“Secondo le Scritture”.

“Per aprire i tesori della Scrittura al mondo di oggi e a tutti noi” di Benedetto XVI Cari fratelli e sorelle, il lavoro per il mio libro su Gesù offre ampiamente l’occasione per vedere tutto il bene che ci viene dall’esegesi moderna, ma anche per riconoscerne i problemi e i rischi.
La [costituzione conciliare] “Dei Verbum” 12 offre due indicazioni metodologiche per un adeguato lavoro esegetico.
In primo luogo, conferma la necessità dell’uso del metodo storico-critico, di cui descrive brevemente gli elementi essenziali.
Questa necessità è la conseguenza del principio cristiano formulato in Giovanni 1, 14: “Verbum caro factum est”.
Il fatto storico è una dimensione costitutiva della fede cristiana.
La storia della salvezza non è una mitologia, ma una vera storia ed è perciò da studiare con i metodi della seria ricerca storica.
Tuttavia, questa storia ha un’altra dimensione, quella dell’azione divina.
Di conseguenza la “Dei Verbum” parla di un secondo livello metodologico necessario per una interpretazione giusta delle parole, che sono nello stesso tempo parole umane e Parola divina.
Il Concilio dice, seguendo una regola fondamentale di ogni interpretazione di un testo letterario, che la Scrittura è da interpretare nello stesso spirito nel quale è stata scritta ed indica di conseguenza tre elementi metodologici fondamentali al fine di tener conto della dimensione divina, pneumatologica della Bibbia.
Si deve cioè: 1) interpretare il testo tenendo presente l’unità di tutta la Scrittura; questo oggi si chiama esegesi canonica; al tempo del Concilio questo termine non era stato ancora creato, ma il Concilio dice la stessa cosa: occorre tener presente l’unità di tutta la Scrittura; 2) si deve poi tener presente la viva tradizione di tutta la Chiesa, e finalmente 3) bisogna osservare l’analogia della fede.
Solo dove i due livelli metodologici, quello storico-critico e quello teologico, sono osservati, si può parlare di una esegesi teologica, di una esegesi adeguata a questo Libro.
Mentre circa il primo livello l’attuale esegesi accademica lavora ad un altissimo livello e ci dona realmente aiuto, la stessa cosa non si può dire circa l’altro livello.
Spesso questo secondo livello, il livello costituito dai tre elementi teologici indicati dalla “Dei Verbum”, appare quasi assente.
E questo ha conseguenze piuttosto gravi.
La prima conseguenza dell’assenza di questo secondo livello metodologico è che la Bibbia diventa un libro solo del passato.
Si possono trarre da esso conseguenze morali, si può imparare la storia, ma il Libro come tale parla solo del passato e l’esegesi non è più realmente teologica, ma diventa pura storiografia, storia della letteratura.
Questa è la prima conseguenza: la Bibbia resta nel passato, parla solo del passato.
C’è anche una seconda conseguenza ancora più grave: dove scompare l’ermeneutica della fede indicata dalla “Dei Verbum”, appare necessariamente un altro tipo di ermeneutica, un’ermeneutica secolarizzata, positivista, la cui chiave fondamentale è la convinzione che il Divino non appare nella storia umana.
Secondo tale ermeneutica, quando sembra che vi sia un elemento divino, si deve spiegare da dove viene tale impressione e ridurre tutto all’elemento umano.
Di conseguenza, si propongono interpretazioni che negano la storicità degli elementi divini.
Oggi il cosiddetto “mainstream” dell’esegesi in Germania nega, per esempio, che il Signore abbia istituito la Santa Eucaristia e dice che la salma di Gesù sarebbe rimasta nella tomba.
La Resurrezione non sarebbe un avvenimento storico, ma una visione teologica.
Questo avviene perché manca un’ermeneutica della fede: si afferma allora un’ermeneutica filosofica profana, che nega la possibilità dell’ingresso e della presenza reale del Divino nella storia.
La conseguenza dell’assenza del secondo livello metodologico è che si è creato un profondo fossato tra esegesi scientifica e “Lectio divina”.
Proprio di qui scaturisce a volte una forma di perplessità anche nella preparazione delle omelie.
Dove l’esegesi non è teologia, la Scrittura non può essere l’anima della teologia e, viceversa, dove la teologia non è essenzialmente interpretazione della Scrittura nella Chiesa, questa teologia non ha più fondamento.
Perciò per la vita e per la missione della Chiesa, per il futuro della fede, è assolutamente necessario superare questo dualismo tra esegesi e teologia.
La teologia biblica e la teologia sistematica sono due dimensioni di un’unica realtà, che chiamiamo teologia.
Di conseguenza, mi sembra auspicabile che in una delle proposizioni [del sinodo] si parli della necessità di tener presenti nell’esegesi i due livelli metodologici indicati dalla “Dei Verbum” 12, dove si parla della necessità di sviluppare una esegesi non solo storica, ma anche teologica.
Sarà quindi necessario allargare la formazione dei futuri esegeti in questo senso, per aprire realmente i tesori della Scrittura al mondo di oggi e a tutti noi.
 Il 23 aprile 2009 Benedetto XVI ha incontrato la pontificia commissione biblica, riunita per preparare un documento su “Ispirazione e verità nella Bibbia”.
E nell’occasione ha tracciato le linee maestre per la lettura della Sacra Scrittura “nel contesto della tradizione vivente di tutta la Chiesa”.
Il testo integrale del discorso è nel sito del Vaticano: > “La Scrittura si comprende all’interno della Chiesa” Tra pochi giorni il quotidiano “la Repubblica” e il settimanale “L’espresso” offriranno al pubblico italiano, in centinaia di migliaia di copie e a un prezzo di favore, l’intera Bibbia cristiana, nella nuova traduzione curata dalla conferenza episcopale, con un ampio corredo di note e illustrata con i capolavori dell’arte di tutti i tempi.
L’opera sarà in tre volumi: il primo con il Pentateuco e i libri storici; il secondo con i libri sapienziali e i profeti; il terzo con i Vangeli, gli Atti degli Apostoli, le lettere e l’Apocalisse.
L’iniziativa è tanto più sigjnificativa in quanto “la Repubblica” e “L’espresso” sono testate leader dell’opinione laica in Italia, spesso critiche nei confronti della Chiesa cattolica e della stessa fede cristiana.
Ma questo non toglie che, nell’offrire al pubblico i tre volumi, i due giornali presentino la Bibbia come “un libro da avere, da leggere e da vivere”, con in più la “garanzia di autorevolezza” della traduzione ufficiale della Chiesa.
I tre volumi sono introdotti dal cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della CEI, e da Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze e coordinatore dell’impresa della nuova traduzione, durata quasi vent’anni ad opera di insigni studiosi.
Nel risvolto di copertina è citata la celebre frase di san Gregorio Magno: “Le divine parole crescono con chi le legge”.
Qui di seguito, ecco l’articolo con cui “L’espresso” presenta la Bibbia ai suoi lettori e suggerisce come leggerla a chi l’accosta per la prima volta.
Non tutta di seguito ma cominciando dalla Genesi, poi passando subito al Nuovo Testamento con il Vangelo di Marco, poi tornando all’Antico con il libro di Giona, poi…
Questa guida alla lettura è naturalmente opinabile, ma riflette lo stile con cui la Chiesa legge le Scritture nelle sue liturgie.
Subito dopo, in questa stessa pagina, è riportato l’intervento di Benedetto XVI al sinodo dei vescovi su “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa”, la mattina di martedì 14 ottobre 2008.
In quell’occasione papa Joseph Ratzinger, parlando a braccio, spiegò come lui desidera che le Sacre Scritture siano lette, per gustarne il senso autentico e pieno, in un’epoca in cui “si propongono interpretazioni che negano la presenza reale di Dio nella storia”.
”Le divine parole crescono con chi le legge” Per Marc Chagall la Bibbia era l’alfabeto di colori a cui ha attinto tutta l’arte occidentale.
Verissimo.
Secolo dopo secolo, la fortuna artistica delle Sacre Scritture è stata così smisurata che oggi sono molti di più quelli che hanno appreso la storia sacra dalla pittura, dalla scultura, dall’architettura, di quelli che ne hanno letto il testo.
La Bibbia è il libro più venduto al mondo.
Ma che l’abbiano letta per intero sono pochi.
Paul Claudel, poeta francese convertito, diceva che “i cattolici mostrano un così grande rispetto per la Bibbia che se ne stanno il più lontano possibile”.
Errore imperdonabile.
Perché se è vero che Raffaello insegna tante cose, è ancor più vero che le stanze vaticane da lui affrescate restano indecifrabili se non si conosce la trama biblica che le sostanzia, se non si vede ad esempio che i filosofi della “Scuola di Atene” sono in cammino verso la liturgia celeste e terrena della “Disputa del Santissimo Sacramento” dipinta sulla parete di fronte.
La Bibbia è il “grande codice” della cultura occidentale.
Su questo i maggiori critici letterari sono ormai concordi.
Erich Auerbach, in un capitolo memorabile di “Mimesis”, mostrò che la Genesi e i Vangeli, ancor più dell’Odissea di Omero, sono la matrice del realismo della letteratura moderna: “Fu la storia di Cristo, con la sua spregiudicata mescolanza di realtà quotidiana e d’altissima e sublime tragedia, a sopraffare le antiche leggi stilistiche”.
Certo, pochi sanno leggere la Bibbia nel testo originale, ebraico per l’Antico Testamento e greco per il Nuovo.
Ma ora che la conferenza episcopale italiana ha sfornato dopo quasi vent’anni di lavoro da parte di biblisti e letterati la più accurata traduzione italiana della Bibbia di sempre, un motivo in più per leggerla c’è.
Questa nuova traduzione della Bibbia, che “L’espresso” e “la Repubblica” propongono ai loro lettori, è la stessa che si legge ogni domenica a messa.
È fatta quindi anche per essere proclamata, cantata, musicata, illustrata: come la Vulgata di san Girolamo, l’antica traduzione latina delle Scritture che per secoli ha fatto tutt’uno con la grande arte occidentale e, nello stesso tempo, con la vita e il linguaggio quotidiani di miriadi di uomini e donne.
Ma attenzione, la Bibbia cristiana può punire chi vi si avventura alla cieca.
È un libro specialissimo, anzi, un insieme di libri, settantatre in tutto, prodotti in un migliaio d’anni e ripartiti in due grandi collezioni, l’Antico e il Nuovo Testamento, che è vietatissimo separare, pena il non capire più nulla.
La messa insegna.
Non vi si legge mai una pagina del Vangelo senza che prima non si legga una pagina dell’Antico Testamento che l’anticipa “in figura”.
Gesù è incomprensibile senza i profeti.
Se è risorto dai morti, come i Vangeli attestano e il “Credo” proclama, ciò è accaduto “secondo le Scritture”.
Se dal fianco squarciato di Gesù zampillano sangue ed acqua, con Maria e Giovanni ai piedi della croce, è impossibile non pensare al secondo capitolo della Genesi, ad Adamo dormiente dal cui fianco Dio trae Eva, la madre dei viventi.
La croce è il nuovo albero della vita del paradiso, come la magnifica croce fiorita del mosaico della basilica romana di San Clemente.
È la sorgente della Chiesa, è l’inizio della nuova creazione.
Dell’Antico Testamento, per cominciare, si legga la Genesi.
Non ci si stupisca se i racconti della creazione non sono uno ma due, l’uno di seguito all’altro e così diversi di stile e di contenuto.
La Bibbia non vuole dire come il mondo è nato, ma perché.
E anche perché, in un mondo che pure è benedetto da Dio come “buono”, si sprigiona tanto male, non per destino ma per libera scelta volontaria, travolgendo con l’uomo anche la natura.
Da Caino a Lamech, dalla torre di Babele al diluvio, la malvagità invade la terra.
Ma c’è Noè il giusto, nell’arca salvata dalle acque.
Poi c’è la chiamata di un altro giusto, Abramo.
E c’è una giustizia anche al di là del popolo eletto, nel misterioso Melchisedech “senza padre, senza madre, senza genealogia”, come scriverà nel Nuovo Testamento l’autore della lettera agli Ebrei.
E c’è Dio che visita Abramo nella persona dei tre ospiti anonimi che Rublev nel XV secolo dipingerà come icona della Trinità.
E ancora Dio che lotta con Giacobbe sulle rive del torrente Yabbok.
Dio? La Bibbia non lo scrive.
Lo fa intuire.
Forse.
In questo la Bibbia è davvero modernissima.
Non dice mai tutto.
Anzi.
Obbliga il lettore a entrare nella trama e a decidere.
“Le divine parole crescono con chi le legge”, disse papa Gregorio Magno in un’omelia su Ezechiele profeta.
È come se le Scritture dormano, prima che il lettore arrivi a destarle dal sonno.
Sono state scritte così, piene di enigmi, ellissi, salti, penombre.
E l’esegesi rabbinica è così da sempre: il “midrash” è un inesauribile accumulo di letture e riletture, rimontaggi e reinterpretazioni, realtà e visione.
Un dipinto di Chagall ne è illustrazione perfetta.
E così la liturgia cristiana: lì la Parola di Dio non è una lettura libresca, ma diventa realtà vivente nei simboli sacramentali.
Il Verbo di Dio prende corpo e sangue.
C’è un’antifona, nella messa dell’Epifania secondo il rito ambrosiano che si celebra a Milano, che è un inno alla creatività, nell’accostare la Bibbia.
Essa canta: “Oggi al celeste Sposo s’è congiunta la Chiesa, poiché nel Giordano egli ha lavato i suoi peccati.
Accorrono i Magi con doni alle nozze regali e s’allietano i convitati dell’acqua mutata in vino.
Alleluia!”.
Qui i rimandi ai Vangeli sono almeno tre: alla visita dei Magi con i doni al Bambino, al battesimo di Gesù adulto nel Giordano, al miracolo delle nozze di Cana.
Ma l’ordine cronologico è del tutto saltato e la narrazione è stata scomposta e ricomposta.
Le nozze diventano quelle tra Gesù e la Chiesa, le acque battesimali purificano la sposa, i Magi portano i doni alla festa e gli invitati si comunicano bevendo il miracoloso vino procurato dallo stesso Gesù, qui ed ora.
Letta la Genesi, si salti al Nuovo Testamento e si legga Marco, il più antico, il più breve e il più folgorante dei quattro Vangeli.
Tutto imperniato sul “segreto messianico” come trama narrativa, un segreto che fa balenare solo a tratti, dalla penombra, la vera identità di Gesù, e solo alla fine la svela con le parole del centurione romano davanti alla croce: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”.
Altro elemento modernissimo del Vangelo di Marco è il suo finale tronco, in sospeso.
A riconoscere Gesù nella fede è stato un ufficiale pagano, i discepoli sono tutti fuggiti, e le donne che vedono la tomba vuota non dicono niente a nessuno “perché impaurite”.
Punto.
Col leggere un simile finale, come sfuggire dal prendere posizione? Come resistere dall’entrare in scena anche noi? Dispiace che della “Marcus-Passion” di Johann Sebastian Bach sia andata perduta la musica, visti quei capolavori sublimi che egli ha tratto dalla più solenne, ieratica, passione di Matteo, e da quella mistica di Giovanni.
E poi di nuovo si torni all’Antico Testamento.
Si legga il brevissimo libro di Giona, il profeta mandato da Dio a convertire e perdonare la Ninive pagana, ingoiato dal pesce e vomitato vivo il terzo giorno, scintillante racconto tutto intessuto di fine ironia: e allora si capirà perché Gesù si sia identificato nel “segno di Giona” e perché Michelangelo abbia dipinto proprio questo profeta, in forme grandiose, alla sommità della parete d’altare della Cappella Sistina, tra la Creazione e il Giudizio, tra l’inizio e la fine dei tempi.
E poi si legga il libro di Giobbe, grande teologia e poesia altissima.
E il Cantico dei Cantici, incantevole carme d’amore.
E poi di nuovo si apra il Nuovo Testamento, col dittico del Vangelo di Luca e degli Atti degli Apostoli, con le avventure di Paolo che fa naufragio a Malta e infine arriva a Roma.
Non diremo mai più che la Bibbia è noiosa.
Da “L’espresso” n.
18 del 2009

