Padre Agostino Gemelli

Un «gran corpo con piccolissi­ma testa»: questa la metafora, incisiva ma alquanto impieto­sa, con cui padre Agostino Gemelli, qualche tempo dopo la creazione del­l’Università Cattolica, definiva il cat­tolicesimo italiano.
La notizia viene da una lettera di Arturo Carlo Jemolo, che riporta le parole pronunciate dal rettore forse in una conversazione pri­vata.
«Quanto alle masse cattoliche – scriveva Jemolo nel ’49 – ricordo che circa un quarto di secolo fa udii dalle Sue labbra un paragone molto sapido tra cattolicesimo francese ed italiano: il primo una gran testa senza corpo, il secondo un gran corpo con piccolis­sima testa».
L’Università Cattolica era stata creata da qualche anno: perché, allora, chi più sentiva la responsabi­lità di guidarla esprimeva un giudizio che faceva trapelare dubbi e perples­sità sul grado di maturazione cultura­le di quel mondo cattolico che l’ave­va prodotta? Gemelli metteva a con­fronto la creatività del cattolicesimo francese e le caratteristiche del movi­mento generato dall’Opera dei con­gressi, un tronco solido da cui erano germinati molti polloni, ma anche un ‘corpo’ cui mancavano menti capa­ci di indirizzarlo nel difficile confron­to tra prospettiva religiosa e moder­nità.
Era questo il compito che si era addossato, non coincidente solo con una sfida privata tra la foggia france­scana del saio che lo rivestiva e l’e­spulsione del cattolicesimo dai domi­ni della ragione laica, comminata da alcuni cultori della modernità nel cli­ma positivista di fine Ottocento, in cui lui stesso si era formato.
I cattolici – sosteneva Gemelli – non devono confutare astrattamente i ne­mici della fede, bensì contribuire «con la pura indagine scientifica» a formu­lare nuove conclusioni, per far risal­tare l’incompletezza e l’incoerenza del sistema di pensiero degli ‘avversari’.
Ecco perché il rettore, amante delle scienze sperimentali, psicologo, in­dagatore che si avvaleva di mezzi di osservazione all’avanguardia, persi­no pilota all’età di sessant’anni, non aveva nulla dell’uomo di altri tempi.
Il medievalismo non gli impediva di dar vita a un’impresa culturale (l’Uni­versità) che non doveva aver nulla di arcaico.
Al centro di tale disegno vi e­ra l’auspicio di una metamorfosi po­litica, sociale e culturale, che l’ateneo avrebbe dovuto favorire formando quadri rinnovati.
N on bastava creare un appar­tato giardino delle intelligen­ze cattoliche, per preservarle dai contagi della cultura laica; l’uni­versità ‘libera’ si candidava invece a fucina in cui sarebbe stata forgiata u­na classe dirigente integralmente cat­tolica e, allo stesso tempo, pienamen­te nazionale.
E infatti l’ateneo era strutturato per fornire agli studenti i saperi necessari ai compiti civili cui e­rano destinati: le discipline sociali e le scienze economiche, sostenute da un lato dalle conoscenze psicologiche che il rettore aveva fatto fruttare sul terre­no patriottico, e dall’altro dall’ausilio dei filosofi neoscolastici, intenti a de­finire i criteri edificatori del nuovo Sta­to, avrebbero dovuto collocare l’ate­neo del Sacro Cuore al centro del pro­cesso di rifondazione nazionale.
Uni­versità, dunque, cattolica ma anche i­taliana, perché alimentata da un dise­gno complessivo che mirava a raffor­zare il senso di responsabilità civile della cattolicità italiana, per trasfor­marla, da luogo della contestazione degli assetti liberali, a sorgente di un modo diverso di essere cittadini.
Il fascismo si inserì in questo proget­to, alterandone parzialmente le carat­teristiche.
L’Università si trovò ben presto ad operare all’interno di un si­stema a vocazione totalitaria, che complicava la strategia del rettore.
Fi­niva allora per polemizzare, non solo con l’agnosticismo moderno, ma con la forzata attrazione dell’individuo nello Stato etico idealista, paventando un inasprimento della temperie auto­ritaria.
E infatti le autorità fasciste va­lutavano con preoccupazione l’anco­raggio al modello di Stato cattolico, preteso da Gemelli, e lo stile educati­vo dell’ateneo, accusato di «non edu­care fascistica­mente » e dunque al centro di lunghi contenziosi, mo­menti di rottura e faticose ricomposi­zioni.
La rigidità di­mostrata da Gemelli si spiega anche con la necessità di porre un argine nei con­fronti di aperture pericolose per la collocazione di u­na libera università in età dittatoriale.
La scelta per la ri­gorosa ortodossia diveniva, non solo un limite alla ricerca individuale, ma una specie di difesa dal mondo che Gemelli si augurava funzionasse an­che nei confronti della dittatura.
L’i­namovibilità dottrinale, peraltro, era il sostrato che apriva a una sorta di sperimentalismo in diversi settori.
Quanto al fascismo, si può osservare che, pur fra cedimenti e alterazioni del progetto, Gemelli riuscì a difendere l’intuizione originaria, apprestando, in vista della successione, una porzione notevole della classe dirigente che ha guidato il Paese dopo il ’45.
L’Uni­versità Cattolica, che già forniva gio­vani all’insegnamento, alle carriere u­niversitarie e alle libere professioni, vide molti docenti e laureati entrare nelle istituzioni nazionali, nella pub­blica amministrazione, negli enti lo­cali e nei punti nevralgici per la rico­struzione del Paese, contribuendo al­la rinascita democratica, alla fonda­zione della Dc ( i documenti ci dico­no che padre Ge­melli, d’accordo con Montini e con De Gasperi, ha convinto Pio XII dell’opportunità di sostenere il na­scente partito cat­tolico), all’Assem­blea costituente, alla ripresa econo­mica e al ripristino di libere attività sindacali.
Parlare del suo rettore si­gnifica insomma riflettere su un in­tellettuale e su un organizzatore di cultura che non ha esitato a fare i conti con la propria e­poca.
Si devono discutere i risultati ot­tenuti, le luci e le ombre di quella at­titudine progettuale, gli esiti teorici e pratici, non ultimo, probabilmente, il fardello ideologico trasmesso ai suoi e­redi.
Tali valutazioni, tuttavia, devono riconoscere a padre Gemelli almeno una capacità: quella di incidere sul proprio tempo, una capacità che for­se altre volte, in campo cattolico, ha faticato a mostrarsi.
Maria Bocci I rapporti tra Ratti e Gemelli venivano da lontano.
Non è escluso che all’inizio del Novecento l’allora dottore dell’Ambrosiana possa avere avuto qualche influsso sulla conversione del giovane scienziato positivista e socialista.
L’ipotesi è avvalorata da un cenno contenuto nella commemorazione del Papa appena defunto fatta dal rettore il 28 febbraio del 1939, due settimane appena dopo la sua scomparsa.
Riferendosi agli anni in cui Ratti aveva lavorato all’Ambrosiana, disse che “le sue ore di riposo erano dedicate alla lettura e alla amicizia di uomini di profondo senso religioso”.
Ma, aggiunse, egli “coltivava anche altre amicizie, per quell’istinto che il Sacerdote ha di cercare le anime lontane da Dio e che hanno bisogno del Sacerdozio”.
È molto probabile che Gemelli intendesse includere fra quelle anime anche la sua.
Poi il futuro pontefice era passato indenne attraverso la vicenda modernista – “mantenne una posizione di equilibrio”, ricorda Gemelli nella commemorazione appena citata – nonostante l’amicizia che lo legava a Gallarati Scotti, ed era successivamente salito prima al vertice dell’Ambrosiana e poi della Biblioteca Vaticana, non toccato, evidentemente, dai dubbi di Pio x sulle infiltrazioni modernistiche nella diocesi di Milano.  Ma da uomo di libri e di cultura, abituato a muoversi nel mondo scientifico, fra gli intellettuali e gli studiosi, non solo in Italia, era ben consapevole della modestia della cultura cattolica del nostro Paese, della sua inferiorità rispetto alla situazione di altri nazioni europee.
Nicola Raponi ha opportunamente ricordato la sua partecipazione al Congresso degli scienziati cattolici svoltosi a Friburgo nel mese di agosto del 1897.
In quella sede le critiche rivolte agli studi cattolici italiani furono impietose, fino alla bocciatura dell’idea di tenere a Roma il successivo congresso, motivata dal fatto che da Roma e dall’Italia non venivano né luci di scienza, né pubblicazioni di rilievo, né riviste importanti, né uomini significativi.
La discussione che si svolse dopo l’assise tedesca sulle pagine della “Rassegna nazionale”, della “Cultura sociale” di Romolo Murri e, proprio ad opera di Ratti, della “Rivista Internazionale di Scienze Sociali”, cambiò prospettiva all’idea di istituire una università cattolica in Italia.
Da problema giuridico e antagonistico, come era stato posto fino ad allora in seno all’Opera dei Congressi, divenne problema di sostanza:  uomini da formare, attitudini e sensibilità da creare, collegamenti internazionali da promuovere.
Gemelli, che allora stava iniziando i suoi studi accademici, raccoglierà in seguito queste idee e con esse il testimone di un progetto che sarebbe stato insieme di rinnovamento delle forze cattoliche, di scontro con la predominante cultura scientista e anticattolica, ma anche di costruttiva rifondazione della vita nazionale.
La lunga crisi che seguì la Prima guerra mondiale, la strisciante guerra civile che preparò la vittoria del fascismo, dimostrò che l’Italia liberale era giunta al capolinea, cosa che non poteva dispiacere all’anima intransigente di cui erano profondamente nutriti tanto Achille Ratti, che si era formato proprio negli anni della protesta ottocentesca, quanto Agostino Gemelli, a motivo della sua conversione.
Non era crollata l’Italia, esito a lungo sperato dall’intransigenza postrisorgimentale, ma era crollato il regime politico che l’aveva fatta.
Il senso del celebre discorso di Pio XI ai quadri dell’Università Cattolica, tenuto il 13 febbraio del 1929, era in fondo questo.
Non era nata un’Italia migliore, ma almeno era finita quella peggiore, cioè l’Italia “della scuola liberale – disse il Papa – per gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, o piuttosto disordinamenti, erano altrettanti feticci”.
Subito, infatti, era stato possibile restituire status giuridico e piena dignità di soggetto internazionale alla Santa Sede attraverso i Patti Lateranensi, “grazie ad un uomo” , per citare le esatte parole del pontefice, “come quello che la Provvidenza “Ci ha fatto incontrare””.
Mussolini non era insomma “l’uomo della Provvidenza” di tante semplificazioni, bensì il casuale interlocutore che rese possibile la soluzione dell’annoso conflitto proprio perché era estraneo alle pregiudiziali del liberalismo.
Ora toccava ai cattolici costruire, sui cocci e sulle macerie di quei “disordinamenti”, il futuro del Paese.
E l’Università Cattolica si proponeva come la punta di diamante della ricostruzione.
Ma occorreva che non vi fossero altre istituzioni analoghe per non frammentare un disegno nazionale che solo dall’unicità dell’indirizzo e del riferimento avrebbe tratto senso, come ha ricordato proprio qui in Cattolica qualche anno fa Giuseppe Dalla Torre, rammentando l’opposizione di Gemelli alla costituzione, a Roma, di quella che oggi è la Libera Università Maria Santissima Assunta (Lumsa), cioè di un secondo polo universitario cattolico.
Non erano allora preventivabili i tempi della fine del fascismo né gli sviluppi successivi, con il lungo governo della Democrazia Cristiana, ma alla luce di quanto è poi avvenuto non si può non riconoscere che il disegno del Papa e di Agostino Gemelli guardasse molto lontano.
Questo disegno è prefigurato, più o meno chiaramente, nella lunga lettera che Ratti aveva inviato a Gemelli dalla nunziatura di Varsavia il 28 marzo del 1921, tanto lunga che prima di concluderla sentì il bisogno di scusarsi di avere scritto sopra e oltre le righe.
In quella lettera, esprimendo tutto il suo incontenibile entusiasmo per la fondazione dell’Università, il futuro pontefice si era espresso in termini molto simili a quelli che userà il rettore, come vedremo fra poco, sebbene con il linguaggio sovrabbondante che gli era caratteristico, così diverso dal periodare secco ed essenziale del francescano.
Scriveva il futuro pontefice:  “Forse mai come adesso è stato grande e stringente il bisogno di tali aiuti (gli aiuti divini, ndr) mentre la società disfatta e dissanguata alla guerra mondiale e dalle sue conseguenze immediate anela ad una restaurazione, ad una rinascita che non possono venirle se non appunto dalla scienza e dalla sapienza di cui il Cuore divino serba il tesoro e il segreto.
È ben qui dove è dato vedere una particolare utilità e necessità di una Università cattolica in Italia.
Soltanto un istituto di alta cultura scientifica dove il Dio delle scienze e la scienza di Dio tengono il posto che loro serbarono Dante e Manzoni, soltanto una tale Istituzione può procurare alla restaurazione e rinascita cristiana della società i più utili e insieme i più necessari elementi di azione e di reazione, di direzione soprattutto; preparando dei laici di una completa formazione scientifica, insieme e cattolica, che è quanto dire scientificamente e cattolicamente consapevoli e persuasi dei diritti di Dio e della Chiesa, dei bisogni della società e della patria, dei fini da raggiungere e dei mezzi da impiegare per provvedere agli uni e agli altri”.
È in questo quadro, dentro i progetti e le illusioni di poter costruire una nuova Italia, che si situa la battaglia per la libertà della scuola, anch’essa portata avanti congiuntamente e in piena sintonia dal Papa e dal rettore.
Il tema della libertà della scuola era stata la punta di diamante delle vecchie lotte dell’intransigenza, ma nel clima postbellico e in presenza di un regime politico come quello fascista, in particolare dopo la Conciliazione, la questione entra in una prospettiva nuova, di competizione piuttosto che di contrapposizione, si rivolge al futuro piuttosto che guardare al passato, come ha ricordato con acutezza in un convegno di qualche anno fa Maria Bocci.
Per Gemelli e per Ratti era certamente necessario sottrarre i cattolici ai luoghi di formazione laicisti e anticlericali, ma non era meno importante contribuire al rinnovamento della vita nazionale portando linfa nuova, energie finora inutilizzate quando non apertamente respinte.
La guerra aveva rivelato la fragilità del tessuto nazionale, la debolezza del senso di appartenenza, l’estraneità delle classi dirigenti rispetto all’anima profonda del Paese.
E ora la crisi dello stato liberale portava a conclusione un intero ciclo storico, aprendo alle forze sociali e culturali rimaste fino ad allora escluse spazi che chiedevano soltanto di essere occupati.
“L’università cattolica – disse il rettore nella relazione di apertura dell’anno accademico 1923-24 – nasceva nel dicembre del 1921 come un esperimento fondato soprattutto sulla fiducia che anche noi cattolici abbiamo nel risorgimento della grandezza del nostro Paese e sulla persuasione che da decenni ci anima, e cioè che la scuola potrà contribuire più di ogni altro istituto a questo risorgimento nazionale, solo se essa sarà libera e se potranno, nel promuoverne l’incremento, cimentarsi in nobile gara, mirando solo all’educazione e alla formazione delle nuove generazioni, tutte le energie sane e fattive del Paese”.  Per Gemelli, e per gli uomini della sua generazione, era chiarissimo quello che per noi oggi è meno chiaro:  che l’Italia non è fondata su armonie sociali prestabilite, ma è un Paese costruito attraverso contrapposizioni, disarmonie, strappi, diversità storiche, ideologiche, culturali, sociali.
Se questa è l’Italia, un Paese lacerato, tutt’altro che compatto, la pretesa di imporre a tutti il medesimo itinerario educativo, neutro e agnostico, era mera illusione.
Molto più realistico era prendere atto di queste eterogeneità e consentire, dentro un comune quadro normativo, la libera competizione di istituti scolastici dichiaratamente orientati, tali da garantire alle famiglie il diritto di scegliere per i figli percorsi educativi coerenti.
Col tempo e con il dispiegarsi del disegno totalitario fascista, cioè dello Stato etico di marca gentiliana, questa idea si caricò di significati nuovi, imprevisti e imprevedibili al momento della nascita dell’Università.
Da rivendicazione di sapore quasi confessionale, come era stata nella vecchia cultura cattolica, divenne difesa della libertà di tutti, benché riferita soprattutto alle prerogative della Chiesa, come scrisse Pio XI nel 1931, nell’enciclica Non abbiamo bisogno.
Il proposito “di monopolizzare interamente la gioventù, dalla primissima fanciullezza fino all’età adulta – affermò il Papa nell’enciclica – a tutto ed esclusivo vantaggio di un partito, di un regime, sulla base di un’ideologia che dichiaratamente si risolve in una vera e propria statolatria pagana”, confligge irrimediabilmente con i “diritti naturali della famiglia e coi diritti soprannaturali della Chiesa”.
La lotta per il riconoscimento della scuola libera diventava, nella prospettiva comune al Papa e a Gemelli, non tanto lotta per la libertà di coscienza, che sarebbe stato andare troppo oltre l’ecclesiologia del tempo, ma lotta strenua per la “libertà delle coscienze”, della quale la famiglia era l’irrinunciabile baluardo, in una concezione del vivere sociale alternativa a quella del fascismo, concezione che intendeva lo Stato come ente sussidiario di istituti preesistenti e non come istituto monopolistico, totalizzante e fondante il diritto.
La famiglia aveva diritti e doveri che precedevano quelli dello Stato, soprattutto in materia di educazione e istruzione dei figli.
Queste erano prerogative che lo Stato non poteva manomettere Sul tema della famiglia intesa come ultimo, estremo bastione difensivo davanti all’avanzata dello stato etico, l’archivio dell’Università Cattolica conserva quattro chiarissimi memoriali inviati da Gemelli al Papa, purtroppo non datati.
L’Ateneo del Sacro Cuore, anello conclusivo di un percorso scolastico che si voleva alternativo a quello della scuola e dell’università statale, divenne così una sorta di bandiera della cattolicità italiana, fermamente difesa dalla Santa Sede e oggetto fino all’ultimo delle trattative concordatarie.
Conservato nell’archivio dell’università c’è un lungo promemoria inviato da Gemelli all’avvocato Francesco Pacelli il 6 febbraio del 1929, solo qualche giorno prima della conclusione dei Patti, volto a fissare i termini giuridici con i quali l’università avrebbe dovuto essere indicata nel concordato.
Non mi soffermo su questo documento.
È importante però precisare che per volontà del Papa, una volontà che in questo caso si sovrappose e si impose a quella del rettore, diversamente orientata, non fu mai messa in dubbio la sua natura di università statale piuttosto che pontificia.
Il Papa era convinto che in questo secondo caso si sarebbe sganciato l’ateneo dal sistema pubblico italiano, compromettendone il carattere nazionale, voluto fin dall’inizio, nonchè il prestigio accumulato nel mondo scientifico e accademico del Paese.
Gianpaolo Romanato (©L’Osservatore Romano – 27-28 aprile 2009)

