Maggio

1.
Cerca nei Salmi indicati la conferma che la vita, nella concezione ebraica, non è tanto un concetto quanto una relazione con Dio.
2.
Che cosa caratterizza la vita nello Sheol? 3.
Che cosa esprime di nuovo la riflessione del vangelo di Giovanni sulla vita, rispetto ai sinottici? 4.
Cosa vuol dire che Gesù è il “nuovo Adamo”? Praticamente tutte le religioni si sono occupate e si occupano della vita e della morte.
Anzi, questi sono i loro temi centrali, basti pensare all’importanza e alla diffusione che ha il culto dei morti nella quasi totalità delle esperienze religiose, oppure il ruolo che assumono la morte e la resurrezione di Cristo nella comprensione del cristianesimo.
La morte viene percepita dalle religioni come un passaggio, una trasformazione della vita nell’aldilà: così come entriamo nel mondo attraverso la nascita, è attraverso la morte che entriamo nella vita successiva, qualunque sia la sua forma.
La vita e la morte, da un lato, possono apparire dei fenomeni naturali per cui l’uomo nasce, invecchia, muore e scompare: Jean Paul Sartre, nella sua celebre opera L’essere e il nulla, afferma che non solo non si può trovare alcun senso alla morte, ma che questa, per la sua stessa assurdità, impedisce di dare un senso alla vita.
Parallelamente a questa visione vi è però quella che guarda alla morte come a una realtà estranea, una “anomalia” che irrompe nella vita come qualcosa di singolare.
Così si esprime un canto africano: «Il giorno in cui Dio creò tutte le cose, creò il sole.
E il sole sorge, va a dormire e ritorna.
Egli creò la luna.
E la luna sorge, va a dormire e ritorna.
Egli creò le stelle.
E le stelle sorgono, vanno a dormire e ritornano.
Egli creò l’uomo.
E l’uomo appare, va nella terra e non ritorna».
È l’altra faccia della morte: pur essendo cantata come parte della creazione, è sentita come un’irregolarità drammatica di fronte alle apparizioni e sparizioni ritmate della natura.
Il teologo cattolico Karl Rahner esprimeva così questo doppio volto della nostra coscienza della morte: «La morte è ciò che vi è di più comune, e va da sé che ciascuno proclami che è naturale morire.
Eppure, in ciascuno di noi si alza una segreta protesta».
In questa prima parte cercheremo di individuare alcuni punti nodali per la comprensione della vita e della morte nelle religioni ebraica e cristiana, mentre, il mese prossimo, ci occuperemo dell’islam, dell’induismo e del buddismo.
Al centro del modo di intendere la morte da parte dei cristiani vi è la morte di Gesù narrata nei vangeli e definita nel Credo.
L’atteggiamento di Gesù sulla morte dipende fortemente dalla sua radice ebraica: “Non è un Dio dei morti, ma dei viventi!” (Mc 12,27).
In questa linea si spiega l’azione di Cristo che, come avevano fatto i profeti prima di lui, ha richiamato dei morti alla vita.
Dai vangeli si desume che Gesù prevede la propria morte (vd.
la parabola dei vignaioli in Mc 12,1-12; Lc 20,9-16), e ne anticipa l’interpretazione (Mc 14,22-25; Lc 22, 14-20; Mt 26,26-29).
Ecco le parole con cui Gesù, durante l’Ultima Cena, annuncia la propria morte come evento sacrificale.
Quando la comunità celebra l’Eucarestia in sua memoria viene annunciata la morte e risurrezione di Cristo e si attualizza nella comunità l’offerta del suo sacrificio.
15 “Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, 16 perché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio”.
17 E, ricevuto un calice, rese grazie e disse: “Prendetelo e fatelo passare tra voi, 18 perché vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non verrà il regno di Dio”.
19 Poi prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: “Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria di me”.
20 E, dopo aver cenato, fece lo stesso con il calice dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è versato per voi”.
(Lc 22,15-20) Nella visione di San Paolo il fenomeno della morte viene fatto risalire al peccato originale (Rm 5,12; 6,23): il peccato del primo uomo, viene cancellato dal “secondo Adamo” (Gesù) che sconfigge definitivamente la morte (Rm 6,8).
Paolo arriva a dire che «né morte né vita… potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù» (Rm 8,38) e che per lui «il vivere è Cristo e il morire un guadagno» (Fil 1,21).
Inoltre estende la sua concezione della risurrezione dall’individuo all’umanità intera: «Come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo» (1Cor 15,22).
La riflessione paolina genererà nei cristiani la certezza di non avere più nulla da temere dalla morte, dal momento che la morte “autentica” è quella causata dal peccato.
Ecco come, nella visione di Paolo, viene descritta la condizione di rinascita a vita a nuova di colui che crede in Cristo.
8 Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, 9 sapendo che Cristo, risorto dai morti, non muore più; la morte non ha più potere su di lui.
10 Infatti egli morì, e morì per il peccato una volta per tutte; ora invece vive, e vive per Dio.
11 Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù.
(Rm 6,8-11) La risposta cristiana alla morte sta dunque nella speranza della resurrezione; in essa anche il corpo è destinato alla salvezza presente e futura.
È l’uomo nuovo che risorge con Cristo, anche se si ignora la modalità con cui tutto ciò debba avvenire.
Il martirio liberamente scelto come suprema testimonianza della fede fu circondato da ogni onore fin dagli albori della vita della Chiesa: Tertulliano, Padre della Chiesa del II secolo, sostiene che anche il martire, attraverso il suo sacrificio cruento, possiede “l’unica chiave del paradiso” (De resurrectione carnis, 43).
Non così il suicida, condannato sulla scia della miserevole fine toccata a Giuda (Mt 27,5).
Secondo Tertulliano tutti i defunti attendono il giudizio ultimo in uno stato di sonno privo di sensazione e coscienza.
Esso terminerà solo per i santi che entreranno nella dimora celeste.
Le conseguenze cultuali di tale concezione saranno di grande portata: essere interrati ad sanctos, cioè vicino ai santi, determinerà, per tanti cristiani, la speranza di ottenere la loro protezione nell’ultimo giorno , sfuggendo così alla morte eterna.
La geografia cristiana dell’aldilà, invece, si disegnò lentamente.
Dapprima essa era ridotta a due sole nozioni: quella di “Geènna” (luogo di sofferenza per i malvagi) e quella di “Regno”, situato nei cieli, luogo di felicità per gli eletti, in unione con Dio e con gli angeli.
Agli inizi del VII secolo Gregorio Magno imposterà la geografia dell’aldilà secondo la cosmologia tolemaica, distinguendo, cioè, tre luoghi.
Al di là delle stelle fisse, che circondano l’universo, si trova il mondo del divino, il Paradiso degli eletti; al centro dell’universo vi è la terra, ferma, che nasconde nelle sue viscere l’inferno inferiore dove bruciano i dannati; tra le stelle fisse e la terra ruotano i pianeti, e al di là della luna vi è l’inferno superiore dove stanno le anime dei giusti, morti prima della venuta di Cristo.
Questi esseri non potevano né salire in cielo perché la salvezza non era stata operata, né scendere all’inferno inferiore, essendo anime giuste.
Solo con la salvezza operata da Cristo tali anime sono state liberate: dopo tale Redenzione, questo mondo si è svuotato.
I teologi chiameranno poi questo luogo “Purgatorio”, luogo di sofferenze temporanee e purificatrici.
Ecco come il Catechismo della Chiesa Cattolica presenta il Purgatorio nel Paragrafo dedicato alla “Purificazione finale”, corrispondente ai numeri 1030, 1031, 1032.
1030 Coloro che muoiono nella grazia e nell’amicizia di Dio, ma sono imperfettamente purificati, sebbene siano certi della loro salvezza eterna, vengono però sottoposti, dopo la loro morte, ad una purificazione, al fine di ottenere la santità necessaria per entrare nella gioia del cielo.