La martire Perpetua

Il primo elemento che colpisce è il fatto che l’autrice sia una donna, una giovane donna di 22 anni, sposata e con un bambino ancora lattante: si tratta di un elemento che non ha paralleli nelle letterature greca e romana e che trova solo analogie parziali con esempi moderni – Perpetua è stata accostata ad Anna Frank e a Sophie Scholl.
Si è talora dubitato che il testo sia stato effettivamente scritto da lei e che non abbia subito interventi redazionali, ma è difficile negare credito alle ripetute e solenni affermazioni del redattore, il quale sottolinea come avesse narrato lei le vicende del suo martirio nel documento che aveva lasciato – dice – “scritto di suo pugno e secondo il suo modo di sentire” (2, 3; cfr.
14).
L’autenticità viene confermata dalle differenze linguistiche e stilistiche delle sezioni autobiografiche rispetto alla parte redazionale nel testo latino della Passio, che secondo l’opinione comune è quello originale (esiste anche una versione greca).
Del resto la martire aveva tutte le capacità di elaborare uno scritto, avendo ricevuto una buona istruzione in conformità con le condizioni elevate della famiglia.
Un altro elemento che rende singolare questo scritto è il contenuto stesso: come nota Auerbach, nel racconto di Perpetua “vengono rappresentate cose che nella letteratura antica non si trovano”, e che raramente sono state descritte in prima persona: le sensazioni di orrore e disagio provate nell’ambiente del carcere, le emozioni contrastanti, di tormento oppure di sollievo e gioia, prodotte dagli incontri con i famigliari, in particolare il rapporto travagliato con il padre rimasto pagano, la pena per il bambino, le confidenze con il fratello.
Osserva ancora Auerbach: “nella letteratura antica c’era Antigone; ma qualche cosa di simile non c’era e non ci poteva essere; non c’era un genus letterario per questa realtà in tanta dignità e sublimità”.
Perpetua non solo racconta di ambienti e circostanze umili e quotidiane, di esperienze personali intime e concrete, ma lo fa con grande semplicità di linguaggio e di stile e insieme con eccezionale capacità espressiva, che raggiunge toni elevati, talora tragici, e non è affatto priva di effetti retorici.
Guardato nel suo complesso, lo scritto di Perpetua non si riesce a classificare in modo soddisfacente.
È stato definito dagli studiosi “memoria” o “autobiografia spirituale” o “diario”.
Ma solo impropriamente si può parlare di “diario” (così come si può parlare di diario di Anna Frank): nella forma in cui ci è pervenuto, non appare compilato giorno per giorno e l’autrice si mostra pienamente consapevole della sorte che la attende, avendone ricevuta una sorta di rivelazione attraverso un sogno, o visione notturna, già nei primi tempi della carcerazione (4, 10).
Inoltre, non scrive soltanto per se stessa, ma per lasciare un messaggio di fede ai fratelli della comunità cristiana.
Indizi di una composizione elaborata e intenzionale sono l’accurata alternanza e i nessi tra i fatti e le visioni, la struttura speculare e concentrica delle visioni, lo sviluppo progressivo della narrazione, che è di segno negativo per quanto riguarda i rapporti col padre e le prospettive della propria esistenza terrena, di segno positivo per quanto riguarda la comprensione del proprio destino sul piano della salvezza spirituale.
Si potrebbe supporre che Perpetua abbia, in una fase di revisione finale, selezionato e ordinato i materiali del suo diario avendo in mente una sorta di progetto.
In particolare hanno un rilievo strategico le visioni, o sogni, che costituiscono la componente più rilevante del testo e sono state oggetto di molta attenzione, ma sono anche state e sono tuttora molto discusse a proposito del loro carattere e del loro significato.
Si tratta di esperienze reali o di artifici letterari? Sono manifestazioni oniriche da interpretare coi metodi della psicologia dell’inconscio o sono costruzioni narrative i cui simboli vanno compresi sulla base del patrimonio religioso di Perpetua? E quale? La tradizione pagana ancora radicata nel profondo o l’immaginario biblico assimilato nella catechesi? Una soluzione equilibrata può essere quella di ammettere che alla base ci siano stati fenomeni effettivi (si possono notare riferimenti alle concrete vicende vissute) e che alcuni particolari apparentemente assurdi si spieghino come tratti onirici, e non va neppure negata a priori la possibilità di una plurivalenza delle immagini.
Ma i sogni, o visioni, che conosciamo sono frutto di una trascrizione effettuata in stato di veglia, in base a un ripensamento intervenuto a posteriori che ne ha colto un significato: non a caso ogni volta i racconti delle visioni si concludono con la formula “e compresi” (intellexi o cognovi) o “comprendemmo” (intelleximus).
Inoltre la volontà di lasciare il documento alla comunità indica un intento comunicativo che non può non aver influenzato la scrittura.
L’ambito di riferimento più chiaro e significativo sono la Bibbia e la fede cristiana.
È evidente un buon numero di allusioni bibliche, che rinviano in particolare alla Genesi, all’Apocalisse, a Paolo; in alcuni casi si tratta di vere e proprie citazioni, come è la frase “gli calcai il capo”, che rinvia a Genesi, 3, 15 e ricorre sia nella prima sia nella quarta visione e viene applicata al dragone (4, 7) e all’avversario egizio (10, 11), entrambi immagini del diavolo.
Ma sono anche riconoscibili in tutte le visioni allusioni di tipo sacramentale.
Anche da questo punto di vista si coglie una progressione, una sorta di via perfectionis.
Del resto anche i racconti di episodi fanno trapelare allusioni simboliche, spesso bibliche, e riferimenti metafisici: ad esempio, nella descrizione del primo incontro col padre, Perpetua assimilando se stessa, come cristiana, a un recipiente che si trova nella cella (3, 1-2) verosimilmente riutilizza un’immagine paolina e alla fine dell’incontro associa i ragionamenti del padre a quelli del diavolo (3, 3).
Si può dire che il diario, nella pluralità e nell’intreccio degli elementi che lo compongono, assolva a diversi obiettivi, personali e comunitari: mira al superamento delle disarmonie e delle ansie dolorose del vissuto presente per ricomporle su di un livello della realtà altro e più vero; addita a sé e agli altri un progetto divino del tutto positivo, già rivelato nella Sacra Scrittura, mostrando che si realizza pienamente al di fuori della storia ma già trova occasioni di compimento nella vita cristiana e nella comunione coi fratelli di fede.
(©L’Osservatore Romano – 1 maggio 2009) Il diario di Perpetua testimonia, insieme a un buon numero di altri scritti, antecedenti e posteriori, quanto il cristianesimo abbia favorito il parlare e raccontare di sé, in misura maggiore e in modalità originali rispetto alla tradizione classica.
Per lo più questo fenomeno è stato riconosciuto a partire dalle Confessioni di Agostino, che si collocano alla fine del iv secolo e sono state considerate il vero inizio dell’autobiografia in senso moderno.
In realtà una produzione di tipo autobiografico compare fin dall’inizio della letteratura cristiana in varie forme e contesti: pensiamo a molte pagine dell’apostolo Paolo, ma anche, per limitarci ad autori del ii secolo precedenti a Perpetua, a Ignazio di Antiochia, a Erma, a Giustino.
Però il suo diario mostra caratteri del tutto eccezionali e si può dire unici per il mondo antico.