Islam in Europa / Islam in Italia tra diritto e società

A.
FERRARI (a cura di),  Islam in Europa / Islam in Italia tra diritto e società, Il Mulino, Bologna, 2008, ISBN: 978-88-15-12489-0, pp.
376, € 28,00 L’islam ha cambiato la geografia religiosa dell’Europa occidentale.
Tuttavia, benché irreversibile, l’integrazione delle comunità musulmane nel “Vecchio continente” conosce tutte le difficoltà e le contraddizioni tipiche dei grandi processi sociali, che coinvolgono nel profondo sia le pubbliche istituzioni sia i vissuti quotidiani dei singoli.
Di qui la tensione tra “antichi” e “nuovi” costumi; fra la “tradizione delle radici” e le sfide del presente cui essa è confrontata.
Ma qual è, oggi, il volto dell’islam europeo ed italiano? Quale la situazione dell’islam nella scuola; delle moschee; degli imam? A che punto si trova la prospettiva di un’intesa con lo Stato? Quali sono le esperienze europee che potrebbero rivelarsi più utili nell’affrontare queste ed altre questioni, a cominciare da quelle poste dalle famiglie musulmane? Con un approccio interdisciplinare, i saggi raccolti in questo volume intendono fare il punto della situazione e offrire alcune indicazioni operative per il futuro.
Indice: Nota introduttiva, di A.
Ferrari – p.
7 PARTE PRIMA: LA SITUAZIONE.
L'”islam europeo” e i suoi volti, di F.
Dassetto.
– p.
13 Islam italiano e società nazionale, di S.
Allievi.
– p.
43 Le questioni normative, di S.
Ferrari.
– p.
77 PARTE SECONDA: FAMIGLIA E MATRIMONIO.
Famiglie musulmane in Italia.
Dinamiche sociali e questioni giuridiche, di L.
Mancini.
– p.
91 Il matrimonio: conflitti di leggi o di culture?, di G.
Conetti.
– p.
111 A proposito del matrimonio islamico in Italia, di A.
Albisetti.
– p.
121 Diritto matrimoniale inglese e legge musulmana, di W.
Menski.
– p.
129 PARTE TERZA: LA SCUOLA.
Studenti musulmani e prospettive dell’educazione interculturale, di M.
Santerini.
– p.
149 La scuola italiana di fronte al paradigma musulmano, di A.
Ferrari.
– p.
171 L’islam nel sistema scolastico inglese, di B.
Gates.
– p.
199 PARTE QUARTA: IMAM E MOSCHEE.
Quali imam per quale islam?, di P.
Branca.
– p.
219 Moschee e formazione degli imam in Francia, di B.
Basdevant Gaudemet.
– p.
233 Moschee e formazione degli imam in Austria, di W.
Wieshaider.
– p.
249 PARTE QUINTA: VERSO UN’INTESA TRA STATO ITALIANO E ISLAM? L’ente di culto e gli statuti nell’islam, di N.
Colaianni.
– p.
259 La rappresentanza e l’intesa, di G.
Casuscelli.
– p.
285 PARTE SESTA: REALTÀ E PROSPETTIVE.
Tariq Ramadan, p.
325 Maurice Borrmans, p.
335 Francesco Margiotta Broglio, p.
343 (pdf) Alessandro Ferrari insegna Diritto canonico e Diritto ecclesiastico nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università dell’Insubria.
Tra le sue pubblicazioni, “Libertà scolastiche e laicità dello Stato in Italia e Francia” (Giappichelli, 2002) e, con R.
Aluffi Beck-Peccoz e A.M.
Rabello, “Il matrimonio.
Diritto ebraico, canonico e islamico: un commento alle fonti” (Giappichelli, 2006).
Per il Mulino ha curato, con E.
Dieni e V.
Pacillo, “Symbolon/Diabolon.
Simboli, religioni, diritti nell’Europa multiculturale” (2005).
elenco libri di questo autore

Firenze e il suo vescovo:

Ai primi di ottobre, poco prima di entrare in diocesi, disputò pubblicamente con la filosofa Roberta de Monticelli.
Questa aveva annunciato di abbandonare la Chiesa cattolica proprio per colpa di Betori: per aver egli condannato, “a nome della Chiesa italiana”, l’autodeterminazione nell’interrompere anticipatamente la vita.
Lo accusò di “diabolicamente” negare “la possibilità stessa di ogni morale: la coscienza e la sua libertà”.
Betori le rispose con un pacato editoriale sul quotidiano della CEI, “Avvenire”, dal titolo: “Chiedo anch’io la libertà di coscienza.
Altra cosa dall’autodeterminazione”.
Poco dopo l’ingresso in diocesi il 26 ottobre, corse a visitare i piccoli malati dell’ospedale pediatrico “Enrico Meyer” di Firenze, proprio mentre nello stesso ospedale si teneva un congresso sul tema: “Il neonato è persona?”, con relatore il neonatologo olandese Eduard Verhagen, promotore di “cure di fine vita” per gli infanti.
L’arcivescovo criticò l’orientamento del congresso, lo definì “inquietante”.
In novembre, la sera del 20, partecipò a una veglia di preghiera per Eluana Englaro, la giovane donna in stato vegetativo che la magistratura italiana aveva autorizzato a far morire, interrompendo l’alimentazione e l’idratazione come richiesto dal padre: un caso molto simile a quello di Terri Schiavo negli Stati Uniti.
Betori pronunciò nell’occasione una riflessione in forte difesa del mantenimento in vita di Eluana.
E questo fu il suo primo atto pubblico solenne su una questione anche politica, da nuovo arcivescovo della città.
L’8 dicembre, festa dell’Immacolata, predicando in piazza del Duomo disse: “Siamo turbati nel vedere come da più parti e in varie forme sia posta in questione l’intangibile dignità della persona umana, soprattutto dove essa vive nella fragilità, al sorgere e al naturale compiersi della vita”.
Il 23 gennaio, al consiglio pastorale diocesano, indicò tra gli obiettivi della Chiesa fiorentina quello di riconquistare “la visibilità della vita credente quotidiana” e quello di sanare la frattura consumatasi nei decenni passati tra la fede e la cultura.
Intanto, ad Eluana Englaro era stata tolta la vita.
La donna non era di Firenze.
Ma pochi giorni dopo, il 9 marzo, il consiglio comunale di questa città, su proposta di un consigliere socialista, deliberò di dare a Giuseppe Englaro, il padre di Eluana che ne aveva voluto la morte, la cittadinanza onoraria: “quale simbolo di eccellente insegnamento di grande integrità morale, di coraggio umano e civile, in difesa della legalità della laicità dello stato, dell’umanità, della civiltà”.
La delibera passò di stretta misura, con numerosi voti contrari.
Meno di un’ora dopo arrivò la replica dell’arcidiocesi, con una nota ufficiale risolutamente critica: “Il gesto compiuto è offensivo nei confronti di quella non trascurabile parte della città che nel corso della vicenda di Eluana ha manifestato orientamenti ben diversi da quelli di cui erano portatori il signor Giuseppe Englaro e il gruppo che lo ha sostenuto.
Ma l’offesa più grande è stata fatta verso i genitori, fratelli, amici e volontari che si stringono attorno ai loro oltre 2500 cari che in Italia vivono in situazioni similari a quelle da cui è stata strappata a forza Eluana, persone che chiedono invece di essere sostenute nella loro dedizione, nella loro fatica e nella loro speranza”.
Ne nacque una discussione pubblica molto animata.
Il presidente del consiglio comunale, Eros Cruccolini, scrisse una lettera alla diocesi in difesa della giustezza della delibera.
Betori rispose confermando “che proprio l’amore per questa città esige che un vescovo, in coscienza, debba esprimere, se necessario come nel caso presente, un dissenso” .
Un ulteriore botta e risposta scritto si ebbe prima della cerimonia di conferimento a Giuseppe Englaro della cittadinanza onoraria.
L’arcivescovo, invitato ad assistere alla cerimonia, rifiutò.
La disputa è tuttora viva e si intreccia, su scala nazionale, alla discussione che accompagna l’elaborazione nel parlamento italiano di una legge sul fine vita, accelerata proprio dalla sentenza della magistratura su Eluana Englaro.
Ma a Firenze il fatto nuovo è proprio il ruolo svolto dal vescovo, che non ha precedenti negli ultimi decenni.
La novità è doppia.
Anzitutto per l’impegno diretto, anche nel campo politico, del vescovo nella città.
E poi per l’oggetto di questo suo impegno pubblico, che riguarda la difesa della vita umana in quanto tale: un tema sul quale una parte dei vescovi, del clero e del laicato cattolico è molto restio a porsi in conflitto con lo “spirito del tempo”.
Questa duplice novità esige di essere analizzata e interpretata, anche per la sua forza esemplare.
È quanto fa qui di seguito il professor Pietro De Marco, fiorentino ed esperto riconosciuto del cattolicesimo della sua città:  Sul vescovo come difensore della città, nelle moderne invasioni dei barbari di Pietro De Marco 1.
La attuale congiuntura della Chiesa fiorentina, retta dall’arcivescovo Giuseppe Betori, credo abbia una sua esemplarità che può avere ripercussioni internazionali.
Ciò che avviene a Firenze è il recupero di un ruolo antico: quello del vescovo come “defensor civitatis”, difensore della città, e “consul Dei”, console di Dio, appellativo, quest’ultimo, che fu dato a papa Gregorio Magno.
Naturalmente qualcosa di questo ruolo episcopale emerge a tratti nelle guerre o nelle rivoluzioni.
Anche il cardinale Clemens August von Galen venne definito, per la sua testimonianza nella Germania hitleriana, “defensor civitatis” e “consul Dei”, come gli antichi Padri della Chiesa “tra le orde dei barbari”.
Oppure emerge in situazioni di grave conflitto sociale, come accadde col vescovo Oscar Romero in America Latina.
Ma il caso di Firenze è interessante anche perché avviene fuori dall’eccezionalità di un’azione eroica, o da uno stile “engagé”, tanto celebrato nelle culture liberazioniste quanto raramente originale, e spesso con effetti dottrinali e pastorali negativi.
Al centro del caso di Firenze vi sono questioni antropologiche, bioetiche e biopolitiche che hanno poco da spartire con i consueti terreni di disputa politica ed economica.
Sulle questioni della vita, la Chiesa è nella sua piena originalità e solitudine; è soggetto insostituibile.
In questo senso il caso fiorentino ha portata esemplare.
Che potrebbe sollecitare o confermare dei fermenti nella stessa direzione, in altri episcopati.
2.
I media laici hanno adottato la metafora calcistica dell’intervento “a gamba tesa” per indicare la forma e la sostanza del comunicato dell’arcidiocesi di Firenze del 9 marzo scorso, critico sulla concessione, da parte della municipalità, della cittadinanza onoraria a Giuseppe Englaro, padre di Eluana, la giovane donna in stato vegetativo fatta morire di fame e di sete poche settimane prima, per sentenza della magistratura.
Questo atto critico pubblico è coerente con uno stile di governo della Chiesa fiorentina che si sta delineando di settimana in settimana.
Nel comunicato arcivescovile si affermava: “La pretesa di un gruppo di consiglieri di fare una scelta a nome di tutta una città è un atto di disprezzo verso la minoranza dei rappresentanti del popolo e verso una presunta minoranza di cittadini, inferendo una profonda lacerazione nella convivenza”.
E ancora: si è inteso “mostrare con un ultimo atto di arroganza [da parte di un consiglio comunale a fine mandato – ndr] la disponibilità di un potere esercitato come arbitrio, a spregio di chi ha altre opinioni e ritiene la vita un bene indisponibile perché sacro”.
Alcuni hanno equiparato il comunicato della curia arcivescovile addirittura a un proclama intimidatorio, a un “diktat” al quale il consiglio comunale della città avrebbe dovuto inchinarsi.
Espressioni come “proclama” e “diktat” non sono nuove.
Sono state rivolte da commentatori autorevoli anche contro il presidente della conferenza episcopale italiana, cardinale Angelo Bagnasco, intervenuto anche lui sul caso di Eluana negli stessi giorni.
Il meccanismo e il vocabolario di contrapposizione alla Chiesa cattolica sono in Italia ormai standardizzati e automatici.
Viene quindi da domandarsi perché anche chi, più moderatamente, ha usato la metafora sportiva della “gamba tesa”, abbia comunque evocato un comportamento che impone all’arbitro di fischiare fallo.
La risposta investe la storia civile e religiosa italiana dell’ultimo mezzo secolo.
Vi sono diverse cause alle radici della percezione e censura di un comportamento falloso, o “uncorrect”, in ogni intervento pubblico della gerarchia cattolica.
Da decenni il popolo cattolico italiano si è assuefatto al silenzio del suo clero e dei suoi vescovi, in sede pubblica.
Anzi, si è assuefatto a qualcosa di più: a che i vescovi parlino in pubblico, eventualmente, solo per sottoscrivere valori e retoriche civili prevalenti, quasi a certificare il proprio consenso, la propria conformità ad essi.
Infatti, non sono mancate voci di denuncia da parte di vescovi dei “mali” del paese, ma principalmente rivolte a temi civili sui quali la Chiesa si allineava, spesso con qualche ritardo, alle forze politiche e morali “critiche”.
Sui temi però di diretta deduzione dall’antropologia cristiana, prevale il silenzio.
I vescovi hanno a lungo delegato il “discernimento critico” su questi temi, e la sua proposizione pubblica, al magistero ordinario degli ultimi pontefici e alle pronunce della CEI.
Così, senza rendersene conto, i vescovi lasciano alla società civile – e specialmente alle culture politiche di opposizione e denuncia – il compito di conferire la legittimazione “politica” all’autorità episcopale.
Anche se non sono mancate eccezioni, questa “correttezza politica” è stata a lungo osservata, col visibile gradimento di amministratori e forze politiche.
Da una pratica del genere sono derivate delle tacite regole del gioco.
L’opinione pubblica le ha variamente assimilate, e questo o quell’arbitro ritiene di poter dare fiato al fischietto non appena un vescovo sembri “scorretto”.
Ma vi è di più.
Un’opinione pubblica qualificata, anche cattolica, ha confuso questa “correctness” ecclesiastica nella sfera pubblica con un ideale equilibrio tra autorità politiche e spirituali.
Realizzando così nei fatti e nel costume una impropria “privatizzazione” della peculiare e irrinunciabile natura pubblica della Chiesa.
La moderna dottrina della “laïcité” condiziona la neutralità dello Stato al carattere privatistico della Chiesa e alla sua non ingerenza, alla sua innocuità politica, delle quali lo Stato sarebbe giudice.
Ma la Chiesa cattolica non è così per essenza, né è riducibile a questo.
Non lo è stata quando ha innervato di sé l’Europa e l’Occidente, non lo è diventata dopo Lutero o dopo Locke, né con la Rivoluzione francese o sotto la minaccia delle religioni politiche e delle rivoluzioni totali del Novecento.
Questa presenza magisteriale e civilizzante della Chiesa cattolica, la necessità che essa compaia come tale nella sfera pubblica, non sono mai spariti del tutto, anzi, sono da diversi anni di nuovo presenti e visibili sulla scena mondiale.
I sociologi individuano questo fenomeno come uno dei più sintomatici dell’età “postsecolare”.
Il pontificato di Giovanni Paolo II e, in Italia, l’innovativo governo della conferenza episcopale esercitato dal cardinale Camillo Ruini hanno messo questa rinnovata presenza pubblica della Chiesa sotto i nostri occhi.
Ma sia l’assuefazione di parti della società civile, sia la neutralizzazione della visibilità e autorità della Chiesa tentata dalle culture secolariste convergono tuttora nel sentire la presenza magisteriale e civilizzante della gerarchia cattolica come eccezione, come trasgressione, persino come imposizione.
3.
Passiamo a Firenze e al suo vescovo.
Fin dai primi secoli del cristianesimo il vescovo è sia centro della vita liturgica, che è già in sé pubblica, sia – in coerenza col suo ministero che è “sovraintendere” – una peculiare autorità civile.
Ha scritto uno storico della tarda antichità, Bernard Flusin: “È impressionante la lista degli ambiti in cui il vescovo è chiamato a intervenire”.