1031 La Chiesa chiama Purgatorio questa purificazione finale degli eletti, che è tutt’altra cosa dal castigo dei dannati.
La Chiesa ha formulato la dottrina della fede relativa al Purgatorio soprattutto nei Concili di Firenze.
La Tradizione della Chiesa, rifacendosi a certi passi della Scrittura, (1Cor 3,15; 1Pt 1,7) parla di un fuoco purificatore.
Per quanto riguarda alcune colpe leggere, si deve credere che c’è, prima del Giudizio, un fuoco purificatore; infatti colui che è la Verità afferma che, se qualcuno pronuncia una bestemmia contro lo Spirito Santo, non gli sarà perdonata né in questo secolo, né in quello futuro (Mt 12,31).
Da questa affermazione si deduce che certe colpe possono essere rimesse in questo secolo, ma certe altre nel secolo futuro [San Gregorio Magno, Dialoghi].
1032 Questo insegnamento poggia anche sulla pratica della preghiera per i defunti di cui la Sacra Scrittura già parla: “Perciò [Giuda Maccabeo] fece offrire il sacrificio espiatorio per i morti, perché fossero assolti dal peccato” (2Mac 12,45).
Fin dai primi tempi, la Chiesa ha onorato la memoria dei defunti e ha offerto per loro suffragi, in particolare il sacrificio eucaristico, affinché, purificati, possano giungere alla visione beatifica di Dio.
La Chiesa raccomanda anche le elemosine, le indulgenze e le opere di penitenza a favore dei defunti: Rechiamo loro soccorso e commemoriamoli.
Se i figli di Giobbe sono stati purificati dal sacrificio del loro padre, (Gb 1,5) perché dovremmo dubitare che le nostre offerte per i morti portino loro qualche consolazione? Non esitiamo a soccorrere coloro che sono morti e ad offrire per loro le nostre preghiere (San Giovanni Crisostomo, Homiliae in primam ad Corinthios).
Per la Bibbia, “vivere” non significa solo “esistere”, non equivale solo a essere fisicamente al mondo come le piante e gli animali che ci circondano.
Anzi, animali e piante non sono di per sé soggetto del verbo “vivere”, perché questo verbo è riservato all’uomo e, naturalmente, a Dio.
La vita biologica umana è nel potere assoluto di Dio, così come si ricava non solo dal Libro della Genesi (Gn 9,4-5), ma anche dal quinto e sesto comandamento (Es 20,13; Dt 5,17).
L’ebraismo biblico esprime un grande amore per la vita concreta e piena, ed è in questa che si realizza la relazione tra Dio e l’uomo.
In questo senso la vita non appare quasi mai come un concetto a sé, ma esprime ciò che si osserva concretamente nei viventi: è il respiro (Gb 11,20), il movimento (l’acqua viva in Ger 17,13; 2,13), il sangue che scorre (Gn 9,4-5).
Ma è nell’uomo e nel suo rapporto con Dio che la parola vita assume il suo significato pieno.
La caratteristica fondamentale della vita umana è infatti il rapporto di scambio con Dio (Sal 72,25) e la capacità di lodarlo è l’espressione più evidente della vitalità umana (Sal 41,6.12; 102).
Con la morte l’uomo viene escluso da questo, dalle azioni provvidenti di Dio e dalla lode a Lui (Sal 87,11-13; Is 38,18); quindi, “morte” è mancanza di rapporto con Dio.
Fin dai primi versetti del Libro della Genesi la Parola di Dio è “viva” e genera “vita”, e Dio appare come il principio della vita.
L’uomo invece è mortale per natura (Gn 3,19) ma aspira all’immortalità, come lascia intendere l’albero della vita del v.
22.
Il Libro del Deuteronomio proclama che Dio dà la vita e la toglie (Dt 32,39); il dono della vita è quindi prezioso anche se instabile (Gb 2,4; Sal 39,6; Qo 6,12; Is 40,6).
Coerentemente con questa idea che lega Dio e la vita, il Libro del Deuteronomio sostiene che “Dio è il vivente” (Dt 5,26; Is 37,4), un’affermazione caratteristica della fede ebraica: essa implica il rigetto di tutti i falsi idoli che sono senza vita, così come le loro immagini (Ger 10, 8-10).
All’idea di vita l’uomo ebreo collega il senso di pace, di prosperità e di felicità (Sal 36,11; 133,3); allo stesso modo, la sapienza, la prudenza e il timore di Dio rappresentano per lui “sorgenti di vita” (Pr 13,14; 16,22).
La vita dopo la morte non era chiaramente raffigurabile per l’uomo ebreo e la rivelazione biblica non scioglieva i suoi dubbi: a ridosso dell’era cristiana il partito dei farisei credeva nella risurrezione dei morti; non così quello dei sadducei.
Si riteneva che gli uomini, sia quelli giusti che gli ingiusti, scendessero nel regno dei morti, dove mantenevano una vita dimezzata, privi della salvezza di Dio (Sal 88), senza poter fare ritorno alla vita (Gb 16,22).
Solo successivamente, sotto l’influsso della filosofia greca, si pensò che Dio avesse potere anche negli inferi e che ci fosse un premio dopo la morte (Sap 3,1; 4,14: Dn 12,2).
Nel Libro di Isaia, al cap.
38, troviamo un cantico che testimonia la convinzione che Jahwèh è il Dio della vita e che con la morte avviene la distruzione dell’uomo; è solo l’uomo vivente che può lodare Dio.
16 Il Signore è su di loro: essi vivranno.
Tutto ciò che è in loro è vita del suo spirito.
Guariscimi e rendimi la vita.  17 Ecco, la mia amarezza si è trasformata in pace! Tu hai preservato la mia vita dalla fossa della distruzione, perché ti sei gettato dietro le spalle tutti i miei peccati.  18 Poiché non sono gli inferi a renderti grazie, né la morte a lodarti; quelli che scendono nella fossa non sperano nella tua fedeltà.  19 Il vivente, il vivente ti rende grazie come io faccio quest’oggi.
Il padre farà conoscere ai figli la tua fedeltà.  20 Signore, vieni a salvarmi, e noi canteremo con le nostre cetre tutti i giorni della nostra vita, nel tempio del Signore.
(Is 38,16-20) L’integrità inviolabile e il valore della persona umana che non possono essere messi in discussione per nessuna ragione, sono alla base dell’atteggiamento cristiano nei confronti della vita.
La coscienza del valore insuperabile di ogni individuo fa sì che la questione della vita (e quindi della morte) pervada tutta l’esistenza e sia collegata all’attesa neotestamentaria della salvezza e alla speranza della resurrezione.
La coscienza di ciò rimanda a Dio, la sorgente prima di tutta la vita, a immagine del quale l’uomo è stato creato e al quale dovrà fare ritorno.
I vangeli sinottici testimoniano le convinzioni sulla vita che erano proprie dell’Antico Testamento, sebbene esprimano chiaramente la fede in una vita dopo la morte.
La vita è messa in relazione con il “Regno di Dio”: “entrare nel Regno di Dio” significa entrare nella vita (Mc 9,43).
I Vangeli di Matteo, Marco e Luca proclamano il raggiungimento della “vita eterna” da parte di coloro che perdono la propria vita per seguire Gesù (Mt 10,39; Mc 10,30; Lc 9,23-34).
Nel Vangelo di Giovanni si elabora il passaggio dal Padre al Figlio: Dio, che è il padrone della vita, trasmette il suo potere al Figlio (Gv 5,21; 10,17-18).
Gesù stesso è, quindi, la vita (Gv 11,25; 14,6) e la dona a coloro che credono in Lui (Gv 1,4.12; 4,14; 5,24).
