli italiani” e il 18 giugno 1939, lo proclamò Patrono d’Italia.
Il cammino dei suoi Frati Minori.
La Regola composta da s.
Francesco su istanza del cardinale Ugolino de’ Conti, futuro papa Gregorio IX e approvata solennemente da Onorio III nel 1223, era formata da 12 capitoli, essa prescriveva una rigida e assoluta povertà, il lavoro per procurasi il cibo e l’elemosina come mezzo sussidiario di sostentamento.
Capo dell’Ordine, che si propagò rapidamente al punto che, vivente ancora il fondatore, annoverava già 13 Province, fu un Ministro Generale.
Le costituzioni furono redatte da San Bonaventura da Bagnoregio.
Mentre ancora l’organizzazione del nuovo Movimento religioso si stava consolidando, scoppiarono i primi contrasti.
I membri dell’Ordine si divisero in due fazioni: la prima intendeva adottare forme meno severe di vita comunitaria e prescindere dall’obbligo assoluto della povertà, al fine di rendere meno difficile lo sviluppo dell’Ordine stesso; la seconda al contrario, si proponeva di uniformarsi alla lettera e allo spirito delle norme lasciate dal fondatore.
I numerosi tentativi per placare i dissensi non ebbero effetto, anzi questi si acuirono di più quando Gregorio IX con la bolla “Quo elongati” (1230), concesse ai frati, che presero in seguito il nome di ‘Conventuali’, la possibilità di ricevere beni e di amministrarli per le loro esigenze.
Nel campo opposto, correnti definite ereticali, come quelle degli spirituali e dei fraticelli, rappresentarono l’ala estrema del francescanesimo e agitarono un programma di rinnovamento religioso misto ad un’auspicabile rinascita politico-sociale, che sarebbe dovuto sfociare nell’avvento del regno dello Spirito, ma si attirarono scomuniche e persecuzioni dalle autorità ecclesiastiche e feudali.
La divisione in due Movimenti, Osservanti e Conventuali, fu sanzionata nel 1517 da papa Leone X; nel 1525 papa Clemente VII approvò il nuovo ramo dei frati Cappuccini, guidato dal frate Minore Osservante Matteo da Bascio della Marca d’Ancona, dediti ad una più austera disciplina, povertà assoluta e vita eremitica; altre famiglie francescane riformate sorsero nei secoli (Alcantarini, Riformati, Amadeiti) in seno o a fianco degli Osservanti, ma tutti obbedivano al Ministro Generale dell’Osservanza.
L’Ordine francescano comprende anche il ramo femminile, le Clarisse e il Terzo Ordine dei laici o Terziari francescani, fondati dallo stesso s.
Francesco nel 1221, per raccogliere i numerosi seguaci già sposati e di ogni ordine sociale.
L’Ordine, ai cui membri dei diversi rami, Leone XIII nel 1897, ingiunse di prendere il nome comune di Frati Minori, è tra i più notevoli della Chiesa.
Oltre alle pratiche religiose e ascetiche, essi furono e sono dediti alla predicazione, ad un apostolato di tipo sociale in luoghi di cura, e soprattutto all’opera missionaria.
La prima poesia della letteratura italiana: Il Cantico delle Creature Altissimo, onnipotente, bon Signore Tue so’ le laude, la gloria et l’honore et onne benedictione.
A te solo, Altissimo, se konfanno Et nullo homo ene digno te mentovare.
Laudato si’, mi’ Signore, cum tucte le tue creature, specialmente messer lo frate sole lo quale è iorno et allumini noi per lui, et ellu è bellu e radiante, cum grande splendore: de te, Altissimo, porta significatione.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle: in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento et per aere et nubilo et sereno et onne tempo, per lo quale alle tue creature dai sostentamento.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora acqua, la quale è molto utile et humile et pretiosa et casta.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu per lo quale enallumini la nocte ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra madre terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti fiori et herba.
Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore, et sostengo’ infirmitate et tribolatione.
Beati quelli ke le sosterranno in pace ka da te, Altissimo, sirano incoronati.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale da la quale nullo homo vivente po’ skappare.
Guai a quelli ke morranno ne le peccata mortali; beati quelli ke trovarà ne le sue sanctissime volutati, ka la morte secunda nol farrà male.
Laudate et benedicete mi’ Signore, et rengratiate et serviteli cum grande humilitate.
(S.
Francesco d’Assisi) Francesco è ancora il santo del futuro Così ha detto la regista Liliana Cavani, che gli ha dedicato due film.
«È talmente nuovo da essere inattuale: noi non siamo ancora pronti per capirlo fino in fondo».
Infatti Francesco, il poverello d’Assisi, il giullare di Dio, la cui festa è il 4 ottobre, tra i santi è una delle figure più popolari, amate e “raccontate”.
Dalle Fonti francescane ai celeberrimi affreschi di Giotto, dai Fioretti alle innumerevoli biografie romanzate, ai film, tutti hanno provato a raccontarci il “loro” Francesco.
Tra i registi che si sono occupati della sua straordinaria vicenda, Rossellini, Zeffirelli e soprattutto Liliana Cavani, che nel 1966 girò un’essenziale Francesco d’Assisi in bianco e nero e nel 1989 Francesco con Mickey Rourke.
Sempre secondo la Cavani : «Francesco è un uomo che si prende delle responsabilità verso le persone che incontra, prova simpatia, compassione, interesse, amore.
Francesco d’Assisi era uno che viveva il Vangelo alla lettera, in modo totale e ingenuo, così come ciascuno di noi ha il suo modo di interpretare il Vangelo, di vivere questa chiamata, questo incontro.
Ognuno può ricevere da lui uno stimolo a seguire il Vangelo in modo personale.
La sua caratteristica è che non riduce il Vangelo a un arzigogolo intellettualistico, a una dimostrazione di sé e nemmeno a una notizia da comunicare al mondo: Francesco non fa il comunicatore.
Sono gli altri, i suoi discepoli che lo vanno a cercare, non lui che li insegue.
Francesco d’Assisi non ha calpestato il mondo ma lo ha appena sfiorato.
A La Verna, poi, ha esercitato, oltre alla saggezza, una grande pazienza con gli organizzatori dell’Ordine, anche se lui vedeva più in là di essi e dei loro limiti.
Per la reista Francesco è sempre moderno proprio perché inattuale.
La sua è un’attualità così poetica da essere “inafferrabile”.
Anche per noi, E- speriamo- che lo sia ancora per le sue numerose famiglie che ancora riscuotono l’amicizia e l’interesse del mondo cattolico( non solo).
Il giullare di Dio All’inizio era un vero play boy.
Si comportava come quelli di Uomini e Donne: organizzava le serate e non mancava a nessuna festa o festino che si svolgeva nel suo paese.
Un giorno un uomo povero bussò alla porta di Francesco.
Gli disse: “dimmi ciò che vuoi”.
E quello, che in realtà era il Signore, gli disse “Il tuo cuore” Quando si è convertito ed ha iniziato a predicare , San Francesco non ha mai dimenticato le sue origini.
E così, mentre gli altri continuavano a frustarsi ed a far sermoni che addormentavano la gente, lui capì che per evangelizzare i popoli bisogna anche farli divertire.
E così andava in giro a cantare ed a ballare, ed a dedicare tutte le poesie d’amore che conosceva (e ne conosceva tante, visto il suo passato) al suo vero amore: Dio.
In cambio dei suoi spettacoli, il giullare di Dio non chiedeva soldi, ma chiedeva di convertirsi e credere al Vangelo.
Del resto lui, che era ricco, divenne ancor più ricco quando amò la ragazza più bella che aveva mai incontrato: la povertà.
Amava così tanto la natura che predicava agli uccelli e parlava con i lupi.
Abbracciò ed aiutò i lebbrosi, che erano come i moderni zingari.
Lo seguono ancora in tanti, che pregano, cantano ed aiutano i poveri.
Un giorno, il Vescovo ed il Signore di Assisi fecero lite.
Ma lite forte.
Ed allora Francesco arrivò, parlò del perdono, ed entrambi fecero pubblicamente pace.
Scrisse una bellissima preghiera: “Laudato si o mi Signore”.
Morì malato, ma felice e sorridente.
Se ho raccontato la storia di San Francesco è perchè è un santo diverso.
Un santo da cui dobbiamo imparare molto.
In questo mondo che ormai dà tutto per scontato, deve donarci un pò di stupore.
Nelle difficoltà deve donarci la “perfetta letizia”, perchè deve farci capire che le difficoltà della vita servono a crescere.
Al mondo sanguinante deve insegnare la Pace, e deve insegnare a far pace.
A chi non crede ispiri la speranza.
Ed ai nostri preti ed ai nostri Vescovi insegni la povertà e l’umiltà.
E faccia capire che una predica di 20 minuti non l’ ascolta nessuno.
Come diceva lui, Il Signore ci doni la Pace.
Michele, catechista( cfr.: barlo86.spaces.live.com/blog/cns!7ACC2AE9DBE70814!448.entry – 56k -) La testimonianza di questo giovane del nostro tempo , ci introduce nel modo più adatto alla presentazione di Francesco d’Assisi, ancora oggi amato e popolarissimo per la sua scelta coraggiosa di vita connotata dalla rinuncia ad ogni avere, dalla preghiera, dal rispetto per ogni creatura, tanto che è il “santo dell’ecologia”- anche se proprio non tutte le sue “famiglie” seguono alla lettera i suoi insegnamenti.
Sicuramente è il santo più popolare della tradizione cristiana.
I suoi eremi da secoli sono meta di una devozione che non ha paragoni nella storia della fede; in ogni angolo del globo a lui sono state intitolate decine di chiese e monumenti, perfino una metropoli negli States(San Francisco) porta con orgoglio il suo nome.
Di fronte a questo successo, alimentato per secoli dalla devozione di milioni di fedeli, una domanda viene spontanea: ma come fece un mercante di nome Francesco di Bernardone, nato in una modesta città dell’Umbria alla fine del 1100, a creare così tanto entusiasmo intorno a sé al punto da raggiungere nel giro di appena dieci anni l’immortalità? Non è facile dirlo.
Possiamo solamente raccontare la sua storia, secondo fonti attendibili.
Dal 15 al 18 di aprile 2009, la famiglia francescana, si riunisce alla grande per ricordare un avvenimento che ha segnato la storia della Chiesa universale: 800 anni fa, nella primavera del 1209, il papa Innocenzo III dava la sua prima approvazione alla regola di vita che frate Francesco era andato a sottoporgli.
Il “Capitolo delle stuoie”, che si svolgerà tra Assisi e Roma, non è solo celebrazione di un evento che ha mutato il volto della cristianità, ma anche memoria di un lungo percorso, talvolta travagliato ma sempre ricco di fede, della vita religiosa che in varie forme si è ispirata all’esempio del suo fondatore.
Un percorso che non è certo terminato, che è difficile, problematico, però con uno sguardo rivolto con coraggio al domani.
Ed oggi, più di ieri, l’umanità, ovvero la cristianità ha necessità di “riscoprire” stimoli fecondi per proseguire il suo cammino, magari non proprio come il “poverello d’Assisi”, ma cogliendo i suoi semi ancora troppo nuovi per l’oggi.