Anche se non è un signore territoriale, il vescovo è un “defensor civitatis” con un ruolo di bilanciamento rispetto ai funzionari imperiali.
Attraverso i vescovi la chiesa porta a evidenza istituzionale nuova, rispetto agli ordinamenti precristiani, le funzioni di assistenza e di governo: i vescovi organizzano il culto, ammaestrano, sovvengono ai poveri, influenzano lo spazio urbano.
Il vescovo, nel quadro della sua città, è detentore di poteri definiti giuridicamente, che lo pongono a capo della comunità cittadina di fronte al potere civile.
Confermano altri storici, tra cui Luce Pietri: “I suoi titoli lo dichiarano garante della giustizia e protettore dei deboli, spesso in contrasto con la giurisdizione” civile.
È ministro dell’assistenza.
Questi tratti di lungo periodo sono stati poi aggiornati e armonizzati agli ordinamenti dello stato moderno e delle democrazie pluralistiche, ma non estinti.
Restano costitutivi.
E ciò è così vero e così evidente alla coscienza pubblica e al calcolo dei governanti, che quando i compiti del vescovo verso la “polis” si esprimono in attività sociali di “supplenza” sono graditi, ricercati, elogiati.
Quando invece la sollecitudine del vescovo – che in se stessa non è per il welfare ma risponde all’assoluto comando evangelico ed è in ultimo ordinata alla salvezza delle anime anche quando sovviene ai corpi – si rivolge ad altre e decisive tutele del benessere spirituale e morale dei cittadini, e lo fa secondo autorità, a voce alta, essa è fischiata come “fallosa”.
Eppure non sono che momenti distinti dello stesso mandato e dello stesso ufficio.
Il comunicato dell’arcidiocesi è, nella sostanza, la prima lettera del vescovo Giuseppe Betori alla città e sulla città.
È un atto di sollecitudine del pastore, che si fa “garante della giustizia e protettore dei deboli” sul terreno antropologico, anche in contrasto con i poteri pubblici.
Egli analizza la realtà e mette in guardia dai pericoli.
Il richiamo al “rispetto dei ruoli e delle reciproche autonomie”, che compare nella lettera inviata all’arcivescovo dal presidente del consiglio comunale di Firenze, mostra scarsa conoscenza di questo compito episcopale.
4.
Il dibattito pubblico che ne è venuto, inedito per Firenze come inedita, da mezzo secolo, è in questa città l’assunzione di responsabilità pubblica da parte di un vescovo in contrasto con i poteri civili, rappresenta un paradigma per un nuovo stile ecclesiale, almeno in Europa.
La svolta non ha mancato di sollevare alcune obiezioni.
Si è osservato che lo stile “ortodosso” di Betori non è in sintonia con Firenze, poiché “Firenze è atipica, non è città dell’ortodossia”.
Questa convinzione appartiene a una sorta di mito romantico e risorgimentale di una Firenze “eretica”, che ha avuto qualche fortuna anche nel Novecento.
Ma proprio la vicenda recente del cattolicesimo fiorentino, che molti conoscono anche al di fuori dell’Italia, non ha nulla a che fare con quel mito.
Giorgio La Pira, il sindaco di cui è in corso la causa di beatificazione, era un “piagnone” (parola con cui erano designati nel Quattrocento i seguaci del monaco rigorista Girolamo Savonarola) di forte ortodossia, obbedientissimo alla Chiesa e al papa.
Dopo la stagione lapiriana quel robusto filone cattolico si è dissolto nel silenzio pubblico, tra marginalità, nascondimento nicodemita e conformismo progressista.
Ma di nuovo, con Betori vescovo, non è più stagione di silenzi o sussurri, per la Chiesa.
Il presidente del consiglio comunale della città ha sostenuto che le decisioni a maggioranza di un organo elettivo, “espressione concreta della volontà della città”, non possono mai essere considerate “negative”.
Ma così ha confuso legalità con legittimità politica.
La lotta tra gruppi e correnti della maggioranza progressista che amministra Firenze ha prodotto una delibera di portata ideologica, militante, fatta per suggestionare con riti civili (il conferimento della cittadinanza onoraria al padre di Eluana Englaro) l’opinione pubblica e conquistarla a una irriflessa opzione verso l’eutanasia, quindi su frontiere etiche di estrema gravità.
Inoltre una ridotta maggioranza di consiglieri ha fatto uso di poteri e strumenti legali per schierarsi contro il governo nazionale e contro la Chiesa, proprio mentre a Roma il parlamento stava elaborando una legge sul “testamento biologico”.
Un atto politico che è difficile non giudicare – come ha fatto il vescovo – “pretestuoso, offensivo, distruttivo” per il governo della città, non meno che per l’etica pubblica.
Domani, quali altre decisioni potranno essere prese facendo leva simbolicamente sul “cittadino Englaro”, e con l’apporto di quanto resta del dissenso cattolico? Il vescovo di Firenze, sollecito perché si realizzi “iustitia” nel senso profondo della politica cristiana, ha reso consapevoli i cittadini di questa anomalia etico-politica.
Ha agito nonostante la pressione contraria di un’opinione pubblica anche ecclesiale: quella che si oppone alla Chiesa “delle condanne” in nome della “medicina della misericordia”.
Quest’ultima pressione è obiettivamente alleata con le polemiche laiche contro la “Chiesa del no”, ridicolmente additata come Chiesa della paura e della conservazione.
Anche la cosiddetta “opinione pubblica ecclesiale” mostra una assoluta sordità (spesso tradotta in pratica pastorale) alla battaglia bioetica della Chiesa e degli ultimi pontefici.
Sempre propensa a parlare di apertura alla speranza, questa opposizione intra-ecclesiale ignora che la speranza dell’uomo è affidata a coerenza antropologica, a responsabilità universalistica, non a un minimalismo di paradigmi rivolto a sovvenire pietosamente ai casi particolari.
Ignora che altra è, ecclesiologicamente, la responsabilità di un parroco, condizionata dall’immediato dei “mondi vitali” dei suoi fedeli, altra quella del papa e dei vescovi.
L’immediato dei mondi vitali non può divenire canone di fede.
5.
C’è poi anche un’altra obiezione: perché il recente risveglio delle gerarchie cattoliche si esercita solo o prevalentemente nel campo della bioetica e della biopolitica? Rispondo che non è importante argomentare qui, come pur sarebbe possibile, che non è così.
Credo in effetti che questa prevalenza debba esistere.
L’ambito bioetico e biopolitico è di tale crucialità che sarebbe piuttosto l’assenza di questi temi nella predicazione cristiana ordinaria ad apparire colpevole.
Vi sono ambienti, anche cattolici, dove i temi bioetici sembrano scottare le labbra e si preferisce deprecare che altrove se ne parli: deprecare cioè che ne parli la gerarchia, seguita da cerchie “fondamentalistiche”.
È invece colpevole il silenzio su questi temi, perché nessun cattolico è esonerato dall’intendere che la sfida delle biotecnologie non discende da soli bisogni terapeutici e non approda alla sola riduzione di una patologia o di una sofferenza.
Essa è sfida antropologica nel significato pieno della parola, ossia all’esistenza e al senso dell’uomo come creatura.
Quella che chiamiamo da qualche tempo antropologia teologica è stata per secoli una sezione del trattato “de Deo creante et elevante”.
Né può essere diversamente.
Senza fondamento nel Dio creatore, scienze e filosofie dell’uomo e del “bios” divengono saperi e pratiche di un videogame giocato sull’uomo reale.
Le implicazioni della sfida, il frequente cinismo nichilistico alla Peter Singer, il fantasticare sul post-umano sono oggi così ricorrenti ed espliciti che solo una “differenza cristiana” incantata dall’innocenza del mondo può non prenderne atto.
Questa frontiera è, invece, di assoluta priorità per la responsabilità cristiana.
Se l’uomo non è pensato come creatura non vi può essere sensato ragionamento sui suoi atti.
La teoria che calcola il “migliore interesse” dell’essere umano, prima o dopo la nascita, portatore di handicap o malato grave, è esemplare, più ancora che per la sua inumanità, per la sua vacuità teoretica.
Quale sarebbe il miglior interesse per un essere non integro, non sano? Non essere più.
Che meravigliosa integrità e felicità restituiremmo al feto, all’infante, al malato, all’anziano, sopprimendolo! La irragionata convinzione secondo cui il migliore interesse di un essere ne chiederebbe e giustificherebbe la soppressione è, da sola, la straordinaria spia di una deriva suicidaria.
Benedetto XVI l’ha messo in luce.
6.
A tutto questo il vescovo cattolico, per primo, ha il compito di dire autorevolmente “no”, “mi oppongo” (come nel “Racconto dell’Anticristo” di Solov’ev), non sorpreso dal trovarsi magari solo nella sollecitudine ultima per l’uomo: perché sola e universale nella comunità degli uomini è la Chiesa, com’è suo mandato e sua certezza, dall’origine.
Un “no” detto senza pathos apocalittico.
Con argomenti e con analisi, discernendo le tecniche e le metodiche.
Con la sapienza di chi ha costruito e garantito la ragione dell’Occidente.
Perciò, nella risposta cattolica all’emergenza bioetica non vi è alcuna “sacralizzazione del biologico”, come qualche critico sostiene.
Ogni vita di cui l’intelletto e l’amore cattolico si occupano è sempre l’intero umano, che è molto più del vivente che appare al biologo o al clinico in quanto tali.
Né vi è alcunché da sacralizzare, perché quell’intero è già “sacro”.
Sono evidenze difficilmente controvertibili.
Eppure resta, preoccupante, la diffusa incapacità, per non dire la resistenza cattolica a capire e a motivare il primato radicale, oggi, dell’annuncio antropologico.
Sembra reciso il filo con la grande tradizione apologetica.
La confusa cedevolezza di tanta cultura cattolica alle campagne mediatiche contro la “Chiesa del no” non attesta alcun proficuo “dialogo col mondo”, piuttosto una situazione di dipendenza intellettuale e politica.
Ma dei vescovi combattenti potranno portarci fuori dall’Egitto.
__________ Firenze è una città faro per il mondo intero.
Lo è come capitale dell’arte.
Ma lo è anche come laboratorio di forti esperienze cristiane, personali e di gruppo.
Lo è stato sicuramente per una gran parte del Novecento.
Il nuovo esempio che oggi Firenze offre al mondo cattolico, non solo italiano, ha a che fare con il ruolo del suo arcivescovo.
Il suo nome è Giuseppe Betori.
Ha 62 anni, è originario dell’Umbria e ha fatto studi da biblista.
È arcivescovo di Firenze dall’8 settembre del 2008.
In precedenza era stato segretario generale della conferenza episcopale italiana, braccio destro del cardinale presidente Camillo Ruini e poi del suo successore, il cardinale Angelo Bagnasco.
L’estate scorsa, quando la sua nomina era nell’aria ma non ancora ufficialmente decisa, un buon numero di sacerdoti e di laici fiorentini firmarono una lettera aperta per chiedere che il nuovo vescovo fosse uomo di “pazienza” e di “perdono”, lasciasse cadere “i toni amari e di condanna”, instaurasse tra la Chiesa e la società civile “un clima di libertà e di rispetto reciproco”.
Era facile indovinare che questo profilo di vescovo non corrispondeva a quello polemicamente attribuito a Betori dai firmatari della lettera.
In ogni caso Benedetto XVI mandò lui a Firenze.
Nella sua prima intervista al giornale della diocesi, Betori annunciò che avrebbe operato per “una fede capace di fare cultura”.
E aggiunse: “Nulla di ciò che è umano è alieno alla Chiesa e quindi ci sarà una parola della Chiesa su tutta la realtà cittadina.
L’umano può e deve essere illuminato dal Vangelo”.
I due precedenti servizi di www.chiesa sulla particolarità del cattolicesimo fiorentino, entrambi con commenti del professor Pietro De Marco: > Firenze contro Roma: un cattolicesimo in stato di disagio (25.6.2007) > A Firenze i cattolici riscrivono la loro storia (26.6.2008) Il prossimo 16 maggio, i cattolici che in Italia si dicono “in sofferenza” per una Chiesa che antepone la condanna alla misericordia si sono dati nuovamente appuntamento a Firenze.
Questo è il loro invito all’incontro, con le firme dei proponenti tra cui Alberto Melloni, Giuseppe Ruggieri, Luigi Pedrazzi, Angelina Alberigo, Enrico Peyretti, Pier Giorgio Camaiani, Giovanni Nicolini, Massimo Toschi: > Il Vangelo che abbiamo ricevuto E questo è un commento critico del professor De Marco: > In attesa dell’incontro fiorentino sulla “sofferenza” dell’Evangelo nella Chiesa __________