Quello che la Bibbia non ha mai raccontato

La Pasqua secondo gli apocrifi.
Giuda, Pilato, Maria di Gianfranco Ravasi È paradossale, ma non è impresa difficile quella di ordinare una mostra che abbia come filo conduttore i vangeli apocrifi, come appunto è testimoniato dalla grandiosa esposizione che si è aperta il 24 aprile a Illegio in Friuli, cittadina divenuta nota per i suoi straordinari eventi artistici.
Questa letteratura ebbe, infatti, uno straordinario successo proprio nell’arte e nella tradizione popolare.
Sotto il termine di “apocrifi” – letteralmente, dal greco, i libri “nascosti” – si stende, infatti, un’immensa produzione letteraria e religiosa, anche di bassa qualità, che corre parallela ma autonoma rispetto all’Antico e al Nuovo Testamento i quali contengono invece i libri “canonici”, ossia quelli riconosciuti dall’ebraismo e dal cristianesimo come testi sacri, ispirati da Dio.
Questi documenti si distribuiscono anche nell’ultima fase dell’ebraismo anticotestamentario e costituiscono un capitolo della stessa letteratura religiosa giudaica.
Gli apocrifi giudaici sono almeno 65 testi diversi, composti a partire dal III secolo prima dell’era cristiana fino al II secolo, riconducibili ad ambiti e generi diversi.
Importanti, ad esempio, sono certi scritti apocalittici come i tre diversi libri di Enoch che offrono una testimonianza variegata ma decisiva di molte concezioni del giudaismo.
Significativi sono anche i “testamenti” messi in bocca a vari personaggi biblici come i vari patriarchi, oppure Giobbe, Mosè o Salomone.
C’è, poi, una serie di opere di taglio filosofico o sapienziale, come l’antico racconto di Achikar, di origine babilonese, adottato e trasformato dal mondo giudaico e divenuto molto popolare.
Non mancano, inoltre, preghiere, odi, salmi, alcuni venuti alla luce a Qumran, sulla costa del mar Morto, in una delle più celebri scoperte del secolo scorso.
Sono da registrare anche aggiunte o approfondimenti liberi di testi biblici come la “Vita di Adamo ed Eva” o la storia d’amore tra Giuseppe e Asenet.
La mostra di Illegio, però, mette in scena rappresentazioni artistiche legate agli apocrifi cristiani che puntano a ricreare, spesso molto liberamente, la vita di Gesù dando origine a nuovi Vangeli – non mancano però Apocalissi o Atti di vari apostoli e lettere sul modello di quelle paoline.
Si tratta di una massa rilevante di scritti cristiani, nati soprattutto dalla pietà popolare ma anche da ambiti colti: pensiamo agli scritti gnostici egiziani.
Essi furono ben presto contestati, nonostante rivendicassero il desiderio di allinearsi e di completare i libri canonici.
Questa esclusione, per altro spesso motivata a causa della loro qualità teologica discutibile e della loro fantasiosa creatività storica, non ne impedì l’ingresso nella devozione popolare, nella stessa storia della teologia, nella liturgia e soprattutto nella tradizione artistica dei secoli successivi.
Entriamo, dunque, anche noi come viandanti stupiti in questa selva di pagine, di immagini, di colpi di scena, di simboli, di fantasie.
Qui appaiono, ad esempio, le “divine malefatte” di un Gesù ragazzo che fa morire e risorgere o mutare in capretti i compagni di giuoco, che paralizza il maestro che sta per picchiarlo a causa della sua sapienza troppo saccente, ma che sa guarire dai morsi di vipera e estrae prodigiosamente bimbi caduti in forni o pozzi, che aggiusta senza fatica manuale un letto sghembo uscito dalla falegnameria di Giuseppe.
Tra le decine di percorsi che si aprono davanti a noi in tale foresta letteraria ne scegliamo uno che ci conduca all’evento della Pasqua di Cristo, il periodo liturgico che ci sta accompagnando.
Un’enorme massa di racconti segue, infatti, le ore della settimana che verrà poi chiamata “santa”.
Inseguiremo solo alcuni attori di quei giorni oscuri e gloriosi, prescindendo quindi dai vari soggetti esposti nella mostra friulana.
*** Il primo a venirci incontro è Giuda Iscariota, il traditore, un personaggio che ha continuato a generare nuovi “apocrifi” fino ai nostri giorni con vari romanzi e opere di autori diversi moderni.
Per gli apocrifi antichi la storia del traditore di Gesù ha radici remote e molto fantasiose.
Figlio del sacerdote Caifa, fin da piccolo Giuda – secondo il “Vangelo arabo dell’infanzia del Salvatore”, un apocrifo carissimo ai cristiani d’Oriente e persino ai musulmani – dava segni di possessione diabolica.
Sua moglie, stando invece a un testo copto egiziano, aveva accolto presso di sé per allattarlo il figlio neonato di Giuseppe d’Arimatea, colui che avrebbe offerto la tomba di famiglia per deporvi il cadavere di Gesù.
Ebbene, quando Giuda tornò a casa stringendo in mano i trenta denari del tradimento, quel neonato non volle più succhiare il latte.
Venne, allora, convocato suo padre Giuseppe: appena il piccolo lo vide, prodigiosamente si mise a gridare: “Vieni, padre mio, portami via dalle mani di questa donna che è una bestia selvatica.
Ieri, nell’ora nona, hanno preso il prezzo del sangue del Giusto”.
Infatti sempre secondo i testi apocrifi, era stata la moglie a spingere Giuda al tradimento per venalità: costringeva già da tempo il marito a rubare alla cassa comune dei discepoli che, come si legge nel Vangelo canonico di Giovanni (12, 6), era appunto gestita da Giuda.
Ma la scena più clamorosa è narrata dalle Memorie o Vangelo di Nicodemo, un famoso apocrifo greco, giunto a noi anche in versione copta e latina, forse dell’inizio del II secolo.
Giuda, dopo aver tradito Gesù, si ritira a casa sua, cupo e deciso al suicidio.
Sua moglie cerca di convincerlo a non impiccarsi, certa che Cristo non potrà mai risorgere.
La donna sta arrostendo un gallo per il pranzo e scommette con il marito: “Nello stesso modo in cui questo gallo arrostito può cantare, così Gesù potrà risorgere.
Ma, proprio mentre stava parlando, quel gallo allargò le ali e cantò tre volte.
Giuda, allora, del tutto convinto, con la corda fece un capestro e andò a impiccarsi”.
È evidente la ripresa in forma surreale ed esasperata del tema evangelico del gallo che canta al momento del tradimento di Pietro.
Altri apocrifi dipingeranno la morte di Giuda, invece, come un’esplosione dopo che il suo corpo si era gonfiato a dismisura – c’è un libero riferimento ad Atti degli Apostoli 1, 18 – e rappresenteranno la sua anima mentre vaga disperata nell’Amenti, cioè negli inferi.
*** Non poteva mancare una fioritura apocrifa anche attorno a un altro attore del racconto evangelico delle ultime ore terrene di Gesù: il procuratore romano Ponzio Pilato.
Lo scrittore e martire cristiano Giustino nel 155 circa chiamava “Atti di Pilato” quelle Memorie di Nicodemo a cui abbiamo appena accennato.
Esse, infatti, contengono una vivace sceneggiatura del processo romano di Cristo, nei confronti del quale vengono avanzati come capi di imputazione la nascita impura da fornicazione e la violazione della legge, soprattutto quella del riposo sabbatico.
Ma lasciamo la parola all’antico narratore che già esalta la grandezza sovrumana di Cristo.
“Pilato chiamò un messo e gli ordinò: Mi sia condotto qui Gesù, ma con gentilezza! Il messo uscì e, quando riconobbe Gesù, lo adorò, stese a terra il sudario che aveva in mano e gli disse: Signore, cammina qui sopra e vieni perché il governatore ti chiama.
[…] Quando Gesù entrò da Pilato, le immagini che i vessilliferi reggevano sulle insegne si inchinarono da sole e adorarono Gesù”.
Sfilano poi davanti a Pilato i testimoni a discarico: ciechi, paralitici, un gobbo, l’emorroissa, tutti guariti da Gesù, e Nicodemo, membro del Sinedrio giudaico.
Qui entra in scena la moglie stessa del procuratore della quale i vari apocrifi offrono anche il nome, Claudia Procula, o Procla: “Sapete che mia moglie – dice Pilato agli accusatori di Gesù – simpatizza con voi riguardo al giudaismo.
Gli ebrei risposero: Sì, lo sappiamo! Pilato: Ecco, mia moglie mi ha mandato a dire: Non ci sia nulla tra te e quest’uomo giusto! Questa notte, infatti, ho sofferto molto a causa sua.
Gli ebrei, allora, replicarono a Pilato: Non ti abbiamo forse detto che è un mago? È lui che ha inviato a tua moglie i fantasmi dei sogni”.
È evidente anche in tal caso come la base narrativa del Vangelo canonico di Matteo (27, 19) venga ampliata con aggiunte di colore.
A questo punto Pilato – stando al Vangelo di Pietro che è stato definito “il più antico racconto non canonico della Passione di Cristo” (scritto attorno al 100 e ritrovato solo nel 1887 in Alto Egitto nella tomba di un monaco) – “si alzò; nessuno degli ebrei si lavò le mani, né Erode né alcuno dei suoi giudici”.
Solo Pilato, dunque, si lava le mani dichiarando simbolicamente la sua innocenza.
Poi, sempre secondo le Memorie di Nicodemo, “ordinò che fosse tirato il velo davanti alla sedia curule e disse a Gesù: Il tuo popolo ti accusa di assumere il titolo di re.
Perciò ho decretato che, in ossequio alla legge dei pii imperatori, tu sia prima flagellato e poi appeso alla croce nel giardino dove sei stato catturato.
Disma e Gesta, entrambi malfattori, saranno crocifissi con te”.
Appaiono così anche i nomi improbabili dei due compagni di crocifissione di Gesù, anonimi secondo Luca 23, 39-43.
È, però, soprattutto sulla vita successiva di Pilato che si scatenerà la fantasia apocrifa, compresa quella moderna: pensiamo al “Procuratore di Giudea” di Anatole France, a “Il punto di vista di Ponzio Pilato” di Paul Claudel, alla “Moglie di Pilato” di Gertrud von Le Fort, al “Ponzio Pilato” di Roger Caillois, al “Pilato” di Friedrich Dürrenmatt, al “Maestro e Margherita” di Michail A.
Bulgakov e così via.
Ci è giunta dall’antichità cristiana una relazione apocrifa inviata da Pilato agli imperatori Tiberio e Claudio con i riscontri dei destinatari, una lettera di Pilato a Erode e una “Paradosi” di Pilato, cioè un’ipotetica “tradizione” storica delle sue vicende.
C’erano persino apocrifi pagani su di lui, tant’è vero che lo storico cristiano Eusebio di Cesarea lamentava che l’imperatore Massimino Daia nel 311 avesse fatto distribuire nelle scuole delle false memorie di Pilato “piene di empietà contro Cristo” e avesse ordinato che i ragazzi le imparassero a memoria per istigarli all’odio contro il cristianesimo.
Ma gli apocrifi cristiani si accaniranno in particolare sulla morte di Pilato con esiti antitetici.
Da un lato, la citata “Paradosi” descrive una fine tragica durante una partita di caccia con l’imperatore.
“Un giorno Tiberio, andando a caccia, stava inseguendo una gazzella; ma, quando questa giunse davanti alla porta di una caverna, si fermò.
Pilato si spinse a vedere.
Tiberio lanciò nel frattempo una freccia per colpire l’animale, ma essa attraversò l’ingresso della caverna e uccise Pilato”.
Più impressionante è la fine narrata da un altro testo e divenuta popolare nel Medioevo, secondo cui Pilato morì suicida a Roma con un colpo del suo prezioso pugnale.
Gettato con un peso nel Tevere, il cadavere dovette essere ripescato perché attirava gli spiriti maligni rendendo pericolosa la navigazione sul fiume.
Traslato a Vienne in Francia e immerso nel Rodano, dovette essere recuperato per la stessa ragione e sepolto a Losanna.
Ma anche qui, a causa del suo corpo infestato di demoni, lo si dovette riesumare e scaraventare in un pozzo naturale, in alta montagna.
D’altro lato, la tradizione apocrifa cristiana esalta invece la conversione di Pilato che muore come martire, decapitato per ordine di Tiberio, e viene accolto in cielo da Cristo.
Non per nulla la Chiesa etiopica venera come santo nel suo calendario liturgico il procuratore romano.
La stessa sorte toccherà a sua moglie Claudia Procula.
Ecco, infatti, un’altra versione della fine di Pilato secondo la “Paradosi” che abbiamo sopra citato.
“Il comandante Labio, incaricato dell’esecuzione capitale, troncò la testa di Pilato e un angelo del Signore la raccolse.
Sua moglie Procula, vedendo l’angelo giunto a prendere la testa del marito, ebbe un trasporto di gioia ed emise l’ultimo respiro.
Fu, così, sepolta con suo marito Pilato per volere e benevolenza del Signore nostro Gesù Cristo”.
La conversione del procuratore era avvenuta in coincidenza della risurrezione di Cristo, secondo il Vangelo di Gamaliele, opera copta del V secolo.
Infatti, “entrato nella tomba di Cristo, Pilato prese le bende mortuarie, le abbracciò e per la gran gioia scoppiò in lacrime.
Si volse poi a un suo capitano che aveva perso un occhio in guerra e rifletté: Sono sicuro che queste bende restituiranno la luce al suo occhio.
Avvicinò a lui le bende mortuarie e gli disse: Non senti, fratello, il profumo di queste bende? Non è un odore di cadavere ma di porpora regale impregnata di soavi aromi.
[…] Il capitano prese quelle bende e si mise a baciarle dicendo: Sono certo che il corpo che voi avete avvolto è risorto dai morti! Nell’istante in cui il suo volto le toccò, il suo occhio guarì e vide la gioiosa luce del sole come prima.
Fu come se Gesù avesse posto su di lui la mano, proprio come era accaduto al cieco nato”.
*** Un capitolo particolare in molti Vangeli apocrifi è riservato ai testimoni della risurrezione che si moltiplicano rispetto ai Vangeli canonici e che diventano spettatori di epifanie clamorose.
Ecco come lo stesso Pilato narra la sua esperienza secondo il citato Vangelo di Gamaliele: “Vidi Gesù al mio fianco! Il suo splendore superava quello del sole e tutta la città ne era illuminata, ad eccezione della sinagoga degli ebrei.
Egli mi disse: Pilato, piangi forse perché hai fatto flagellare Gesù? Non aver paura! Sono io il Gesù che morì sull’albero della croce e sono io il Gesù che è risorto dai morti.
Questa luce che tu vedi è la gloria della mia risurrezione che irradia di gioia il mondo intero! Corri, dunque, alla mia tomba: troverai le bende mortuarie che sono rimaste là e gli angeli che le custodiscono; gettati davanti ad esse e baciale, diventa assertore della mia risurrezione e vedrai nella mia tomba grandi miracoli: i paralitici camminare, i ciechi vedere e i morti risorgere.
Sii forte, Pilato, per essere illuminato dallo splendore della mia risurrezione che gli ebrei negheranno”.
E di fatti Pilato giunto al sepolcro di Cristo – come si è già visto – passerà di sorpresa in sorpresa, incontrando anche il ladrone risorto.
C’è, dunque, un “altro” Cristo risorto che viene incontro negli scritti apocrifi a una folla di persone, rispetto alla ben più sobria e rigorosa narrazione dei Vangeli canonici.
Un’apparizione è riservata, ad esempio, anche all’apostolo Bartolomeo nell’omonimo vangelo apocrifo: in quell’occasione Gesù svela tutti i segreti dell’Ade, ove aveva trascorso il periodo tra la sua morte e l’alba di Pasqua.
In un altro testo è Giuseppe d’Arimatea a incontrare il Signore risorto.
Arrestato dai giudei per aver offerto a Gesù il sepolcro, egli vede avanzare Gesù con il ladrone pentito nella tenebra della sua cella: “Nella camera risplendette una luce accecante, l’edificio fu sospeso ai quattro angoli verso l’alto, si aprì un passaggio e io uscii.
Ci mettemmo in viaggio per la Galilea, mentre attorno a Gesù brillava una luce insopportabile a occhio umano e dal ladrone emanava un gradito profumo che era quello del paradiso”.
Anche Pietro, al di là delle apparizioni pasquali “canoniche”, ha un incontro straordinario registrato dagli Atti di Pietro, un apocrifo composto tra il 180 e il 190, sulla via di Roma, e divenuto la sostanza del “Quo Vadis?”, il famoso romanzo che il polacco Henryk Sienkiewicz compose tra il 1894 e il 1896.
*** Particolarmente vivace è poi la tradizione apocrifa riguardante la madre di Gesù, Maria.
I Vangeli canonici tacciono sull’incontro del Risorto con lei.
Infatti, dopo la scena del Calvario (Giovanni 19, 25-27) si passa a quella degli Atti degli Apostoli secondo la quale i discepoli di Gesù “sono assidui e concordi nella preghiera” con Maria “al piano superiore della casa [di Gerusalemme] ove abitavano” (1, 13-14) e non si aggiunge nulla sull’incontro tra la Madre e il Risorto.
A questo vuoto suppliscono abbondantemente gli apocrifi.
Riprendiamo tra le mani il Vangelo di Gamaliele.
Maria, prostrata dal dolore, rimane in casa, ed è Giovanni che le riferisce le notizie sulla sepoltura del Figlio.
Essa, tuttavia, non si rassegna a restar lontana dalla tomba di Gesù e, tra le lacrime, dice a Giovanni: “Anche se la tomba di mio Figlio fosse gloriosa come l’arca di Noè, io non ne avrei nessun conforto se non la potessi vedere per versarvi le mie lacrime.
Giovanni le rispose: Come possiamo andarci? Davanti alla tomba sono di guardia quattro soldati dell’esercito del governatore! […] La Vergine, però, non si lasciò trattenere e la domenica, di buon mattino, si recò al sepolcro.
Giunta di corsa, si guardò intorno e fissò lo sguardo sulla pietra: era stata rotolata via dal sepolcro! Allora esclamò: Questo miracolo è avvenuto a favore di mio Figlio! Si sporse in avanti, ma non vide nel sepolcro il corpo del Figlio.
Quando il sole spuntò, mentre il cuore di Maria era malinconico e triste, si sentì penetrare nella tomba dall’esterno un profumo aromatico: sembrava quello dell’albero della vita! La Vergine si voltò e in piedi, presso un cespuglio di incenso, vide Dio vestito con uno splendido abito di porpora celeste”.
Maria, tuttavia, non riconosce in questa figura gloriosa suo Figlio.
Allora inizia un dialogo simile a quello che il Vangelo di Giovanni (20, 11-18) intesse tra Maria Maddalena e il Cristo risorto e alla fine si ha lo scioglimento dell’enigma: “Non smarrirti, Maria, osserva bene il mio volto e convinciti che io sono tuo Figlio”.
E Maria replicherà augurandogli una “felice risurrezione”, inginocchiandosi a adorarlo e a baciargli i piedi.
Un’altra testimonianza, ancor più fastosa, dell’apparizione del Risorto a sua madre è conservata in un frammento copto del V-VII secolo, traduzione di un testo più arcaico.
“Il Salvatore apparve sul grande carro del Padre di tutto il mondo e, nella lingua della sua divinità, esclamò: Maricha, marima, Tiath.
Che significa: Mariam, madre del Figlio di Dio! Mariam ne capiva il senso; perciò si volse e rispose: Rabbuní, Kathiath, Thamioth.
Che significa: Figlio di Dio! Il Salvatore le disse: Salve a te, che hai portato la vita a tutto il mondo! Salve, madre mia, mia santa arca, mia città, mia dimora, mio abito di gloria del quale mi sono vestito venendo al mondo! Salve, mia brocca piena di acqua santa! Tutto il paradiso gioisce per merito tuo.
Ti assicuro, Maria, mia madre: colui che ti ama, ama la vita.
Poi il Salvatore aggiunse: Va’ dai miei fratelli e di’ loro che sono risorto dai morti e che andrò al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro.
[…] Maria disse a suo Figlio: Gesù, mio Signore e mio unico Figlio, prima di andare nei cieli dal tuo Padre, benedicimi perché io sono tua madre, anche se non vuoi che io ti tocchi! E Gesù, vita di tutti noi, le rispose: Tu sarai assisa con me nel mio regno.
Allora, il Figlio di Dio s’innalzò sul suo carro di cherubini, mentre miriadi di angeli cantavano: Alleluia! Il Salvatore stese la mano destra e benedisse la Vergine”.
Ormai con questo testo ci ritroviamo in un’altra regione, quella della devozione mariana, cara soprattutto alle Chiese d’Oriente.
L’accento scivola sulla mariologia, lasciando sullo sfondo il riferimento cristologico.
*** La ricca esemplificazione che abbiamo offerto – sebbene si riferisca a una sola fase della storia di Gesù Cristo – non rende ragione del tutto riguardo alla molteplicità tematica e ai riflessi della varie situazioni ecclesiali che sono rivelati dalle pagine apocrife.
Essa, però, riesce a mostrare in modo inequivocabile la qualità radicalmente differente, sia per attendibilità storica sia per rigore teologico, degli scritti canonici neotestamentari, esempio della loro essenzialità tematica e sobrietà narrativa.
Significativa, per contrasto, è l’elaborazione della “gnosi” – secondo la quale la salvezza è offerta solo dalla conoscenza – diffusa soprattutto in Egitto.
Essa introdurrà, ad esempio, nel Vangelo di Tommaso una collezione di frasi o detti di Gesù evangelici ed extra-evangelici, alcuni di grande interesse storico, ma anche aprirà la stura a discutibili speculazioni teologiche, spesso molto elaborate e sofisticate e fin stravaganti.
In positivo potremmo dire che, però, domina un forte senso della grandezza dell’evento cristologico e una viva coscienza dell’identità cristiana.
In un apocrifo egiziano gnostico, noto come il Vangelo di Filippo, si legge: “Se dici: Sono ebreo! nessuno si commuove.
Se dici: Sono romano! nessuno trema.
Se dici: Greco, barbaro, schiavo, libero! Nessuno si agita.
Ma se dico: Sono cristiano! Il mondo trema”.
Un anno fa misero in mostra la Genesi.
L’anno prima l’Apocalisse.
Ed entrambe le volte richiamarono a Illegio, piccolo borgo di montagna sulle Alpi della Carnia, un gran numero di visitatori, incantati dai capolavori d’arte lì raccolti da importanti musei d’Italia e del mondo.
Fu tale il successo che la mostra sull’Apocalisse fu addirittura replicata a Roma, nei Musei Vaticani.
Quest’anno, dal 24 aprile al 4 ottobre, a Illegio sono in mostra gli Apocrifi.
Cioè le memorie e le leggende non scritte nei libri dell’Antico e del Nuovo Testamento ma entrate nella tradizione cristiana, riprese dall’arte e raffigurate anche in tante chiese.
A cominciare dal bue e dall’asinello accanto al neonato Gesù, sono numerosi gli episodi e i personaggi della storia sacra tramandati al di fuori dei testi canonici della Bibbia.
Ad esempio la nascita e l’infanzia di Maria con i suoi genitori Anna e Gioacchino, il suo sposalizio con Giuseppe, i nomi e le vicende dei Magi, i particolari della fuga in Egitto, la “dormizione” della Madonna e la sua assunzione al cielo.
Sono ottanta le opere raccolte ad Illegio con soggetto gli Apocrifi e con autori di prima grandezza, come Bruegel e Guercino, Dürer e Caravaggio.
Di quest’ultimo, nelle prime settimane della mostra, è esposto lo splendido “Riposo nella fuga in Egitto” conservato nella Galleria Doria Pamphili di Roma.
Con Maria e il Bambino dormienti e un angelo che accompagna al violino un mottetto con parole del Cantico dei Cantici.
Giuseppe regge lo spartito musicale e l’asino guarda ed ascolta, estasiato.
Sulla copertina del catalogo della mostra edito da Skira c’è un dipinto del Guercino del 1628 (vedi sopra) con l’incontro tra Gesù risorto e la madre: anche questo non raccontato dai Vangeli.
La scelta di dedicare la mostra agli Apocrifi non è priva di addentellati con l’uso odierno di alcuni testi extrascritturali.
Dal “Codice da Vinci” alla vicenda di Giuda è oggi tutto un pullulare di libri e di film sostanzialmente mirati a invalidare i Vangeli: libri e film che si presentano come portatori di una “verità nascosta”, occultata dagli stessi Vangeli e dalla Chiesa.
Questo della “verità nascosta” è un carattere che già apparteneva ai testi apocrifi di impronta gnostica dei primi secoli.
Non sorprende che oggi ritrovi successo, con il moderno gnosticismo anticristiano.
Le opere d’arte esposte ad Illegio mostrano invece che larga parte degli Apocrifi hanno avuto e possono continuare ad avere tutt’altra funzione: non di contrastare e invalidare i Vangeli canonici, ma di dilatarne il racconto, di arricchirne la comprensione, di nutrire la devozione, in sostanziale continuità con la trama fondante delle Sacre Scritture.
E questa è una ragione in più per esplorare il vasto insieme degli scritti extracanonici.
È ciò che fa qui di seguito in modo avvincente l’arcivescovo Gianfranco Ravasi, studioso di fama mondiale della Bibbia e della letteratura ad essa connessa, presidente del pontificio consiglio della cultura.
Ravasi è tra quelli che hanno presentato ufficialmente al pubblico la mostra di Illegio sugli Apocrifi, lo scorso 23 aprile, a Roma, nel palazzo dell’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede.
Il suo intervento è uscito anche su “L’Osservatore Romano” del 24 aprile 2009, col titolo: “Il canto del gallo arrostito e la conversione di Ponzio Pilato”.
Ravasi si sofferma soprattutto sugli ampliamenti che gli Apocrifi hanno fatto dei racconti della Passione.
La conversione di Ponzio Pilato è uno di questi sviluppi: entrato a tal punto nella tradizione, che la Chiesa etiopica venera come santo il procuratore romano che condannò a morte Gesù.
Il sito della mostra.
con tutte le informazioni: > Apocrifi.
Memorie e leggende oltre i Vangeli
Promotore della mostra è il Comitato di San Floriano, animato da don Alessio Geretti, viceparroco della pieve e studioso dell’arte cristiana.
__________ Il servizio dedicato da www.chiesa alla precedente mostra sulla Genesi: > Miracolo a Illegio, piccolo borgo di montagna (30.5.2008)