La Risurrezione

La domenica di Pasqua, nel messaggio al mondo dalla loggia centrale della basilica vaticana, e poi il mercoledì successivo, nell’udienza generale in piazza San Pietro, Benedetto XVI ha messo al centro della sua predicazione l’evento della risurrezione di Gesù.
L’ha fatto in coerenza con il calendario liturgico.
Ma anche con quello che è il suo obiettivo dichiarato, da papa: ravvivare la fede là dove è in pericolo di spegnersi, aprire agli uomini l’accesso a Dio: “non a un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine, in Gesù Cristo crocifisso e risorto”.
I due discorsi papali di Pasqua e del mercoledì “in albis” formano un dittico profondamente unitario, che esprime più che mai il senso di questo pontificato.
Si sa che papa Joseph Ratzinger sta scrivendo il secondo volume del suo libro “Gesù di Nazaret”, dedicato principalmente ai racconti evangelici della passione e della risurrezione di Gesù.
Pare che sia piuttosto avanti nella stesura.
In ogni caso, chi ne volesse un’anticipazione, la trova proprio nei due discorsi citati, riportati integralmente più sotto.
Benedetto XVI ha insistito sul fatto che la risurrezione di Gesù “non è una teoria, ma una realtà storica, non è un mito né un sogno, non è una visione né un’utopia, non è una favola, ma un evento unico ed irripetibile”.
E ancora: “Lo affermiamo con forza perché, anche in questi nostri tempi, non manca chi cerca di negarne la storicità riducendo il racconto evangelico a un mito, a una visione degli Apostoli, riprendendo e presentando vecchie e già consumate teorie come nuove e scientifiche”.
Già nel primo volume di “Gesù di Nazaret” papa Ratzinger aveva mostrato che questo era l’intento del suo libro: dire la verità intera su Gesù vero Dio e vero uomo.
Senza questa verità intera di Gesù crocifisso e risorto – ha insistito il papa nel messaggio di Pasqua – non c’è luce che illumini “le zone buie del mondo in cui viviamo” e “non c’è scampo per l’uomo”.
Nella catechesi del mercoledì “in albis” Benedetto XVI ha fatto un passo ulteriore.
Ha illustrato il senso della risurrezione di Gesù sulla traccia delle parole del “Credo”, la sintesi della fede cristiana che i fedeli di tutto il mondo recitano in ogni messa.
L’ha fatto risalendo a ritroso, a quel passaggio della prima lettera di Paolo ai Corinzi che è all’origine degli articoli centrali del “Credo”.
In particolare, il papa ha voluto spiegare il senso della formula che sia in san Paolo sia nel “Credo” accompagna l’annuncio della risurrezione di Gesù: “secondo le Scritture”.
Tale formula, ha detto, mostra che l’evento della morte e risurrezione del Figlio di Dio “porta in sé un logos, una logica”, l’unica capace di spiegare il significato dell’intera storia dell’uomo e del mondo.
Ma non una parola di più, qui.
Non c’è che da leggere per intero questi due straordinari testi di papa Benedetto: 2.  “È risorto il terzo giorno secondo le Scritture” di Benedetto XVI Cari fratelli e sorelle, la consueta udienza generale del mercoledì è oggi pervasa di gaudio spirituale, quel gaudio che nessuna sofferenza e pena possono cancellare, perché è gioia che scaturisce dalla certezza che Cristo, con la sua morte e risurrezione, ha definitivamente trionfato sul male e sulla morte.
“Cristo è risorto! Alleluia!”, canta la Chiesa in festa.
E questo clima festoso, questi sentimenti tipici della Pasqua, si prolungano non soltanto durante questa settimana – l’ottava di Pasqua – ma si estendono nei cinquanta giorni che vanno fino alla Pentecoste.
Anzi, possiamo dire: il mistero della Pasqua abbraccia l’intero arco della nostra esistenza.
In questo tempo liturgico sono davvero tanti i riferimenti biblici e gli stimoli alla meditazione che ci vengono offerti per approfondire il significato e il valore della Pasqua.
La “via crucis”, che nel triduo santo abbiamo ripercorso con Gesù sino al Calvario rivivendone la dolorosa passione, nella solenne veglia pasquale è diventata la consolante “via lucis”.
Visto dalla risurrezione, possiamo dire che tutta questa via della sofferenza è cammino di luce e di rinascita spirituale, di pace interiore e di salda speranza.
Dopo il pianto, dopo lo smarrimento del Venerdì Santo, seguito dal silenzio carico di attesa del Sabato Santo, all’alba del “primo giorno dopo il sabato” è risuonato con vigore l’annuncio della vita che ha sconfitto la morte: “Dux vitae mortuus regnat vivus”, il Signore della vita era morto; ma ora, vivo, trionfa.
La novità sconvolgente della risurrezione è così importante che la Chiesa non cessa di proclamarla, prolungandone il ricordo specialmente ogni domenica: ogni domenica, infatti, è “giorno del Signore” e Pasqua settimanale del popolo di Dio.
I nostri fratelli orientali, quasi a evidenziare questo mistero di salvezza che investe la nostra vita quotidiana, chiamano in lingua russa la domenica “voskrescénje”, giorno della risurrezione.
È pertanto fondamentale per la nostra fede e per la nostra testimonianza cristiana proclamare la risurrezione di Gesù di Nazaret come evento reale, storico, attestato da molti e autorevoli testimoni.
Lo affermiamo con forza perché, anche in questi nostri tempi, non manca chi cerca di negarne la storicità riducendo il racconto evangelico a un mito, ad una “visione” degli Apostoli, riprendendo e presentando vecchie e già consumate teorie come nuove e scientifiche.
Certamente la risurrezione non è stata per Gesù un semplice ritorno alla vita precedente.
In questo caso, infatti, sarebbe stata una cosa del passato: duemila anni fa uno è risorto, è ritornato alla sua vita precedente, come per esempio Lazzaro.
La risurrezione si pone in un’altra dimensione: é il passaggio ad una dimensione di vita profondamente nuova, che interessa anche noi, che coinvolge tutta la famiglia umana, la storia e l’universo.
Questo evento che ha introdotto una nuova dimensione di vita, un’apertura di questo nostro mondo verso la vita eterna, ha cambiato l’esistenza dei testimoni oculari come dimostrano i racconti evangelici e gli altri scritti neotestamentari; è un annuncio che intere generazioni di uomini e donne lungo i secoli hanno accolto con fede e hanno testimoniato non raramente a prezzo del loro sangue, sapendo che proprio così entravano in questa nuova dimensione della vita.
Anche quest’anno, a Pasqua risuona immutata e sempre nuova, in ogni angolo della terra, questa buona notizia: Gesù morto in croce è risuscitato, vive glorioso perché ha sconfitto il potere della morte, ha portato l’essere umano in una nuova comunione di vita con Dio e in Dio.
Questa è la vittoria della Pasqua, la nostra salvezza! E quindi possiamo con sant’Agostino cantare: “La risurrezione di Cristo è la nostra speranza”, perché ci introduce in un nuovo futuro.
È vero: la risurrezione di Gesù fonda la nostra salda speranza e illumina l’intero nostro pellegrinaggio terreno, compreso l’enigma umano del dolore e della morte.
La fede in Cristo crocifisso e risorto è il cuore dell’intero messaggio evangelico, il nucleo centrale del nostro “Credo”.
Di tale “Credo” essenziale possiamo trovare una espressione autorevole in un noto passo paolino, contenuto nella prima lettera ai Corinzi (15, 3-8) dove, l’Apostolo, per rispondere ad alcuni della comunità di Corinto che paradossalmente proclamavano la risurrezione di Gesù ma negavano quella dei morti – la nostra speranza –, trasmette fedelmente quello che egli, Paolo, aveva ricevuto dalla prima comunità apostolica circa la morte e risurrezione del Signore.
Egli inizia con una affermazione quasi perentoria: “Vi proclamo, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l’ho annunciato.
A meno che non abbiate creduto invano!” (15, 1-2).
Aggiunge subito di aver loro trasmesso quello che lui stesso aveva ricevuto.
Segue poi la pericope che abbiamo ascoltato all’inizio di questo nostro incontro.
San Paolo presenta innanzitutto la morte di Gesù e pone, in un testo così scarno, due aggiunte alla notizia che “Cristo morì”.
La prima aggiunta è: morì “per i nostri peccati”; la seconda è: “secondo le Scritture” (15, 3).
Questa espressione “secondo le Scritture” pone l’evento della morte del Signore in relazione con la storia dell’alleanza veterotestamentaria di Dio con il suo popolo, e ci fa comprendere che la morte del Figlio di Dio appartiene al tessuto della storia della salvezza, ed anzi ci fa capire che tale storia riceve da essa la sua logica ed il suo vero significato.
Fino a quel momento la morte di Cristo era rimasta quasi un enigma, il cui esito era ancora insicuro.
Nel mistero pasquale si compiono le parole della Scrittura, cioè, questa morte realizzata “secondo le Scritture” è un avvenimento che porta in sé un “logos”, una logica: la morte di Cristo testimonia che la Parola di Dio si è fatta sino in fondo “carne”, “storia” umana.
Come e perché ciò sia avvenuto lo si comprende dall’altra aggiunta che san Paolo fa: Cristo morì “per i nostri peccati”.
Con queste parole il testo paolino pare riprendere la profezia di Isaia contenuta nel quarto canto del Servo di Dio (Isaia 53, 12).
Il Servo di Dio – così dice il canto – “ha spogliato se stesso fino alla morte”, ha portato “il peccato di molti”, ed intercedendo per i “colpevoli” ha potuto recare il dono della riconciliazione degli uomini tra loro e degli uomini con Dio: la sua è dunque una morte che mette fine alla morte; la via della Croce porta alla Risurrezione.
Nei versetti che seguono, l’Apostolo si sofferma poi sulla risurrezione del Signore.
Egli dice che Cristo “è risorto il terzo giorno secondo le Scritture”.
Di nuovo: “secondo le Scritture”! Non pochi esegeti intravedono nell’espressione: “è risorto il terzo giorno secondo le Scritture” un significativo richiamo di quanto leggiamo nel salmo 16, dove il salmista proclama: “Non abbandonerai la mia vita negli inferi, né lascerai che il tuo fedele veda la corruzione” (v.10).
È questo uno dei testi dell’Antico Testamento, citati spesso nel cristianesimo primitivo, per provare il carattere messianico di Gesù.
Poiché secondo l’interpretazione giudaica la corruzione cominciava dopo il terzo giorno, la parola della Scrittura si adempie in Gesù che risorge il terzo giorno, prima cioè che cominci la corruzione.
San Paolo, tramandando fedelmente l’insegnamento degli Apostoli, sottolinea che la vittoria di Cristo sulla morte avviene attraverso la potenza creatrice della Parola di Dio.
Questa potenza divina reca speranza e gioia: è questo in definitiva il contenuto liberatore della rivelazione pasquale.
Nella Pasqua, Dio rivela se stesso e la potenza dell’amore trinitario che annienta le forze distruttrici del male e della morte.
Cari fratelli e sorelle, lasciamoci illuminare dallo splendore del Signore risorto.
Accogliamolo con fede e aderiamo generosamente al suo Vangelo, come fecero i testimoni privilegiati della sua risurrezione; come fece, diversi anni dopo, san Paolo che incontrò il divino Maestro in modo straordinario sulla via di Damasco.