Earth Day: Il Giorno della Terra

Il 22 aprile si é celebrato in pompa magna in quasi tutta la terra (prima nell’emisfero Nord e poi in quello Sud) l’ “Earth Day”, cioè la Giornata della terra.
Questa umanità ipocrita che per il suo comodo stare sta dilaniando foreste, mari, monti, bestie- che certe volte sono più degne dell’uomo- una volta all’anno celebra la Terra che- come pure i più imbecilli sanno, non ha molto da vivere davanti a sé, seppure sia un qualcosa di meraviglioso e stupendo, creato da Dio come dicono i credenti, usciti dal Big Bang come sostengono molti scienziati che però ancora non sono arrivati a dimostrare il famoso inizio del “Bang”(e non lo scopriranno perché la creazione è un mistero troppo grande per la piccola mente umana).
Nel corso degli anni, ho riportato la voce di scienziati, di astronomi, di sociologi, di umanisti che mi avvertivano di informare sul disastro cui andava incontro l’umanità se non si dava una regolata nei consumi, nello strafare e nella prepotenza del mondo ricco sul mondo povero.
Ma si sa, le “piccole voci” che non hanno supporti politici sono soffocate, ammutolite.
Certe volte, mi sembra di rivedere il dramma di Sodoma e Gomorra raccontato nella Bibbia(Gn 18 e 19) i cui abitanti ridevano e sghignazzavano, si davano ai bagordi di ogni genere, credendosi “immortali”.
Sulla Terra, niente è immortale, tranne il pensiero che- certe volte- indirizza gli uomini e le donne a trovare dei “rimedi” per aiutare i propri simili a credere nel Bene.
Naturalmente, come al solito , nell’insieme dei fatti che presento, ce n’è per tutti: sfruttatori e amici della Terra Madre.
Terra madre Regia di Ermanno Olmi [Terra madre, 2009, Documentario, durata 78′] Con Ampello Bucci, Maurizio Gelati, Carlo Petrini, Pier Paolo Poggio, Marco Rizzone, Aldo Schiavone, Vandana Shiva, Angelo Vescovi Il regista denuncia i disastri ambientali e prende spunto dal Forum Mondiale Terra Madre, tenutosi a Torino nel 2006, per poi seguire nei luoghi d’origine alcuni dei protagonisti del Forum: dalle isole Svalbard (Nord della Novergia) per filmare l’inaugurazione della Banca Mondiale dei Semi, a Dehradun (regione Uttaranchal, Nord dell’India) per riprendere la raccolta del riso, nei pressi della Navdanya Farm, la fattoria di Vandana Shiva, dove sono custoditi i semi del riso tramandati di generazione in generazione sino a Quarto d’Altino, Comune di Roncade nel Veneto, dove racconta la storia di un contadino.
Il lavoro di Olmi è stato presentato a Berlino 2009, però uscirà nei cinema in Italia:08 maggio 2009.
Il Giorno della Terra, in inglese Earth Day è il nome usato per indicare due diverse festività: una che si tiene annualmente ogni primavera nell’emisfero nord del pianeta, e un’altra in autunno nell’emisfero sud, dedicate entrambe all’ambiente e alla salvaguardia del pianeta Terra.
Le Nazioni Unite celebrano questa festa ogni anno nell’equinozio di primavera, ma è un’osservanza ufficializzarla il 22 aprile di ciascun anno.
La festività è riconosciuta da ben 175 nazioni e viene celebrata da migliaia e migliaia di persone.
L’Earth Day fu celebrato a livello internazionale per la prima volta il 22 aprile 1970 per sottolineare la necessità della conservazione delle risorse naturali della Terra.
Nato come movimento universitario, nel tempo, l’Earth Day è divenuto un avvenimento educativo ed informativo.
I gruppi ecologisti lo utilizzano come occasione per valutare le problematiche del pianeta: l’inquinamento di aria, acqua e suolo, la distruzione degli ecosistemi, le migliaia di piante e specie animali che scompaiono, e l’esaurimento delle risorse non rinnovabili.
Si insiste in soluzioni che permettano di eliminare gli effetti negativi delle attività dell’uomo; queste soluzioni includono il riciclo dei materiali, la conservazione delle risorse naturali come il petrolio e i gas fossili, il divieto di utilizzare prodotti chimici dannosi, la cessazione della distruzione di habitat fondamentali come i boschi umidi e la protezione delle specie minacciate.
Tutti, a prescindere dalla razza, dal sesso, da quanto guadagnino o in che parte del mondo vivano, hanno il diritto morale a un ambiente sano e sostenibile.
L’Earth Day, il giorno della Terra, da quasi quarant’anni si basa saldamente su questo principio.
Il 22 aprile del 1970, 20 milioni di cittadini americani, rispondendo a un appello del senatore democratico Gaylord Nelson, si mobilitarono in una storica manifestazione a difesa del nostro pianeta.
Oggi, su questo principio quanto mai d’attualità si sono mobilitati ancora, in 174 paesi del mondo.
L’Earth Day 2009 ha segnato anche l’inizio di un’ ampia campagna di sensibilizzazione denominata dagli organizzatori “Green Generation Campaign” i cui punti principali sono la ricerca di un futuro basato sulle energie rinnovabili, che ponga fine alla nostra comune dipendenza dai combustibili fossili, incluso il carbone.
Un impegno personale a un consumo responsabile e sostenibile.
La creazione di una “economia verde” che tolga la gente dalla povertà con la creazione di milioni di “posti di lavoro verdi” e trasformi anche il sistema educativo globale in un sistema educativo “verde”.
Il 22 aprile 2009, Giorno della Terra, è stata l’occasione per migliaia di eventi organizzati in scuole, comunità, villaggi e città nel mondo.
In Italia, per il terzo anno consecutivo, a promuovere la manifestazione è stato Nat Geo Music, il canale musicale di National Geographic( quello che ha commissionato a Cementato il suo “predicavideo sulla Terra”.
Non dimentichiamo che è stato proiettato nelle varie sale italiane i “Earth – La nostra terra”, prodotto della DisneyNature.
«Earth» è un inno alla natura con immagine di paesaggi incontaminati e animali ripresi nel loro ambiente naturale.
Il settimanale Topolino è in edicola con un numero a Impatto Zero.
Grazie all’adesione al progetto di LifeGate, il magazine Disney compenserà le emissioni di gas ad effetto serra generate dalla produzione di ogni copia, con la creazione e tutela di nuove foreste in Italia e nel mondo.
Anche «Il Sole 24 Ore» partecipa all’iniziativa: dal 21 aprile le emissioni di CO2 legate al ciclo di vita Sole24ore.com saranno compensate con la creazione e la tutela di nuove foreste nel Parco del Ticino, Madagascar e Costa Rica grazie alla collaborazione con Lifegate e Lexmark.
A www.decrescita.com.terra vi è il blog che raccoglie informazioni e organizza eventi per l’Earth Day 2009.
Ma intanto, cominciamo a non sprecare l’acqua, a non essere schizzinosi nel mangiare, a non usare tutti i detersivi variamente pubblicizzati, a sopportare con più pazienza i cambi atmosferici.
Io( e con me tutti) “speriamo che me la cavo”! Figurarsi se mancava Celentano! Su Sky ha presentato Sognando Chernobyl, ovviamente commissionatogli sia da Sky che da Nat Geo Music.
Egli, predicatore “eccellente” ha detto che «Tutti quanti insieme salteremo in aria bum!»( che grande scoperta) Sempre per l’Earth Day arriva in tutte le radio il nuovo singolo dei Rio (band formata da Marco Ligabue, fratello di Luciano, e Fabio Mora).
A dare manforte al duo saranno il comico Paolo Rossi e Fiorella Mannoia: il primo recita una filastrocca all’inizio del brano, mentre Fiorella fa da contrappunto ai gorgheggi di Ligabue Jr.
e Mora.
«Con questa canzone – spiegano i Rio – appoggiamo il progetto Impatto Zero.
Essi dichiarano che “Tutti dovremmo fare un piccolo gesto per questo pianeta schiacciato da quello che noi chiamiamo “gigante”.
Un robot-transformer bestiale e inquinante che rappresenta il tempo moderno e non si cura di nulla in nome degli interessi economici».
Al progetto italiano Impatto Zero Lifegate aderiscono ricercatori, universitari, ambientalisti: l’obiettivo è rendere concreti gli intenti del protocollo di Kyoto sulla riduzione delle emissioni di CO2 attraverso la creazione di nuove foreste”.

Neuro-mania

Non è facile leggere sui giornali un buon articolo di divulgazione scientifica, che cioè non gridi subito alla scoperta sensazionale e non tiri precipitose conclusioni da piccoli passi in avanti nella conoscenza del funzionamento della natura, e soprattutto del corpo umano.
Infatti, se manca l’enfasi, o l’apparente novità, dov’è la notizia? Ma questo tipo di divulgazione esasperata – se pure serve a creare effimere celebrità scientifiche e, forse, ad attirare finanziamenti alla ricerca in questione – ha un effetto pericoloso sui lettori, perché li convince che sono stati trovati farmaci miracolosi, o che ogni stato emotivo e mentale dell’essere umano si spiega con la biologia.
E crea illusioni che conteranno molto quando si dovranno affrontare questioni che da bioetiche sono diventate biopolitiche, contribuendo a influenzare in modo decisivo la loro idea di essere umano e di vita umana.
Come, per fare un esempio, la ricerca sulle staminali embrionali.
Proprio per questi rilevanti motivi è di grande interesse la lettura del libro di Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà (uno psicologo cognitivo e un neuropsichiatra) intitolato Neuro-mania (Bologna, il Mulino, 2009, pagine 125, euro 9), che passa al vaglio critico proprio quella letteratura divulgativa, oggi tanto diffusa, che si occupa del cervello pretendendo di spiegare il funzionamento della mente umana.
E, su questa base, tratta delle nuove ricerche e discipline che tendono ad abusare del prefisso neuro-, una aggiunta che – lo provano ricerche mirate – aumenta la credibilità dell’informazione presso il lettore inesperto.
Siamo passati da un eccesso a un altro, scrivono gli autori: se negli anni Settanta ogni comportamento umano veniva spiegato con motivazioni socio-economiche, oggi la stessa cosa avviene con quelle biologiche; la chiave riduttiva è la stessa, ed è dovuta al fatto che le spiegazioni monocausali sono le più efficaci e le più credibili.
Tutto però nasce da un reale progresso della ricerca perché oggi, effettivamente, cominciamo a conoscere da vicino le connessioni tra la mente e il corpo.
Gli scienziati hanno scoperto che determinate aree presiedono alle funzioni specifiche di un dato compito: come, per esempio, la ricerca visiva di un volto noto, oppure la moltiplicazione mentale di due numeri a una cifra.
Naturalmente, in queste operazioni si attivano anche aree “generiche”, che presiedono a funzioni comuni a molti compiti, e cioè quelle visive, acustiche, motorie.
La divulgazione scientifica, però, tende a mettere in rilievo di volta in volta una sola area, quella privilegiata, e a dare l’impressione che essa sia l’unica deputata a una particolare funzione o, addirittura, che sia la causa di quel determinato effetto psicologico.
È nata così l’idea di poter vedere direttamente il cervello al lavoro, che tanto entusiasma i non esperti.
Ma si tratta di un’idea fuorviante: ciò che si vede è il risultato di un artificio grafico che trasforma probabilità casuali in colori sovrapposti a una riproduzione schematica del cervello.
Ci sono sempre altre funzioni, altri sistemi più complessi e ancora in parte sconosciuti che operano.
Ma questo non fa notizia.
Si diffondono così sia la certezza che ormai sappiamo tutto sul funzionamento del cervello sia l’idea che gli stati d’animo e le sensazioni mentali siano effetto di processi biochimici.
La vita quotidiana sarebbe allora riconducibile a una realtà sottostante di natura biologica, in quanto l’uomo, inteso come corpo, fa parte a pieno titolo della natura.
Viene in questo modo legittimata la speranza che se, in futuro, si riuscisse ad analizzare in dettaglio il funzionamento di tutte le parti del corpo umano, avremmo una corrispondenza biunivoca tra quanto scoperto dagli psicologi sperimentali e quanto emerge dall’esame di meccanismi biologici elementari.
In altre parole, un unico linguaggio, quello della fisica-chimica e della biologia, sarebbe la spiegazione di tutti i fenomeni conosciuti dell’universo, dal moto dei corpi celesti alle particelle elementari, dal naturale al sociale.
Certo, si tratta di un’utopia affascinante.
Ma non funziona.
Anch’essa è frutto di una moda, nata negli anni Cinquanta per effetto delle scoperte dei fisici.
Oggi si vuole imitare il loro metodo di ricerca, riconducendo il complesso al semplice e cercando di ingabbiare il sapere in modelli matematici.
Una moda che può perfino indurre a parlare, come è stato scritto recentemente su autorevoli quotidiani, di una neuroteologia: cioè, anche se Dio viene pensato dall’uomo nei modi più diversi, questi avrebbero un prerequisito comune, neuronale.
Nasceremmo insomma con un cervello predisposto a credere.
È evidente che una divulgazione di questo tipo ha l’effetto di cancellare ogni possibilità di scelta e ogni responsabilità dell’essere umano, e di conseguenza ogni possibilità di evoluzione morale.
Anche se non è questo il problema messo a fuoco dai due scienziati, il libro è utile per la sua funzione critica nei confronti di una divulgazione spesso irresponsabile.
(©L’Osservatore Romano – 25 aprile 2009)