La mia Chiesa

(…).
1) La comprensione incondizionata dell’uomo Più che una “dittatura del relativismo”, che potrebbe compromettere ogni ricerca della verità, oggi si avverte uno “spaesamento dei valori” (diritto, doveri, giustizia, libertà, educazione, rispetto, sicurezza sociale, pace).
L’atteggiamento della Chiesa di fronte a queste realtà è molteplice.
È la spettatrice critica di fronte ai processi della società, e magari diventa arcigna e violenta di fronte ai fenomeni giudicati degenerativi della società.
Si pensi come il “magistero” ha inteso la “modernità”.
Essa è stata pensata come una deformazione delle coscienze, quando poteva tradursi in una grande educazione di umanità.
È comprensibile la diffidenza che la Chiesa ha verso la ricerca scientifica? Forse la Chiesa non ha mai voluto ammettere il “date (rendete) a Cesare quel che è di Cesare” e il “date a Dio quel che è di Dio” (Mt.
22, 21).
(…).
Attualmente la Chiesa sembra voler essere l’“autovelox” della morale.
Sta nascosta dietro l’angolo e quando la cultura sfreccia e magari sembra violare, per eccesso di velocità, soprattutto i temi della morale, eleva sanzioni (…).
La Chiesa certamente deve condurre gli uomini alla vita vera.
Ma come fa la madre.
Ella non insegna, ma educa, costruisce, con infinita comprensione, con uno spirito di riconciliazione senza limite.
La sua non è sterile constatazione, o peggio controllo (“inquisizione”), ma sempre lievito, fermento di vita, promozione.
L’umanità è comunque sofferente e bisognosa, al di là di ogni forma di peccato, e la Chiesa, con l’unica sua verità, che è la misericordia di Cristo, ripete: “Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò” (Mt.
11, 28).
Il cap.
15 di Luca potrebbe essere il “manifesto” del comportamento della Chiesa.
Narra le parabole della pecora smarrita, della dramma perduta e del figlio prodigo.
Si capisce in questo manifesto cosa significhi comprendere e amare l’essere umano che è sempre così debole.
I primi sette versetti del capitolo sono di una emotività eccelsa ed estrema.
“Pantes oi telonai cai oi amartoloi – Tutti i pubblicani e i peccatori vanno da lui”.
L’appuntamento di “tutte” le persone sregolate è da Gesù.
È comprensibile lo scandalo delle persone rette, i farisei e gli scribi.
E Gesù, “umile di cuore” anche con loro, dice: “Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova?”.
No, nessuno userebbe questo criterio pastorale.
Ma Gesù insiste e sostiene di essere nella gioia solo quando ritrova la pecora.
E a conferma della arditezza del suo amore, senza parametri umani: “Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore che si converte che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione”.
 2) La “Cattolicità” “Deus vult omnes homines salvos fieri – Dio vuole che tutti gli uomini vengano salvati” (1 Tm.
2,4).
È evidente l’afferma-zione biblica, perché, con l’“incarnazione”, Dio si fa uomo in ogni uomo.
“Non fa preferenze di persona” (At.
10, 34).
Anzi “ogni uomo a qualsiasi popolo appartenga” è bene accetto a Dio” (At.
10, 34).
La consegna agli Apostoli, dopo la risurrezione, è: “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura” (Mc.
16, 15).
Probabilmente l’assicurazione: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt.
28, 20) viene fatta per garantire che la sua Chiesa “avrà le porte sempre aperte” (Ap.
21, 25), per accogliere tutte le genti.
Riservare il cristianesimo alla civiltà occidentale è tradire il Vangelo.
Rivendicare le “radici cristiane” dell’Europa rischia di compromettere l’universalità del Vangelo.
Il Vangelo è incarnazione attiva presso tutte le genti.
Le quali sono chiamate ad esprimere il loro volto cristiano (cf.
Mt.
28, 19).
Gli Apostoli non sono mandati per dare alle genti un cristianesimo occidentale, ma per affidare a tutti il Vangelo quale sorgente di originalità.
Il messaggio del Vangelo rimane genuino e originale presso tutti i popoli: “Costoro che parlano sono tutti Galilei.
E com’è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadocia, del Ponto, e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, stranieri di Roma, Ebrei e proseliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio” (At.
2, 7-11).
(…).
  3) L’Unità L’unità di tutto il genere umano ha per fondamento il Vangelo.
Dio si è incarnato in ogni uomo, rendendo ognuno di noi uguale al fratello.
Non c’è umanità, pertanto, senza l’amore del fratello.
Il quale ha tutti i diritti al mio amore, perché “nessun uomo è profano o immondo” (At.
10, 28).
L’unità, in realtà, non si fa con la dottrina, non si fa con i principi, non si fa con una religione codificata, ma soltanto con l’amore.
Amos Oz riferisce un aneddoto: “Avevo dato all’amico un appuntamento al bar.
Assolsi ad un piccolo impegno d’urgenza e subito raggiunsi l’amico.
Con mia sorpresa vidi già seduto accanto a lui un signore dal nobile aspetto.
Con qualche gesto impercettibile chiesi all’amico chi fosse.
Quegli, con fare circospetto, mi disse: mi pare tanto che sia Dio.
Mi sedetti accanto e, parlando, anch’io ebbi l’impressione che fosse Dio.
Volli allora togliermi una curiosità.
Dissi: da noi qui ci sono tante religioni: la cristiana, l’ebraica, la musulmana.
Qual è quella vera? Rispose: non lo so; io non sono religioso.
Sono venuto sulla terra per amare gli uomini e per salvarli”.
Invece il confronto religioso diventa facilmente violenza, dalla lotta contro gli Albigesi alle “crociate”.
Francesco nella Regula non bullata (cap.
16) ha una pagina di grande significato: “I frati coraggiosi vadano presso gli infedeli e, presentandosi come cristiani, si mettano a servizio di tutti senza mai contrasti e dispute”.
Incantato dalla sua figura, il delegato papale di Damietta Jaques De Gratry riferisce che Francesco si presentò al sultano “sine armis et sine argumentis philosophicis, ma solo con l’amore di Cristo”.
Giovanni XXIII, veramente ispirato, nel discorso di apertura del Concilio, chiedeva a Dio che questo evento portasse alla costituzione dell’unica famiglia umana, “all’unità dei cristiani tra loro, all’unità dei cristiani con gli uomini di altre religioni, all’unità dei credenti con i non credenti”.
L’occasione attuale della miscelatura di tutti i popoli, occidentali e arabi, cinesi e indiani, cristiani e musulmani, offre ai discepoli di Cristo la possibilità di effondere tutto l’amore di Cristo, fino alla costruzione della “Pacem in terris”.
  4) La Carità La carità è la Chiesa: “charitas Christi urget nos”.
I tre Vangeli sinottici sono il poema della carità di Gesù.
Gesù è sempre in attività, per guarire tutti gli ammalati, per dare conforto a tutti i bisognosi.
Sta volentieri con le persone anonime, con le “folle”, che non hanno qualificazioni sociali, che “sono come pecore senza pastore”, e prova pietà per loro: “misereor super turbam”.
Le folle sono particolarmente bisognose, sono di solito affamate.
E Gesù provvede loro con la “moltiplicazione dei pani”.
(…).
La Chiesa pensa oggi alle “masse affamate” del mondo? Oggi, il dramma dei popoli, Iraq, Sudan, ha riscontro nella Chiesa? Gesù scombina anche i rigorosi precetti della legge mosaica, per andare incontro alle necessità dell’uomo: “Il sabato è per l’uomo e non l’uomo per il sabato”.
Con gli Apostoli Gesù percorre tutte le strade della Palestina, non per andare a formare cenacoli e gruppi di preghiera, né per andare a costruire chiese e sinagoghe, ma per “cercare e salvare ciò che era perduto” (Lc.
19, 10).
Sembra quasi trascurare il culto e anche la catechesi, quando raccomanda: “Se fai l’offerta all’altare e ti ricordi che il fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì l’offerta, corri a riconciliarti con il fratello, poi torni e fai l’offerta all’altare” (Mt.
5, 23-24).
Di grande provocazione è il suo identificarsi con il “Buon Samaritano” e trascurare il sacerdote e il levita, ma anche il “dottore della legge”, al quale dice in pratica che non sono necessari né il tempio, né la Torah, quando invece indispensabile è agire come il Samaritano (Lc.
10, 25-37).
Incandescente per me è l’episodio del “battesimo”.
Egli, l’innocenza di Dio, vuole purificarsi come gli altri, apparire un peccatore tra i peccatori.
È chiaro allora che non c’è un reietto che non sia Lui, non c’è una vittima che non sia Lui, non c’è uno straniero che non sia Lui, non c’è un disperato che non sia Lui (cf.
Mt.
25).
  5) Oscuramento di Cristo È certo che credere nel Dio annunciato da Gesù, un Dio umile e nascosto, dischiude problemi nella Chiesa, alla ricerca del suo compito e della sua autorità.
Il rischio della Chiesa di cambiare l’originalità dell’istituzione è grandissimo e sempre incombente.
Da discepola e testimone del Risorto, essa si fa interprete, vicaria e sostituta di Dio.
Si pone come unica titolare e depositaria del divino sulla Terra.
Gesù aveva proclamato la “giustizia superiore” delle “beatitudini”, vincendo le tentazioni della ricchezza, del prestigio e del potere.
La Chiesa invece preferisce tenere in disparte Gesù e sacralizzare questi beni (“La leggenda del Grande Inquisitore”).
L’irrilevanza di Gesù è caratterizzata da quasi tutta la modernità.
E sembra esplicita nella Chiesa.
Nelle recenti dispute con i legislatori italiani e spagnoli e con i costituenti europei, la Chiesa fa appello alla biologia, alla natura, alla storia, alle tradizioni culturali, alla precauzione politica, non al Vangelo.
Anzi ci tiene ad affermare che la sua dottrina, la verità di cui è custode, corrispondono a una visione razionale e umana a tutti comune.
La trascuranza di Cristo sembra così evidente.
Ma “sine me nihil potestis facere” (Gv.
15, 5).
E questo oscuramento del Cristo è la ragione di tutti i nostri smarrimenti.
Per fortuna e per grazia, anche se noi trascuriamo il Signore, egli viene a noi incontro.
“Gesù in persona si accosta a me e con me cammina” (Lc.
24,15).
E mi confida: “Ecco, io sto alla tua porta e busso.
Se tu ascolti la mia voce e mi apri la porta, io vengo da te, ceno con te e tu con me” (Ap.
3, 20).
  6) Il “principio speranza” “Noi diamo ragione della speranza che palpita nel nostro cuore”, perché abbiamo il Vangelo.
E il Vangelo è tutta la speranza.
Il Vangelo è una proiezione infinita di luce, è l’apertura e la libertà della vita, è “pieno di immortalità”.
“Gesù è colui che vive e più non muore” (Ap.
1, 18).
È lui il destino dell’uomo e quindi è la sua speranza infinita.
Anche la Chiesa non ha nessuna verità da dare.
Ha unicamente l’“amore eterno” (Ger.
31, 3), da comunicare a tutti.
(…).
  Esercizi di nonviolenza – L’evangelizzazione oggi sembra asfittica.
Occorre annunziare di nuovo le Beatitudini e il Magnificat.
Se Gesù ci chiede di superare le tentazioni della ricchezza, del potere, del prestigio, il Magnificat ci assicura che lui rovescia i potenti dai troni e innalza gli umili.
– Recuperare la memoria del Concilio: non dimenticare le salutari avanguardie che hanno aperto nuovi percorsi; riconoscere, come papa Giovanni XXIII, che “Ecclesia sempre reformanda”; proclamare il valore dell’Ecumenismo ad ogni costo; credere nella scelta preferenziale dei poveri; la solidarietà della Gaudium et spes: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo” (n.
5.1).
– Superare la neutralità: un giovane non può rimanere neutrale tra dittatura e democrazia, tra libertà e fascismo, tra pace e guerra, tra obiezione di coscienza e militarismo, tra accoglienza degli stranieri e razzismo.
– Recuperare la memoria dei Profeti: don Mazzolari, don Milani, p.
Balducci, p.
Turoldo, p.
Dossetti, La Pira, Lazzati, Bachelet, Moro, Dorothy Day, M.L.
King, mons.
Romero, mons.
Camara…
È necessario raccontarli per poterli rivivere.
– Resistere ai “vitelli d’oro”: consumismo, telecrazia…, non rifiuto acritico, ma ragionato.
Reagire al neo-nazismo, al neo-liberismo, alla xenofobia, al nazionalismo.
Combattere l’integralismo e difendere la laicità della politica.
– La libertà.
È una parola difficile e non deve creare equivoci.
A me hanno insegnato ad amare questa parola Gandhi, Martin Luther King, Oscar Romero e Madre Teresa di Calcutta.
Libertà non è liberismo sfrenato, è liberazione dall’oppressione, dalla tirannia, difesa del pluralismo, della tolleranza, dell’ascolto, del dialogo.
Libertà è difesa delle minoranze politiche, religiose, culturali, sociali, etniche.
– Educazione alla condivisione delle risorse, alla redistribuzione delle risorse, per ridurre il fossato Nord-Sud, per affrontare la questione dei flussi migratori inarrestabili.
– Impegno di lotta senza quartiere contro le mafie e le camorre.
Rivoltarsi contro le sottoculture dell’illegalità.
Studiare catechismi di solidarietà.
– Rifondare il sindacato di tutti, non solo dei “protetti”, ma anche degli “esclusi”.
– Lotta per la libertà dell’informazione.
Impegno per la crescita delle voci non omologate, locali e nazionali.
Sostenere l’informazione libera e la comunicazione conviviale.
– Scelta di campo per i poveri.
Non solo interiore, teologica, emotiva, ma concreta sul territorio.
(…).
– Accoglienza dell’altro.
Dell’immigrato e del rom.
Questi dovrebbero essere accolti non dalle polizie, ma dalle amministrazioni locali o da istituzioni a ciò preposte.
(…).
  Amo la mia gente con le opere di Misericordia Gesù è l’uomo per gli altri.
Anch’io, suo apostolo, devo essere l’uomo per gli altri.
Sono personalmente convinto che oggi la Chiesa sia fortemente ancorata alla liturgia e alla evangelizzazione e meno sensibile alla carità, all’amore verso tutti gli uomini.
Sogno una Chiesa piena di vangelo, che rende Gesù visibile dovunque.
Gesù parla poco di questioni morali, mentre la sua condotta sembra “eccessivamente” misericordiosa.
Non insiste mai sui precetti e sulle ideologie giustificatrici.
Presentandosi come “Figlio dell’uomo”, non appare certo come il Dio dei poteri, delle istituzioni e dei sistemi, che creano le vittime e gli sfiduciati.
Ma sta con coloro che piangono e che “hanno fame e sete di giustizia”.
Non cerca i grandi templi, con lo scopo di onorare Dio, ma gli bastano “lo spirito e la verità” (Gv.
4,23).
Oggi una Chiesa autoreferenziale confonde facilmente i suoi fini con i suoi interessi.
Sembra si debba pensare che Dio è nella Chiesa e pertanto il mondo esista per servire la Chiesa e questa per difendere ad ogni costo se stessa.
Invece Dio è nel mondo e la Chiesa esiste per servire il mondo, creato da Dio e amato, e redento e perdonato da Lui.
Questo mondo è il nostro mondo, è quello che Dio ci ha dato da amare.
Non siamo qui per giudicarlo, ma per annunciargli il Vangelo, cioè la salvezza e la felicità.
Per Gesù i sabati, i templi, le filatterie, i precetti diventano totalmente secondari di fronte al dolore degli uomini.
Gesù lascia le curie del potere e va nell’“orto”, dove egli suda il sangue dei poveri.
L’opzione della Chiesa dovrebbe ancora essere il predicare un cristianesimo di sequela, piuttosto che un cristianesimo di consumo.
Non si può pensare che con più praticanti si salvano più uomini.
Se non esagero, vorrei proporre oggi una Chiesa di frontiera.
La frontiera è fuori dal tempio.
La frontiera è un luogo esposto.
È il luogo degli arrivi e delle partenze.
È il luogo dell’imprevisto, dell’inedito.
È il luogo dell’originale.
È il luogo dell’uomo sempre nuovo e sempre in attesa di una patria.
Ma è anche il luogo di Cristo.
Non si può pensare qualcosa di più urgente e di più precario della Capanna della sua nascita.
La Chiesa è artigiana della pace, non solo della pace dei cuori, ma anche della pace che passa attraverso l’azione politica.
Deve pregare per la pace, ma anche difendere l’uomo dal dominio incontrollato delle istituzioni e delle corporazioni, che rischiano di renderlo puro strumento della loro volontà di potenza.
Deve intervenire per allargare gli ordinamenti democratici, che esprimono la sovranità popolare, per rendere attiva sempre la libertà personale.
Deve difendere l’uguaglianza tra gli uomini, impedire lo sfruttamento di una sull’altra, di un popolo su un altro e combattere apertamente l’onnipotenza del capitale e del profitto, della mafia e della camorra.
Deve denunciare quelle scelte politiche che procurano la corsa agli armamenti e deve sostenere il disarmo progressivo.
Deve solidarizzare con coloro che pongono gesti di doverosa protesta: obiezione di coscienza, marce per la pace, giudizi di illegalità per le spese militari.
Deve combattere l’autoritarismo, le forme molteplici di violenza, la chiusura ideologica.
L’esaltazione dei condottieri, il disprezzo per i vinti, il culto della razza, la magnificenza della patria, l’eurocentrismo non sono certamente elementi che rendono maturo e idoneo l’uomo del villaggio globale.
La denuncia delle inadempienze radicali degli uomini e delle intollerabili povertà di certe categorie sociali non è sufficiente.
È necessario che la Chiesa difenda i diritti e le attese dei poveri e dei bisognosi, intervenendo nelle forme più attente ed efficaci.
Gesù con la “moltiplicazione dei pani” nutre le folle e le fa vivere nella speranza.
La Chiesa o è carità o è falsità.
La Chiesa è sempre e solo amare la gente.
(…).
  Responsabilità verso la Camorra La camorra, in Campania, impedisce le riforme strutturali, indispensabili per organizzare la speranza del futuro.
Procura le dimissioni di ogni imprenditoria intelligente e produttiva.
Una politica che crea progetti, stabilisca obiettivi, dia la spinta alla soluzione dei problemi è impensabile.
E le dirigenze di ogni tipo confondono facilmente il bene comune con l’interesse privato.
Il degrado, il sottosviluppo e la disoccupazione fanno sì che l’emigrazione dei giovani volenterosi sia enorme.
I talenti migliori salgono al Nord, privando le nostre terre di quella propulsività fatta di promozione e di progresso.
Ritengo che, in particolare nel meridione, la Chiesa deve esercitare la sua forza istitutrice di etica e di civiltà.
Purtroppo, l’esempio fulgido di un don Peppino Diana, che viene ucciso dopo quel documento salutare, Per amore del mio popolo non tacerò, rimane ancora controllato e isolato.
Le gerarchie ecclesiastiche sono molto preoccupate di difendersi dai nemici “ideologici”, massoni, comunisti, laicisti di ogni genere, e sottovalutano l’inquinamento morale e civile causato dai poteri illegali.
I camorristi, che pure sradicano il Vangelo dal cuore della nostra gente, negando ogni forma di amore del prossimo, diventano facilmente promotori delle iniziative della ritualità religiosa e della collettività.
Proteggono un certo ordine stabilito, e quindi vengono corteggiati dalle istituzioni.
E, per un falso amore di pace, la Chiesa tace.
(…) La storia della Campania, come la sua cronaca contemporanea, non si spiega senza tenere nel debito conto l’influenza della Chiesa.
Si osserva quindi che le espressioni religiose, soprattutto quelle enfatiche, e la camorra non sono due fenomeni indipendenti.
Fortunatamente non si arriva mai alla complicità.
Non si può tuttavia rimanere in disparte, scaricando la realtà criminale alla competenza dello Stato.
L’esercizio del potere nel mondo della camorra si prefigge l’infiltrazione nelle istituzioni per gestirle in maniera privatistica e clientelare.
E se la camorra diventa mentalità di popolo, il messaggio d’amore di Cristo non può avere vita.
Per cominciare, nelle parrocchie si devono superare supporti che possono configurarsi come camorristi: gli atteggiamenti autoritari, la violenza di un potere costituito, la precettistica morale imposta come inquisizione delle coscienze, la mancanza di democrazia nella gestione comunitaria, gli accordi unidirezionali che producono i gruppi fra loro conflittuali.
La Chiesa è di tutti ed è essenziale che si mantenga libera dal potere politico e di casta, e lasci trasparire lo stile di un servizio incondizionato all’uomo, “senza preferenze di persone” o di categorie sociali.
Insisto perché nelle parrocchie si faccia il catechismo della legalità.
  Archivio anno 2009-  Adista documenti n.
5 Adista, 12 gennaio ’09