I credenti possiedono già la vita eterna (Gv 3,36; 5,24), ma questa raggiungerà il suo compimento nella resurrezione (Gv 6,40.54).
Ecco come risponde Gesù a Marta che, annunciando la morte di Lazzaro, aveva dichiarato che, se il Maestro fosse stato lì, suo fratello non sarebbe morto.
23 Gesù le disse: “Tuo fratello risorgerà.
24 Gli rispose Marta: “So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno”.
25 Gesù le disse: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; 26 chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno”.
(Gv 11,23-26).
Negli Atti degli Apostoli Gesù è chiamato “autore della vita” (At 3,15) e la destinazione degli uomini alla vita futura implica la fede in Cristo (At 2,39; 13,48).
Negli Atti troviamo alcune parole di Gesù riportate da Paolo e Barnaba durante la loro missione ad Antiochia di Pisidia: 47 Così infatti ci ha ordinato il Signore: “Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra”.
48 Nell’udir ciò, i pagani si rallegravano e glorificavano la parola del Signore, e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero.
49 La parola del Signore si diffondeva per tutta la regione.
(At 13,47-49).
Nella letteratura paolina si sottolinea, da un lato, che Cristo è la nostra vita (Col 3,4); dall’altro si afferma che la vera vita comincerà solo con la parusìa, cioè con il ritorno di Cristo (Col 3,4).
Come e quando questo avverrà non è dato sapere (Mt 24,27.43); così pure che cosa sia la vita dopo la morte resta un tema di cui gli autori neotestamentari non si occupano.
San Paolo tenta piuttosto di rispondere a chi si meraviglia perché la parusìa non è ancora venuta (1Ts 5,2-10; 2Ts 2,1), dicendo che il giorno del Signore verrà all’improvviso.
Ecco come si esprime San Paolo nella Prima Lettera ai Tessalonicesi riguardo al ritorno del Cristo.
Riprendendo le affermazioni del Signore sull’incertezza della data della sua ultima venuta ricorda che bisogna attendere vegliando.
Le sue parole risentono dei tono della letteratura apocalittica.
1 Riguardo poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; 2 infatti sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte.
3 E quando la gente dirà: “C’è pace e sicurezza!”, allora d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie una donna incinta; e non potranno sfuggire.
4 Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro.
5 Infatti siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre.
6 Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri.
7 Quelli che dormono, infatti, dormono di notte; e quelli che si ubriacano, di notte si ubriacano.
8 Noi invece, che apparteniamo al giorno, siamo sobri, vestiti con la corazza della fede e della carità, e avendo come elmo la speranza della salvezza.
9 Dio infatti non ci ha destinati alla sua ira, ma ad ottenere la salvezza per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo.
10 Egli è morto per noi perché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui.
11 Perciò confortatevi a vicenda e siate di aiuto gli uni gli altri, come già fate.
(1 Ts 5,1-11) In questi ultimi decenni, la progressiva minaccia della vita umana sotto varie forme conseguenti a scelte sia di tipo economico e politico (la povertà e la fame nel sud del mondo, le esecuzioni capitali diffuse in molti paesi), sia inerenti la bioetica (aborto, eutanasia, sperimentazione sugli embrioni) ha portato la Chiesa a prendere risolutamente posizione in molte occasioni, a partire dalla celebre Enciclica di Paolo VI Humanae Vitae, del 1968, fino alle Encicliche di Giovanni Paolo II Veritatis Splendor (1993) ed Evangelium Vitae (1995).
È soprattutto in quest’ultima enciclica che si tratta del valore e dell’inviolabilità della vita umana.
Vi si afferma che la vita dell’uomo non è una vita qualsiasi, ma ha una vocazione molto preziosa e particolare perché è vita che Dio ha donato alla sua creatura prediletta dove risplende un riflesso della stessa realtà di Dio (n.
34).
L’origine divina della vita dell’uomo, creato a immagine di Dio, sta alla base della sua dignità inalienabile, indipendentemente dallo stato in cui egli si trova.
La vita umana è quindi sacra fin dalla sua origine.
Ecco come si è espresso Papa Giovanni Paolo II, nell’enciclica Evangelium vitae (1995), a proposito dell’aborto.
Chi viene soppresso è un essere umano che si affaccia alla vita, ossia quanto di più innocente in assoluto si possa immaginare: mai potrebbe essere considerato un aggressore, meno che mai un ingiusto aggressore! È debole, inerme, al punto di essere privo anche di quella minima forma di difesa che è costituita dalla forza implorante dei gemiti e del pianto del neonato.
È totalmente affidato alla protezione e alle cure di colei che lo porta in grembo.
Eppure, talvolta, è proprio lei, la mamma, a deciderne e a chiederne la soppressione e persino a procurarla.
(Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, n.
58) Nell’enciclica Evangelium vitae (1995) Giovanni Paolo II prende una netta posizione anche contro l’eutanasia: la vita va difesa dal suo sbocciare nel grembo materno fino all’ultimo istante.
Anche se non motivata dal rifiuto egoistico di farsi carico dell’esistenza di chi soffre, l’eutanasia deve dirsi una falsa pietà, anzi una preoccupante “perversione” di essa: la vera “compassione”, infatti, rende solidale col dolore altrui, non sopprime colui del quale non si può sopportare la sofferenza.
E tanto più perverso appare il gesto dell’eutanasia se viene compiuto da coloro che – come i parenti – dovrebbero assistere con pazienza e con amore il loro congiunto o da quanti – come i medici –, per la loro specifica professione, dovrebbero curare il malato anche nelle condizioni terminali più penose.
La scelta dell’eutanasia diventa più grave quando si configura come un omicidio che gli altri praticano su una persona che non l’ha richiesta in nessun modo e che non ha mai dato ad essa alcun consenso.
Si raggiunge poi il colmo dell’arbitrio e dell’ingiustizia quando alcuni, medici o legislatori, si arrogano il potere di decidere chi debba vivere e chi debba morire.
[…] Così la vita del più debole è messa nelle mani del più forte; nella società si perde il senso della giustizia ed è minata alla radice la fiducia reciproca, fondamento di ogni autentico rapporto tra le persone.
(Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, n.
66) La morte è vista, nel Libro della Genesi (Gn 83,19) come la conseguenza del peccato: così, mentre la fedeltà alla Legge di Dio, alla Toràh, porta alla vita (Dt 30, 15-16), l’infedeltà alla Legge conduce alla morte.
Il Libro della Genesi afferma una doppia origine dell’uomo, creato dalla polvere del suolo e dal soffio vitale di Dio (Gn 2,7).
Gli antichi ebrei ritenevano che la morte separasse di nuovo questi due elementi: l’anima del defunto si allontana dal corpo come un soffio.
La creazione si trova così rovesciata, come dice il Libro del Qohelet (Qo 12,7): «La polvere ritorna alla terra e il soffio ritorna a Dio che l’aveva dato».
L’anima (o spirito) non designa qui l’uomo tutto intero, né ciò che vi è in lui di più sostanziale.
Lo spirito senza il corpo è solo un’ombra senza vita e l’antico giudaismo mette l’accento sulla realtà di quaggiù: i profeti esortano continuamente a concentrarsi su una vita retta in “questo” mondo.
Dopo la morte lo spirito scende nel regno dei morti, chiamato sheol, situato sotto terra o nelle sue profondità, dentro o sotto il mare, sul quale galleggia il mondo intero (Sal 63,10; Gb 26,5; 38,16).
Lo Sheol è un luogo di tenebra (Sal 143,3), di silenzio, di grigiore, di ombre che non conoscono nessuna gioia (Sir 14,17).
Nello Sheol l’anima non ha alcuna conoscenza di ciò che capita sulla terra (Gb 14,21; 21,21; Qo 9,5-6).