Razzismo e povertà combinazione distruttiva

Pubblichiamo la traduzione dell’intervento pronunciato il 22 aprile dall’arcivescovo Silvano M.
Tomasi, Osservatore Permanente della Santa Sede presso l’Ufficio delle Nazioni Unite e Istituzioni Specializzate a Ginevra, in occasione della Conferenza di esame della Dichiarazione di Durban del 2001 contro il razzismo, la xenofobia e la relativa intolleranza, organizzata dall’Onu dal 20 al 24 aprile a Ginevra.
Signor Presidente, mi congratulo per la sua elezione e auguro a Lei, all’Alto Commissario per i Diritti Umani e a tutto l’Ufficio di condurre con successo questa Conferenza a una conclusione positiva.
Signor Presidente, La Delegazione della Santa Sede condivide l’aspirazione della comunità internazionale a superare tutte le forme di razzismo, di discriminazione razziale e xenofobia nella consapevolezza che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti” (Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, art.
1) e sono uniti in un’unica famiglia umana.
Infatti, una comunità internazionale giusta si sviluppa in modo appropriato quando il desiderio naturale delle persone umane di relazionarsi non viene distorto dal pregiudizio, dalla paura degli altri o da interessi egoistici che minano il bene comune.
In tutte le sue manifestazioni, il razzismo afferma falsamente che alcuni esseri umani hanno minori dignità e valore di altri.
Ciò infrange la loro fondamentale eguaglianza di figli di Dio e conduce a una violazione dei diritti umani di individui e di interi gruppi di persone.
Partecipando alla Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, agli sforzi comuni delle Nazioni Unite e di altre importanti organizzazioni internazionali, la Santa Sede si sforza di assumersi pienamente la propria responsabilità secondo la missione che le è propria.
Si impegna a combattere, con spirito di cooperazione, tutte le forme di razzismo, discriminazione razziale, xenofobia e relativa intolleranza.
La Santa Sede ha partecipato attivamente alla Conferenza di Durban del 2001 e, senza esitare, ha dato il suo sostegno morale alla Dichiarazione e al Programma di Azione (ddpa), ben sapendo che la lotta al razzismo è un prerequisito necessario e indispensabile per la costruzione di un modo di governare, di sviluppo sostenibile, di giustizia sociale, di democrazia e pace nel mondo.
Oggi, la globalizzazione unisce le persone, ma la prossimità spaziale e temporale non crea di per sé le condizioni per una interazione costruttiva e una comunione pacifica.
Infatti, il razzismo persiste: gli stranieri e quanti sono differenti vengono troppo spesso rifiutati e si arriva perfino a commettere contro di loro atti barbarici, inclusi il genocidio e la pulizia etnica.
Vecchie forme di sfruttamento hanno lasciato spazio a nuove: traffico di donne e bambini in una forma contemporanea di schiavitù, abuso di migranti irregolari.
Persone percepite come differenti o che in effetti lo sono, divengono, in numero sproporzionato, vittime di esclusione sociale e politica, di condizioni da ghetto e di stereotipi.
Giovani donne sono costrette a contrarre matrimoni indesiderati.
I cristiani vengono arrestati o uccisi per il loro credo.
La mancanza di solidarietà, un’aumentata frammentazione dei rapporti sociali nelle nostre società multiculturali, razzismo e xenofobia spontanei, discriminazione razziale e sociale, in particolare verso gruppi minoritari ed emarginati, e sfruttamento politico delle differenze, sono evidenti nell’esperienza quotidiana.
L’impatto globale dell’attuale crisi economica colpisce, soprattutto, tutti i gruppi vulnerabili della società.
Ciò dimostra quanto spesso razzismo e povertà siano interrelati in una combinazione micidiale.
La Santa Sede è anche allarmata dalla tentazione ancora latente dell’eugenetica che può essere alimentata da tecniche di procreazione artificiale e dall’uso di “embrioni superflui”.
La possibilità di scegliere il colore degli occhi o altre caratteristiche fisiche di un bambino potrebbe portare alla creazione di una “sottocategoria di esseri umani” o all’eliminazione di quegli esseri umani che non rispondono alle caratteristiche predeterminate da una certa società.
Inoltre, l’aumentata preoccupazione per la sicurezza e la conseguente introduzione di misure e pratiche eccessive hanno fatto scaturire una maggiore mancanza di fiducia fra persone di culture differenti e hanno esacerbato la paura irrazionale degli stranieri.
La lotta legittima contro il terrorismo non dovrebbe mai minare la protezione e la promozione dei diritti umani.
Basandosi sui progressi già compiuti, la nostra Conferenza di esame di Durban può essere l’occasione per accantonare le reciproche differenze e mancanza di fiducia, rifiutare ancora una volta qualsiasi teoria di superiorità razziale o etnica e rinnovare l’impegno della comunità internazionale per l’eliminazione di tutte le espressioni di razzismo quale requisito etico del bene comune, il cui ottenimento è “l’unico motivo di esistenza delle autorità civili” (cfr Papa Giovanni XXIII, Enciclica Pacem in terris) a livello nazionale, regionale e internazionale.
Condividere risorse e iniziative migliori nello sforzo concertato di mettere in pratica le raccomandazioni della ddpa per sradicare il razzismo significa riconoscere la centralità della persona umana e la pari dignità di tutte le persone.
Questo compito è dovere e responsabilità di tutti e dimostra con chiarezza che fare ciò che è giusto procura un vantaggio politico perché così si gettano le fondamenta di una convivenza pacifica, produttiva e reciprocamente proficua.
Le alleanze e le dichiarazioni internazionali così come le legislazioni nazionali sono indispensabili per creare una cultura pubblica e per fornire norme vincolanti, in grado di combattere il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e la relativa intolleranza.
Senza un mutamento del cuore, tuttavia, le leggi non sono efficaci.
È il cuore a dover essere continuamente purificato affinché non vi governino più la paura e lo spirito di dominio, ma l’apertura agli altri, la fraternità e la solidarietà.
Un ruolo insostituibile lo svolge l’educazione che forgia le mentalità e aiuta a formare le coscienze ad accogliere una visione più ampia della realtà e a rigettare qualsiasi forma di razzismo e di discriminazione.
Alcuni sistemi educativi andrebbero rivisti per eliminare tutti gli elementi di discriminazione presenti nell’insegnamento, nei libri di testo, nei corsi di studio e nelle risorse visive.
Il fine di questo processo di educazione non è solo il riconoscimento del fatto che tutti hanno uguale valore umano e l’eliminazione del pensiero e degli atteggiamenti razzisti, ma anche la convinzione che gli Stati e gli individui devono prendere l’iniziativa e divenire prossimo a tutti.
Anche l’educazione informale e generale svolge un ruolo cruciale.
I mezzi di comunicazione, quindi, dovrebbero essere accessibili e liberi da un controllo razzista o ideologico che porta alla discriminazione e perfino alla violenza contro persone che hanno una formazione culturale o etnica differente.
In tal modo, i sistemi educativi e i mezzi di comunicazione si uniscono al resto della società nel sostenere la dignità umana che può essere tutelata e promossa soltanto da un’azione collettiva di tutti i settori.
In tale contesto di mutua accettazione il diritto di accesso all’educazione da parte di minoranze razziali, etniche e religiose sarà rispettato come diritto umano in grado di garantire la coesione della società con il contributo del talento e delle capacità di ognuno.
Nella lotta contro il razzismo, le comunità di fede svolgono un ruolo importante.
La Chiesa cattolica, per esempio, non ha lesinato sforzi per consolidare le sue numerose istituzioni scolastiche, crearne di nuove, essere presente in situazioni pericolose nelle quali la dignità umana viene calpestata e la comunità locale distrutta.
In questa vasta rete educativa, la Chiesa insegna come vivere insieme e come riconoscere che tutte le forme di pregiudizio e di discriminazione razziale feriscono la dignità comune di ogni persona creata a immagine di Dio e lo sviluppo di una società giusta e accogliente.
Per questo motivo, sottolinea che la persona “si realizza attraverso l’apertura accogliente all’altro e il generoso dono di sé…
In questa chiave, il dialogo fra le culture emerge come un’esigenza intrinseca alla natura stessa dell’uomo e della cultura…
Il dialogo porta a riconoscere la ricchezza della diversità e dispone gli animi alla reciproca accettazione, nella prospettiva di un’autentica collaborazione, rispondente all’originaria vocazione all’unità dell’intera famiglia umana.
Come tale, il dialogo è strumento eminente per realizzare la civiltà dell’amore e della pace” (Papa Giovanni Paolo II, Messaggio per la Celebrazione della Giornata Mondiale della Pace, 2001, n.
10).
Il contributo delle comunità di fede alla lotta al razzismo e all’edificazione di una società non discriminante diviene più efficace in presenza di un rispetto autentico del diritto di libertà di religione com’è chiaramente esposto negli strumenti dei diritti dell’uomo.
Purtroppo, la discriminazione non risparmia le comunità religiose, un fatto che preoccupa sempre più la comunità internazionale.
La risposta a questa preoccupazione legittima è la piena realizzazione della libertà religiosa per gli individui e il loro esercizio a livello collettivo di questo diritto umano fondamentale.
Sebbene il diritto alla libertà di espressione non sia una licenza a insultare i seguaci di qualsiasi religione o a stereotipare la loro fede, i meccanismi esistenti che offrono garanzia legale all’incitamento all’odio razziale e religioso dovrebbero essere utilizzati nella cornice della legge sui diritti umani per proteggere tutti i credenti e i non credenti.
I sistemi giudiziari nazionali dovrebbero favorire la pratica di una “gestione razionale” delle pratiche religiose e non dovrebbero essere utilizzati per giustificare il fallimento nella tutela e nella promozione del diritto a professare e praticare liberamente la propria religione.
Le sfide che dobbiamo affrontare richiedono strategie più efficaci per combattere il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e la relativa intolleranza.
Questi sono mali che corrodono il tessuto sociale della società e causano innumerevoli vittime.
Il primo passo verso una soluzione pratica consiste nell’educazione integrale che include valori etici e spirituali a favore dell’acquisizione di poteri da parte di gruppi vulnerabili come i rifugiati, i migranti e itineranti, le minoranze razziali e culturali, persone imprigionate dalla estrema povertà o malate e disabili, donne e ragazze ancora considerate inferiori in alcune società, dove una irrazionale paura delle differenze impedisce la piena partecipazione alla vita sociale.
In secondo luogo, per ottenere coesione fra strutture e meccanismi vari creati per contrastare atteggiamenti e comportamenti razzisti, è necessario intraprendere un nuovo studio per rendere le varie modalità più incisive ed efficaci.
In terzo luogo, la ratifica universale di importanti strumenti contro il razzismo e la discriminazione, come la Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale e la Convenzione internazionale sulla tutela dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie, segnalerà la volontà politica della comunità internazionale di combattere tutte le espressioni di razzismo.
Infine, nulla può sostituire una giusta legislazione nazionale che condanni esplicitamente tutte le forme di razzismo e di discriminazione e permetta a tutti i cittadini di partecipare pubblicamente alla vita del loro Paese sulla base dell’uguaglianza di diritti e di doveri.
Quindi, il lavoro di questa Conferenza ha mosso un passo in avanti verso la lotta al razzismo, il motivo per cui la maggior parte dei Paesi si sforzano congiuntamente per un risultato che risponda alla necessità di eliminare manifestazioni vecchie e nuove di razzismo.
La Conferenza, come forum internazionale di esercizio del diritto alla libertà di espressione, è stata purtroppo utilizzata per esprimere posizioni politiche estremiste e offensive che la Santa Sede deplora e rigetta: non contribuiscono al dialogo, provocano conflitti inaccettabili e in alcun modo possono essere approvate o condivise.
Signor Presidente, Otto anni fa i Paesi del mondo hanno assunto un impegno globale per combattere il razzismo con l’adozione della Dichiarazione e del Piano di Azione di Durban.
Questa visione di cambiamento rimane incompleta nella sua realizzazione e per questo motivo il cammino deve continuare.
I progressi si otterranno attraverso una rinnovata determinazione a tradurre in azione le convinzioni riaffermate in questa Conferenza secondo le quali “tutti i popoli e tutti gli individui sono un’unica famiglia umana, ricca di diversità” e tutti gli esseri umani sono uguali in dignità e diritti.
Solo allora, le vittime del razzismo saranno libere e sarà garantito un futuro comune di pace.
(©L’Osservatore Romano – 24 aprile 2009)

Il primo annuncio nella comunità cristiana delle origini

La Chiesa ha bisogno continuo di ritrovare la sua identità, soprattutto quando la situazione storica diventa per essa una sfida che mette in gioco la sua capacità di realizzare i propri compiti e dunque la sua stessa legittimità di Chiesa.
Per la Chiesa la memoria delle radici diventa perciò una memoria vitale.
Quindi la rilettura delle sue origini, non è un lusso; non è nemmeno pura ricerca archeologica, ma un atto di memoria vitale (un memoriale), con notevoli ripercussioni dogmatiche e pastorali.
È in quest’ottica che si pone questa ricerca, con l’intento di chiarire meglio le idee, di superare stereotipi circolanti, esaminando con cura le fonti.
per la consultazione del contributo: Il primo annuncio nella comunità cristiana delle origini da Catechesi 2008 numero 93