Padre Agostino Gemelli

Un «gran corpo con piccolissi­ma testa»: questa la metafora, incisiva ma alquanto impieto­sa, con cui padre Agostino Gemelli, qualche tempo dopo la creazione del­l’Università Cattolica, definiva il cat­tolicesimo italiano.
La notizia viene da una lettera di Arturo Carlo Jemolo, che riporta le parole pronunciate dal rettore forse in una conversazione pri­vata.
«Quanto alle masse cattoliche – scriveva Jemolo nel ’49 – ricordo che circa un quarto di secolo fa udii dalle Sue labbra un paragone molto sapido tra cattolicesimo francese ed italiano: il primo una gran testa senza corpo, il secondo un gran corpo con piccolis­sima testa».
L’Università Cattolica era stata creata da qualche anno: perché, allora, chi più sentiva la responsabi­lità di guidarla esprimeva un giudizio che faceva trapelare dubbi e perples­sità sul grado di maturazione cultura­le di quel mondo cattolico che l’ave­va prodotta? Gemelli metteva a con­fronto la creatività del cattolicesimo francese e le caratteristiche del movi­mento generato dall’Opera dei con­gressi, un tronco solido da cui erano germinati molti polloni, ma anche un ‘corpo’ cui mancavano menti capa­ci di indirizzarlo nel difficile confron­to tra prospettiva religiosa e moder­nità.
Era questo il compito che si era addossato, non coincidente solo con una sfida privata tra la foggia france­scana del saio che lo rivestiva e l’e­spulsione del cattolicesimo dai domi­ni della ragione laica, comminata da alcuni cultori della modernità nel cli­ma positivista di fine Ottocento, in cui lui stesso si era formato.
I cattolici – sosteneva Gemelli – non devono confutare astrattamente i ne­mici della fede, bensì contribuire «con la pura indagine scientifica» a formu­lare nuove conclusioni, per far risal­tare l’incompletezza e l’incoerenza del sistema di pensiero degli ‘avversari’.
Ecco perché il rettore, amante delle scienze sperimentali, psicologo, in­dagatore che si avvaleva di mezzi di osservazione all’avanguardia, persi­no pilota all’età di sessant’anni, non aveva nulla dell’uomo di altri tempi.
Il medievalismo non gli impediva di dar vita a un’impresa culturale (l’Uni­versità) che non doveva aver nulla di arcaico.
Al centro di tale disegno vi e­ra l’auspicio di una metamorfosi po­litica, sociale e culturale, che l’ateneo avrebbe dovuto favorire formando quadri rinnovati.
N on bastava creare un appar­tato giardino delle intelligen­ze cattoliche, per preservarle dai contagi della cultura laica; l’uni­versità ‘libera’ si candidava invece a fucina in cui sarebbe stata forgiata u­na classe dirigente integralmente cat­tolica e, allo stesso tempo, pienamen­te nazionale.
E infatti l’ateneo era strutturato per fornire agli studenti i saperi necessari ai compiti civili cui e­rano destinati: le discipline sociali e le scienze economiche, sostenute da un lato dalle conoscenze psicologiche che il rettore aveva fatto fruttare sul terre­no patriottico, e dall’altro dall’ausilio dei filosofi neoscolastici, intenti a de­finire i criteri edificatori del nuovo Sta­to, avrebbero dovuto collocare l’ate­neo del Sacro Cuore al centro del pro­cesso di rifondazione nazionale.
Uni­versità, dunque, cattolica ma anche i­taliana, perché alimentata da un dise­gno complessivo che mirava a raffor­zare il senso di responsabilità civile della cattolicità italiana, per trasfor­marla, da luogo della contestazione degli assetti liberali, a sorgente di un modo diverso di essere cittadini.
Il fascismo si inserì in questo proget­to, alterandone parzialmente le carat­teristiche.
L’Università si trovò ben presto ad operare all’interno di un si­stema a vocazione totalitaria, che complicava la strategia del rettore.
Fi­niva allora per polemizzare, non solo con l’agnosticismo moderno, ma con la forzata attrazione dell’individuo nello Stato etico idealista, paventando un inasprimento della temperie auto­ritaria.
E infatti le autorità fasciste va­lutavano con preoccupazione l’anco­raggio al modello di Stato cattolico, preteso da Gemelli, e lo stile educati­vo dell’ateneo, accusato di «non edu­care fascistica­mente » e dunque al centro di lunghi contenziosi, mo­menti di rottura e faticose ricomposi­zioni.
La rigidità di­mostrata da Gemelli si spiega anche con la necessità di porre un argine nei con­fronti di aperture pericolose per la collocazione di u­na libera università in età dittatoriale.
La scelta per la ri­gorosa ortodossia diveniva, non solo un limite alla ricerca individuale, ma una specie di difesa dal mondo che Gemelli si augurava funzionasse an­che nei confronti della dittatura.
L’i­namovibilità dottrinale, peraltro, era il sostrato che apriva a una sorta di sperimentalismo in diversi settori.
Quanto al fascismo, si può osservare che, pur fra cedimenti e alterazioni del progetto, Gemelli riuscì a difendere l’intuizione originaria, apprestando, in vista della successione, una porzione notevole della classe dirigente che ha guidato il Paese dopo il ’45.
L’Uni­versità Cattolica, che già forniva gio­vani all’insegnamento, alle carriere u­niversitarie e alle libere professioni, vide molti docenti e laureati entrare nelle istituzioni nazionali, nella pub­blica amministrazione, negli enti lo­cali e nei punti nevralgici per la rico­struzione del Paese, contribuendo al­la rinascita democratica, alla fonda­zione della Dc ( i documenti ci dico­no che padre Ge­melli, d’accordo con Montini e con De Gasperi, ha convinto Pio XII dell’opportunità di sostenere il na­scente partito cat­tolico), all’Assem­blea costituente, alla ripresa econo­mica e al ripristino di libere attività sindacali.
Parlare del suo rettore si­gnifica insomma riflettere su un in­tellettuale e su un organizzatore di cultura che non ha esitato a fare i conti con la propria e­poca.
Si devono discutere i risultati ot­tenuti, le luci e le ombre di quella at­titudine progettuale, gli esiti teorici e pratici, non ultimo, probabilmente, il fardello ideologico trasmesso ai suoi e­redi.
Tali valutazioni, tuttavia, devono riconoscere a padre Gemelli almeno una capacità: quella di incidere sul proprio tempo, una capacità che for­se altre volte, in campo cattolico, ha faticato a mostrarsi.
Maria Bocci I rapporti tra Ratti e Gemelli venivano da lontano.
Non è escluso che all’inizio del Novecento l’allora dottore dell’Ambrosiana possa avere avuto qualche influsso sulla conversione del giovane scienziato positivista e socialista.
L’ipotesi è avvalorata da un cenno contenuto nella commemorazione del Papa appena defunto fatta dal rettore il 28 febbraio del 1939, due settimane appena dopo la sua scomparsa.
Riferendosi agli anni in cui Ratti aveva lavorato all’Ambrosiana, disse che “le sue ore di riposo erano dedicate alla lettura e alla amicizia di uomini di profondo senso religioso”.
Ma, aggiunse, egli “coltivava anche altre amicizie, per quell’istinto che il Sacerdote ha di cercare le anime lontane da Dio e che hanno bisogno del Sacerdozio”.
È molto probabile che Gemelli intendesse includere fra quelle anime anche la sua.
Poi il futuro pontefice era passato indenne attraverso la vicenda modernista – “mantenne una posizione di equilibrio”, ricorda Gemelli nella commemorazione appena citata – nonostante l’amicizia che lo legava a Gallarati Scotti, ed era successivamente salito prima al vertice dell’Ambrosiana e poi della Biblioteca Vaticana, non toccato, evidentemente, dai dubbi di Pio x sulle infiltrazioni modernistiche nella diocesi di Milano.  Ma da uomo di libri e di cultura, abituato a muoversi nel mondo scientifico, fra gli intellettuali e gli studiosi, non solo in Italia, era ben consapevole della modestia della cultura cattolica del nostro Paese, della sua inferiorità rispetto alla situazione di altri nazioni europee.
Nicola Raponi ha opportunamente ricordato la sua partecipazione al Congresso degli scienziati cattolici svoltosi a Friburgo nel mese di agosto del 1897.
In quella sede le critiche rivolte agli studi cattolici italiani furono impietose, fino alla bocciatura dell’idea di tenere a Roma il successivo congresso, motivata dal fatto che da Roma e dall’Italia non venivano né luci di scienza, né pubblicazioni di rilievo, né riviste importanti, né uomini significativi.
La discussione che si svolse dopo l’assise tedesca sulle pagine della “Rassegna nazionale”, della “Cultura sociale” di Romolo Murri e, proprio ad opera di Ratti, della “Rivista Internazionale di Scienze Sociali”, cambiò prospettiva all’idea di istituire una università cattolica in Italia.
Da problema giuridico e antagonistico, come era stato posto fino ad allora in seno all’Opera dei Congressi, divenne problema di sostanza:  uomini da formare, attitudini e sensibilità da creare, collegamenti internazionali da promuovere.
Gemelli, che allora stava iniziando i suoi studi accademici, raccoglierà in seguito queste idee e con esse il testimone di un progetto che sarebbe stato insieme di rinnovamento delle forze cattoliche, di scontro con la predominante cultura scientista e anticattolica, ma anche di costruttiva rifondazione della vita nazionale.
La lunga crisi che seguì la Prima guerra mondiale, la strisciante guerra civile che preparò la vittoria del fascismo, dimostrò che l’Italia liberale era giunta al capolinea, cosa che non poteva dispiacere all’anima intransigente di cui erano profondamente nutriti tanto Achille Ratti, che si era formato proprio negli anni della protesta ottocentesca, quanto Agostino Gemelli, a motivo della sua conversione.
Non era crollata l’Italia, esito a lungo sperato dall’intransigenza postrisorgimentale, ma era crollato il regime politico che l’aveva fatta.
Il senso del celebre discorso di Pio XI ai quadri dell’Università Cattolica, tenuto il 13 febbraio del 1929, era in fondo questo.
Non era nata un’Italia migliore, ma almeno era finita quella peggiore, cioè l’Italia “della scuola liberale – disse il Papa – per gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, o piuttosto disordinamenti, erano altrettanti feticci”.
Subito, infatti, era stato possibile restituire status giuridico e piena dignità di soggetto internazionale alla Santa Sede attraverso i Patti Lateranensi, “grazie ad un uomo” , per citare le esatte parole del pontefice, “come quello che la Provvidenza “Ci ha fatto incontrare””.
Mussolini non era insomma “l’uomo della Provvidenza” di tante semplificazioni, bensì il casuale interlocutore che rese possibile la soluzione dell’annoso conflitto proprio perché era estraneo alle pregiudiziali del liberalismo.
Ora toccava ai cattolici costruire, sui cocci e sulle macerie di quei “disordinamenti”, il futuro del Paese.
E l’Università Cattolica si proponeva come la punta di diamante della ricostruzione.
Ma occorreva che non vi fossero altre istituzioni analoghe per non frammentare un disegno nazionale che solo dall’unicità dell’indirizzo e del riferimento avrebbe tratto senso, come ha ricordato proprio qui in Cattolica qualche anno fa Giuseppe Dalla Torre, rammentando l’opposizione di Gemelli alla costituzione, a Roma, di quella che oggi è la Libera Università Maria Santissima Assunta (Lumsa), cioè di un secondo polo universitario cattolico.
Non erano allora preventivabili i tempi della fine del fascismo né gli sviluppi successivi, con il lungo governo della Democrazia Cristiana, ma alla luce di quanto è poi avvenuto non si può non riconoscere che il disegno del Papa e di Agostino Gemelli guardasse molto lontano.
Questo disegno è prefigurato, più o meno chiaramente, nella lunga lettera che Ratti aveva inviato a Gemelli dalla nunziatura di Varsavia il 28 marzo del 1921, tanto lunga che prima di concluderla sentì il bisogno di scusarsi di avere scritto sopra e oltre le righe.
In quella lettera, esprimendo tutto il suo incontenibile entusiasmo per la fondazione dell’Università, il futuro pontefice si era espresso in termini molto simili a quelli che userà il rettore, come vedremo fra poco, sebbene con il linguaggio sovrabbondante che gli era caratteristico, così diverso dal periodare secco ed essenziale del francescano.
Scriveva il futuro pontefice:  “Forse mai come adesso è stato grande e stringente il bisogno di tali aiuti (gli aiuti divini, ndr) mentre la società disfatta e dissanguata alla guerra mondiale e dalle sue conseguenze immediate anela ad una restaurazione, ad una rinascita che non possono venirle se non appunto dalla scienza e dalla sapienza di cui il Cuore divino serba il tesoro e il segreto.
È ben qui dove è dato vedere una particolare utilità e necessità di una Università cattolica in Italia.
Soltanto un istituto di alta cultura scientifica dove il Dio delle scienze e la scienza di Dio tengono il posto che loro serbarono Dante e Manzoni, soltanto una tale Istituzione può procurare alla restaurazione e rinascita cristiana della società i più utili e insieme i più necessari elementi di azione e di reazione, di direzione soprattutto; preparando dei laici di una completa formazione scientifica, insieme e cattolica, che è quanto dire scientificamente e cattolicamente consapevoli e persuasi dei diritti di Dio e della Chiesa, dei bisogni della società e della patria, dei fini da raggiungere e dei mezzi da impiegare per provvedere agli uni e agli altri”.
È in questo quadro, dentro i progetti e le illusioni di poter costruire una nuova Italia, che si situa la battaglia per la libertà della scuola, anch’essa portata avanti congiuntamente e in piena sintonia dal Papa e dal rettore.
Il tema della libertà della scuola era stata la punta di diamante delle vecchie lotte dell’intransigenza, ma nel clima postbellico e in presenza di un regime politico come quello fascista, in particolare dopo la Conciliazione, la questione entra in una prospettiva nuova, di competizione piuttosto che di contrapposizione, si rivolge al futuro piuttosto che guardare al passato, come ha ricordato con acutezza in un convegno di qualche anno fa Maria Bocci.
Per Gemelli e per Ratti era certamente necessario sottrarre i cattolici ai luoghi di formazione laicisti e anticlericali, ma non era meno importante contribuire al rinnovamento della vita nazionale portando linfa nuova, energie finora inutilizzate quando non apertamente respinte.
La guerra aveva rivelato la fragilità del tessuto nazionale, la debolezza del senso di appartenenza, l’estraneità delle classi dirigenti rispetto all’anima profonda del Paese.
E ora la crisi dello stato liberale portava a conclusione un intero ciclo storico, aprendo alle forze sociali e culturali rimaste fino ad allora escluse spazi che chiedevano soltanto di essere occupati.
“L’università cattolica – disse il rettore nella relazione di apertura dell’anno accademico 1923-24 – nasceva nel dicembre del 1921 come un esperimento fondato soprattutto sulla fiducia che anche noi cattolici abbiamo nel risorgimento della grandezza del nostro Paese e sulla persuasione che da decenni ci anima, e cioè che la scuola potrà contribuire più di ogni altro istituto a questo risorgimento nazionale, solo se essa sarà libera e se potranno, nel promuoverne l’incremento, cimentarsi in nobile gara, mirando solo all’educazione e alla formazione delle nuove generazioni, tutte le energie sane e fattive del Paese”.  Per Gemelli, e per gli uomini della sua generazione, era chiarissimo quello che per noi oggi è meno chiaro:  che l’Italia non è fondata su armonie sociali prestabilite, ma è un Paese costruito attraverso contrapposizioni, disarmonie, strappi, diversità storiche, ideologiche, culturali, sociali.
Se questa è l’Italia, un Paese lacerato, tutt’altro che compatto, la pretesa di imporre a tutti il medesimo itinerario educativo, neutro e agnostico, era mera illusione.
Molto più realistico era prendere atto di queste eterogeneità e consentire, dentro un comune quadro normativo, la libera competizione di istituti scolastici dichiaratamente orientati, tali da garantire alle famiglie il diritto di scegliere per i figli percorsi educativi coerenti.
Col tempo e con il dispiegarsi del disegno totalitario fascista, cioè dello Stato etico di marca gentiliana, questa idea si caricò di significati nuovi, imprevisti e imprevedibili al momento della nascita dell’Università.
Da rivendicazione di sapore quasi confessionale, come era stata nella vecchia cultura cattolica, divenne difesa della libertà di tutti, benché riferita soprattutto alle prerogative della Chiesa, come scrisse Pio XI nel 1931, nell’enciclica Non abbiamo bisogno.
Il proposito “di monopolizzare interamente la gioventù, dalla primissima fanciullezza fino all’età adulta – affermò il Papa nell’enciclica – a tutto ed esclusivo vantaggio di un partito, di un regime, sulla base di un’ideologia che dichiaratamente si risolve in una vera e propria statolatria pagana”, confligge irrimediabilmente con i “diritti naturali della famiglia e coi diritti soprannaturali della Chiesa”.
La lotta per il riconoscimento della scuola libera diventava, nella prospettiva comune al Papa e a Gemelli, non tanto lotta per la libertà di coscienza, che sarebbe stato andare troppo oltre l’ecclesiologia del tempo, ma lotta strenua per la “libertà delle coscienze”, della quale la famiglia era l’irrinunciabile baluardo, in una concezione del vivere sociale alternativa a quella del fascismo, concezione che intendeva lo Stato come ente sussidiario di istituti preesistenti e non come istituto monopolistico, totalizzante e fondante il diritto.
La famiglia aveva diritti e doveri che precedevano quelli dello Stato, soprattutto in materia di educazione e istruzione dei figli.
Queste erano prerogative che lo Stato non poteva manomettere Sul tema della famiglia intesa come ultimo, estremo bastione difensivo davanti all’avanzata dello stato etico, l’archivio dell’Università Cattolica conserva quattro chiarissimi memoriali inviati da Gemelli al Papa, purtroppo non datati.
L’Ateneo del Sacro Cuore, anello conclusivo di un percorso scolastico che si voleva alternativo a quello della scuola e dell’università statale, divenne così una sorta di bandiera della cattolicità italiana, fermamente difesa dalla Santa Sede e oggetto fino all’ultimo delle trattative concordatarie.
Conservato nell’archivio dell’università c’è un lungo promemoria inviato da Gemelli all’avvocato Francesco Pacelli il 6 febbraio del 1929, solo qualche giorno prima della conclusione dei Patti, volto a fissare i termini giuridici con i quali l’università avrebbe dovuto essere indicata nel concordato.
Non mi soffermo su questo documento.
È importante però precisare che per volontà del Papa, una volontà che in questo caso si sovrappose e si impose a quella del rettore, diversamente orientata, non fu mai messa in dubbio la sua natura di università statale piuttosto che pontificia.
Il Papa era convinto che in questo secondo caso si sarebbe sganciato l’ateneo dal sistema pubblico italiano, compromettendone il carattere nazionale, voluto fin dall’inizio, nonchè il prestigio accumulato nel mondo scientifico e accademico del Paese.
Gianpaolo Romanato (©L’Osservatore Romano – 27-28 aprile 2009)