In questo luogo tutte le differenze tra gli esseri umani vengono meno: giusti e ingiusti, re e schiavi, giovani e vecchi, ricchi e poveri… tutti si ritrovano nello stesso luogo (Gb 3, 13-19).
Si tratta di un ebraismo primitivo che non ha né la rappresentazione di un giudizio universale, né quella di un castigo o di una ricompensa nell’aldilà, idee che prenderanno lentamente piede, modificando le precedenti concezioni relative allo Sheol: il Regno dei morti si troverà allora diviso in due parti, una confortevole per i giusti e una inospitale per i malvagi.
S’imporrà sempre più l’idea di un giudizio nell’aldilà e l’importanza di ciò che nell’uomo sopravvive dopo la morte.
Il salmo 87 presenta un uomo afflitto all’estremo, ma fiducioso in Dio nonostante i toni angosciosi della sua preghiera.
Le sue sofferenze sono dovute a una malattia e al disinteresse di quelli che dovrebbero stargli vicino.
Nel salmo è chiara la percezione dello Sheol e, soprattutto negli ultimi versi, si percepisce la condizione di colui che “scende nella fossa” e la lontananza di Dio da questo luogo.
(…) 4 Io sono sazio di sventure, la mia vita è sull’orlo degli inferi.  5 Sono annoverato fra quelli che scendono nella fossa, sono come un uomo ormai senza forze.  6 Sono libero, ma tra i morti, come gli uccisi stesi nel sepolcro, dei quali non conservi più il ricordo, recisi dalla tua mano.  7 Mi hai gettato nella fossa più profonda, negli abissi tenebrosi.  8 Pesa su di me il tuo furore e mi opprimi con tutti i tuoi flutti.  9 Hai allontanato da me i miei compagni, mi hai reso per loro un orrore.
(…)  11 Compi forse prodigi per i morti? O si alzano le ombre a darti lode?  12 Si narra forse la tua bontà nel sepolcro, la tua fedeltà nel regno della morte?  13 Si conoscono forse nelle tenebre i tuoi prodigi, la tua giustizia nella terra dell’oblio? (Sal 87,4-9; 11-13)

Papa e Islam: un dialogo senza ambiguità

Sul Monte Nebo, in Giordania, Benedetto XVI ha colto l’occasione per ri­badire con solennità quanto ha peraltro già detto e scritto in molte oc­casioni.
Ha affermato con enfasi quanto speciale sia il rapporto fra cristianesi­mo e ebraismo, quanto «inseparabile» sia il vin­colo che li unisce.
Forse non tutte le incompren­sioni spariranno di colpo ma sono state poste le ba­si per un loro superamen­to.
Benedetto XVI ha par­lato così agli ebrei ma an­che, contestualmente, ai cristiani.
Ha voluto dire agli uni e agli altri che an­che gli ultimi detriti so­pravvissuti dell’antico an­tigiudaismo cristiano de­vono essere spazzati via senza indugio dalle co­scienze.
Inoltre, la sua presenza in Israele oggi, nella condizione presen­te, vale più di mille rico­noscimenti diplomatici.
E’ un’implicita affermazio­ne del diritto all’esistenza dello Stato di Israele con­tro coloro che vorrebbero cancellarlo.
Altrettanto delicato, e forse anche più delicato, è il rapporto con l’islam.
E non solo a causa degli eventi che seguirono il di­scorso di Ratisbona.
E’ più delicato anche per­ché il Papa è impegnato in una assai difficile e complessa operazione che investe, al tempo stes­so, la sfera religiosa e quella mondana.
Una ope­razione complessa che na­sce dal riconoscimento, più volte ribadito da Bene­detto XVI, che il rapporto fra il cristianesimo e l’islam è di natura diversa da quello che lega il cri­stianesimo e l’ebraismo.
Quella relazione speciale che c’è, e va riconosciuta, fra cristianesimo ed ebrai­smo, non c’è, non ci può essere, fra cristianesimo e islam.
Ciò che il Papa sta cercando di fare (un aspetto che era rimasto non chiarito, irrisolto, al­l’epoca del pontificato di Giovanni Paolo II, e an­che in occasione del viag­gio che quel Papa fece in Terra santa) è di togliere ogni ambiguità al dialogo con il mondo musulma­no, in modo da renderlo davvero proficuo sgom­brando il campo dai ma­lintesi.
Ciò che il Papa vuol fare è di chiarire che fra cristianesimo e islam non ci può essere dialogo religioso (le due fedi sono, su questo terreno, inconciliabili) ma ci deve essere invece, fra cristiani e musulmani, un incontro inter-culturale e civile (un dialogo che potremmo anche definire laico).
Anche per ribadire questo il Pontefice è rimasto in meditazione ma non ha pregato durante la sua visita alla moschea Hussein.
E’ un mo­do, l’unico modo, per spazzare via equivoci e ipocrisie rendendo possibile il rispetto reciproco e un dialogo forse foriero di buone conseguenze per le persone, cristiani e musulmani, coinvolte.
In Giordania, per lo meno, il senso della presenza del Papa sembra essere stato compre­so dagli islamici che lo hanno accolto.
Così come sono state comprese le parole che il Papa ha dedicato alla condanna della violenza ammantata di motivi religiosi.
Benedet­to XVI, naturalmente, è stato attento a non mettere a carico del solo mondo islamico (oltre a tutto, ciò non sarebbe stato nemmeno veritiero) la tentazione e la pratica della violenza.
Ma è certo che le sue parole sulla violenza (così come quelle rivolte ai cristia­ni del Medio Oriente sul ruolo delle donne) rappresentano una sponda che il capo della cristianità ha offerto a quella parte del mondo islamico che patisce la violenza dei fondamentalisti ancor più di quanto la patiscano gli occidentali.
La presenza del Papa, e i suoi atti e le sue parole, sono assai dispiaciute ai fondamentalisti, nonché a quei personaggi ambigui, di confine (il più celebre dei quali è Tariq Ramadan), che circola­no e predicano in Occidente.
Ed è un bene che sia così.
Il viaggio del Papa può aiutare l’azione degli uomini, musulmani, ebrei o cristiani, alla ricerca di una pacifica convi­venza proprio perché ricorda a tutti quanta mistificazione ci sia nell’uso a scopi politici della religione e nella violenza che quell’uso porta sempre con sé.
Angelo Panebianco 11 maggio 2009 Non è la religione all’origine della divisione nel mondo, ma la sua “manipolazione ideologica, talvolta a scopi politici”.
Il Papa lo denuncia chiaramente durante l’incontro di sabato mattina, 9 maggio, all’esterno della moschea Al-Hussein Bin Talal di Amman, invitando tutti i credenti a “essere fedeli ai loro principi” per dare pubblica “testimonianza di tutto ciò che è giusto e buono”.
Benedetto XVI si rivolge in particolare a cristiani e musulmani: li esorta a liberarsi dal peso delle incomprensioni che hanno segnato secoli di “storia comune” e a riconoscere “la comune origine e dignità di ogni persona umana”.
Ma ricorda anche “l’inseparabile vincolo che unisce la Chiesa al popolo ebreo”.
E manifesta – durante il pellegrinaggio sul monte Nebo col quale si apre la seconda giornata della sua visita in Terra Santa – “il desiderio di superare ogni ostacolo che si frappone alla riconciliazione fra cristiani ed ebrei, nel rispetto reciproco e nella cooperazione al servizio della pace”.
Nelle parole del Pontefice si delinea così quel “dialogo trilaterale” tra le grandi religione monoteiste evocato venerdì mattina durante la conferenza stampa in volo verso Amman.
Un dialogo – aveva puntualizzato il Papa – che “deve andare avanti”, perché “è importantissimo per la pace e anche per vivere bene ciascuno la propria religione”.