Lavorare con il film

Tutti hanno esperienza di che cosa sia un film.
Ci sono però modi diversi per guardare un’opera cinematografica: una modalità percettiva affidata alle emozioni, una modalità estetica attenta alla natura e alla forma del linguaggio, una modalità contenutistica che prescinde dalla qualità linguistica, una modalità infine che tiene conto di tutti gli elementi in gioco.
 Allo stesso modo si danno approcci soggettivi che lasciano il destinatario interprete autonomo dell’atto di comunicazione che il film costituisce; approcci oggettivi attenti al testo e all’intenzione dell’autore, e approcci che vedono in esso una molteplicità di processi comunicativi, che variano a seconda del destinatario e del contesto culturale e sociale, oltre che del tempo in cui viene fruita l’opera.
Ciascuno adotterà l’approccio più congeniale e utilizzerà il film nella sua interezza oppure per frammenti; ciò che importa è non prescindere – come troppo spesso accade– dalla natura specifica del linguaggio cinematografico, a meno che non si intenda fare un uso pretestuale dell’opera filmica.
L’aspetto più importante è usare il film per parlare del film e non per parlare sul fim.
Ma in classe come si può usare un film ( o parte di esso ) e attraverso quale metodologia lo si può animare? Cercando di rispondere a questa domanda ho pensato di fissare alcuni criteri molto operativi, precisamente: 1.
di distinguere i punti di vista a partire dai quali accostarsi ad un film; 2.
di precisare i tre livelli a cui è possibile focalizzare l’attenzione dello studente -spettatore; 3.
di indicare alcune strategie di intervento ed animazione Mutuando parzialmente la terminologia della analisi della narrazione mi sembra che tre siano i rilievi metodologicamente significativi: essi riguardano il punto di vista, la focalizzazione e le strategie operative mediante cui strutturare il nostro intervento.
Vediamoli nello specifico.
Il punto di vista: parlare del film, parlare sul film Il parlare sul film traduce il punto di vista che Umberto Eco, definisce della lettura pretestuale: in quest’ottica il film è selezionato in funzione illustrativa e diviene un pretesto per introdurre una problematica o trovarne conferma nella concretezza delle immagini.
Confortata dalla consuetudine dei cinedibattiti televisivi, in cui il film funge semplicemente da input alla discussione in studio di un determinato argomento questa scelta autorizza di solito impressioni superficiali, soggettive ed estemporanee e rischia di configurarsi come prassi di dialogo che per nulla contribuisce alla educazione dello sguardo spettatoriale.
Il parlare del film, invece, da corpo ad un punto di vista sostanzialmente differente, un punto di vista di tipo testuale, in ordine al quale, superata l’ottica contenutistica ed illustrativa, il film diviene un campo metodologico da attraversare – come suggerisce R Barthes – un oggetto culturale da smontare e rimontare non per autorizzare percorsi di lettura arbitrari e soggettivi, ma per elaborarne di critici, sebbene personali, sempre e comunque autorizzati dalla materialità significante del testo (i limiti dell’interpretazione, come precisa U.
Eco, sono nel testo stesso).
La focalizzazione: vedere, sapere, credere (vedere) un primo livello di focalizzazione è quello che si appunta sul vedere.
Il cinema è uno sguardo sul mondo articolato in modo sempre più personale in rapporto all’evolvere del linguaggio oltre la camera fissa, grazie a panora­miche, carrèlli, montaggio…
Registrare questo sguardo, coglierne le diverse declinazioni, è sicuramente un primo grande campo di lavoro : è l’approccio del cinefilo, inteso come colui che fa pratica empirica di conoscenza e consumo di autori, di movimenti di tendenze estetiche ed ideologiche.
(sapere) ma un film non è soltanto il luogo entro cui si organizza un vedere.
Esso, proprio attra­verso questo vedere, contribuisce al prodursi di un sapere.
Verificare come questo sapere ven­ga realizzato, ricondurlo alle logiche culturali ed alle problematiche storiche del momento in cui è stato prodotto è il compito dell”approccio filmologico, applicazione di metodologie e ca­tegorie critiche spesso proprie di altre discipline ed ambiti comunicativi (psicologia, sociologia, letteratura); (credere) quando, infine, ad essere messo a fuoco è il credere che il film induce, mediante il vedere ed in virtù del sapere che lo caratterizzano, dall’ approccio cinefilo e filmologico, siamo passati a quello valoriale, attento alle strategie comu­nicative mediante le quali il film costruisce sistemi di credenze nel pubblico (ed in questo senso si espone alla valutazione etica) o alle modalità secondo cui affronta il proprio tema.
il nodo linguistico-espressivo.
È l’aspetto grammaticale e sintattico, che comprende l’ana­lisi dei seguenti elementi: la fotografia (illuminazione, contrasto, composizione, uso della pellicola), il colore (naturale, equilibrato, valore sim­bolico delle dominanti, effetti), i campi ed i piani (tipologie, utilizzo) angolazione ed inclinazione, uso della macchina (presente, nascosta), il montaggio ed il sonoro.
La competenza attivata è quella del saper vedere; 2.
il nodo narrativo-tematìco.
E l’aspetto con­tenutistico del film, il suo dire qualcosa raccon­tando qualcosa.
Comprende i rilievi relativi a: struttura narrativa del film (prima e ultima scena, momenti topici, evoluzione), personaggi (caratteristiche, rapporti reciproci, funzioni nel racconto), contenuto (temi ricorrenti, problemati­che, funzionamento simbolico).
La competenza attivata è quella del saper comprendere; 3.
il nodo etico-valoriale.
È l’aspetto “ideologico” del film, il suo dire qualcosa in un certo modo.
Esso implica tre interventi valutativi su: dignità estetica del film (qualità artistica, com­piutezza di sviluppo, ecc.), problematiche in gioco (valutazione sul tema e su come il film ha trattato il tema), impatto sul pubblico (impegno morale del regista, ecc.).
La competenza attivata è quella del saper valutare.
Leggere il frammento A volte, quando i ragazzi non sono abituati a uno sguardo attento e a un lavoro d’analisi esteso all’intero testo filmico, può essere didatticamente più efficace lavorare sul frammento: la sequenza o la singola scena.
Spesso sono gli inizi del fim (incipit ) a prestarsi al lavoro di analisi, perché anticipano a livello strutturale – nella messa in scena, in quadro, in serie, nell’uso del sonoro – i temi e i motivi che il film svilupperà.
Analizzare il frammento prima della visione integrale del film consente ai ragazzi di realizzare per intero il percorso di analisi senza demotivarsi; permette loro di formulare ipotesi circa il testo completo e di guardare questo, in seguito, con maggiore interesse, in una prospettiva di verifica delle ipotesi formulate.
La strategia vale evidentemente per i film impegnativi, che affidano il racconto al piano della rappresentazione, piuttosto che a quello della narrazione.
Ma lavorare sul frammento ha senso anche con film che fanno leva sull’azione e su una dimensione spettacolare.
In questo caso, al percorso d’analisi che evidenzierebbe solo la povertà del testo filmico si preferirà un lavoro pretestuale a partire da una scena, un dialogo, una situazione, che permettano di portare l’attenzione sul tema che si intende affrontare al di là del film.

La vocazione nel suo «stato nascente»