Islam in Europa / Islam in Italia tra diritto e società

A.
FERRARI (a cura di),  Islam in Europa / Islam in Italia tra diritto e società, Il Mulino, Bologna, 2008, ISBN: 978-88-15-12489-0, pp.
376, € 28,00 L’islam ha cambiato la geografia religiosa dell’Europa occidentale.
Tuttavia, benché irreversibile, l’integrazione delle comunità musulmane nel “Vecchio continente” conosce tutte le difficoltà e le contraddizioni tipiche dei grandi processi sociali, che coinvolgono nel profondo sia le pubbliche istituzioni sia i vissuti quotidiani dei singoli.
Di qui la tensione tra “antichi” e “nuovi” costumi; fra la “tradizione delle radici” e le sfide del presente cui essa è confrontata.
Ma qual è, oggi, il volto dell’islam europeo ed italiano? Quale la situazione dell’islam nella scuola; delle moschee; degli imam? A che punto si trova la prospettiva di un’intesa con lo Stato? Quali sono le esperienze europee che potrebbero rivelarsi più utili nell’affrontare queste ed altre questioni, a cominciare da quelle poste dalle famiglie musulmane? Con un approccio interdisciplinare, i saggi raccolti in questo volume intendono fare il punto della situazione e offrire alcune indicazioni operative per il futuro.
Indice: Nota introduttiva, di A.
Ferrari – p.
7 PARTE PRIMA: LA SITUAZIONE.
L'”islam europeo” e i suoi volti, di F.
Dassetto.
– p.
13 Islam italiano e società nazionale, di S.
Allievi.
– p.
43 Le questioni normative, di S.
Ferrari.
– p.
77 PARTE SECONDA: FAMIGLIA E MATRIMONIO.
Famiglie musulmane in Italia.
Dinamiche sociali e questioni giuridiche, di L.
Mancini.
– p.
91 Il matrimonio: conflitti di leggi o di culture?, di G.
Conetti.
– p.
111 A proposito del matrimonio islamico in Italia, di A.
Albisetti.
– p.
121 Diritto matrimoniale inglese e legge musulmana, di W.
Menski.
– p.
129 PARTE TERZA: LA SCUOLA.
Studenti musulmani e prospettive dell’educazione interculturale, di M.
Santerini.
– p.
149 La scuola italiana di fronte al paradigma musulmano, di A.
Ferrari.
– p.
171 L’islam nel sistema scolastico inglese, di B.
Gates.
– p.
199 PARTE QUARTA: IMAM E MOSCHEE.
Quali imam per quale islam?, di P.
Branca.
– p.
219 Moschee e formazione degli imam in Francia, di B.
Basdevant Gaudemet.
– p.
233 Moschee e formazione degli imam in Austria, di W.
Wieshaider.
– p.
249 PARTE QUINTA: VERSO UN’INTESA TRA STATO ITALIANO E ISLAM? L’ente di culto e gli statuti nell’islam, di N.
Colaianni.
– p.
259 La rappresentanza e l’intesa, di G.
Casuscelli.
– p.
285 PARTE SESTA: REALTÀ E PROSPETTIVE.
Tariq Ramadan, p.
325 Maurice Borrmans, p.
335 Francesco Margiotta Broglio, p.
343 (pdf) Alessandro Ferrari insegna Diritto canonico e Diritto ecclesiastico nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università dell’Insubria.
Tra le sue pubblicazioni, “Libertà scolastiche e laicità dello Stato in Italia e Francia” (Giappichelli, 2002) e, con R.
Aluffi Beck-Peccoz e A.M.
Rabello, “Il matrimonio.
Diritto ebraico, canonico e islamico: un commento alle fonti” (Giappichelli, 2006).
Per il Mulino ha curato, con E.
Dieni e V.
Pacillo, “Symbolon/Diabolon.
Simboli, religioni, diritti nell’Europa multiculturale” (2005).
elenco libri di questo autore

Firenze e il suo vescovo:

Ai primi di ottobre, poco prima di entrare in diocesi, disputò pubblicamente con la filosofa Roberta de Monticelli.
Questa aveva annunciato di abbandonare la Chiesa cattolica proprio per colpa di Betori: per aver egli condannato, “a nome della Chiesa italiana”, l’autodeterminazione nell’interrompere anticipatamente la vita.
Lo accusò di “diabolicamente” negare “la possibilità stessa di ogni morale: la coscienza e la sua libertà”.
Betori le rispose con un pacato editoriale sul quotidiano della CEI, “Avvenire”, dal titolo: “Chiedo anch’io la libertà di coscienza.
Altra cosa dall’autodeterminazione”.
Poco dopo l’ingresso in diocesi il 26 ottobre, corse a visitare i piccoli malati dell’ospedale pediatrico “Enrico Meyer” di Firenze, proprio mentre nello stesso ospedale si teneva un congresso sul tema: “Il neonato è persona?”, con relatore il neonatologo olandese Eduard Verhagen, promotore di “cure di fine vita” per gli infanti.
L’arcivescovo criticò l’orientamento del congresso, lo definì “inquietante”.
In novembre, la sera del 20, partecipò a una veglia di preghiera per Eluana Englaro, la giovane donna in stato vegetativo che la magistratura italiana aveva autorizzato a far morire, interrompendo l’alimentazione e l’idratazione come richiesto dal padre: un caso molto simile a quello di Terri Schiavo negli Stati Uniti.
Betori pronunciò nell’occasione una riflessione in forte difesa del mantenimento in vita di Eluana.
E questo fu il suo primo atto pubblico solenne su una questione anche politica, da nuovo arcivescovo della città.
L’8 dicembre, festa dell’Immacolata, predicando in piazza del Duomo disse: “Siamo turbati nel vedere come da più parti e in varie forme sia posta in questione l’intangibile dignità della persona umana, soprattutto dove essa vive nella fragilità, al sorgere e al naturale compiersi della vita”.
Il 23 gennaio, al consiglio pastorale diocesano, indicò tra gli obiettivi della Chiesa fiorentina quello di riconquistare “la visibilità della vita credente quotidiana” e quello di sanare la frattura consumatasi nei decenni passati tra la fede e la cultura.
Intanto, ad Eluana Englaro era stata tolta la vita.
La donna non era di Firenze.
Ma pochi giorni dopo, il 9 marzo, il consiglio comunale di questa città, su proposta di un consigliere socialista, deliberò di dare a Giuseppe Englaro, il padre di Eluana che ne aveva voluto la morte, la cittadinanza onoraria: “quale simbolo di eccellente insegnamento di grande integrità morale, di coraggio umano e civile, in difesa della legalità della laicità dello stato, dell’umanità, della civiltà”.
La delibera passò di stretta misura, con numerosi voti contrari.
Meno di un’ora dopo arrivò la replica dell’arcidiocesi, con una nota ufficiale risolutamente critica: “Il gesto compiuto è offensivo nei confronti di quella non trascurabile parte della città che nel corso della vicenda di Eluana ha manifestato orientamenti ben diversi da quelli di cui erano portatori il signor Giuseppe Englaro e il gruppo che lo ha sostenuto.
Ma l’offesa più grande è stata fatta verso i genitori, fratelli, amici e volontari che si stringono attorno ai loro oltre 2500 cari che in Italia vivono in situazioni similari a quelle da cui è stata strappata a forza Eluana, persone che chiedono invece di essere sostenute nella loro dedizione, nella loro fatica e nella loro speranza”.
Ne nacque una discussione pubblica molto animata.
Il presidente del consiglio comunale, Eros Cruccolini, scrisse una lettera alla diocesi in difesa della giustezza della delibera.
Betori rispose confermando “che proprio l’amore per questa città esige che un vescovo, in coscienza, debba esprimere, se necessario come nel caso presente, un dissenso” .
Un ulteriore botta e risposta scritto si ebbe prima della cerimonia di conferimento a Giuseppe Englaro della cittadinanza onoraria.
L’arcivescovo, invitato ad assistere alla cerimonia, rifiutò.
La disputa è tuttora viva e si intreccia, su scala nazionale, alla discussione che accompagna l’elaborazione nel parlamento italiano di una legge sul fine vita, accelerata proprio dalla sentenza della magistratura su Eluana Englaro.
Ma a Firenze il fatto nuovo è proprio il ruolo svolto dal vescovo, che non ha precedenti negli ultimi decenni.
La novità è doppia.
Anzitutto per l’impegno diretto, anche nel campo politico, del vescovo nella città.
E poi per l’oggetto di questo suo impegno pubblico, che riguarda la difesa della vita umana in quanto tale: un tema sul quale una parte dei vescovi, del clero e del laicato cattolico è molto restio a porsi in conflitto con lo “spirito del tempo”.
Questa duplice novità esige di essere analizzata e interpretata, anche per la sua forza esemplare.
È quanto fa qui di seguito il professor Pietro De Marco, fiorentino ed esperto riconosciuto del cattolicesimo della sua città:  Sul vescovo come difensore della città, nelle moderne invasioni dei barbari di Pietro De Marco 1.
La attuale congiuntura della Chiesa fiorentina, retta dall’arcivescovo Giuseppe Betori, credo abbia una sua esemplarità che può avere ripercussioni internazionali.
Ciò che avviene a Firenze è il recupero di un ruolo antico: quello del vescovo come “defensor civitatis”, difensore della città, e “consul Dei”, console di Dio, appellativo, quest’ultimo, che fu dato a papa Gregorio Magno.
Naturalmente qualcosa di questo ruolo episcopale emerge a tratti nelle guerre o nelle rivoluzioni.
Anche il cardinale Clemens August von Galen venne definito, per la sua testimonianza nella Germania hitleriana, “defensor civitatis” e “consul Dei”, come gli antichi Padri della Chiesa “tra le orde dei barbari”.
Oppure emerge in situazioni di grave conflitto sociale, come accadde col vescovo Oscar Romero in America Latina.
Ma il caso di Firenze è interessante anche perché avviene fuori dall’eccezionalità di un’azione eroica, o da uno stile “engagé”, tanto celebrato nelle culture liberazioniste quanto raramente originale, e spesso con effetti dottrinali e pastorali negativi.
Al centro del caso di Firenze vi sono questioni antropologiche, bioetiche e biopolitiche che hanno poco da spartire con i consueti terreni di disputa politica ed economica.
Sulle questioni della vita, la Chiesa è nella sua piena originalità e solitudine; è soggetto insostituibile.
In questo senso il caso fiorentino ha portata esemplare.
Che potrebbe sollecitare o confermare dei fermenti nella stessa direzione, in altri episcopati.
2.
I media laici hanno adottato la metafora calcistica dell’intervento “a gamba tesa” per indicare la forma e la sostanza del comunicato dell’arcidiocesi di Firenze del 9 marzo scorso, critico sulla concessione, da parte della municipalità, della cittadinanza onoraria a Giuseppe Englaro, padre di Eluana, la giovane donna in stato vegetativo fatta morire di fame e di sete poche settimane prima, per sentenza della magistratura.
Questo atto critico pubblico è coerente con uno stile di governo della Chiesa fiorentina che si sta delineando di settimana in settimana.
Nel comunicato arcivescovile si affermava: “La pretesa di un gruppo di consiglieri di fare una scelta a nome di tutta una città è un atto di disprezzo verso la minoranza dei rappresentanti del popolo e verso una presunta minoranza di cittadini, inferendo una profonda lacerazione nella convivenza”.
E ancora: si è inteso “mostrare con un ultimo atto di arroganza [da parte di un consiglio comunale a fine mandato – ndr] la disponibilità di un potere esercitato come arbitrio, a spregio di chi ha altre opinioni e ritiene la vita un bene indisponibile perché sacro”.
Alcuni hanno equiparato il comunicato della curia arcivescovile addirittura a un proclama intimidatorio, a un “diktat” al quale il consiglio comunale della città avrebbe dovuto inchinarsi.
Espressioni come “proclama” e “diktat” non sono nuove.
Sono state rivolte da commentatori autorevoli anche contro il presidente della conferenza episcopale italiana, cardinale Angelo Bagnasco, intervenuto anche lui sul caso di Eluana negli stessi giorni.
Il meccanismo e il vocabolario di contrapposizione alla Chiesa cattolica sono in Italia ormai standardizzati e automatici.
Viene quindi da domandarsi perché anche chi, più moderatamente, ha usato la metafora sportiva della “gamba tesa”, abbia comunque evocato un comportamento che impone all’arbitro di fischiare fallo.
La risposta investe la storia civile e religiosa italiana dell’ultimo mezzo secolo.
Vi sono diverse cause alle radici della percezione e censura di un comportamento falloso, o “uncorrect”, in ogni intervento pubblico della gerarchia cattolica.
Da decenni il popolo cattolico italiano si è assuefatto al silenzio del suo clero e dei suoi vescovi, in sede pubblica.
Anzi, si è assuefatto a qualcosa di più: a che i vescovi parlino in pubblico, eventualmente, solo per sottoscrivere valori e retoriche civili prevalenti, quasi a certificare il proprio consenso, la propria conformità ad essi.
Infatti, non sono mancate voci di denuncia da parte di vescovi dei “mali” del paese, ma principalmente rivolte a temi civili sui quali la Chiesa si allineava, spesso con qualche ritardo, alle forze politiche e morali “critiche”.
Sui temi però di diretta deduzione dall’antropologia cristiana, prevale il silenzio.
I vescovi hanno a lungo delegato il “discernimento critico” su questi temi, e la sua proposizione pubblica, al magistero ordinario degli ultimi pontefici e alle pronunce della CEI.
Così, senza rendersene conto, i vescovi lasciano alla società civile – e specialmente alle culture politiche di opposizione e denuncia – il compito di conferire la legittimazione “politica” all’autorità episcopale.
Anche se non sono mancate eccezioni, questa “correttezza politica” è stata a lungo osservata, col visibile gradimento di amministratori e forze politiche.
Da una pratica del genere sono derivate delle tacite regole del gioco.
L’opinione pubblica le ha variamente assimilate, e questo o quell’arbitro ritiene di poter dare fiato al fischietto non appena un vescovo sembri “scorretto”.
Ma vi è di più.
Un’opinione pubblica qualificata, anche cattolica, ha confuso questa “correctness” ecclesiastica nella sfera pubblica con un ideale equilibrio tra autorità politiche e spirituali.
Realizzando così nei fatti e nel costume una impropria “privatizzazione” della peculiare e irrinunciabile natura pubblica della Chiesa.
La moderna dottrina della “laïcité” condiziona la neutralità dello Stato al carattere privatistico della Chiesa e alla sua non ingerenza, alla sua innocuità politica, delle quali lo Stato sarebbe giudice.
Ma la Chiesa cattolica non è così per essenza, né è riducibile a questo.
Non lo è stata quando ha innervato di sé l’Europa e l’Occidente, non lo è diventata dopo Lutero o dopo Locke, né con la Rivoluzione francese o sotto la minaccia delle religioni politiche e delle rivoluzioni totali del Novecento.
Questa presenza magisteriale e civilizzante della Chiesa cattolica, la necessità che essa compaia come tale nella sfera pubblica, non sono mai spariti del tutto, anzi, sono da diversi anni di nuovo presenti e visibili sulla scena mondiale.
I sociologi individuano questo fenomeno come uno dei più sintomatici dell’età “postsecolare”.
Il pontificato di Giovanni Paolo II e, in Italia, l’innovativo governo della conferenza episcopale esercitato dal cardinale Camillo Ruini hanno messo questa rinnovata presenza pubblica della Chiesa sotto i nostri occhi.
Ma sia l’assuefazione di parti della società civile, sia la neutralizzazione della visibilità e autorità della Chiesa tentata dalle culture secolariste convergono tuttora nel sentire la presenza magisteriale e civilizzante della gerarchia cattolica come eccezione, come trasgressione, persino come imposizione.
3.
Passiamo a Firenze e al suo vescovo.
Fin dai primi secoli del cristianesimo il vescovo è sia centro della vita liturgica, che è già in sé pubblica, sia – in coerenza col suo ministero che è “sovraintendere” – una peculiare autorità civile.
Ha scritto uno storico della tarda antichità, Bernard Flusin: “È impressionante la lista degli ambiti in cui il vescovo è chiamato a intervenire”.
Anche se non è un signore territoriale, il vescovo è un “defensor civitatis” con un ruolo di bilanciamento rispetto ai funzionari imperiali.
Attraverso i vescovi la chiesa porta a evidenza istituzionale nuova, rispetto agli ordinamenti precristiani, le funzioni di assistenza e di governo: i vescovi organizzano il culto, ammaestrano, sovvengono ai poveri, influenzano lo spazio urbano.
Il vescovo, nel quadro della sua città, è detentore di poteri definiti giuridicamente, che lo pongono a capo della comunità cittadina di fronte al potere civile.
Confermano altri storici, tra cui Luce Pietri: “I suoi titoli lo dichiarano garante della giustizia e protettore dei deboli, spesso in contrasto con la giurisdizione” civile.
È ministro dell’assistenza.
Questi tratti di lungo periodo sono stati poi aggiornati e armonizzati agli ordinamenti dello stato moderno e delle democrazie pluralistiche, ma non estinti.
Restano costitutivi.
E ciò è così vero e così evidente alla coscienza pubblica e al calcolo dei governanti, che quando i compiti del vescovo verso la “polis” si esprimono in attività sociali di “supplenza” sono graditi, ricercati, elogiati.
Quando invece la sollecitudine del vescovo – che in se stessa non è per il welfare ma risponde all’assoluto comando evangelico ed è in ultimo ordinata alla salvezza delle anime anche quando sovviene ai corpi – si rivolge ad altre e decisive tutele del benessere spirituale e morale dei cittadini, e lo fa secondo autorità, a voce alta, essa è fischiata come “fallosa”.
Eppure non sono che momenti distinti dello stesso mandato e dello stesso ufficio.
Il comunicato dell’arcidiocesi è, nella sostanza, la prima lettera del vescovo Giuseppe Betori alla città e sulla città.
È un atto di sollecitudine del pastore, che si fa “garante della giustizia e protettore dei deboli” sul terreno antropologico, anche in contrasto con i poteri pubblici.
Egli analizza la realtà e mette in guardia dai pericoli.
Il richiamo al “rispetto dei ruoli e delle reciproche autonomie”, che compare nella lettera inviata all’arcivescovo dal presidente del consiglio comunale di Firenze, mostra scarsa conoscenza di questo compito episcopale.
4.
Il dibattito pubblico che ne è venuto, inedito per Firenze come inedita, da mezzo secolo, è in questa città l’assunzione di responsabilità pubblica da parte di un vescovo in contrasto con i poteri civili, rappresenta un paradigma per un nuovo stile ecclesiale, almeno in Europa.
La svolta non ha mancato di sollevare alcune obiezioni.
Si è osservato che lo stile “ortodosso” di Betori non è in sintonia con Firenze, poiché “Firenze è atipica, non è città dell’ortodossia”.
Questa convinzione appartiene a una sorta di mito romantico e risorgimentale di una Firenze “eretica”, che ha avuto qualche fortuna anche nel Novecento.
Ma proprio la vicenda recente del cattolicesimo fiorentino, che molti conoscono anche al di fuori dell’Italia, non ha nulla a che fare con quel mito.
Giorgio La Pira, il sindaco di cui è in corso la causa di beatificazione, era un “piagnone” (parola con cui erano designati nel Quattrocento i seguaci del monaco rigorista Girolamo Savonarola) di forte ortodossia, obbedientissimo alla Chiesa e al papa.
Dopo la stagione lapiriana quel robusto filone cattolico si è dissolto nel silenzio pubblico, tra marginalità, nascondimento nicodemita e conformismo progressista.
Ma di nuovo, con Betori vescovo, non è più stagione di silenzi o sussurri, per la Chiesa.
Il presidente del consiglio comunale della città ha sostenuto che le decisioni a maggioranza di un organo elettivo, “espressione concreta della volontà della città”, non possono mai essere considerate “negative”.
Ma così ha confuso legalità con legittimità politica.
La lotta tra gruppi e correnti della maggioranza progressista che amministra Firenze ha prodotto una delibera di portata ideologica, militante, fatta per suggestionare con riti civili (il conferimento della cittadinanza onoraria al padre di Eluana Englaro) l’opinione pubblica e conquistarla a una irriflessa opzione verso l’eutanasia, quindi su frontiere etiche di estrema gravità.
Inoltre una ridotta maggioranza di consiglieri ha fatto uso di poteri e strumenti legali per schierarsi contro il governo nazionale e contro la Chiesa, proprio mentre a Roma il parlamento stava elaborando una legge sul “testamento biologico”.
Un atto politico che è difficile non giudicare – come ha fatto il vescovo – “pretestuoso, offensivo, distruttivo” per il governo della città, non meno che per l’etica pubblica.
Domani, quali altre decisioni potranno essere prese facendo leva simbolicamente sul “cittadino Englaro”, e con l’apporto di quanto resta del dissenso cattolico? Il vescovo di Firenze, sollecito perché si realizzi “iustitia” nel senso profondo della politica cristiana, ha reso consapevoli i cittadini di questa anomalia etico-politica.
Ha agito nonostante la pressione contraria di un’opinione pubblica anche ecclesiale: quella che si oppone alla Chiesa “delle condanne” in nome della “medicina della misericordia”.
Quest’ultima pressione è obiettivamente alleata con le polemiche laiche contro la “Chiesa del no”, ridicolmente additata come Chiesa della paura e della conservazione.
Anche la cosiddetta “opinione pubblica ecclesiale” mostra una assoluta sordità (spesso tradotta in pratica pastorale) alla battaglia bioetica della Chiesa e degli ultimi pontefici.
Sempre propensa a parlare di apertura alla speranza, questa opposizione intra-ecclesiale ignora che la speranza dell’uomo è affidata a coerenza antropologica, a responsabilità universalistica, non a un minimalismo di paradigmi rivolto a sovvenire pietosamente ai casi particolari.
Ignora che altra è, ecclesiologicamente, la responsabilità di un parroco, condizionata dall’immediato dei “mondi vitali” dei suoi fedeli, altra quella del papa e dei vescovi.
L’immediato dei mondi vitali non può divenire canone di fede.
5.
C’è poi anche un’altra obiezione: perché il recente risveglio delle gerarchie cattoliche si esercita solo o prevalentemente nel campo della bioetica e della biopolitica? Rispondo che non è importante argomentare qui, come pur sarebbe possibile, che non è così.
Credo in effetti che questa prevalenza debba esistere.
L’ambito bioetico e biopolitico è di tale crucialità che sarebbe piuttosto l’assenza di questi temi nella predicazione cristiana ordinaria ad apparire colpevole.
Vi sono ambienti, anche cattolici, dove i temi bioetici sembrano scottare le labbra e si preferisce deprecare che altrove se ne parli: deprecare cioè che ne parli la gerarchia, seguita da cerchie “fondamentalistiche”.
È invece colpevole il silenzio su questi temi, perché nessun cattolico è esonerato dall’intendere che la sfida delle biotecnologie non discende da soli bisogni terapeutici e non approda alla sola riduzione di una patologia o di una sofferenza.
Essa è sfida antropologica nel significato pieno della parola, ossia all’esistenza e al senso dell’uomo come creatura.
Quella che chiamiamo da qualche tempo antropologia teologica è stata per secoli una sezione del trattato “de Deo creante et elevante”.
Né può essere diversamente.
Senza fondamento nel Dio creatore, scienze e filosofie dell’uomo e del “bios” divengono saperi e pratiche di un videogame giocato sull’uomo reale.
Le implicazioni della sfida, il frequente cinismo nichilistico alla Peter Singer, il fantasticare sul post-umano sono oggi così ricorrenti ed espliciti che solo una “differenza cristiana” incantata dall’innocenza del mondo può non prenderne atto.
Questa frontiera è, invece, di assoluta priorità per la responsabilità cristiana.
Se l’uomo non è pensato come creatura non vi può essere sensato ragionamento sui suoi atti.
La teoria che calcola il “migliore interesse” dell’essere umano, prima o dopo la nascita, portatore di handicap o malato grave, è esemplare, più ancora che per la sua inumanità, per la sua vacuità teoretica.
Quale sarebbe il miglior interesse per un essere non integro, non sano? Non essere più.
Che meravigliosa integrità e felicità restituiremmo al feto, all’infante, al malato, all’anziano, sopprimendolo! La irragionata convinzione secondo cui il migliore interesse di un essere ne chiederebbe e giustificherebbe la soppressione è, da sola, la straordinaria spia di una deriva suicidaria.
Benedetto XVI l’ha messo in luce.
6.
A tutto questo il vescovo cattolico, per primo, ha il compito di dire autorevolmente “no”, “mi oppongo” (come nel “Racconto dell’Anticristo” di Solov’ev), non sorpreso dal trovarsi magari solo nella sollecitudine ultima per l’uomo: perché sola e universale nella comunità degli uomini è la Chiesa, com’è suo mandato e sua certezza, dall’origine.
Un “no” detto senza pathos apocalittico.
Con argomenti e con analisi, discernendo le tecniche e le metodiche.
Con la sapienza di chi ha costruito e garantito la ragione dell’Occidente.
Perciò, nella risposta cattolica all’emergenza bioetica non vi è alcuna “sacralizzazione del biologico”, come qualche critico sostiene.
Ogni vita di cui l’intelletto e l’amore cattolico si occupano è sempre l’intero umano, che è molto più del vivente che appare al biologo o al clinico in quanto tali.
Né vi è alcunché da sacralizzare, perché quell’intero è già “sacro”.
Sono evidenze difficilmente controvertibili.
Eppure resta, preoccupante, la diffusa incapacità, per non dire la resistenza cattolica a capire e a motivare il primato radicale, oggi, dell’annuncio antropologico.
Sembra reciso il filo con la grande tradizione apologetica.
La confusa cedevolezza di tanta cultura cattolica alle campagne mediatiche contro la “Chiesa del no” non attesta alcun proficuo “dialogo col mondo”, piuttosto una situazione di dipendenza intellettuale e politica.
Ma dei vescovi combattenti potranno portarci fuori dall’Egitto.
__________ Firenze è una città faro per il mondo intero.
Lo è come capitale dell’arte.
Ma lo è anche come laboratorio di forti esperienze cristiane, personali e di gruppo.
Lo è stato sicuramente per una gran parte del Novecento.
Il nuovo esempio che oggi Firenze offre al mondo cattolico, non solo italiano, ha a che fare con il ruolo del suo arcivescovo.
Il suo nome è Giuseppe Betori.
Ha 62 anni, è originario dell’Umbria e ha fatto studi da biblista.
È arcivescovo di Firenze dall’8 settembre del 2008.
In precedenza era stato segretario generale della conferenza episcopale italiana, braccio destro del cardinale presidente Camillo Ruini e poi del suo successore, il cardinale Angelo Bagnasco.
L’estate scorsa, quando la sua nomina era nell’aria ma non ancora ufficialmente decisa, un buon numero di sacerdoti e di laici fiorentini firmarono una lettera aperta per chiedere che il nuovo vescovo fosse uomo di “pazienza” e di “perdono”, lasciasse cadere “i toni amari e di condanna”, instaurasse tra la Chiesa e la società civile “un clima di libertà e di rispetto reciproco”.
Era facile indovinare che questo profilo di vescovo non corrispondeva a quello polemicamente attribuito a Betori dai firmatari della lettera.
In ogni caso Benedetto XVI mandò lui a Firenze.
Nella sua prima intervista al giornale della diocesi, Betori annunciò che avrebbe operato per “una fede capace di fare cultura”.
E aggiunse: “Nulla di ciò che è umano è alieno alla Chiesa e quindi ci sarà una parola della Chiesa su tutta la realtà cittadina.
L’umano può e deve essere illuminato dal Vangelo”.
I due precedenti servizi di www.chiesa sulla particolarità del cattolicesimo fiorentino, entrambi con commenti del professor Pietro De Marco: > Firenze contro Roma: un cattolicesimo in stato di disagio (25.6.2007) > A Firenze i cattolici riscrivono la loro storia (26.6.2008) Il prossimo 16 maggio, i cattolici che in Italia si dicono “in sofferenza” per una Chiesa che antepone la condanna alla misericordia si sono dati nuovamente appuntamento a Firenze.
Questo è il loro invito all’incontro, con le firme dei proponenti tra cui Alberto Melloni, Giuseppe Ruggieri, Luigi Pedrazzi, Angelina Alberigo, Enrico Peyretti, Pier Giorgio Camaiani, Giovanni Nicolini, Massimo Toschi: > Il Vangelo che abbiamo ricevuto E questo è un commento critico del professor De Marco: > In attesa dell’incontro fiorentino sulla “sofferenza” dell’Evangelo nella Chiesa __________