Benedetto XVI loda perciò gli sforzi del regno hascemita per far sì che “il volto pubblico della religione rifletta la sua vera natura”, dando “un contributo positivo e creativo” a settori cruciali della vita civile, culturale, sociale.
E chiama cristiani e musulmani a promuovere “una maggiore conoscenza reciproca” e “un crescente rispetto sia per quanto abbiamo in comune sia per ciò che comprendiamo in maniera differente”.
Solo andando all'”essenziale del rapporto fra Dio e il suo mondo”, infatti, è possibile rispondere alla sfida di “coltivare il vasto potenziale della ragione” per il bene dell’intera umanità.
Così il Papa rilancia il discorso a lui caro della possibilità di un incontro fecondo tra fede e ragione.
In realtà – assicura – la prima non indebolisce ma purifica la seconda; anzi, le consente di “resistere alla presunzione di andare oltre i propri limiti”.
In questo modo “la ragione umana viene rinvigorita nell’impegno di perseguire il suo nobile scopo di servire l’umanità”.
E gli orizzonti della comprensione si allargano, permettendo alla libertà di esprimersi in sintonia con la verità.
Tutto ciò richiede speranza e, al tempo stesso, prudenza.
Cristiani e musulmani – dice Benedetto XVI – devono impegnarsi a “oltrepassare gli interessi particolari” per “servire il bene comune, anche a spese personali”.
Il Pontefice rimette sul tappeto la questione dei diritti umani fondamentali e avverte, in particolare, che il diritto alla libertà religiosa va oltre la questione del culto e include anche quello di un “equo accesso al mercato dell’impiego e alle altre sfere della vita civile”.
Di questi temi il Papa aveva fatto cenno anche nel precedente incontro all’università del Patriarcato latino a Madaba, sottolineando in particolare che “la fede in Dio non sopprime la ricerca della verità, al contrario l’incoraggia” e rafforza “la fiducia nel dono della libertà”.
Benedetto XVI aveva messo in guardia contro la tentazione di sfigurare la religione, mettendola al servizio di ignoranza, pregiudizi, violenza o abusi.
E aveva sottolineato la centralità della “sapienza religiosa ed etica” nella formazione dei giovani.
In questo senso – aveva affermato – le università devono garantire la “giusta formazione professionale e morale” per dare una solida base ai “costruttori di una società giusta e pacifica, composta di genti di varia estrazione religiosa ed etnica”.
Al termine della mattinata il pensiero del Papa va agli abitanti del vicino Iraq, molti dei quali hanno trovato accoglienza proprio in Giordania.
L’appello alla pace e alla riconciliazione si unisce, nelle sue parole, alla richiesta del “fondamentale diritto alla pacifica convivenza” per i cristiani.
Nel Paese vanno rimesse in piedi istituzioni e infrastrutture – ricorda – ma soprattutto va ricostruita la fiducia delle persone per il bene della società irachena.
(©L’Osservatore Romano – 10 maggio 2009) Benedetto XVI è giunto oggi a Tel Aviv dopo la sua prima tappa in Giordania.
Questo lungo viaggio in Terra santa del Papa avrà certamente an­cora molti momenti sa­lienti ma un primo bilan­cio è reso possibile dal­l’accoglienza che gli è sta­ta fin qui riservata e dalle parole, forti e inequivoca­bili, che egli ha già pro­nunciato sui rapporti fra il cristianesimo, l’ebrai­smo e l’islam.
Il viaggio del Papa è di estrema delicatezza.
Non solo perché si svolge nei luoghi che sono, oggi co­me mille anni fa, il terre­no di incontro/scontro fra le tre religioni mono­teiste.
E non solo perché è proprio lì, in Medio Oriente, che si addensa­no, si sovrappongono e si intrecciano i più gravi ele­menti di conflitto che mi­naccino oggi la stabilità mondiale.
E’ di estrema delicatezza anche perché il Papa vi è giunto prece­duto da una lunga scia di polemiche e incompren­sioni che hanno fin qui se­gnato i suoi rapporti sia con l’ebraismo che con l’islam.

Benedetto XVI in moschea

“Un papa che ha il coraggio morale di fare e parlare secondo la propria coscienza” di Ghazi Bin Muhammad Bin Talal “Pax Vobis”.
In occasione di questa storica visita alla moschea Re Hussein Bin Talal, qui ad Amman, le porgo, Santità, papa Benedetto XVI, il benvenuto in quattro modi.
Innanzitutto come musulmano.
Le porgo il benvenuto oggi, Santità, perché so che questa visita è gesto deliberato di buona volontà e di rispetto reciproco da parte del supremo capo spirituale e pontefice della più ampia denominazione della più grande religione del mondo verso la seconda più grande religione del mondo.
Infatti, cristiani e musulmani sono il 55 per cento della popolazione mondiale e, dunque, è particolarmente significativo il fatto che questa sia solo la terza volta nella storia che un papa visita una moschea.
La prima visita è stata compiuta nel 2001 dal suo amatissimo predecessore papa Giovanni Paolo II, presso un monumento della storia, la storica moschea Umayyade di Damasco, che contiene le reliquie di san Giovanni Battista.
La seconda visita l’ha svolta lei, Santità, presso la magnifica Moschea Blu di Istanbul nel 2006.
La bella moschea Re Hussein di Amman è la moschea di Stato della Giordania ed è stata costruita e personalmente supervisionata dal grande re Hussein di Giordania.
Che Dio abbia misericordia della sua anima! Quindi, è la prima volta nella storia che un papa visita questa nuova moschea.
In questa visita vediamo un chiaro messaggio della necessità di armonia interreligiosa e mutuo rispetto nel mondo contemporaneo, e anche la prova visibile della sua volontà, Santità, di assumere personalmente un ruolo guida a questo proposito.
Questo gesto è ancor più degno di nota perché questa sua visita in Giordania è in primo luogo un pellegrinaggio spirituale alla Terra Santa cristiana, e in particolare al sito del battesimo di Gesù Cristo per mano di Giovanni Battista a Betania, sull’altra sponda del fiume Giordano (Giovanni 1, 28 e 3, 26).
Tuttavia, lei, Santità, ha dedicato del tempo, nel suo programma intenso e faticoso, stancante per un uomo di qualunque età, per compiere questa visita alla moschea Re Hussein e onorare così i musulmani.
Devo anche ringraziarla, Santità, per il rincrescimento che ha espresso dopo il discorso di Ratisbona del 13 settembre 2006, per il danno causato ai musulmani.
Di certo, i musulmani sanno che nulla di ciò che si può dire o fare in questo mondo può danneggiare il Profeta, che è, come hanno attestato le sue ultime parole, in Paradiso con il più alto compagno, Dio stesso.
Ciononostante i musulmani si sono offesi per l’amore che provano per il profeta, che è, come Dio dice nel Sacro Corano, più vicino ai credenti di essi stessi.
Quindi, i musulmani hanno anche particolarmente apprezzato il chiarimento del Vaticano secondo il quale quanto detto a Ratisbona non rifletteva la sua opinione, Santità, ma era semplicemente una citazione in una lezione accademica.
È quasi superfluo dire che, fra l’altro, il profeta Maometto – che i musulmani amano, emulano e conoscono come realtà viva e presenza spirituale – è completamente e interamente differente da come lo si descrive storicamente in Occidente, a partire da san Giovanni Damasceno.
Questi ritratti distorti, fatti da chi non conosce né la lingua araba, né il Sacro Corano oppure non comprende i contesti storici e culturali della vita del Profeta e quindi fraintende e interpreta male i motivi e le intenzioni spirituali che sottendono molte sue azioni e parole, sono purtroppo responsabili di tanta tensione storica e culturale fra cristiani e musulmani.
È dunque urgente che i musulmani illustrino l’esempio del profeta, soprattutto, con opere virtuose, carità, pietà e buona volontà, ricordando che il Profeta stesso aveva una natura elevata.