Non possiamo tenere solo per noi l’annuncio di questa verità che cambia la vita di tutti.
E con umile fiducia preghiamo: “Gesù, che risorgendo dai morti hai anticipato la nostra risurrezione, noi crediamo in Te!”.
Mi piace concludere con una esclamazione che amava ripetere Silvano del Monte Athos: “Gioisci, anima mia.
È sempre Pasqua, perché Cristo risorto è la nostra risurrezione!”.
Ci aiuti la Vergine Maria a coltivare in noi, e attorno a noi, questo clima di gioia pasquale, per essere testimoni dell’Amore divino in ogni situazione della nostra esistenza.
Ancora una volta, buona Pasqua a voi tutti! __________ Tutte le omelie pronunciate da Benedetto XVI nella settimana santa di quest’anno, nel sito del Vaticano: > Omelie 2009 1.  “La risurrezione di Cristo è la nostra speranza” di Benedetto XVI Cari fratelli e sorelle di Roma e del mondo intero! Formulo di cuore a voi tutti l’augurio pasquale con le parole di sant’Agostino: “Resurrectio Domini, spes nostra”, la risurrezione del Signore è la nostra speranza (Agostino, Sermo 261, 1).
Con questa affermazione, il grande vescovo spiegava ai suoi fedeli che Gesù è risorto perché noi, pur destinati alla morte, non disperassimo, pensando che con la morte la vita sia totalmente finita; Cristo è risorto per darci la speranza.
In effetti, una delle domande che più angustiano l’esistenza dell’uomo è proprio questa: che cosa c’è dopo la morte? A quest’enigma la solennità odierna ci permette di rispondere che la morte non ha l’ultima parola, perché a trionfare alla fine è la Vita.
E questa nostra certezza non si fonda su semplici ragionamenti umani, bensì su uno storico dato di fede: Gesù Cristo, crocifisso e sepolto, è risorto con il suo corpo glorioso.
Gesù è risorto perché anche noi, credendo in Lui, possiamo avere la vita eterna.
Questo annuncio sta nel cuore del messaggio evangelico.
Lo dichiara con vigore san Paolo: “Se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede”.
E aggiunge: “Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini” (1 Corinzi 15,14.19).
Dall’alba di Pasqua una nuova primavera di speranza investe il mondo; da quel giorno la nostra risurrezione è già cominciata, perché la Pasqua non segna semplicemente un momento della storia, ma l’avvio di una nuova condizione: Gesù è risorto non perché la sua memoria resti viva nel cuore dei suoi discepoli, bensì perché Egli stesso viva in noi e in Lui possiamo già gustare la gioia della vita eterna.
La risurrezione pertanto non è una teoria, ma una realtà storica rivelata dall’Uomo Gesù Cristo mediante la sua “pasqua”, il suo “passaggio”, che ha aperto una “nuova via” tra la terra e il Cielo (cfr Ebrei 10,20).
Non è un mito né un sogno, non è una visione né un’utopia, non è una favola, ma un evento unico ed irripetibile: Gesù di Nazaret, figlio di Maria, che al tramonto del venerdì è stato deposto dalla croce e sepolto, ha lasciato vittorioso la tomba.
Infatti all’alba del primo giorno dopo il sabato, Pietro e Giovanni hanno trovato la tomba vuota.
Maddalena e le altre donne hanno incontrato Gesù risorto; lo hanno riconosciuto anche i due discepoli di Emmaus allo spezzare il pane; il Risorto è apparso agli Apostoli la sera nel cenacolo e quindi a molti altri discepoli in Galilea.
L’annuncio della risurrezione del Signore illumina le zone buie del mondo in cui viviamo.
Mi riferisco particolarmente al materialismo e al nichilismo, a quella visione del mondo che non sa trascendere ciò che è sperimentalmente constatabile, e ripiega sconsolata in un sentimento del nulla che sarebbe il definitivo approdo dell’esistenza umana.
È un fatto che se Cristo non fosse risorto, il “vuoto” sarebbe destinato ad avere il sopravvento.
Se togliamo Cristo e la sua risurrezione, non c’è scampo per l’uomo e ogni sua speranza rimane un’illusione.
Ma proprio oggi prorompe con vigore l’annuncio della risurrezione del Signore, ed è risposta alla ricorrente domanda degli scettici, riportata anche dal libro di Qoelet: “C’è forse qualcosa di cui si possa dire: Ecco, questa è una novità?” (1,10).
Sì, rispondiamo: nel mattino di Pasqua tutto si è rinnovato.
“Mors et vita duello conflixere mirando: dux vitae mortuus regnat vivus”, morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello; il Signore della vita era morto, ma ora, vivo, trionfa.
Questa è la novità! Una novità che cambia l’esistenza di chi l’accoglie, come avvenne nei santi.
Così, ad esempio, è accaduto per san Paolo.
Più volte, nel contesto dell’Anno Paolino, abbiamo avuto modo di meditare sull’esperienza del grande Apostolo.
Saulo di Tarso, l’accanito persecutore dei cristiani, sulla via di Damasco incontrò Cristo risorto e fu da Lui “conquistato”.
Il resto ci è noto.
Avvenne in Paolo quel che più tardi egli scriverà ai cristiani di Corinto: “Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove” (2 Corinzi 5, 17).
Guardiamo a questo grande evangelizzatore, che con l’entusiasmo audace della sua azione apostolica, ha recato il Vangelo a tante popolazioni del mondo di allora.
Il suo insegnamento e il suo esempio ci stimolino a ricercare il Signore Gesù.
Ci incoraggino a fidarci di Lui, perché ormai il senso del nulla, che tende ad intossicare l’umanità, è stato sopraffatto dalla luce e dalla speranza che promanano dalla risurrezione.
Ormai sono vere e reali le parole del Salmo: “Nemmeno le tenebre per te sono tenebre e la notte è luminosa come il giorno” (139[138],12).
Non è più il nulla che avvolge ogni cosa, ma la presenza amorosa di Dio.
Addirittura il regno stesso della morte è stato liberato, perché anche negli “inferi” è arrivato il Verbo della vita, sospinto dal soffio dello Spirito (v.
8).
Se è vero che la morte non ha più potere sull’uomo e sul mondo, tuttavia rimangono ancora tanti, troppi segni del suo vecchio dominio.
Se mediante la Pasqua, Cristo ha estirpato la radice del male, ha però bisogno di uomini e donne che in ogni tempo e luogo lo aiutino ad affermare la sua vittoria con le sue stesse armi: le armi della giustizia e della verità, della misericordia, del perdono e dell’amore.
È questo il messaggio che, in occasione del recente viaggio apostolico in Camerun e in Angola, ho inteso portare a tutto il Continente africano, che mi ha accolto con grande entusiasmo e disponibilità all’ascolto.
L’Africa, infatti, soffre in modo smisurato per i crudeli e interminabili conflitti – spesso dimenticati – che lacerano e insanguinano diverse sue nazioni e per il numero crescente di suoi figli e figlie che finiscono preda della fame, della povertà, della malattia.
Il medesimo messaggio ripeterò con forza in Terrasanta, ove avrò la gioia di recarmi fra qualche settimana.
La difficile ma indispensabile riconciliazione, che è premessa per un futuro di sicurezza comune e di pacifica convivenza, non potrà diventare realtà che grazie agli sforzi rinnovati, perseveranti e sinceri, per la composizione del conflitto israelo-palestinese.
Dalla Terra Santa, poi, lo sguardo si allargherà sui paesi limitrofi, sul Medio Oriente, sul mondo intero.
In un tempo di globale scarsità di cibo, di scompiglio finanziario, di povertà antiche e nuove, di cambiamenti climatici preoccupanti, di violenze e miseria che costringono molti a lasciare la propria terra in cerca di una meno incerta sopravvivenza, di terrorismo sempre minaccioso, di paure crescenti di fronte all’incertezza del domani, è urgente riscoprire prospettive capaci di ridare speranza.
Nessuno si tiri indietro in questa pacifica battaglia iniziata dalla Pasqua di Cristo, il quale – lo ripeto – cerca uomini e donne che lo aiutino ad affermare la sua vittoria con le sue stesse armi, quelle della giustizia e della verità, della misericordia, del perdono e dell’amore.
“Resurrectio Domini, spes nostra!”, la risurrezione di Cristo è la nostra speranza! Questo la Chiesa proclama oggi con gioia: annuncia la speranza, che Dio ha reso salda e invincibile risuscitando Gesù Cristo dai morti; comunica la speranza, che essa porta nel cuore e vuole condividere con tutti, in ogni luogo, specialmente là dove i cristiani soffrono persecuzione a causa della loro fede e del loro impegno per la giustizia e la pace; invoca la speranza capace di suscitare il coraggio del bene anche e soprattutto quando costa.
Oggi la Chiesa canta “il giorno che ha fatto il Signore” ed invita alla gioia.
Oggi la Chiesa prega, invoca Maria, Stella della Speranza, perché guidi l’umanità verso il porto sicuro della salvezza che è il cuore di Cristo, la Vittima pasquale, l’Agnello che “ha redento il mondo”, l’Innocente che “ha riconciliato noi peccatori col Padre”.
A Lui, Re vittorioso, a Lui crocifisso e risorto, noi gridiamo con gioia il nostro Alleluia!

Settimana Santa.

Questa speranza si alimenta nel grande silenzio del Sabato Santo, in attesa della risurrezione di Gesù.
In questo giorno le Chiese sono spoglie e non sono previsti particolari riti liturgici.
La Chiesa veglia in preghiera come Maria e insieme a Maria, condividendone gli stessi sentimenti di dolore e di fiducia in Dio.
Giustamente si raccomanda di conservare durante tutta la giornata un clima orante, favorevole alla meditazione e alla riconciliazione; si incoraggiano i fedeli ad accostarsi al sacramento della Penitenza, per poter partecipare realmente rinnovati alle feste pasquali.
Il raccoglimento e il silenzio del Sabato Santo ci condurranno nella notte alla solenne Veglia Pasquale, “madre di tutte le veglie”, quando proromperà in tutte le chiese e comunità il canto della gioia per la risurrezione di Cristo.
Ancora una volta, verrà proclamata la vittoria della luce sulle tenebre, della vita sulla morte, e la Chiesa gioirà nell’incontro con il suo Signore.
Entreremo così nel clima della Pasqua di risurrezione.
Cari fratelli e sorelle, disponiamoci a vivere intensamente il triduo santo, per essere sempre più profondamente partecipi del mistero di Cristo.
Ci accompagna in questo itinerario la Vergine Santa, che ha seguito in silenzio il Figlio Gesù fino al Calvario, prendendo parte con grande pena al suo sacrificio, cooperando così al mistero della Redenzione e divenendo Madre di tutti i credenti (cfr.
Giovanni 19, 25-27).
Insieme a Lei entreremo nel cenacolo, resteremo ai piedi della croce, veglieremo idealmente accanto al Cristo morto attendendo con speranza l’alba del giorno radioso della risurrezione.
In questa prospettiva, formulo fin d’ora a tutti voi i più cordiali auguri di una lieta e santa Pasqua, insieme con le vostre famiglie, parrocchie e comunità.