1.
La vocazione La vocazione è un fatto di natura teandrica, cioè divino-umano.
Agisce Dio e agisce l’uomo singolo e anche la comunità.
L’agire di Dio coincide con l’iniziativa fondamentale, mentre l’agire dell’uomo coincide con la risposta del singolo e la verifica della comunità.
Quindi, è un fatto anche umano e umanizzante, una dinamica attuata dall’uomo ma capace di condurlo verso orizzonti di umanità decisamente irraggiungibili nella sua coscienza all’inizio del cammino.
La vocazione si verifica nel momento in cui conduce l’uomo o la donna alla loro più grande intimità, quando si prendono le decisioni della vita, ma allo stesso tempo porta alla più grande estroversione della loro storia, quando le decisioni si manifestano e si compiono.
Con la vocazione l’interiorità si apre all’Altro e a tutti gli altri in modo nuovo.
È una novità che potrebbe paragonarsi all’aurora nella vita umana.
Un chiarore, un bagliore, che poi diventa luce illuminante che consente di realizzare assolutamente tutti gli altri compiti della vita.
La vocazione, dunque, non è un fatto solo esterno all’uomo o solo divino.
Paolo VI aveva identificato bene la realtà della vocazione.
Nella Populorum Progressio egli scrisse: «Ogni vita è vocazione» (n.
2).
«La vocazione si identifica con la stessa realtà della persona: la persona semplicemente è una vocazione».
La vita di ogni uomo è una vocazione, è frutto di una chiamata.
E cogliere la vita come vocazione sarà il compito più grande dell’essere umano.
La vocazione quindi, manifesta il duplice carattere di trascendenza e di immanenza.
Dal punto di vista della trascendenza, la chiamata di Dio, la vocazione, viene dall’Alto e/o dall’esterno attraverso le persone e gli avvenimenti della propria vita, ma scaturisce contemporaneamente dal più profondo di noi stessi, e si manifesta come chiamata e sviluppo, come appello e risveglio.
Sentirsi «chiamati» significa provare un’attrattiva profonda verso particolari valori perché corrispondono ad aspirazioni profonde del proprio essere.
In fondo, la vocazione è stata seminata dentro di noi ed è promossa fuori di noi dal Signore che chiama.
La risposta è personale e irripetibile, sfumata in mille tonalità spirituali diverse, nonostante le numerose somiglianze.
Dal punto di vista dell’immanenza, la vocazione prende forma dentro la propria storia, nella scoperta delle ricchezze, dei limiti e delle potenzialità, nella lettura dei propri sentimenti, desideri, paure, sogni e delusioni, nelle aspettative e nostalgie che tutti ci portiamo dentro, nei distacchi che ci sono richiesti e negli incontri che ci viene donato di vivere.
Spesso, la vocazione, come una speciale forma d’innamoramento, sembra un fenomeno spontaneo, rapido, dovuto ad affinità esteriori, superficiali, secondarie… Mentre per arrivare alla verità completa dell’amore contenuta nell’interiorità, si parte dalle affinità esteriori.
L’amore vero poi poggia su affinità interiori profonde preannunciate e preparate da quelle più esterne.
2.
Lo «stato nascente» Il momento originante della vocazione è quasi magico.
Esso lascia nel cuore una traccia indelebile, un ricordo vivo, una luminosità travolgente, tutto cambia di senso, tutto si riorienta e tutto si ripropone alla luce di una voce soave e mite, ma forte e ferma che non tace, anzi, urla nell’intimo dell’essere umano.
La voce di colui che chiama è una voce d’amore, è un «chi-che-ama»; la vocazione allo stato nascente è la percezione di un amore grande che non lascia ombra di dubbio: Egli mi ha scelto, Egli mi chiama, Egli mi invia, Egli sarà con me! Quando ci sentiamo chiamati, sentiamo di entrare serenamente e saldamente in un oceano d’amore, o come dicono gli inglesi di «fall in love» (cadere nell’amore) o anche di essere rapiti, sedotti, di essere letteralmente «innamorati» in un atto d’amore infinito e puro.
Sentire quell’amore e sentirsi molto piccoli è la stessa cosa… Tutte le vocazioni, sia quella laicale matrimoniale, sia quella sacerdotale ministeriale, sia quella consacrata, hanno alla base una forte carica emotiva e spirituale.
La fenomenologia di questo momento iniziale cambia secondo le varie età psicologiche e cronologiche.
Comunque, quando la vocazione visita un cuore giovanile capace di dire di sì con tutto se stesso, lo stato nascente diventa travolgente e simile al sorgere dell’amore.
Infatti, ognuno di noi è sessuato (da «sexus», che in latino significa tagliato in due, sdoppiato) cioè bisognoso di completamento.
Ognuno di noi scopre gradualmente il senso della propria incompletezza e asimmetria.
Ciò che si manifesta a livello sessuale, si estende anche a livello dell’interiorità dell’amore.
La vocazione all’amore umano o all’amore di Dio costituisce l’irruzione del ricongiungimento dell’unità nella nostra radicale incompiutezza.
La vocazione fa sorgere l’amore, sia per unirsi a un altro essere umano, sia per unirsi all’amore infinito di Dio, e con ciò riporta nel proprio cuore la simmetria interna mancante nella natura umana.
La vocazione nel suo stato nascente, l’innamoramento vocazionale, quindi, è rottura di un equilibrio e di un modo di essere e suppone un esodo da sé verso l’A-altro (con maiuscole e minuscole), verso la comunione.
È un momento di uscita da sé e di entrata nell’A-altro, di apparente perdita di noi stessi e di acquisizione della ricchezza e bellezza dell’A-altro.
L’innamoramento fa uscire l’io dal guscio, lo decentra, aprendolo alla relazione interpersonale, lo libera dalla propria autosufficienza, lo costituisce come «essere in rapporto» con il «T-tu» (con maiuscole e minuscole) che lo trascende e lo attira nel suo mistero.
La vocazione, il momento dell’innamoramento, ci impone di migrare, di «lasciare la propria casa», le proprie sicurezze e le ceneri della solitudine e dell’egoismo.
Nella solitudine l’uomo avverte la sua insufficienza per essere felice «da solo», e percepisce che non saranno tanto le cose o gli avvenimenti a dare un volto nuovo alla sua vita, bensì l’incontro con una persona, con l’«A-altro» che è la fonte della propria gioia.
La vocazione è una chiamata che fa sorgere la vita in una forma mai provata prima.
Con la vocazione la tua vita è in mano a qualcun A-altro a cui senti di appartenere in modo preferenziale ed emozionante.
Cadono le barriere dell’estraneità di Dio o della persona amata.
Essi diventano familiari, vicini «di casa»; è un’esperienza di improvvisa intimità col M-mistero (con maiuscole e minuscole), S-suo e mio.
L’inizio della vocazione si concentra in un momento particolare, in un’ora («le quattro del pomeriggio», Gv 1,39), in un luogo, in una circostanza, in un ambiente, con elementi che agiscono sul conscio, ma anche sull’inconscio, ma poi si identifica con tutta la vita.
Lo stato nascente della vocazione è un momento in cui la ragione lascia partire il cuore… un momento in cui il cuore ha delle ragioni che la ragione non comprende (Pascal), e l’A-amore diventa ideale, diventa polo e calamita che attira, che trasforma e illumina tutta la realtà.
Alcuni dicono che il primo innamoramento non lascia vedere la verità – l’amore è cieco! –.
È vero che il primo innamoramento non è ancora la verità completa.
Essa è compito dello Spirito Santo.
Infatti l’innamoramento, soprattutto quello provocato dalla vocazione, ha qualcosa di religioso, di sacro.
Non per niente l’innamoramento era rappresentato da cupidi che lanciavano delle frecce al cuore degli uomini o delle donne.
L’amore è stato spesso collegato all’intervento divino nelle diverse culture (Cupido: latini; Eros: greci; Xochipilli: aztechi; Maris: etruschi).
La conclusione della fede cristiana, che ha sperimentato l’amore di Cristo, è che «l’amore viene da Dio» perché «Diò è amore» (1Gv 4,7-8).
Nell’innamoramento vero, come nella vocazione, vi è un processo di destrutturazione-ristrutturazione (lo «stato nascente») per il quale la condizione precedente perde senso e si ricostruisce nella prospettiva dell’A-amato.
Si tratta di un processo simile alla conversione religiosa, di un cambiamento grande, forte, dinamico, che spinge a modificarsi, a formarsi, a farsi degni dell’amore provato e a dare maggiore verità all’amore dichiarato.
La scoperta della vocazione provoca una forte discontinuità con la vita passata e diventa il motore della conversione, del proprio migliorare per Lui e per la missione.
La vocazione – come l’innamoramento – ci rende migliori, più buoni, più bravi, più belli.
Si tratta di un passaggio, di un cambiamento di stato.
Con la vocazione ci rendiamo conto che la nostra vita precedente era sbagliata e incompleta, che il mondo è differente da come lo vedevamo e che è necessario cambiarlo con lo sguardo e la Volontà di Dio.
Questo si percepisce nelle storie vocazionali dei profeti, dei discepoli biblici, dei santi… Nel momento della loro vocazione essi si sono resi conto che dovevano cambiare perché ciò che facevano e ricercavano nella vita era privo di senso, che il mondo doveva essere mutato e che il Signore lo voleva.
Lo stato nascente della vocazione conduce la persona ad abbandonare ciò che è noto e sicuro e a gettarsi in ciò che è ignoto, ma che la riempie di tantissimo entusiasmo e novità al punto da darle la certezza degli innamorati: «è roba da pazzi, ma io lo voglio!» La vocazione non è un ragionamento, lo include; è un fatto emotivo e intuitivo, ma non per questo folle o assurdo.
La vocazione ha un po’ il sapore della Pasqua, è un’esperienza di morte e di rinascita che genera un nuovo tipo di azione sociale, una nuova solidarietà, perciò normalmente la vocazione spinge la persona verso il prossimo, verso il bisognoso, verso colui che non ha avuto la tua fortuna, verso colui che non conosce Colui che tu conosci… I chiamati nello stato nascente cambiano, si modificano, migliorano; peccato che non sempre l’innamoramento e/o il primo colpo vocazionale perdurino con questa forma trasformante e rimanga la tendenza a non crescere, a rinunciare alla perfezione di sé, a sedersi nel cammino.
Se non si cresce nell’amore, il sorgere di altri amori o il divorzio sono una conseguenza triste, ma più che logica.
Sarà la coscienza rinnovata giorno dopo giorno, quella che renderà dinamico e crescente l’amore.
La cultura «moderna», edonistica e soggettivistica, che pretende di ridurre l’uomo a un fascio di bisogni da soddisfare, sembra aver abolito, di fatto, l’amore e la vocazione come cammino di crescita e di responsabilità.
Si pensa che la vocazione dell’uomo sia quella di star bene, ma la vocazione non ha come fine principale quello di «stare bene», poiché questo snatura la gradualità di un necessario processo formativo verso l’amore responsabile.
La vocazione ha come fine il bene dell’altro che diventa anche il mio bene, in forma superabbondante… è il 100 x 1 per cui poi «si trova più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,35).
Per la consultazione dell’intero contributo La vocazione nel suo «stato nascente»Mario Oscar Llanos Da Orientamenti pedagogici n.ro 1 del 2009.
La vocazione è l’esperienza più intima e sconvolgente del vissuto di qualsiasi uomo o donna di questo mondo.
Le età e le circostanze in cui la si sente variano da persona a persona, ma viene sperimentata come un «dono», come una «luce», come una «voce interiore», come un «brivido» che trasforma lo spirito, l’anima e il corpo.
La vocazione viene generalmente accompagnata dalla sensazione dello scarto tra ciò che ci viene proposto e ciò che noi siamo.
Si tratta di un dono asimmetrico nei confronti della nostra capacità di risposta, ma simmetrico nella sua capacità di elevare il nostro cuore fino a renderlo capace di amare l’A-altro (con maiuscole e minuscole) in un modo assolutamente nuovo.
Alla scoperta devono seguire poi varie azioni affinché il dono percepito non cada nel nulla.

Numeri e fede/10: Le cifre sono deboli

Aveva ragione Socrate, il filo­sofo impertinente, ammo­nendo gli scienziati con il suo «so di non sapere», che stupiva e irritava l’establishment ateniese.
Gli scienziati (e in particolare i ma­tematici) di oggi se ne stanno ren­dendo conto, con una meraviglia crescente.
Il «so di non sapere» rap­presenta per difetto il paradossale stato che oggi caratterizza la cono­scenza scientifica.
«Man mano che andiamo avanti, scopriamo sempre più cose, ma quello che scopriamo veramente è quanto aumenti, di continuo, tutto ciò che non cono­sciamo » dice Mario Girardi, ordina­rio di Analisi matematica all’Uni­versità Roma Tre, dove è stato per 13 anni, fino a due mesi fa, preside di Facoltà (e da 40 anni pratica uno sport, il volo in aliante, che sembra una metafora della conoscenza).
Co­me se non bastasse l’ansia socrati­ca, i ricercatori non riescono proprio a capire come mai la madre di tutte le scienze, la matematica, possa fun­zionare in modo rigoroso anche se non può dimostrare, con puri me­todi logici o con metodi elementari, la propria coerenza scientifica (vedi Kurt Godel e il suo «teorema di in­completezza »).
 L’intervista a Mario Girardi Professore, si può dire che più co­nosciamo e più diventa difficile rag­giungere la verità scientifica, data la sua galoppante complessità? «La scienza moderna s’imbatte in un’infinità di problemi, ha una vi­sione molto più ampia della com­plessità.
Appena conosciamo un pezzettino in più, ci si apre uno ster­minato orizzonte di questioni che neanche immaginavamo.
Lo può notare qualsiasi scienziato.
Faccia­mo un esempio.
Prima che venisse studiato il genoma umano, nem­meno si sospettava l’enorme vastità dei problemi che avrebbe dischiu­so.
Scoprire dove sono collocati i ge­ni non vuol dire avere scoperto la fit­ta rete di interrelazioni tra i geni.
Nel­la matematica poi esistono questio­ni classiche, a volte molto semplici nella formulazione, la cui soluzione, quando si raggiunge, è molto com­plessa (si pensi al Teorema di Fer­mat).
Tutta questa complessità che ci circonda suscita meraviglia e va in parallelo con la profonda sorpre­sa che provano i matematici».
Ma perché alla matematica manca la solidità dei fondamenti? «Abbiamo una scienza matematica così bella, rigorosa sul piano forma­le, ma i suoi fondamenti non sono affatto solidi.
E tutto questo, secon­do me, da un certo punto di vista è un’indicazione molto precisa della nostra insufficienza, cioè della ne­cessità che ci sia un qualche altro substrato».
E quali sono i fondamenti? «Le regole della logica formale che garantiscono tutto, e la struttura di base dei numeri naturali.
Ora non c’è una dimostrazione logica o una dimostrazione matematica elemen­tare che la teoria dei numeri naturali sia ‘coerente’.
Questo è un termine tecnico.
Si dice che una teoria è coe­rente quando non può dimostrare che sia vera un’affermazione e anche il suo contrario.
Viceversa una teo­ria incoerente vìola le leggi fonda­mentali della logica.
Accade se io posso dimostrare come vera sia la proposizione ‘A’ sia la negazione della proposizione ‘A’.
Si ha cioè in­coerenza quando una teoria sostie­ne che una proposizione è vera ed è falsa.
Noi dovremmo riuscire a di­mostrare, con la sola logica o con metodi matematici elementari, che la teoria dei numeri naturali, quelli che usiamo tutti i giorni, è coeren- te.
Ma, in virtù del teorema di Go­del, non lo possiamo fare».
Eppure i numeri salvano vite, fan­no correre i treni e volare gli aerei.
«Non è possibile dimostrare la coe­renza della matematica, ma questa “funziona”, ha successo.
E la cosa è quasi incredibile, è una caratteristi­ca straordinaria».
Ma è vero che, per essere bravi ma­tematici, bisogna essere atei? «Ovviamente no.
La domanda è pri­va di senso (in termini più precisi, dovrei dire che è mal posta).
Chi ab­bina matematica e ateismo cerca di confondere i piani.
Non si limita ad affermare “So di non sapere”.
Fa u­na professione di fede a rovescio.
In proposito vorrei invece sottolineare che, a mio avviso, chiunque faccia scienza non può che rimanere sor­preso e stupefatto di fronte alla realtà da conoscere.
Nonostante le difficoltà e i pro­blemi sui fonda­menti, esistono tutta una serie di segnali, che non possiamo igno­rare.
C’è da do­mandarsi: può essere soltanto un caso che tut­to funzioni in questa maniera? Esi­stono una serie di indicazioni mol­to precise – segni, segnali e “punta­tori” – sparse dovunque, che danno un altro significato a tutto quello che troviamo e vediamo.
Non ci danno certezze scientifiche: siamo stati la­sciati liberi di poter interpretare, op­pure no, questi segnali che ci cir­condano.
Ma basta sapersi guarda­re intorno».
I mass media attribuiscono grande valore scientifico all’esperimento in corso al Cern di Ginevra con il Lar­ge Hadron Collider.
L’obiettivo è tro­vare il bosone di Higgs, che il Nobel Leon Max Lederman ha definito «la particella di Dio».
Porterà a scopri­re l’intima struttura della materia? «Direi che ormai abbiamo perso completamente l’idea che sia pos­sibile conoscere l’intima struttura della realtà che ci circonda.
L’obiet­tivo dell’esperimento è la validazio­ne di un modello che comprenda tutto quello che sappiamo, che ab­biamo scoperto con un lungo per­corso nell’ambito delle particelle e­lementari, che parte dalla fisica clas­sica per proseguire con la relativi­stica e con quella quantistica.
Se verrà trovata questa particella fino­ra mai osservata, si darà una siste­mazione a tutto ciò che è noto fino ad ora sulla struttura della materia».
Non ci si spinge più in là? «Si unifica quello che si sa, ma poi si farà qualche altro passo avanti nel­la conoscenza e si scopriranno un abisso di cose in più che sono sco­nosciute.
Se nel super-acceleratore si riesce a dimostrare che quella par­ticella esiste, allora vorrà dire che il modello standard (che mette insie­me tutto ciò che si è appreso finora ) è un modello coerente.
Se non si scopre, siamo al punto di prima.
Stephen Hawking ha detto: “Come tutti gli scienziati, spero che si trovi il bosone di Higgs; Luigi Dell’Aglio