Infatti, nel Corano Dio afferma: “Veramente avete nel messaggero di Dio un esempio di comportamento, per chiunque spera in Dio e nell’ultimo giorno”.
Infine, devo ringraziarla, Santità, per i numerosi suoi altri gesti di amicizia e di cordialità verso i musulmani, fin dalla sua elezione nel 2005, incluse le udienze concesse nel 2005 a Sua Maestà il re Abdullah II Bin Al-Hussein di Giordania e nel 2008 a Sua Maestà il re Abdullah Bin Ad-Al-Haziz dell’Arabia Saudita, il custode dei due luoghi sacri.
La ringrazio anche per l’affettuosa ricezione della storica “parola comune fra noi e voi”, la lettera aperta del 13 ottobre 2007 da parte di 138 esimi studiosi musulmani di tutto il mondo, il cui numero continua ad aumentare.
È stato proprio come risultato di quell’iniziativa, che basandosi sul Sacro Corano e sulla Sacra Bibbia ha riconosciuto il primato dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo sia nel cristianesimo sia nell’islam, che il Vaticano sotto la sua guida personale, Santità, ha svolto il primo seminario del forum internazionale cattolico-musulmano, dal 4 al 6 novembre 2008.
Fra poco verificheremo con il competente cardinale Tauran l’opera avviata da quell’incontro, ma per ora desidero citare e ripetere le sue parole, Santità, tratte dal suo discorso in occasione della chiusura di quel primo seminario: “Il tema che avete scelto per l’incontro – amore di Dio e amore del prossimo: la dignità della persona umana e il rispetto reciproco – è particolarmente significativo.
È stato tratto dalla lettera aperta, che presenta l’amore di Dio e l’amore del prossimo come centro sia dell’Islam sia del Cristianesimo.
Questo tema evidenzia in maniera ancora più chiara le fondamenta teologiche e spirituali di un insegnamento centrale delle nostre rispettive religioni.
[…] Sono ben consapevole che musulmani e cristiani hanno approcci diversi nelle questioni riguardanti Dio.
Tuttavia, possiamo e dobbiamo essere adoratori dell’unico Dio che ci ha creato e che si preoccupa di ogni persona in ogni parte del mondo.
[…] Vi è un grande e vasto campo in cui possiamo agire insieme per difendere e promuovere i valori morali che fanno parte del nostro retaggio comune”.
Ora, non posso non ricordare le parole di Dio nel Sacro Corano: “Non sono tutti uguali”.
Alcune persone delle Scritture formano una comunità giusta, recitano i versetti la notte, prostrandosi.
Credono in Dio e nell’ultimo giorno, amano la decenza e proibiscono l’indecenza, competono gli uni con gli altri per compiere opere buone.
Questi sono i giusti, e qualunque azione buona compiano, non verrà loro negata perché Dio conosce chi ha timore di Lui.
E ricordo anche le seguenti parole di Dio: “E voi troverete, e voi in verità troverete, che i più vicini a quelli che credono sono quelli che dicono: veramente noi siamo cristiani.
Questo poiché alcuni di loro sono preti e monaci”.
Poi le porgo il benvenuto, Santità, come hashemita e discendente del profeta Maometto.
Inoltre, le porgo il benvenuto in questa moschea in Giordania, ricordando che il profeta accolse i suoi vicini cristiani di Nejran a Medina e li invitò a pregare nella propria moschea, cosa che fecero in armonia, senza compromettere gli uni il credo religioso degli altri.
Anche questa è una lezione di inestimabile valore che il mondo deve ricordare assolutamente.
Le porgo inoltre il benvenuto come arabo e diretto discendente di Ishmael Ali-Salaam, dal quale, secondo la Bibbia, Dio avrebbe fatto scaturire una grande nazione, rimanendogli accanto (Genesi 21, 18-20).
Una delle virtù cardinali degli arabi, che tradizionalmente sono sopravvissuti in alcuni dei climi più caldi e inospitali del mondo, è l’ospitalità.
L’ospitalità scaturisce dalla generosità, riconosce le necessità degli altri, considera quanti sono lontani o vengono da lontano come amici e di fatto questa virtù è confermata da Dio nel Sacro Corano con le parole: “E adorate Dio e associate l’uomo a lui, siate buoni con il padre, la madre, con i parenti, gli orfani, i poveri, i vostri vicini imparentati e quelli estranei, gli amici di ogni giorno e i viaggiatori”.
Ospitalità araba non significa soltanto amare, dare e aiutare, ma anche essere generosi di spirito e quindi saper apprezzare.
Nel 2000, durante la visita del compianto papa Giovanni Paolo II in Giordania, lavoravo con le tribù giordane e alcuni membri dissero di apprezzare veramente il papa.
Interrogati sul perché piacesse loro visto che lui era un cristiano mentre loro erano musulmani, risposero sorridendo: “Perché ci ha fatto visita”.
Di certo Giovanni Paolo II come lei stesso, Santo Padre, avreste potuto immediatamente andare in Palestina e in Israele, ma invece avete scelto di cominciare il pellegrinaggio con una visita a noi, in Giordania, cosa che noi apprezziamo.
Infine, le porgo il benvenuto come giordano.
In Giordania, tutti sono uguali davanti alla legge, indipendentemente dalla religione, dalla razza, dall’origine o dal genere, e chi lavora nel governo deve fare tutto il possibile per tutelare tutti nel paese, con compassione e giustizia.
È stato questo l’esempio personale e il messaggio del compianto re Hussein, che nel corso del suo regno durato 47 anni provò per tutti nel paese ciò che provava per i propri figli.
È anche il messaggio di suo figlio, Sua Maestà il re Abdullah II, che ha scelto come singolare obiettivo del suo regno e della sua vita quello di rendere la vita di ogni abitante della Giordania, e di fatto di ogni persona del mondo che può raggiungere, decorosa, degna e felice, per quanto può con le scarse risorse della Giordania.
Oggi, i cristiani in Giordania hanno diritto all’8 per cento dei seggi in parlamento e a quote simili a ogni livello di governo e società, sebbene in realtà il loro numero sia inferiore a quello previsto.
I cristiani, oltre ad avere leggi relative al proprio status e corti ecclesiali, godono della tutela dello Stato sui loro luoghi sacri, sulle loro scuole.
Lei, Santità, ha già potuto constatare questo di persona, presso la nuova università cattolica di Madaba.
A Dio piacendo presto vedrà sorgere la nuova cattedrale cattolica e la nuova chiesa melchita sul sito del battesimo.
Quindi, oggi, in Giordania, i cristiani prosperano, come del resto hanno fatto negli ultimi duecento anni, in pace e armonia, con buona volontà e relazioni autenticamente fraterne fra loro e con i musulmani.
Questo avviene, in parte, perché i cristiani in precedenza erano in percentuale più numerosi rispetto a oggi.
Con il calo demografico fra i cristiani e i più elevati livelli di istruzione e di prosperità che li hanno portati a essere molto richiesti in Occidente, il loro numero è diminuito.
Ciò avviene anche perchè i musulmani apprezzano il fatto che i cristiani erano già qui 600 anni prima di loro.
Infatti, i cristiani giordani formano forse la più antica comunità cristiana del mondo, e per la maggior parte sono sempre stati ortodossi, aderenti al patriarcato ortodosso di Gerusalemme in Terra Santa, che, come lei, Santità, sa meglio di me, è la Chiesa di san Giacomo, fondata durante la vita di Gesù.
Molti di loro discendono da antiche tribù arabe e, nel corso della storia, hanno condiviso la sorte e le lotte dei musulmani.
Infatti, nel 630, durante la vita del Profeta, entrarono a far parte del suo esercito, condotto dal figlio adottivo e da suo cugino, e combatterono contro l’esercito bizantino degli ortodossi nella battaglia di Mechtar.