__________  Le omelie di Benedetto XVI nella Settimana Santa del 2009, giorno per giorno nel sito del Vaticano: > Omelie 2009 I testi della Via Crucis al Colosseo di venerdì 10 aprile 2009, scritti dall’arcivescovo indiano Thomas Menamparampil: > Via Crucis 2009 Cari fratelli e sorelle, la Settimana Santa, che per noi cristiani è la settimana più importante dell’anno, ci offre l’opportunità di immergerci negli eventi centrali della redenzione, di rivivere il mistero pasquale, il grande mistero della fede.
A partire da domani pomeriggio, con la Messa “in Coena Domini”, i solenni riti liturgici ci aiuteranno a meditare in maniera più viva la passione, la morte e la risurrezione del Signore nei giorni del santo triduo pasquale, fulcro dell’intero anno liturgico.
Possa la grazia divina aprire i nostri cuori alla comprensione del dono inestimabile che è la salvezza ottenutaci dal sacrificio di Cristo.
Questo dono immenso lo troviamo mirabilmente narrato in un celebre inno contenuto nella lettera ai Filippesi (cfr.
2, 6-11), che in Quaresima abbiamo più volte meditato.
L’apostolo ripercorre, in modo tanto essenziale quanto efficace, tutto il mistero della storia della salvezza accennando alla superbia di Adamo che, pur non essendo Dio, voleva essere come Dio.
E contrappone a questa superbia del primo uomo, che tutti noi sentiamo un po’ nel nostro essere, l’umiltà del vero Figlio di Dio che, diventando uomo, non esitò a prendere su di sé tutte le debolezze dell’essere umano, eccetto il peccato, e si spinse fino alla profondità della morte.
A questa discesa nell’ultima profondità della passione e della morte segue poi la sua esaltazione, la vera gloria, la gloria dell’amore che è andato fino alla fine.
Ed è perciò giusto – come dice Paolo – che “nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: Gesù Cristo è Signore!” (2, 10-11).
San Paolo accenna, con queste parole, a una profezia di Isaia dove Dio dice: Io sono il Signore, ogni ginocchio si pieghi davanti a me nei cieli e nella terra (cfr.
Is 45, 23).
Questo – dice Paolo – vale per Gesù Cristo.
Lui realmente, nella sua umiltà, nella vera grandezza del suo amore, è il Signore del mondo e davanti a Lui realmente ogni ginocchio si piega.
Quanto meraviglioso, e insieme sorprendente, è questo mistero! Non possiamo mai sufficientemente meditare questa realtà.
Gesù, pur essendo Dio, non volle fare delle sue prerogative divine un possesso esclusivo; non volle usare il suo essere Dio, la sua dignità gloriosa e la sua potenza, come strumento di trionfo e segno di distanza da noi.
Al contrario, “svuotò se stesso” assumendo la misera e debole condizione umana.
Paolo usa, a questo riguardo, un verbo greco assai pregnante per indicare la “kénosis”, questa discesa di Gesù.
La forma (morphé) divina si nascose in Cristo sotto la forma umana, ossia sotto la nostra realtà segnata dalla sofferenza, dalla povertà, dai nostri limiti umani e dalla morte.
La condivisione radicale e vera della nostra natura, condivisione in tutto fuorché nel peccato, lo condusse fino a quella frontiera che è il segno della nostra finitezza, la morte.
Ma tutto ciò non è stato frutto di un meccanismo oscuro o di una cieca fatalità: fu piuttosto una sua libera scelta, per generosa adesione al disegno salvifico del Padre.
E la morte a cui andò incontro – aggiunge Paolo – fu quella di croce, la più umiliante e degradante che si potesse immaginare.
Tutto questo il Signore dell’universo lo ha compiuto per amore nostro: per amore ha voluto “svuotare se stesso” e farsi nostro fratello; per amore ha condiviso la nostra condizione, quella di ogni uomo e di ogni donna.
Scrive in proposito un grande testimone della tradizione orientale, Teodoreto di Ciro: “Essendo Dio e Dio per natura, e avendo l’uguaglianza con Dio, non ha ritenuto questo qualcosa di grande, come fanno coloro che hanno ricevuto qualche onore al di sopra dei loro meriti, ma nascondendo i suoi meriti, ha scelto l’umiltà più profonda e ha preso la forma di un essere umano» (Commento all’epistola ai Filippesi 2, 6-7).
 Preludio al triduo pasquale, che incomincia con i suggestivi riti pomeridiani del Giovedì Santo, è la solenne Messa Crismale, che nella mattinata il vescovo celebra con il proprio presbiterio, e nel corso della quale insieme vengono rinnovate le promesse sacerdotali pronunciate il giorno dell’Ordinazione.
È un gesto di grande valore, un’occasione quanto mai propizia in cui i sacerdoti ribadiscono la propria fedeltà a Cristo che li ha scelti come suoi ministri.
Questo incontro sacerdotale assume inoltre un significato particolare, perché è quasi una preparazione all’Anno Sacerdotale, che ho indetto in occasione del 150.mo anniversario della morte del santo Curato d’Ars e che avrà inizio il prossimo 19 giugno.
Sempre nella Messa Crismale verranno poi benedetti l’olio degli infermi e quello dei catecumeni, e sarà consacrato il Crisma.
Riti questi con i quali sono simbolicamente significate la pienezza del sacerdozio di Cristo e quella comunione ecclesiale che deve animare il popolo cristiano, radunato per il sacrificio eucaristico e vivificato nell’unità dal dono dello Spirito Santo.
Nella Messa del pomeriggio, chiamata “in Coena Domini”, la Chiesa commemora l’istituzione dell’Eucaristia, il sacerdozio ministeriale ed il comandamento nuovo della carità, lasciato da Gesù ai suoi discepoli.
Di quanto avvenne nel cenacolo, la vigilia della passione del Signore, san Paolo offre una delle più antiche testimonianze.
“Il Signore Gesù, – egli scrive, all’inizio degli anni Cinquanta, basandosi su un testo che ha ricevuto dall’ambiente del Signore stesso – nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me.
Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me” (1 Corinzi 11, 23-25).
Parole cariche di mistero, che manifestano con chiarezza il volere di Cristo: sotto le specie del pane e del vino Egli si rende presente col suo corpo dato e col suo sangue versato.
È il sacrificio della nuova e definitiva alleanza offerta a tutti, senza distinzione di razza e di cultura.
E di questo rito sacramentale, che consegna alla Chiesa come prova suprema del suo amore, Gesù costituisce ministri i suoi discepoli e quanti ne proseguiranno il ministero nel corso dei secoli.
Il Giovedì Santo costituisce pertanto un rinnovato invito a rendere grazie a Dio per il sommo dono dell’Eucaristia, da accogliere con devozione e da adorare con viva fede.
Per questo, la Chiesa incoraggia, dopo la celebrazione della Santa Messa, a vegliare in presenza del Santissimo Sacramento, ricordando l’ora triste che Gesù passò in solitudine e preghiera nel Getsemani, prima di essere arrestato per poi venire condannato a morte.
 E siamo così al Venerdì Santo, giorno della passione e della crocifissione del Signore.
Ogni anno, ponendoci in silenzio di fronte a Gesù appeso al legno della croce, avvertiamo quanto siano piene di amore le parole da Lui pronunciate la vigilia, nel corso dell’Ultima Cena.
“Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti” (cfr.
Marco 14, 24).
Gesù ha voluto offrire la sua vita in sacrificio per la remissione dei peccati dell’umanità.
Come di fronte all’Eucaristia, così di fronte alla passione e morte di Gesù in Croce il mistero si fa insondabile per la ragione.
Siamo posti davanti a qualcosa che umanamente potrebbe apparire assurdo: un Dio che non solo si fà uomo, con tutti i bisogni dell’uomo, non solo soffre per salvare l’uomo caricandosi di tutta la tragedia dell’umanità, ma muore per l’uomo.
La morte di Cristo richiama il cumulo di dolore e di mali che grava sull’umanità di ogni tempo: il peso schiacciante del nostro morire, l’odio e la violenza che ancora oggi insanguinano la terra.
La passione del Signore continua nella sofferenze degli uomini.
Come giustamente scrive Blaise Pascal, “Gesù sarà in agonia fino alla fine del mondo; non bisogna dormire durante questo tempo” (Pensieri 553).
Se il Venerdì Santo è giorno pieno di tristezza, è dunque al tempo stesso, giorno quanto mai propizio per ridestare la nostra fede, per rinsaldare la nostra speranza e il coraggio di portare ciascuno la nostra croce con umiltà, fiducia ed abbandono in Dio, certi del suo sostegno e della sua vittoria.
Canta la liturgia di questo giorno: “O Crux, ave, spes unica!”, Ave, o croce, unica speranza!

Aprile

La letteratura epica dell’India ha un testo, il Mahabharata che, con i suoi 90.000 versi è la più lunga epopea della letteratura universale.
L’oggetto del Mahabharata è di raccontare il conflitto che oppone due famiglie di prìncipi, i Kaurava e i Pandava in lotta per la successione del re dei Kuru.
Il conflitto sbocca in una grande guerra escatologica che annuncia la fine di un’era e l’inizio di una nuova.
Il Mahabharata, oltre ai suoi molteplici sviluppi leggendari, racchiude un testo riconosciuto come il vertice del pensiero religioso indiano e una delle più straordinarie realizzazioni del pensiero universale: la Bhagavad Gita.
La Gita riporta il dialogo tra Krishna, incarnazione di Vishnù, e Arjuna, uno dei principi guerrieri, prima di ingaggiare la battaglia.
L’insegnamento consiste nel principio che la cessazione della violenza non ha alcun valore se non è accompagnata dall’arresto dei pensieri e dei desideri violenti.
Si ritrova qui, espressa con altre parole, la posizione di Gesù a proposito del comandamento «Non uccidere» (Mt 5,21-22) e quella di Buddha che stabilisce il primato dell’azione dello spirito.
La vera saggezza non consiste nell’abbandonare ogni azione, ma nell’abbandonare lo spirito di attaccamento che ci lega all’azione.
Questo è l’insegnamento fondamentale della Bhagavad Gita: si può compiere un’azione senza essere legati ad essa, perché l’azione senza attaccamento lascia libero colui che agisce.
È sufficiente per questo spegnere il desiderio che concerne i risultati dell’azione (Bhagavad Gita, XVIII, 10,11): L’uomo saggio che rinuncia, i cui dubbi sono dissipati, la cui natura è la bontà, non ha né avversione per l’azione sgradevole, né attaccamento per l’azione gradevole.
È infatti impossibile ad ogni essere incarnato astenersi interamente dall’azione.
Ma colui che abbandona il frutto dell’azione, pratica il vero abbandono.
La Bhagavad Gita non considera la guerra sotto l’angolazione del problema morale; l’ideale è lo stato di pace: una pace che è interiore, ma che è anche nello spazio sociale.
Numerosi passi mostrano che lo spirito di tolleranza impregna tutto il romanzo.
Il “Jihad minore” è detto Jihad al-saghir.
Jihad è il termine utilizzato nei versetti del Corano in cui è definito l’atteggiamento dell’islam nei confronti della guerra.