Earth Day: Il Giorno della Terra

Il 22 aprile si é celebrato in pompa magna in quasi tutta la terra (prima nell’emisfero Nord e poi in quello Sud) l’ “Earth Day”, cioè la Giornata della terra.
Questa umanità ipocrita che per il suo comodo stare sta dilaniando foreste, mari, monti, bestie- che certe volte sono più degne dell’uomo- una volta all’anno celebra la Terra che- come pure i più imbecilli sanno, non ha molto da vivere davanti a sé, seppure sia un qualcosa di meraviglioso e stupendo, creato da Dio come dicono i credenti, usciti dal Big Bang come sostengono molti scienziati che però ancora non sono arrivati a dimostrare il famoso inizio del “Bang”(e non lo scopriranno perché la creazione è un mistero troppo grande per la piccola mente umana).
Nel corso degli anni, ho riportato la voce di scienziati, di astronomi, di sociologi, di umanisti che mi avvertivano di informare sul disastro cui andava incontro l’umanità se non si dava una regolata nei consumi, nello strafare e nella prepotenza del mondo ricco sul mondo povero.
Ma si sa, le “piccole voci” che non hanno supporti politici sono soffocate, ammutolite.
Certe volte, mi sembra di rivedere il dramma di Sodoma e Gomorra raccontato nella Bibbia(Gn 18 e 19) i cui abitanti ridevano e sghignazzavano, si davano ai bagordi di ogni genere, credendosi “immortali”.
Sulla Terra, niente è immortale, tranne il pensiero che- certe volte- indirizza gli uomini e le donne a trovare dei “rimedi” per aiutare i propri simili a credere nel Bene.
Naturalmente, come al solito , nell’insieme dei fatti che presento, ce n’è per tutti: sfruttatori e amici della Terra Madre.
Terra madre Regia di Ermanno Olmi [Terra madre, 2009, Documentario, durata 78′] Con Ampello Bucci, Maurizio Gelati, Carlo Petrini, Pier Paolo Poggio, Marco Rizzone, Aldo Schiavone, Vandana Shiva, Angelo Vescovi Il regista denuncia i disastri ambientali e prende spunto dal Forum Mondiale Terra Madre, tenutosi a Torino nel 2006, per poi seguire nei luoghi d’origine alcuni dei protagonisti del Forum: dalle isole Svalbard (Nord della Novergia) per filmare l’inaugurazione della Banca Mondiale dei Semi, a Dehradun (regione Uttaranchal, Nord dell’India) per riprendere la raccolta del riso, nei pressi della Navdanya Farm, la fattoria di Vandana Shiva, dove sono custoditi i semi del riso tramandati di generazione in generazione sino a Quarto d’Altino, Comune di Roncade nel Veneto, dove racconta la storia di un contadino.
Il lavoro di Olmi è stato presentato a Berlino 2009, però uscirà nei cinema in Italia:08 maggio 2009.
Il Giorno della Terra, in inglese Earth Day è il nome usato per indicare due diverse festività: una che si tiene annualmente ogni primavera nell’emisfero nord del pianeta, e un’altra in autunno nell’emisfero sud, dedicate entrambe all’ambiente e alla salvaguardia del pianeta Terra.
Le Nazioni Unite celebrano questa festa ogni anno nell’equinozio di primavera, ma è un’osservanza ufficializzarla il 22 aprile di ciascun anno.
La festività è riconosciuta da ben 175 nazioni e viene celebrata da migliaia e migliaia di persone.
L’Earth Day fu celebrato a livello internazionale per la prima volta il 22 aprile 1970 per sottolineare la necessità della conservazione delle risorse naturali della Terra.
Nato come movimento universitario, nel tempo, l’Earth Day è divenuto un avvenimento educativo ed informativo.
I gruppi ecologisti lo utilizzano come occasione per valutare le problematiche del pianeta: l’inquinamento di aria, acqua e suolo, la distruzione degli ecosistemi, le migliaia di piante e specie animali che scompaiono, e l’esaurimento delle risorse non rinnovabili.
Si insiste in soluzioni che permettano di eliminare gli effetti negativi delle attività dell’uomo; queste soluzioni includono il riciclo dei materiali, la conservazione delle risorse naturali come il petrolio e i gas fossili, il divieto di utilizzare prodotti chimici dannosi, la cessazione della distruzione di habitat fondamentali come i boschi umidi e la protezione delle specie minacciate.
Tutti, a prescindere dalla razza, dal sesso, da quanto guadagnino o in che parte del mondo vivano, hanno il diritto morale a un ambiente sano e sostenibile.
L’Earth Day, il giorno della Terra, da quasi quarant’anni si basa saldamente su questo principio.
Il 22 aprile del 1970, 20 milioni di cittadini americani, rispondendo a un appello del senatore democratico Gaylord Nelson, si mobilitarono in una storica manifestazione a difesa del nostro pianeta.
Oggi, su questo principio quanto mai d’attualità si sono mobilitati ancora, in 174 paesi del mondo.
L’Earth Day 2009 ha segnato anche l’inizio di un’ ampia campagna di sensibilizzazione denominata dagli organizzatori “Green Generation Campaign” i cui punti principali sono la ricerca di un futuro basato sulle energie rinnovabili, che ponga fine alla nostra comune dipendenza dai combustibili fossili, incluso il carbone.
Un impegno personale a un consumo responsabile e sostenibile.
La creazione di una “economia verde” che tolga la gente dalla povertà con la creazione di milioni di “posti di lavoro verdi” e trasformi anche il sistema educativo globale in un sistema educativo “verde”.
Il 22 aprile 2009, Giorno della Terra, è stata l’occasione per migliaia di eventi organizzati in scuole, comunità, villaggi e città nel mondo.
In Italia, per il terzo anno consecutivo, a promuovere la manifestazione è stato Nat Geo Music, il canale musicale di National Geographic( quello che ha commissionato a Cementato il suo “predicavideo sulla Terra”.
Non dimentichiamo che è stato proiettato nelle varie sale italiane i “Earth – La nostra terra”, prodotto della DisneyNature.
«Earth» è un inno alla natura con immagine di paesaggi incontaminati e animali ripresi nel loro ambiente naturale.
Il settimanale Topolino è in edicola con un numero a Impatto Zero.
Grazie all’adesione al progetto di LifeGate, il magazine Disney compenserà le emissioni di gas ad effetto serra generate dalla produzione di ogni copia, con la creazione e tutela di nuove foreste in Italia e nel mondo.
Anche «Il Sole 24 Ore» partecipa all’iniziativa: dal 21 aprile le emissioni di CO2 legate al ciclo di vita Sole24ore.com saranno compensate con la creazione e la tutela di nuove foreste nel Parco del Ticino, Madagascar e Costa Rica grazie alla collaborazione con Lifegate e Lexmark.
A www.decrescita.com.terra vi è il blog che raccoglie informazioni e organizza eventi per l’Earth Day 2009.
Ma intanto, cominciamo a non sprecare l’acqua, a non essere schizzinosi nel mangiare, a non usare tutti i detersivi variamente pubblicizzati, a sopportare con più pazienza i cambi atmosferici.
Io( e con me tutti) “speriamo che me la cavo”! Figurarsi se mancava Celentano! Su Sky ha presentato Sognando Chernobyl, ovviamente commissionatogli sia da Sky che da Nat Geo Music.
Egli, predicatore “eccellente” ha detto che «Tutti quanti insieme salteremo in aria bum!»( che grande scoperta) Sempre per l’Earth Day arriva in tutte le radio il nuovo singolo dei Rio (band formata da Marco Ligabue, fratello di Luciano, e Fabio Mora).
A dare manforte al duo saranno il comico Paolo Rossi e Fiorella Mannoia: il primo recita una filastrocca all’inizio del brano, mentre Fiorella fa da contrappunto ai gorgheggi di Ligabue Jr.
e Mora.
«Con questa canzone – spiegano i Rio – appoggiamo il progetto Impatto Zero.
Essi dichiarano che “Tutti dovremmo fare un piccolo gesto per questo pianeta schiacciato da quello che noi chiamiamo “gigante”.
Un robot-transformer bestiale e inquinante che rappresenta il tempo moderno e non si cura di nulla in nome degli interessi economici».
Al progetto italiano Impatto Zero Lifegate aderiscono ricercatori, universitari, ambientalisti: l’obiettivo è rendere concreti gli intenti del protocollo di Kyoto sulla riduzione delle emissioni di CO2 attraverso la creazione di nuove foreste”.