È da questa battaglia che presero il loro nome tribale che significa “i rinforzi” e lo stesso patriarca latino Fouad Twal discende da queste tribù.
Poi, nel 1099, durante la caduta di Gerusalemme, furono massacrati dai crociati cattolici accanto ai loro commilitoni.
In seguito, dal 1916 al 1918, durante la grande rivolta araba, combatterono contro i musulmani turchi, accanto ai loro amici musulmani, sotto mandato coloniale protestante, e nelle guerre arabo-israeliane del 1948, del 1967 e del 1972 combatterono con i musulmani arabi contro gli ebrei.
I giordani cristiani non solo hanno sempre difeso la Giordania, ma hanno anche contribuito instancabilmente e patriotticamente alla sua edificazione, svolgendo ruoli importanti nei campi dell’educazione, della sanità, del commercio, del turismo, dell’agricoltura, della scienza, della cultura e in molti altri settori.
Tutto questo per dire che mentre Lei, Santità, li considera suoi compagni cristiani, noi li consideriamo nostri compagni giordani e fanno parte di questa terra come la terra stessa.
Spero che questo spirito unitario giordano di armonia interreligiosa, benevolenza e rispetto reciproco, sarà da esempio a tutto il mondo e che Lei, Santità, lo porti in luoghi come Mindanao e alcune parti dell’Africa sub-sahariana, in cui le minoranze musulmane subiscono forti pressioni da parte di maggioranze cristiane, e anche in altri luoghi dove accade l’opposto.
Oggi, proprio come la ho accolta in quattro modi, la ricevo in quattro modi, Santità.
La ricevo come leader spirituale, supremo pontefice e successore di Pietro per l’1,1 miliardi di cattolici che vivono accanto ai musulmani ovunque, e che saluto, ricevendola.
La ricevo come papa Benedetto XVI, il cui pontificato è caratterizzato dal coraggio morale di fare e parlare secondo la propria coscienza, indipendentemente dalle mode del momento, e che è anche un maestro teologo cristiano, autore di encicliche storiche sulle belle virtù cardinali dell’amore e della speranza, che ha reintrodotto la tradizionale messa in latino per chi la sceglie, e ha contemporaneamente fatto del dialogo interreligioso e intrareligioso la priorità del suo pontificato, per diffondere buona volontà e comprensione fra tutte le popolazioni della terra.
La ricevo come capo di Stato, che è anche un leader mondiale e globale su questioni vitali di morale, etica, ambiente, pace, dignità umana, alleviamento della povertà e della sofferenza e persino crisi finanziaria globale.
La ricevo, infine, come un semplice pellegrino di pace che giunge con umiltà e gentilezza a pregare laddove Gesù Cristo, il Messia – la pace sia con lui! – è stato battezzato e ha cominciato la sua missione 2000 anni fa.
Quindi, benvenuto in Giordania, Santo Padre, papa Benedetto XVI! Dio dice nel Sacro Corano al profeta Maometto: “Sia gloria al tuo Signore, il Signore della potenza…
E la pace sia con i messaggeri, e si renda lode a Dio, il Signore dei mondi”.
Il programma, i discorsi, le omelie del viaggio di Benedetto XVI: > Pellegrinaggio in Terra Santa, 8-15 maggio 2009 Benedetto XVI ha dedicato alla Giordania i primi tre giorni del suo viaggio in Terra Santa.
Nei precedenti viaggi papali la sosta in questo regno musulmano era stata più fuggevole, e così i riferimenti all’islam.
Con papa Joseph Ratzinger, invece, si è registrata questa novità.
Il rapporto con l’islam è stato visibilmente al centro della prima parte del suo viaggio.
E avrà ulteriore visibilità a Gerusalemme con la visita alla Cupola della Roccia, riconosciuta dai musulmani come il luogo da cui Maometto salì al cielo.
Naturalmente, l’impronta complessiva che Benedetto XVI ha dato fin dall’inizio al suo viaggio è stata quella del pellegrinaggio cristiano, attentissimo alle radici ebraiche.
In Giordania, ha cominciato salendo sul Monte Nebo e da lì, come Mosé, guardando alla Terra Promessa.
Lì ha ricordato “l’inseparabile vincolo che unisce la Chiesa al popolo ebreo”.
E ha terminato recandosi a Betania “oltre il Giordano” nel luogo dove l’ultimo dei profeti, Giovanni il Battista, battezzò Gesù.
In ogni tappa ha incontrato e rincuorato i cristiani che vivono in quella terra, piccole comunità molto minoritarie, dalla vita non facile.
Con essi ha celebrato ad Amman la prima messa pubblica del viaggio, domenica 10 maggio.
Nell’omelia, ha subito ribadito loro ciò che era stato proclamato poco prima: che cioè veramente, all’infuori di Gesù, “non vi è sotto il cielo altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati” (Atti 4, 12).
Li ha esortati a testimoniare il riconoscimento della piena dignità della donna e a “sacrificare” la propria vita nel servizio agli altri, all’opposto di “modi di pensare che giustificano lo ‘stroncare’ vite innocenti”.
Ma è in rapporto all’islam che Benedetto XVI ha detto in Giordania le cose più argomentate, soprattutto in due momenti: quando ha benedetto la prima pietra di una nuova università cattolica a Madaba per studenti che saranno in gran parte musulmani, e quando ha visitato la moschea Al-Hussein Bin Talal di Amman.
A Madaba, sabato 9 maggio, il papa ha detto tra l’altro: “La fede in Dio non sopprime la ricerca della verità; al contrario l’incoraggia.
San Paolo esortava i primi cristiani ad aprire le proprie menti a tutto ‘quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode’ (Filippesi 4, 8).
Ovviamente la religione, come la scienza e la tecnologia, come la filosofia ed ogni espressione della nostra ricerca della verità, possono corrompersi.
La religione viene sfigurata quando viene costretta a servire l’ignoranza e il pregiudizio, il disprezzo, la violenza e l’abuso.
Qui non vediamo soltanto la perversione della religione, ma anche la corruzione della libertà umana, il restringersi e l’obnubilarsi della mente.
Evidentemente, un simile risultato non è inevitabile.
Senza dubbio, quando promuoviamo l’educazione proclamiamo la nostra fiducia nel dono della libertà.
Il cuore umano può essere indurito da un ambiente ristretto, da interessi e da passioni.
Ma ogni persona è anche chiamata alla saggezza e all’integrità, alla scelta basilare e più importante di tutte del bene sul male, della verità sulla disonestà, e può essere sostenuta in tale compito.
“La chiamata all’integrità morale viene percepita dalla persona genuinamente religiosa dato che il Dio della verità, dell’amore e della bellezza non può essere servito in alcun altro modo.
La fede matura in Dio serve grandemente per guidare l’acquisizione e la giusta applicazione della conoscenza.
La scienza e la tecnologia offrono benefici straordinari alla società ed hanno migliorato grandemente la qualità della vita di molti esseri umani.
Senza dubbio questa è una delle speranze di quanti promuovono questa università, il cui motto è ‘Sapientia et Scientia’.
Allo stesso tempo, la scienza ha i suoi limiti.
Non può dar risposta a tutte le questioni riguardanti l’uomo e la sua esistenza.
In realtà, la persona umana, il suo posto e il suo scopo nell’universo non può essere contenuto all’interno dei confini della scienza.
‘La natura intellettuale della persona umana si completa e deve completarsi per mezzo della sapienza, che attira dolcemente la mente dell’uomo a cercare ed amare le cose vere e buone’ (cfr.
Gaudium et spes, 15).
L’uso della conoscenza scientifica abbisogna della luce orientatrice della sapienza etica.
Tale sapienza ha ispirato il giuramento di Ippocrate, la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, la convenzione di Ginevra ed altri lodevoli codici internazionali di comportamento.