Impropriamente tradotto nelle lingue europee con “guerra santa”, Jihad significa invece “lotta, sforzo teso verso un determinato scopo” ed è generalmente integrato nell’espressione Jihad fi sabil Allah, “sforzo sul cammino di Dio”.
La traduzione corretta di questa parola dà la misura delle concezioni islamiche: le guerre intraprese da Muhammad si situano in una prospettiva molto precisa di sforzo personale del credente così come indica questo versetto: «Sforzatevi sul cammino di Dio contro coloro che vi faranno la guerra.
Ma non commettete ingiustizie attaccando per primi, perché Dio non ama affatto gli ingiusti».
Lo spirito religioso di cui è investito il Jihad apre però la porta agli eccessi, poiché, dando un valore religioso alla guerra, si rischia inevitabilmente di trasformare la religione in un’impresa bellica.
I primi combattenti dell’islam dovevano battersi per diffondere la parola divina e compiere le loro azioni in un totale spirito di sacrificio.
Il Jihad diveniva dunque l’azione più elevata, perché, rispetto agli altri atti di sottomissione a Dio, si dava la propria vita combattendo nel Suo Nome.
I guerrieri uccisi nel Nome di Allah diventavano così i “testimoni”, si assicuravano la Salvezza eterna ed entravano immediatamente in Paradiso (Sura, II, 49): Non dite che coloro che sono uccisi sulla via di Dio sono morti.
No, essi sono vivi; ma voi non lo comprendete.
Questa morte benedetta cancella i peccati commessi e i mujahid, i combattenti del Jihad (cioè coloro che praticano lo sforzo sul cammino di Dio), compiono una delle pratiche più sante, al punto che un Hadith afferma che «il Jihad è il monachesimo dell’Islam».
Col tempo l’uso delle armi divenne meno evidente e i musulmani adottarono delle posizioni diverse su questo tema, a seconda della scuola di appartenenza.
Il problema, dopo la morte del Profeta e la sottomissione dell’Arabia, fu se il Jihad armato dovesse essere ancora perseguito.
A questa domanda i primi successori del Profeta diedero una risposta precisa: per essi il Jihad offensivo era legittimo.
I paesi vicini non musulmani erano considerati come dar el-Harb, paesi di guerra; questa espressione si contrappone al dar al-Islam, il territorio dove regnano la pace e la fede; infine vi è il dar al sulh, il territorio che paga tributi e che è retto da una convenzione specifica.
In seguito, però, le interpretazioni cominciarono a divergere e il Jihad ebbe delle interpretazioni differenti.
Fin dall’inizio della sua predicazione Muhammad si urta contro l’ostilità della maggior parte dei membri della tribù dei Kuraysh.
Per una decina d’anni, i primi seguaci dell’islam furono violentemente attaccati dai concittadini della Mecca.
L’animosità nei loro confronti spiega la risposta progressivamente offensiva dei musulmani dopo la fuga a Medina.
Con l’esilio a Medina cominciarono infatti le prime operazioni militari.
Si trattò inizialmente di semplici razzie, secondo la tradizione beduina, con uno scopo essenzialmente economico, poiché il bottino era indispensabile alla sopravvivenza degli emigrati musulmani.
Questi si trovavano infatti nel bisogno a causa del boicottaggio commerciale di cui erano oggetto da parte degli avversari della Mecca e dell’abbandono dei loro beni.
Tuttavia, poiché queste azioni erano rivolte contro le carovane della tribù dei Kuraysh, esse rivestivano pure un carattere “nuovo”, quello di “guerra santa” contro gli infedeli.
Lo scopo propriamente economico delle spedizioni, si vede così trasformato in scopo spirituale: diffondere la vera fede.
Alcune rivelazioni coraniche cominciarono, da quel momento, a fissare le regole per definire le spedizioni militari dell’islam: si stabilisce che un quinto del bottino è destinato ad Allah, al Profeta e ai bisognosi (Sura VIII, 41): Sappiate che del bottino che conquisterete, un quinto appartiene ad Allah e al Suo Messaggero, ai parenti, agli orfani, ai poveri, ai viandanti, se credete in Allah e in quello che abbiamo fatto scendere sul Nostro schiavo nel giorno del Discrimine, il giorno in cui le due schiere si incontrarono.
Allah è onnipotente.
L’Arabia preislamica rispettava una tregua nei combattimenti in alcuni mesi dell’anno considerati sacri.
Quando, un giorno, alcuni musulmani decisero di violare questa tregua e di attaccare una carovana della Mecca, tornati a Medina con il quinto del bottino da consegnare al Profeta, furono accolti nel disprezzo generale e il Profeta rifiutò di prendere la sua parte del bottino.
Poco tempo dopo ricevette una rivelazione relativa a questo fatto che formulava in modo esplicito il diritto di fare la guerra e il dovere del credente (Sura II, 212): Ti chiedono del combattimento nel mese sacro.
Di’: «Combattere in questo tempo è un grande peccato, ma più grave è frapporre ostacoli sul sentiero di Allah e distogliere da Lui e dalla Santa Moschea.
Ma, di fronte ad Allah, peggio ancora scacciarne gli abitanti.
L’oppressione è peggiore dell’omicidio».
Ebbene, essi non smetteranno di combattervi fino a farvi allontanare dalla vostra religione, se lo potessero.
E chi di voi rinnegherà la fede e morirà nella miscredenza, ecco chi avrà fallito in questa vita e nell’altra.
Ecco i compagni del Fuoco: vi rimarranno in perpetuo.
Quindi, la mancanza di fede non solo è considerata molto più nefasta della guerra, ma si afferma un concetto molto pesante, cioè che «la tentazione dell’idolatria è peggiore della carneficina».
Sembra infatti che Muhammad fosse convinto del successo ultimo della sua impresa, ricordando senza sosta l’origine divina della sua missione.
Il primo scontro importante fu quello di Badr (624) di cui la tradizione musulmana serba un ricordo leggendario.
La battaglia oppose circa 300 musulmani contro un migliaio di Kuraysh: la vittoria finale dei musulmani fu dovuta a un intervento divino che si manifestò con la venuta di angeli discesi dal cielo per combattere al loro fianco.
A partire da Badr, i guerrieri musulmani diventano davvero gli strumenti di Dio per punire coloro che lo negano: «Non siete voi che li uccidete, è Dio.
Quando tu lanciavi un dardo, non eri tu a lanciarlo, era Dio…» (Sura, VIII, 17).
Quella battaglia resterà nel cuore di tutti i musulmani come il simbolo della vittoria divina sugli infedeli.
L’unità e la conversione delle tribù arabe sottomesse all’islam era ancora fragile quando Muhammad morì nel 632 e i primi quattro califfi che gli succedettero dovettero lottare per mantenere la coesione dell’islam.
Si trovarono di fatto impegnati nella via della conquista aperta dal Profeta.
Rapidamente l’Arabia fu totalmente sottomessa e le truppe islamiche penetrarono più a nord.
L’espansione che seguì fu fulminante, e in circa 50 anni, l’islam si espanse su un territorio che andava da Gibilterra all’Indo.
Ma oramai le lotte intestine dividevano i capi.
È in questa epoca che si forgiarono i fondamenti della religione musulmana e, tra questi, un termine destinato ad avere un destino importante: il Jihad, distinto in “Jihad dei corpi” (o “Jihad minore”) e”Jihad delle anime” (o “Jihad maggiore”).
1.
Quali sono le differenti interpretazioni del Jihad? 2.
Che cosa s’intende per “Jihad Maggiore” e per “Jihad Minore”? 3.
Spiega l’ambivalenza della figura di Shiva.
4.
Qual è l’insegnamento fondamentale della Bhagavad Gita? 5.
Quali sono i fattori della filosofia buddista che favoriscono lo sviluppo della non-violenza? Il concetto di non-violenza, ahimsa, significa letteralmente “assenza del desiderio di uccidere” e trova la sua origine nei gruppi di erranti e di asceti che si opponevano alla casta sacerdotale dei bramini che praticavano il ritualismo vedico.
È in una di queste sette, il Jainismo, che l’ahimsa trovò la sua applicazione etica più radicale: il monaco deve per esempio spazzare il cammino davanti a sé per non schiacciare gli insetti, e deve coprirsi la bocca con un tessuto fine per evitare di ingoiarli.
La non-violenza di Gandhi rappresenta uno sviluppo di questa antica ahimsa.
La non-violenza gandhiana riveste due aspetti: da un lato è una tecnica di attivismo politico, dall’altro è un mezzo di superamento di se stessi con l’interiorizzazione della violenza.
Diceva Gandhi che «È l’arma dei forti con i forti»; «Io so come posso predicare con successo l’ahimsa a coloro che sanno morire, ma non a coloro che hanno paura della morte».
Certamente l’induismo non ha mai lottato e massacrato per convertire gli stranieri alla sua religione come hanno fatto il cristianesimo e l’islam, tuttavia il fanatismo è oggi largamente presente anche nell’induismo: contro il buddismo, contro l’islam (in questo caso si tratta di risposta a una aggressione) e recentemente anche contro il cristianesimo.
Nell’antica letteratura vedica si trovano numerosi passaggi guerreschi che ricordano la vocazione militare dei nomadi indoeuropei.
Alcuni inni come il seguente invocano gli dei per distruggere i nemici: Fai tremare, o Arbudi, i ranghi dell’esercito nemico, e che il vincitore e il vittorioso, ai nostri nemici, con l’assistenza di Indra, impongano la loro vittoria.
Che giaccia, schiacciato, stritolato, ucciso, il nostro nemico, o Arbudi! Che quella di cui Agni [dio del fuoco] è la lingua, e il fumo la treccia, vittoriose, marcino con il nostro esercito! I Veda presentano Indra come divinità maggiore e rappresenta la sovranità guerriera.
La civiltà degli Ariani sacralizzava la forza violenta al punto di trasformarla in fonte di vita, ed era la casta dei guerrieri che assicurava il mantenimento e lo sviluppo della ricchezza attraverso continue conquiste.
Successivamente Indra perderà la sua importanza e dall’epoca classica saranno altre divinità a contendersi il favore degli Hindù: Shiva, Vishnù e la Grande Dea; tuttavia il ruolo di Indra è interessante perché permette di cogliere il valore religioso della violenza così com’era sentita dagli Ariani in epoca vedica.
Dopo aver riflettuto sul rapporto con la guerra tenuto dalla religione ebraica e da quella cristiana, questo mese prenderemo in considerazione l’islam, l’induismo e il buddismo.
Numerosi avvenimenti recenti hanno sensibilizzato l’opinione pubblica sul contenuto politico e guerriero della religione islamica.
I fantasmi di un islam vendicativo e bellicoso sono ritornati senza però analizzare i fondamenti religiosi che sono alla base di quegli atteggiamenti.
L’islam è la sola delle grandi religioni che abbia manifestato un interesse vero per la guerra al punto da integrarla, in un certo senso, come uno dei precetti del vero credente.
D’altra parte, la posizione dell’islam sulla guerra è incomprensibile se non la si riferisce all’epoca del profeta Muhammad.
Da parte sua l’induismo non presenta un atteggiamento univoco di fronte alla guerra e alla violenza, così come di fronte ad altri aspetti della vita e della spiritualità.