Neuro-mania

Non è facile leggere sui giornali un buon articolo di divulgazione scientifica, che cioè non gridi subito alla scoperta sensazionale e non tiri precipitose conclusioni da piccoli passi in avanti nella conoscenza del funzionamento della natura, e soprattutto del corpo umano.
Infatti, se manca l’enfasi, o l’apparente novità, dov’è la notizia? Ma questo tipo di divulgazione esasperata – se pure serve a creare effimere celebrità scientifiche e, forse, ad attirare finanziamenti alla ricerca in questione – ha un effetto pericoloso sui lettori, perché li convince che sono stati trovati farmaci miracolosi, o che ogni stato emotivo e mentale dell’essere umano si spiega con la biologia.
E crea illusioni che conteranno molto quando si dovranno affrontare questioni che da bioetiche sono diventate biopolitiche, contribuendo a influenzare in modo decisivo la loro idea di essere umano e di vita umana.
Come, per fare un esempio, la ricerca sulle staminali embrionali.
Proprio per questi rilevanti motivi è di grande interesse la lettura del libro di Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà (uno psicologo cognitivo e un neuropsichiatra) intitolato Neuro-mania (Bologna, il Mulino, 2009, pagine 125, euro 9), che passa al vaglio critico proprio quella letteratura divulgativa, oggi tanto diffusa, che si occupa del cervello pretendendo di spiegare il funzionamento della mente umana.
E, su questa base, tratta delle nuove ricerche e discipline che tendono ad abusare del prefisso neuro-, una aggiunta che – lo provano ricerche mirate – aumenta la credibilità dell’informazione presso il lettore inesperto.
Siamo passati da un eccesso a un altro, scrivono gli autori: se negli anni Settanta ogni comportamento umano veniva spiegato con motivazioni socio-economiche, oggi la stessa cosa avviene con quelle biologiche; la chiave riduttiva è la stessa, ed è dovuta al fatto che le spiegazioni monocausali sono le più efficaci e le più credibili.
Tutto però nasce da un reale progresso della ricerca perché oggi, effettivamente, cominciamo a conoscere da vicino le connessioni tra la mente e il corpo.
Gli scienziati hanno scoperto che determinate aree presiedono alle funzioni specifiche di un dato compito: come, per esempio, la ricerca visiva di un volto noto, oppure la moltiplicazione mentale di due numeri a una cifra.
Naturalmente, in queste operazioni si attivano anche aree “generiche”, che presiedono a funzioni comuni a molti compiti, e cioè quelle visive, acustiche, motorie.
La divulgazione scientifica, però, tende a mettere in rilievo di volta in volta una sola area, quella privilegiata, e a dare l’impressione che essa sia l’unica deputata a una particolare funzione o, addirittura, che sia la causa di quel determinato effetto psicologico.
È nata così l’idea di poter vedere direttamente il cervello al lavoro, che tanto entusiasma i non esperti.
Ma si tratta di un’idea fuorviante: ciò che si vede è il risultato di un artificio grafico che trasforma probabilità casuali in colori sovrapposti a una riproduzione schematica del cervello.
Ci sono sempre altre funzioni, altri sistemi più complessi e ancora in parte sconosciuti che operano.
Ma questo non fa notizia.
Si diffondono così sia la certezza che ormai sappiamo tutto sul funzionamento del cervello sia l’idea che gli stati d’animo e le sensazioni mentali siano effetto di processi biochimici.
La vita quotidiana sarebbe allora riconducibile a una realtà sottostante di natura biologica, in quanto l’uomo, inteso come corpo, fa parte a pieno titolo della natura.
Viene in questo modo legittimata la speranza che se, in futuro, si riuscisse ad analizzare in dettaglio il funzionamento di tutte le parti del corpo umano, avremmo una corrispondenza biunivoca tra quanto scoperto dagli psicologi sperimentali e quanto emerge dall’esame di meccanismi biologici elementari.
In altre parole, un unico linguaggio, quello della fisica-chimica e della biologia, sarebbe la spiegazione di tutti i fenomeni conosciuti dell’universo, dal moto dei corpi celesti alle particelle elementari, dal naturale al sociale.
Certo, si tratta di un’utopia affascinante.
Ma non funziona.
Anch’essa è frutto di una moda, nata negli anni Cinquanta per effetto delle scoperte dei fisici.
Oggi si vuole imitare il loro metodo di ricerca, riconducendo il complesso al semplice e cercando di ingabbiare il sapere in modelli matematici.
Una moda che può perfino indurre a parlare, come è stato scritto recentemente su autorevoli quotidiani, di una neuroteologia: cioè, anche se Dio viene pensato dall’uomo nei modi più diversi, questi avrebbero un prerequisito comune, neuronale.
Nasceremmo insomma con un cervello predisposto a credere.
È evidente che una divulgazione di questo tipo ha l’effetto di cancellare ogni possibilità di scelta e ogni responsabilità dell’essere umano, e di conseguenza ogni possibilità di evoluzione morale.
Anche se non è questo il problema messo a fuoco dai due scienziati, il libro è utile per la sua funzione critica nei confronti di una divulgazione spesso irresponsabile.
(©L’Osservatore Romano – 25 aprile 2009)

Razzismo e povertà combinazione distruttiva

Pubblichiamo la traduzione dell’intervento pronunciato il 22 aprile dall’arcivescovo Silvano M.
Tomasi, Osservatore Permanente della Santa Sede presso l’Ufficio delle Nazioni Unite e Istituzioni Specializzate a Ginevra, in occasione della Conferenza di esame della Dichiarazione di Durban del 2001 contro il razzismo, la xenofobia e la relativa intolleranza, organizzata dall’Onu dal 20 al 24 aprile a Ginevra.
Signor Presidente, mi congratulo per la sua elezione e auguro a Lei, all’Alto Commissario per i Diritti Umani e a tutto l’Ufficio di condurre con successo questa Conferenza a una conclusione positiva.
Signor Presidente, La Delegazione della Santa Sede condivide l’aspirazione della comunità internazionale a superare tutte le forme di razzismo, di discriminazione razziale e xenofobia nella consapevolezza che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti” (Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, art.
1) e sono uniti in un’unica famiglia umana.
Infatti, una comunità internazionale giusta si sviluppa in modo appropriato quando il desiderio naturale delle persone umane di relazionarsi non viene distorto dal pregiudizio, dalla paura degli altri o da interessi egoistici che minano il bene comune.
In tutte le sue manifestazioni, il razzismo afferma falsamente che alcuni esseri umani hanno minori dignità e valore di altri.
Ciò infrange la loro fondamentale eguaglianza di figli di Dio e conduce a una violazione dei diritti umani di individui e di interi gruppi di persone.
Partecipando alla Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, agli sforzi comuni delle Nazioni Unite e di altre importanti organizzazioni internazionali, la Santa Sede si sforza di assumersi pienamente la propria responsabilità secondo la missione che le è propria.
Si impegna a combattere, con spirito di cooperazione, tutte le forme di razzismo, discriminazione razziale, xenofobia e relativa intolleranza.
La Santa Sede ha partecipato attivamente alla Conferenza di Durban del 2001 e, senza esitare, ha dato il suo sostegno morale alla Dichiarazione e al Programma di Azione (ddpa), ben sapendo che la lotta al razzismo è un prerequisito necessario e indispensabile per la costruzione di un modo di governare, di sviluppo sostenibile, di giustizia sociale, di democrazia e pace nel mondo.
Oggi, la globalizzazione unisce le persone, ma la prossimità spaziale e temporale non crea di per sé le condizioni per una interazione costruttiva e una comunione pacifica.
Infatti, il razzismo persiste: gli stranieri e quanti sono differenti vengono troppo spesso rifiutati e si arriva perfino a commettere contro di loro atti barbarici, inclusi il genocidio e la pulizia etnica.
Vecchie forme di sfruttamento hanno lasciato spazio a nuove: traffico di donne e bambini in una forma contemporanea di schiavitù, abuso di migranti irregolari.
Persone percepite come differenti o che in effetti lo sono, divengono, in numero sproporzionato, vittime di esclusione sociale e politica, di condizioni da ghetto e di stereotipi.
Giovani donne sono costrette a contrarre matrimoni indesiderati.
I cristiani vengono arrestati o uccisi per il loro credo.
La mancanza di solidarietà, un’aumentata frammentazione dei rapporti sociali nelle nostre società multiculturali, razzismo e xenofobia spontanei, discriminazione razziale e sociale, in particolare verso gruppi minoritari ed emarginati, e sfruttamento politico delle differenze, sono evidenti nell’esperienza quotidiana.
L’impatto globale dell’attuale crisi economica colpisce, soprattutto, tutti i gruppi vulnerabili della società.
Ciò dimostra quanto spesso razzismo e povertà siano interrelati in una combinazione micidiale.
La Santa Sede è anche allarmata dalla tentazione ancora latente dell’eugenetica che può essere alimentata da tecniche di procreazione artificiale e dall’uso di “embrioni superflui”.
La possibilità di scegliere il colore degli occhi o altre caratteristiche fisiche di un bambino potrebbe portare alla creazione di una “sottocategoria di esseri umani” o all’eliminazione di quegli esseri umani che non rispondono alle caratteristiche predeterminate da una certa società.
Inoltre, l’aumentata preoccupazione per la sicurezza e la conseguente introduzione di misure e pratiche eccessive hanno fatto scaturire una maggiore mancanza di fiducia fra persone di culture differenti e hanno esacerbato la paura irrazionale degli stranieri.
La lotta legittima contro il terrorismo non dovrebbe mai minare la protezione e la promozione dei diritti umani.
Basandosi sui progressi già compiuti, la nostra Conferenza di esame di Durban può essere l’occasione per accantonare le reciproche differenze e mancanza di fiducia, rifiutare ancora una volta qualsiasi teoria di superiorità razziale o etnica e rinnovare l’impegno della comunità internazionale per l’eliminazione di tutte le espressioni di razzismo quale requisito etico del bene comune, il cui ottenimento è “l’unico motivo di esistenza delle autorità civili” (cfr Papa Giovanni XXIII, Enciclica Pacem in terris) a livello nazionale, regionale e internazionale.
Condividere risorse e iniziative migliori nello sforzo concertato di mettere in pratica le raccomandazioni della ddpa per sradicare il razzismo significa riconoscere la centralità della persona umana e la pari dignità di tutte le persone.
Questo compito è dovere e responsabilità di tutti e dimostra con chiarezza che fare ciò che è giusto procura un vantaggio politico perché così si gettano le fondamenta di una convivenza pacifica, produttiva e reciprocamente proficua.
Le alleanze e le dichiarazioni internazionali così come le legislazioni nazionali sono indispensabili per creare una cultura pubblica e per fornire norme vincolanti, in grado di combattere il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e la relativa intolleranza.
Senza un mutamento del cuore, tuttavia, le leggi non sono efficaci.
È il cuore a dover essere continuamente purificato affinché non vi governino più la paura e lo spirito di dominio, ma l’apertura agli altri, la fraternità e la solidarietà.
Un ruolo insostituibile lo svolge l’educazione che forgia le mentalità e aiuta a formare le coscienze ad accogliere una visione più ampia della realtà e a rigettare qualsiasi forma di razzismo e di discriminazione.
Alcuni sistemi educativi andrebbero rivisti per eliminare tutti gli elementi di discriminazione presenti nell’insegnamento, nei libri di testo, nei corsi di studio e nelle risorse visive.
Il fine di questo processo di educazione non è solo il riconoscimento del fatto che tutti hanno uguale valore umano e l’eliminazione del pensiero e degli atteggiamenti razzisti, ma anche la convinzione che gli Stati e gli individui devono prendere l’iniziativa e divenire prossimo a tutti.
Anche l’educazione informale e generale svolge un ruolo cruciale.
I mezzi di comunicazione, quindi, dovrebbero essere accessibili e liberi da un controllo razzista o ideologico che porta alla discriminazione e perfino alla violenza contro persone che hanno una formazione culturale o etnica differente.
In tal modo, i sistemi educativi e i mezzi di comunicazione si uniscono al resto della società nel sostenere la dignità umana che può essere tutelata e promossa soltanto da un’azione collettiva di tutti i settori.
In tale contesto di mutua accettazione il diritto di accesso all’educazione da parte di minoranze razziali, etniche e religiose sarà rispettato come diritto umano in grado di garantire la coesione della società con il contributo del talento e delle capacità di ognuno.
Nella lotta contro il razzismo, le comunità di fede svolgono un ruolo importante.
La Chiesa cattolica, per esempio, non ha lesinato sforzi per consolidare le sue numerose istituzioni scolastiche, crearne di nuove, essere presente in situazioni pericolose nelle quali la dignità umana viene calpestata e la comunità locale distrutta.
In questa vasta rete educativa, la Chiesa insegna come vivere insieme e come riconoscere che tutte le forme di pregiudizio e di discriminazione razziale feriscono la dignità comune di ogni persona creata a immagine di Dio e lo sviluppo di una società giusta e accogliente.
Per questo motivo, sottolinea che la persona “si realizza attraverso l’apertura accogliente all’altro e il generoso dono di sé…
In questa chiave, il dialogo fra le culture emerge come un’esigenza intrinseca alla natura stessa dell’uomo e della cultura…
Il dialogo porta a riconoscere la ricchezza della diversità e dispone gli animi alla reciproca accettazione, nella prospettiva di un’autentica collaborazione, rispondente all’originaria vocazione all’unità dell’intera famiglia umana.
Come tale, il dialogo è strumento eminente per realizzare la civiltà dell’amore e della pace” (Papa Giovanni Paolo II, Messaggio per la Celebrazione della Giornata Mondiale della Pace, 2001, n.
10).
Il contributo delle comunità di fede alla lotta al razzismo e all’edificazione di una società non discriminante diviene più efficace in presenza di un rispetto autentico del diritto di libertà di religione com’è chiaramente esposto negli strumenti dei diritti dell’uomo.
Purtroppo, la discriminazione non risparmia le comunità religiose, un fatto che preoccupa sempre più la comunità internazionale.
La risposta a questa preoccupazione legittima è la piena realizzazione della libertà religiosa per gli individui e il loro esercizio a livello collettivo di questo diritto umano fondamentale.
Sebbene il diritto alla libertà di espressione non sia una licenza a insultare i seguaci di qualsiasi religione o a stereotipare la loro fede, i meccanismi esistenti che offrono garanzia legale all’incitamento all’odio razziale e religioso dovrebbero essere utilizzati nella cornice della legge sui diritti umani per proteggere tutti i credenti e i non credenti.
I sistemi giudiziari nazionali dovrebbero favorire la pratica di una “gestione razionale” delle pratiche religiose e non dovrebbero essere utilizzati per giustificare il fallimento nella tutela e nella promozione del diritto a professare e praticare liberamente la propria religione.
Le sfide che dobbiamo affrontare richiedono strategie più efficaci per combattere il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e la relativa intolleranza.
Questi sono mali che corrodono il tessuto sociale della società e causano innumerevoli vittime.
Il primo passo verso una soluzione pratica consiste nell’educazione integrale che include valori etici e spirituali a favore dell’acquisizione di poteri da parte di gruppi vulnerabili come i rifugiati, i migranti e itineranti, le minoranze razziali e culturali, persone imprigionate dalla estrema povertà o malate e disabili, donne e ragazze ancora considerate inferiori in alcune società, dove una irrazionale paura delle differenze impedisce la piena partecipazione alla vita sociale.
In secondo luogo, per ottenere coesione fra strutture e meccanismi vari creati per contrastare atteggiamenti e comportamenti razzisti, è necessario intraprendere un nuovo studio per rendere le varie modalità più incisive ed efficaci.
In terzo luogo, la ratifica universale di importanti strumenti contro il razzismo e la discriminazione, come la Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale e la Convenzione internazionale sulla tutela dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie, segnalerà la volontà politica della comunità internazionale di combattere tutte le espressioni di razzismo.
Infine, nulla può sostituire una giusta legislazione nazionale che condanni esplicitamente tutte le forme di razzismo e di discriminazione e permetta a tutti i cittadini di partecipare pubblicamente alla vita del loro Paese sulla base dell’uguaglianza di diritti e di doveri.
Quindi, il lavoro di questa Conferenza ha mosso un passo in avanti verso la lotta al razzismo, il motivo per cui la maggior parte dei Paesi si sforzano congiuntamente per un risultato che risponda alla necessità di eliminare manifestazioni vecchie e nuove di razzismo.
La Conferenza, come forum internazionale di esercizio del diritto alla libertà di espressione, è stata purtroppo utilizzata per esprimere posizioni politiche estremiste e offensive che la Santa Sede deplora e rigetta: non contribuiscono al dialogo, provocano conflitti inaccettabili e in alcun modo possono essere approvate o condivise.
Signor Presidente, Otto anni fa i Paesi del mondo hanno assunto un impegno globale per combattere il razzismo con l’adozione della Dichiarazione e del Piano di Azione di Durban.
Questa visione di cambiamento rimane incompleta nella sua realizzazione e per questo motivo il cammino deve continuare.
I progressi si otterranno attraverso una rinnovata determinazione a tradurre in azione le convinzioni riaffermate in questa Conferenza secondo le quali “tutti i popoli e tutti gli individui sono un’unica famiglia umana, ricca di diversità” e tutti gli esseri umani sono uguali in dignità e diritti.
Solo allora, le vittime del razzismo saranno libere e sarà garantito un futuro comune di pace.
(©L’Osservatore Romano – 24 aprile 2009)