L’elemento che emerge con maggior vigore è la molteplicità delle risposte: cosa vi può essere di comune tra Indra, il Dio guerriero e la pratica dell’ahimsa che rifiuta radicalmente di uccidere? Tra Shiva, il Dio distruttore, e il messaggio della Bhagavad Gita dove Krishna sceglie il campo di battaglia per consegnare al mondo uno dei più straordinari insegnamenti religiosi? Al di là di tutte le differenze ogni percorso è volto a trascendere la guerra, cioè a utilizzarla come mezzo di progresso spirituale.
Alla fine attraverso l’insegnamento della Bhagavad Gita e della non-violenza, l’induismo presenta una riflessione che regge l’impatto con il mondo moderno.
Il buddismo ha predicato una morale in cui si ritrovano i precetti comuni a tutte le grandi religioni: non uccidere, non rubare, non mentire ecc.
Tuttavia, più che nelle altre religioni, il rispetto degli altri viene praticato al punto di diventare la virtù primaria da perseguire.
Il “Jihad maggiore” è detto Jihad al-Kabir e rientra nell’ambito esoterico dell’islam.
In questo nuovo Jihad le parole “guerra” e “guerrieri” diventano simboli della condotta religiosa.
L’interpretazione del Jihad maggiore è stata sviluppata soprattutto a opera dei sufi, cioè quei santi e mistici musulmani di scuola sunnita e sciita.
Per i sufi, la “guerra santa” può essere compresa su un piano mistico ed esoterico volto alla trasformazione interiore dell’uomo.
Tale trasformazione si realizza nel senso dell’abbandono spirituale dell’individuo nella divinità, nel riconoscimento intimo che «non c’è altro Dio che Dio».
Un simile assorbimento dell’anima nell’Unico Dio richiede la purificazione, ed è proprio questa purificazione che esprime il Jihad delle anime, la grande “guerra santa”.
Questa interiorizzazione del Jihad trasforma così la lotta contro l’infedele (che è nel prossimo), in lotta contro l’infedele (che è in ciascuno).
L’oggetto del Jihad delle anime è dunque evidente: bisogna uccidere il nemico che è in noi, rinunciare agli istinti e alle passioni.
Si possono citare numerose frasi di sufi che accreditano questa interiorizzazione del Jihad.
Il grande mistico Rumi ebbe a dire: «I profeti e i santi non fanno forse anch’essi degli sforzi (Jihad)? Il primo sforzo che hanno fatto era di uccidere la bramosia della loro anima e di rinunciare ai desideri e alla concupiscenza; è qui la grande guerra (Jihad al-Kabir)».
Questa nuova visione del Jihad getta una nuova luce su diversi versetti del Corano.
Così quando questo afferma: «Combatteteli (gli infedeli) fino a quando non c’è più sedizione ed ogni fede è quella di Dio» (Sura, VIII, 40) significa, per il sufi, che bisogna combattere totalmente quelle passioni che non sono rivolte a Dio, affinché la fede della nostra anima sia tutta intera assorbita in Lui.
Tutto ciò mostra il cambiamento radicale di prospettiva sulla concezione del Jihad, a seconda se lo si considera sotto un aspetto piuttosto che sotto un altro.
Certamente, la maggior parte dei versetti del Corano che menzionano il Jihad sembra riferirsi a situazioni in cui il nemico non è interno, ma esterno; tuttavia, sarebbe negare ogni profondità spirituale al Corano e al Profeta pensare che Muhammad non abbia guardato alla lotta contro se stessi come all’applicazione ultima del Jihad.
D’altra parte, in questo senso si esprimono anche due Hadith del Profeta.
Il primo conferma l’importanza della lotta contro le passioni: Nessuno di voi sarà un credente se non avrà assoggettato le passioni a ciò che ho portato.
Il secondo Hadith nomina direttamente il Jihad maggiore come elemento essenziale della religione islamica; parlando a uno dei suoi compagni, il Profeta dice: Vuoi che ti indichi la parte principale della religione, la sua colonna e il suo culmine? La sua parte principale è la sottomissione (al-Islam) alla volontà divina; la sua colonna è la preghiera rituale; il suo culmine è il Jihad.
Un simile Hadith che vede il Jihad come il culmine della religione, permette di sostenere una spiegazione simbolica e spirituale dell’applicazione militare del Jihad.
La violenza e la distruzione inerenti al mondo sono quindi valorizzati religiosamente nel sistema Hindù grazie a Shiva.
Il Dio Shiva non è propriamente legato al mondo della guerra ma è ugualmente rilevante perché, nella famosa triade divina dell’induismo classico, la Trimurti, egli rappresenta il principio distruttore accanto a Brahma, il creatore e a Vishnù, il conservatore.
Shiva è un dio terrificante, ornato di serpenti e scorpioni.
Ma è anche il Benevolo e il Protettore.
Nelle sue diverse rappresentazioni il suo aspetto violento e distruttore è associato a un altro per nulla negativo.
Dice lo storico Alain Daniélou in un suo saggio su Shiva (A.
Daniélou, Shiva et Dionysos, Fayard, Paris, 1979, p.
93) che Tutto ciò che nasce muore.
Il principio della vita è associato al tempo, cioè al principio della morte.
Il dio creatore è anche il dio distruttore.
La vita si nutre della morte.
Non c’è niente che viva senza distruggere e divorare altre vite.
Pertanto Shiva ha un aspetto terrificante.
Lo scopo della vita è quello di progredire spiritualmente sostituendo costantemente in sé qualche cosa di meglio rispetto a ciò che non lo è.
Il principio distruttore di Shiva bisogna comprenderlo a un livello spirituale: sono le nostre passioni per un mondo effimero, le nostre illusioni che bisogna distruggere.
Ma Shiva è anche Maestro dello yoga, e in quanto tale insegna agli uomini il modo di elevarsi spiritualmente (J.
Herbert, L’Hindouisme vivant, Laffont, Paris, 1975, p.127): L’azione contemporaneamente distruttrice e yogica di Shiva ha come conseguenza inevitabile una ri-creazione.
Questa successione continua di distruzione/ricreazione si trova espressa nella danza cosmica tipica dei rituali esoterici dei fedeli di Shiva.
Il buddismo ha predicato una morale in cui si ritrovano i precetti comuni a tutte le grandi religioni: non uccidere, non rubare, non mentire ecc.
Tuttavia, più che nelle altre religioni, il rispetto degli altri viene praticato al punto di diventare la virtù primaria da perseguire.
Questa atmosfera di non violenza che circonda il buddhismo deriva da diversi fattori che permettono di cogliere alcuni elementi della sua filosofia.
1.
Vi è prima di tutto la tradizione dell’ahimsa, “l’assenza di desiderio di uccidere” che era già presente nell’ambito dei rinuncianti indiani presso cui si è sviluppato il buddismo.
Nel buddismo la non-violenza e il rispetto altrui non provengono da un dogma ma da una certa visione del mondo che favorisce il senso della misura.
Così la violenza, come ogni eccesso di passione è fortemente controllata da una pratica che favorisce la riduzione dei desideri e il controllo di sé.
2.
Il buddismo pone anche la compassione come fonte essenziale della sua etica, come un complemento essenziale alla saggezza.
Il simbolo di questa compassione è il Bodhisattva, cioè colui che, pervenuto sulla soglia del Nirvana, ritorna nel mondo per aiutare tutti gli esseri a incamminarsi verso la liberazione.
3.
Infine vi è la tolleranza che è uno degli aspetti più evidenti del buddhismo.
I testi buddisti brulicano di storie che illustrano la centralità della tolleranza.
Una di queste, tratta dall’Upalisutra, è molto citata, racconta che Upali, un discepolo di Mahavira, maestro della comunità jainista, venne dal Buddha per ingaggiare con lui un confronto sul karma.
Naturalmente, alla fine, Upali viene convinto da colui che voleva convincere, e gli chiede di diventare suo discepolo.
Il Buddha gli raccomanda allora di non affrettarsi e di riflettere con cura prima di prendere una simile decisione.
Quando Upali ripropone il suo desiderio, Buddha lo accoglie, ma domandandogli prima di tutto di continuare a rispettare e a sostenere il suo vecchio maestro religioso.
4.
La tolleranza come il rispetto degli altri e il precetto di non uccidere, si fonda sulla coscienza buddista dell’unità dell’universo.
Tutti i fenomeni e tutte le esistenze sono solo degli aggregati passeggeri, per cui è la stessa vita che anima tutti gli esseri dell’universo; allo stesso modo, aggredire una persona equivale ad aggredire se stessi.
Per lo stesso principio quando un solo essere perviene all’illuminazione, ne beneficia il mondo intero.
L’imperatore Ashoka si convertì al buddismo dopo essere rimasto profondamente turbato dai massacri da lui compiuti conquistando il regno dei Kalinga.
Egli proclamò a quel punto la sua fede e decise di rinunciare alla conquista con le armi consacrandosi unicamente alla diffusione della “Legge” buddista.
I suoi editti, incisi sulla roccia, sono rimasti conservati: Che essi non pensino che la conquista con le armi meriti il nome di conquista.
Che essi considerino come vera conquista solo le conquiste della Legge.
L’aspetto più straordinario è che Ashoka non cercò di sfavorire le altre religioni per favorire la propria.
Contemporaneamente all’invio di missionari a Ceylon, in Birmania e nel nord-ovest dell’India egli predicò una tolleranza totale nei confronti delle altre dottrine: Tutte le sette si propongono il controllo dei sensi e la purezza dell’anima, il Bene è il midollo di tutte le sette.
Per tutte vi è una medesima radice: si tratta di controllare il proprio linguaggio, di non celebrare la propria comunità denigrando le altre.
Al contrario, bisogna rendere alle altre sette gli onori che si conviene, in tutte le circostanze (…).
Di fatto, la migliore illustrazione del pacifismo buddista, resta il suo metodo di diffusione: sebbene non sia sempre ben conosciuto nei dettagli, sembra che non ci siano mai stati conversioni forzate, e insediamenti con le armi, come avvenne, invece, per altre due religioni a vocazione universale come il cristianesimo e l’islam.
Si individuano quattro dottrine relative al Jihad a partire dalla lettura del Corano.
Ci sono coloro che considerano che l’espansione dell’islam debba essere fatta con la persuasione: è l’atteggiamento generalmente adottato da tutti i musulmani moderni.
Il Jihad con le armi può esser proclamato quando c’è un’aggressione: anche questa è un’interpretazione ammessa dai musulmani moderni.
Il Jihad può allora intervenire a livello della comunità quando uno dei Paesi musulmani è attaccato.
La storia recente dà diversi esempi di casi in cui il Jihad armato si è legittimato.
In questo stesso senso il Jihad può intervenire anche a livello personale, quando un nemico attacca i beni o la famiglia di un individuo.
Nelle ultime due concezioni, il Jihad armato deve compiersi in maniera offensiva verso gli infedeli.
La differenza interpretativa è legata solo al problema se si deve rispettare o no la tregua dei mesi sacri.
L’obbligo del Jihad è un obbligo religioso voluto da Dio e dal suo Profeta che riguarda ogni musulmano di sesso maschile, libero, e in salute.
Il Corano precisa (Sura IX, 92): Non saranno ritenuti colpevoli i deboli, i malati e coloro che non dispongono di mezzi, a condizione che siano sinceri con Allah e col Suo Messaggero: nessun rimprovero per coloro che fanno il bene.
Allah è perdonatore, misericordioso.
Quanto alle donne, sebbene abbiano partecipato ad alcuni combattimenti dell’epoca eroica, un Hadith precisa che «il pellegrinaggio è la guerra santa delle donne».
Il Jihad si distingue dagli altri cinque precetti della fede islamica (la professione di fede, la preghiera quotidiana, il digiuno del Ramadan, il pellegrinaggio alla Mecca e l’elemosina rituale) perché mentre questi sono doveri individuali, il Jihad è un dovere collettivo.
L’atteggiamento dei guerrieri musulmani nei confronti dei loro nemici variava a seconda della loro appartenenza religiosa.
Gli ebrei e i cristiani non erano obbligati a convertirsi all’islam: se accettavano di pagare un tributo, essi ricevevano il diritto alla libertà di culto.

Pasqua in immagini: ultima cena secondo Leonardo 

Il Vangelo della Passione di Gesù è stato letto o cantato due giorni fa in tutte le chiese cattoliche di rito romano, nella domenica che precede la Pasqua.
Quest’anno nella versione di Marco.
Ma c’è anche una Passione che parla con le immagini.
Che raggiunge e commuove un numero sterminato di persone di ogni fede.
È ad esempio quella messa in scena dalle processioni che contrassegnano la settimana santa.
O più semplicemente è quella raffigurata dall’arte pittorica.
C’è un capolavoro dell’arte universale che è forse il più conosciuto al mondo, tra quelli che rappresentano la Passione di Gesù.
È l’Ultima Cena affrescata da Leonardo da Vinci nel refettorio del convento domenicano di Santa Maria delle Grazie, a Milano.
Tantissimi conoscono e ammirano questo dipinto.
Ma pochi sanno quale momento preciso dell’ultima cena rappresenti.
Pochi sanno leggere i significati dei gesti di Gesù e degli apostoli.
E meno ancora sanno che questo affresco può essere capito solo assieme a un altro dipinto che occupa la parete di fronte del medesimo refettorio e rappresenta la crocifissione.
Sfortunatamente, quel romanzo dalla spropositata fortuna che è stato “Il Codice da Vinci” ha contribuito ad estendere non solo la fama dell’Ultima Cena di Leonardo, ma anche la sua incomprensione.
È giusto quindi strappare il velo che rende ciechi.
È ciò che fa Timothy Verdon nel testo che segue, uscito su “L’Osservatore Romano” del 30 marzo 2009.
Verdon è storico dell’arte e sacerdote.
È americano ma vive da molti anni a Firenze, dove dirige l’ufficio diocesano per la catechesi attraverso l’arte.
È uno dei maggiori esperti mondiali di arte cristiana.
Chiamato da Benedetto XV, ha partecipato agli ultimi due sinodi dei vescovi, sull’eucaristia e sulle Sacre Scritture.
In questo articolo egli spiega in chiave artistica, teologica, liturgica il senso profondo del capolavoro di Leonardo da Vinci.
Una via artisticamente sublime per capire quell’atto d’inizio della passione di Gesù che è la sua ultima cena.
E per farsene coinvolgere, come ogni grande opera d’arte sa fare.
”Se il Cristo di Leonardo alzasse lo sguardo, vedrebbe la croce” di Timothy Verdon Il Cenacolo di Leonardo da Vinci fu dipinto in un refettorio: la cena di Cristo in un luogo dove si mangia.
Ha importanza poi il fatto che il refettorio era quello di una comunità consacrata, i domenicani del convento di Santa Maria delle Grazie a Milano.
L’Ultima Cena, nel corso della quale il protagonista, Cristo, assunse un gravoso impegno, fu dipinta per dei cristiani impegnati a seguirlo.
È inoltre significativo che questo refettorio si trovi a pochi passi dalla chiesa in cui i consacrati ascoltavano le Scritture che davano senso al loro impegno, e dove venivano alimentati del corpo e sangue originariamente offerti da Cristo nel contesto dell’evento raffigurato da Leonardo.
Ed è fondamentale ricordare che i frati si recavano al refettorio dalla chiesa: andavano a pranzo – almeno nelle grandi occasioni e nei giorni di festa – subito dopo la solenne messa comunitaria.
Vedevano cioè il Cenacolo di Leonardo nel contesto di un impegno che coinvolgeva tutta la loro vita, e dopo aver ascoltato il Vangelo e ricevuto l’eucaristia.
*** Ovviamente tale modo di guardare l’opera non era l’unico, e anche all’epoca il dipinto suggeriva altri significati.
La raffigurazione del Cenacolo più celebre di tutti i tempi illustra, ad esempio, in maniera singolare, il rapporto con i coevi “misteri” teatrali.
Eseguita tra il 1495-97, riassume inoltre l’ardita ricerca stilistica iniziata, elaborata e codificata da altri maestri fiorentini: in primo luogo Giotto, poi Donatello e Masaccio, infine Leon Battista Alberti.
Il cenacolo fu subito riconosciuto come una pietra miliare della cultura artistica del Rinascimento.
*** Le due cose non sono affatto contraddittorie.
L’Ultima Cena venne commissionata a Leonardo dall’allora duca di Milano, Ludovico Sforza, nel contesto di un progetto di ammodernamento e abbellimento del convento e della chiesa di Santa Maria delle Grazie, in cui il principe intendeva situare la propria sepoltura.
Nel quadro globale del progetto, diretto dall’architetto Donato Bramante, la Cena di Leonardo aveva una duplice funzione: da una parte doveva essere un’opera d’arte sacra – l’immagine della “coena Domini” nella sala dove i frati prendevano i loro pasti – e dall’altra doveva appagare l’ambizione del duca di dare lustro alla sua capitale con opere di architettura e arte nello stile moderno.
Oltre gli elementi di contenuto religioso nel dipinto, Leonardo vi creò infatti l’esempio più perfetto mai visto in Italia settentrionale della nuova prospettiva inaugurata dall’arte fiorentina, aprendo la parete di fondo del refettorio con l’illusione di una stanza spaziosa dal soffitto a cassettoni.
Questa stanza – come il grandioso presbiterio a cupola che Bramante realizzava contemporaneamente per la chiesa – aggiornava una struttura preesistente, definendone un’estensione ideale, a un livello più alto: lo spazio di Cristo nel convento dei frati.
In realtà i due aspetti del Cenacolo – quello tecnico e quello mistico – si sovrappongono, perché è anche grazie all’uso della prospettiva che Leonardo riesce a mostrare che la vita della comunità religiosa è un’estensione della vita di Cristo e degli apostoli.
Attraverso la sua costruzione prospettica, l’artista focalizza l’attenzione su Cristo, facendo della sua figura il punto d’incrocio dell’intero cosmo pittorico definito dalla sala.
Infatti le linee diagonali che portano l’occhio in profondità conducono inevitabilmente a Cristo, tutto si ricollega a Lui, è Lui il perno della logica visiva oltre che narrativa dell’insieme.
Egli non è il punto ultimo, il punto di fuga prospettica; le linee diagonali convergono piuttosto dietro Cristo, nell’aria vespertina che è oltre la finestra; ma quel punto ultimo rimane nascosto.
Cercando l’infinità, il nostro sguardo si ferma a Cristo, come se egli ancora dicesse: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Giovanni 14, 9).
La forza di questa concentrazione prospettico-cristologica ideata da Leonardo diventa chiara se si raffronta la sua Cena con altre interpretazioni del tema nella pittura coeva.
Domenico Ghirlandaio, ad esempio, negli anni 1480-1490 ne dipinse due, quasi identiche, nei conventi di Ognissanti e San Marco a Firenze.
Come Leonardo, questo artista si servì della prospettiva per dare l’illusione di uno spazio reale, senza però costruire lo spazio in diretto rapporto a Cristo.
Nelle Cene dipinte dal Ghirlandaio, l’occhio avanza da sinistra a destra, fermandosi su ciascuna delle tredici figure separate ma più o meno uguali, senza cogliere immediatamente quale di esse rappresenti Gesù.
Due sono in posizioni diverse dagli altri: Giuda, seduto dalla nostra parte della tavola, e il giovane san Giovanni che si riposa, con la testa tra le braccia incrociate sulla tavola.
Per un processo di eliminazione, si capisce che la figura su cui Giovanni si poggia – l’uomo posto di fronte a Giuda – deve essere Cristo.
Ma la cosa non è subito chiara.
Questa impostazione – che era classica nell’arte fiorentina, adoperata sin dal Trecento nei refettori – aiuta a capire la novità della lettura di Leonardo da Vinci.
*** Sappiamo da un suo disegno ora conservato a Venezia che, in un primo momento, pure Leonardo aveva pensato di sistemare gli apostoli lungo la tavola come tante unità separate, con san Giovanni addormentato accanto a Cristo e Giuda dall’altra parte.
A un certo punto però Leonardo sembra aver capito che l’effetto di tale frammentazione sarebbe stato come nel Ghirlandaio: dodici uomini isolati gli uni dagli altri, che reagiscono alla spicciolata, ognuno a modo suo, all’annuncio sconvolgente che invece interessa tutti: l’annuncio che li mette in crisi non tanto come individui ma come gruppo, come comunità: “In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà” (Giovanni 13, 21).
Per evitare tale frammentazione narrativa, Leonardo ha preferito allora unire i dodici intorno a Cristo in quattro grandi gruppi, in cui l’elemento che colpisce è appunto l’eloquenza corale di più persone accomunate da un solo impeto emotivo.
Con particolare attenzione alla diversità di tipologie e gesti, il pittore rappresenta ciò che poteva essere veramente accaduto in una comunità di uomini vissuti insieme per tre anni.
I dodici si suddividono naturalmente in gruppi diversificati gli uni dagli altri ma connessi tra loro; all’interno di ogni gruppo si discute sul significato di quanto Cristo ha detto, ma l’attenzione psicologica, espressa mediante sguardi e gesti, dai due lati della tavola torna necessariamente verso il centro, verso Cristo.
Tale movimento centripeto ha perciò, in superficie, la stessa funzione che hanno le linee prospettiche in profondità: conducono l’attenzione sull’attore principale, nel momento stesso del suo grande discorso, del gesto misterioso e commovente: il dono della sua vita nei segni del pane e del vino.
Notiamo poi come, nei gruppi posti immediatamente a destra e sinistra di Gesù, il movimento viene invertito: gli apostoli ai lati di Cristo si tirano indietro, il flusso dei loro sentimenti non raggiunge il Salvatore, che pronuncia il suo discorso e compie il suo gesto in maestosa solitudine.
I movimenti dei corpi a destra e a sinistra, i gesti delle mani, non lo toccano: sono come onde che lambiscono un promontorio senza bagnarne la cima.
Eppure intuiamo che l’intensità di sentimento in questi uomini – la loro capacità di agire con “un cuore solo e un’anima sola”, il loro comune desiderio di trasparenza davanti alla commozione di un Maestro che si è fatto servo e che ora parla loro di tradimento e di morte – dipende da Gesù, nasce in rapporto a Gesù: è Lui che motiva e fonda l’apertura con cui, ad esempio, Filippo, a destra, con le mani invita a leggere nel suo cuore.
Nel corso della cena Gesù si è aperto a loro, ha lasciato vedere la propria angoscia, ne ha parlato, si è dato totalmente in un modo nuovo, corpo e spirito insieme, e ora gli apostoli si trovano capaci anch’essi di aprirsi, disposti anch’essi a darsi.
A contatto con la realtà di questo Signore-Servo, di quest’uomo che parla da Dio, i suoi discepoli scoprono una capacità di risposta oltre i normali limiti della natura, una capacità soprannaturale simile all’apertura di Gesù stesso.
“Il nuovo e grande mistero che avvolge la nostra esistenza – aveva scritto san Gregorio Nazianzeno mille anni prima di Leonardo – è questa partecipazione alla vita di Cristo.
Egli si è comunicato interamente a noi: tutto ciò che Egli è, è diventato completamente nostro.
Sotto ogni aspetto noi siamo Lui.
Per Lui portiamo in noi l’immagine di Dio dal quale e per il quale siamo stati creati.
La fisionomia, l’impronta che ci caratterizza è ormai quella di Dio” (Discorso 7, Patrologia Greca 35, 786-87).
Nel Cristo di Leonardo convergono le linee portanti all’infinità, convergono i sentimenti di molti cuori, e convergono – s’intrecciano, si sovrappongono, s’identificano – la natura divina con quella umana.
In questa straordinaria figura il pittore raccoglie tutti i fili del racconto evangelico: il “desiderio ardente” di condivisione in Gesù; la piena consapevolezza di ciò che gli sarebbe accaduto; il senso poi di essere arrivato al momento supremo, di compiere per l’ultima volta un gesto comune, aprendone il significato verso un orizzonte sconfinato.
La composizione piramidale che suggerisce quiete e forza; l’eloquenza con cui Cristo apre le braccia e allunga le mani: quella destra (alla nostra sinistra) verso il bicchiere di vino, quella sinistra (alla nostra destra) che mostra il pane; il regale isolamento in mezzo agli apostoli, la testa stagliata contro la luce del tardo pomeriggio, senza aureola ma incorniciata dalla nobile architettura della sala; e l’aria di sottile tristezza nell’inclinazione del capo come anche in ciò che rimane dell’espressione in questo dipinto danneggiato: tutto è fedele all’immagine che il Nuovo Testamento offre del Salvatore la notte in cui fu tradito, l’immagine di uno che si dona spontaneamente e nel contempo istituisce un rito eterno; uno che parla del suo regno, quindi un re; e soprattutto un uomo consapevole di andare incontro alla morte che accettava liberamente, “sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani, e che era venuto da Dio e a Dio ritornava” (Giovanni 13, 3); “sapendo”, “accettando”, ma soffrendo umanamente, “rilassando le redini dell’emotività”, come dirà Gianfrancesco Pico della Mirandola in un trattato sull’immaginazione stilato negli stessi anni.
*** Cerchiamo di cogliere l’impatto di questa figura nel suo contesto d’uso originario.
Le costitutioni dell’ordine domenicano, riformulate dal capitolo generale tenutosi a Milano nel 1505 nel convento di Santa Maria delle Grazie, lo stesso del Cenacolo di Leonardo, descrivono con precisione il rituale d’ingresso a un refettorio, indicando anche la funzione di eventuali immagini collocate in tali spazi comunitari.
“Suonata la campana – leggiamo – i fratelli debbono recarsi silenziosamente ma con decorosa rapidità al luogo in cui dovranno lavarsi le mani.
Lavate le mani, devono andare poi, nell’ordine consueto, a sedersi sulla panca disposta fuori del refettorio, e in quella posizione recitare il ‘De profundis’.
Quando infine il priore suonerà per l’ingresso nel refettorio, devono entrare a due a due, incominciando dai più giovani.
E quando sono in mezzo al refettorio, devono fare un inchino alla croce o all’immagine dipinta ivi collocata, e, fatto il segno della croce, devono andare a sedere a tavola”.
Come suggerisce questo testo, il significato religioso del Cenacolo e di altre immagini nei refettori va meditato all’interno di un sistema di riti e segni elaborato dalla tradizione monastica attraverso molti secoli.
La “croce o immagine dipinta” nel refettorio dove si mangiava, e il salmo recitato prima di entrare mentre i frati si lavavano le mani, riportavano al senso eterno di azioni ordinarie, quotidiane: la pulizia e l’alimentazione.
Il Salmo 130, chiamato il “De profundis”, attribuiva ad esempio un significato spirituale al comune atto d’igiene.
“Dal profondo” della propria colpevolezza, il salmista (e con lui il frate che si lavava) esprimeva la sua fede che Dio è capace di purificarlo: “Presso il Signore è la misericordia e grande presso di Lui la redenzione.
Egli redimerà Israele da tutte le sue colpe”.
Nello stesso modo, la croce o immagine dipinta sulla parete del refettorio dava un senso religioso all’atto di mangiare, invitando i commensali a leggere nel pasto un significato spirituale oltre a quello fisico: non solo sostentamento del corpo, ma sostegno della vita interiore.
In pratica, i significati dei due momenti – del “De profundis” fuori della porta e dell’inchino all’immagine della passione dentro il refettorio – erano collegati.
Se l’atto di lavarsi esprimeva la fede nel perdono divino, quello di accostarsi alla mensa comunicava il coraggio di vivere.
Il peccatore perdonato mangia e si mantiene in vita perché accetta il perdono del Dio misericordioso; s’inchina davanti alla croce o altra immagine nel refettorio perché in essa ravvisa l’espressione di tale misericordia: Cristo che offre la propria vita in riscatto per i peccati degli uomini.
La croce esprime sempre questa “redenzione”, e la “immagine dipinta” più usata nei refettori, l’ultima cena, lo comunica ugualmente: nel racconto evangelico, Gesù durante la cena dà il vino ai suoi discepoli con le parole: “Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti in remissione dei peccati” (Matteo 26, 27-28).
*** Tornando a guardare l’Ultima Cena che gli estensori delle costituzioni domenicane avevano davanti agli occhi nel 1505, il dipinto di Leonardo, dobbiamo ancora notare che nel refettorio di Santa Maria delle Grazie ci sono due dipinti, a entrambi dei quali ci si doveva inchinare.
Negli stessi anni, infatti, in cui Leonardo dipinse l’Ultima Cena, un artista milanese, Donato Montorfano, affrescò la parete di fronte a essa con una monumentale Crocifissione, tuttora visibile all’altro capo della sala.
Di conseguenza, “lavate le mani” con fede nella misericordia divina, i frati che accedevano al refettorio si trovavano abbracciati d’ambo le parti da quella misericordia: davanti e dietro di sé avevano immagini della “grande redenzione” operata a favore dei peccatori da Cristo.
Su una delle due pareti di fondo vedevano, nell’Ultima Cena, l’impegno di Gesù a offrire il suo corpo e sangue “per la remissione dei peccati”, e sulla parete opposta vedevano nella Crocifissione l’adempimento dell’impegno, quando Cristo offrì la sua vita fisicamente sulla croce.
Avendo rammentato il loro bisogno di perdono, i frati andavano cioè a tavola tra i due momenti nei quali tale perdono era stato realizzato: tra il giovedì sera e il venerdì pomeriggio dell'”ora” di Gesù, tra la Cena e la Croce.
Che Leonardo stesso abbia concepito i due dipinti del refettorio come componenti di un programma unitario è confermato dalla sua decisione di abbandonare il suo primo progetto compositivo, quello del disegno veneziano, per l’impianto che abbiamo descritto.
Al posto del Cristo che si sporge per dare il boccone a Giuda, l’artista ha ideato un Cristo regale e sacerdotale che, allargando le braccia, mostra il pane e sta per prendere il vino.
Cioè al posto di una figura narrativa – il Cristo del disegno veneziano, che interagisce con Giuda – Leonardo ha preferito un Signore tutto interiore, che invita all’introspezione psicologica.
Lo sguardo velato di tristezza, la testa inclinata, l’isolamento della figura suggeriscono un momento di profonda interiorità.
*** Leonardo deriva la composizione del suo Cristo da tre fonti.
La prima è l’immagine del re e giudice fornita dal grande Cristo a mosaico del Battistero della sua città, Firenze: l’eterno sacerdote vestito del cielo e della terra, con le braccia estese per accogliere o respingere in virtù del mistero della sua passione.
La seconda è l’immagine del legislatore tipica dell’arte paleocristiana e medievale: il Signore che allarga le braccia per trasmettere il rotolo o libro del suo Vangelo ai credenti.
La pala d’altare dell’Orcagna in Santa Maria Novella, la chiesa dell’ordine domenicano a Firenze, presenta Cristo in questo modo: un re legislatore, che con la destra affida a san Tommaso d’Aquino il libro della teologia, mentre con la sinistra dà le chiavi del regno celeste a san Pietro.
Tra i temi toccati da Gesù nella cena c’erano infatti quelli del “regno” e della “nuova legge” dell’amore.
San Tommaso, nel suo commento teologico al discorso dell’ultima cena, collega proprio queste idee, ricordando che all’ultimo pasto preso con i suoi discepoli Cristo fungeva simultaneamente da re, da legislatore e da sacerdote.
Inoltre san Tommaso – la cui interpretazione doveva essere familiare ai domenicani di Santa Maria delle Grazie – dice che queste tre funzioni, che normalmente interessano categorie distinte di persone, in Cristo “confluiscono”.
Ma è la terza fonte del suo Cristo che permette a Leonardo di fondere perfettamente le altre due.
La posa del Salvatore con le braccia estese e la testa inclinata in segno di tristezza o di morte corrisponde a quella comunemente adoperata all’epoca per le immagini del “Vir dolorum”, dell’Uomo dei dolori, che facevano vedere il corpo di Gesù deposto dalla croce con la testa inclinata e le braccia estese per mostrare le piaghe.
La maestà regale, la ieraticità sacerdotale e la dignità legale sono comprese, ricapitolate, approfondite all’infinito in quest’allusione visiva al Servo Sofferente, perché Cristo regna dalla croce quando offre se stesso come sacerdote, vittima e altare, per istituire con il proprio sangue la nuova alleanza per il perdono dei peccati.
Nella Cena del refettorio di Santa Maria delle Grazie, Cristo apre le braccia nel gesto compiuto il giorno dopo sulla croce.
La posa del Cristo leonardiano è stata cioè ideata in funzione dell’atto successivo del dramma sacro, raffigurato sulla parete opposta del refettorio.
La maestosa presenza psicologica, l’insondabile interiorità sono attributi di chi contempla e accetta la propria morte.
Se il Cristo di Leonardo alzasse lo sguardo, vedrebbe infatti la croce del giorno seguente.
La testa inclinata, la mano aperta che indica il pane, sono preannunci di ciò che deve venire dopo.
E la vita dei frati – il loro mangiare, il coraggio con cui, peccatori perdonati, si mantengono in vita – è compresa in quel “mentre”: nell’interstizio tra l’accettazione e la realizzazione, nello spazio quotidiano della sequela, in una fedeltà spesso sofferta, che li configura a Cristo.
__________  Il giornale della Santa Sede su cui è uscito l’articolo di Timothy Verdon: > L’Osservatore Romano __________ Su questi temi, in www.chiesa: > Focus su ARTE E MUSICA