Pertanto, la sapienza religiosa ed etica, rispondendo alle questioni sul senso e sul valore, giocano un ruolo centrale nella formazione professionale.
Conseguentemente, quelle università dove la ricerca della verità va di pari passo con la ricerca di quanto è buono e nobile offrono un servizio indispensabile alla società”.
Ma è stato ad Amman, visitando la moschea Al-Hussein Bin Talal, che Benedetto XVI è entrato più direttamente nel cuore della questione.
Il luogo e gli interlocutori erano ricchi di implicazioni.
A far gli onori di casa al papa è stato il principe Ghazi Bin Muhammad Bin Talal, 42 anni, cugino dell’attuale re di Giordania Abdullah II, a sua volta figlio del defunto re Hussein al quale è intitolata la moschea.
Il principe Ghazi è il più autorevole ispiratore della lettera aperta “Una parola comune tra noi e voi”, indirizzata al papa e ai capi delle altre confessioni cristiane nell’ottobre del 2007 da 138 esponenti musulmani di numerosi paesi.
Quella lettera è stato il seguito più importante, in campo musulmano, dell’apertura di dialogo compiuta da Benedetto XVI con la sua memorabile lezione all’università di Ratisbona dell’11 settembre 2006.
Dalla lettera dei 138 ha preso origine un forum permanente di dialogo cattolico-musulmano la cui prima sessione si è svolta a Roma dal 4 al 6 novembre 2008, conclusa da un incontro col papa.
Ad Amman, sabato 9 maggio, il principe Ghazi ha prima accompagnato Benedetto XVI nella visita alla moschea – dove entrambi hanno avuto un “momento di raccoglimento” – e poi, all’esterno dell’edificio, ha rivolto a lui un ampio discorso, al quale è seguito l’intervento del papa.
Qui di seguito sono riportati i testi integrali dei due discorsi.
Quello del principe Ghazi, pronunciato in inglese e fin qui inedito, è stato trascritto a cura de “L’Osservatore Romano”, che però ne ha pubblicato solo un breve riassunto.
Il discorso del papa riprende temi e argomenti da lui già sviluppati in precedenti interventi, mentre più inusuale appare quello del principe Ghazi, specie in un mondo musulmano che nella sua quasi totalità è stato fin qui all’oscuro dei passi di dialogo in corso con la Chiesa cattolica.
Anche sotto questo profilo, infatti, la tappa di Benedetto XVI in Giordania ha segnato una novità.
Grazie all’impatto pubblico mondiale del viaggio e allo scambio di discorsi tra il papa e il principe Ghazi, una “comune parola” di dialogo tra la Chiesa cattolica e l’islam ha raggiunto per la prima volta anche una parte dell’opinione pubblica musulmana, in una misura che non ha precedenti.
__________ ”Insieme, cristiani e musulmani sono sospinti a cercare tutto ciò che è giusto e retto” di Benedetto XVI Altezza Reale, eccellenze, illustri signore e signori, è motivo per me di grande gioia incontrarvi questa mattina in questo splendido ambiente.
Desidero ringraziare il principe Ghazi Bin Muhammed Bin Talal per le sue gentili parole di benvenuto.
Le numerose iniziative di Vostra Altezza Reale per promuovere il dialogo e lo scambio interreligioso ed interculturale sono apprezzate dai cittadini del regno hashemita ed ampiamente rispettate dalla comunità internazionale.
Sono al corrente che tali sforzi ricevono il sostegno attivo di altri membri della famiglia reale come pure del governo della nazione e trovano vasta risonanza nelle molte iniziative di collaborazione fra i giordani.
Per tutto questo desidero manifestare la mia sincera ammirazione.
Luoghi di culto, come questa stupenda moschea di Al-Hussein Bin Talal intitolata al venerato re defunto, si innalzano come gioielli sulla superficie della terra.
Dall’antico al moderno, dallo splendido all’umile, tutti rimandano al divino, all’Unico trascendente, all’Onnipotente.
Ed attraverso i secoli questi santuari hanno attirato uomini e donne all’interno del loro spazio sacro per fare una pausa, per pregare e prender atto della presenza dell’Onnipotente, come pure per riconoscere che noi tutti siamo sue creature.
Per questa ragione non possiamo non essere preoccupati per il fatto che oggi, con insistenza crescente, alcuni ritengono che la religione fallisca nella sua pretesa di essere, per sua natura, costruttrice di unità e di armonia, un’espressione di comunione fra persone e con Dio.
Di fatto, alcuni asseriscono che la religione è necessariamente una causa di divisione nel nostro mondo; e per tale ragione affermano che quanto minor attenzione vien data alla religione nella sfera pubblica, tanto meglio è.
Certamente, il contrasto di tensioni e divisioni fra seguaci di differenti tradizioni religiose, purtroppo, non può essere negato.
Tuttavia, non si dà anche il caso che spesso sia la manipolazione ideologica della religione, talvolta a scopi politici, il catalizzatore reale delle tensioni e delle divisioni e non di rado anche delle violenze nella società? A fronte di tale situazione, in cui gli oppositori della religione cercano non semplicemente di tacitarne la voce ma di sostituirla con la loro, il bisogno che i credenti siano fedeli ai loro principi e alle loro credenze è sentito in modo quanto mai acuto.
Musulmani e cristiani, proprio a causa del peso della nostra storia comune così spesso segnata da incomprensioni, devono oggi impegnarsi per essere individuati e riconosciuti come adoratori di Dio fedeli alla preghiera, desiderosi di comportarsi e vivere secondo le disposizioni dell’Onnipotente, misericordiosi e compassionevoli, coerenti nel dare testimonianza di tutto ciò che è giusto e buono, sempre memori della comune origine e dignità di ogni persona umana, che resta al vertice del disegno creatore di Dio per il mondo e per la storia.
La decisione degli educatori giordani come pure dei leader religiosi e civili di far sì che il volto pubblico della religione rifletta la sua vera natura è degna di plauso.
L’esempio di individui e comunità, insieme con la provvista di corsi e programmi, manifestano il contributo costruttivo della religione ai settori educativo, culturale, sociale e ad altri settori caritativi della vostra società civile.
Ho avuto anch’io la possibilità di constatare personalmente qualcosa di questo spirito.
Ieri ho potuto prender contatto con la rinomata opera educativa e di riabilitazione presso il centro Nostra Signora della Pace, dove cristiani e musulmani stanno trasformando le vite di intere famiglie, assistendole al fine di far sì che i loro figli disabili possano avere il posto che loro spetta nella società.
All’inizio dell’odierna mattinata ho benedetto la prima pietra dell’università di Madaba, dove giovani musulmani e cristiani, gli uni accanto agli altri, riceveranno i benefici di un’educazione superiore, che li abiliterà a contribuire validamente allo sviluppo sociale ed economico della loro nazione.
Di gran merito sono pure le numerose iniziative di dialogo interreligioso sostenute dalla famiglia reale e dalla comunità diplomatica, talvolta intraprese in collegamento col pontificio consiglio per il dialogo interreligioso.
Queste comprendono il continuo lavoro degli Istituti Reali per gli Studi Interreligiosi e per il Pensiero Islamico, l’Amman Message del 2004, l’Amman Interfaith Message del 2005, e la più recente lettera “Common Word”, che faceva eco ad un tema simile a quello da me trattato nella mia prima enciclica: il vincolo indistruttibile fra l’amore di Dio e l’amore del prossimo, come pure la contraddizione fondamentale del ricorrere, nel nome di Dio, alla violenza o all’esclusione (cfr.
Deus caritas est, 16).
Chiaramente queste iniziative conducono ad una maggiore conoscenza reciproca e promuovono un crescente rispetto sia per quanto abbiamo in comune sia per ciò che comprendiamo in maniera differente.
Pertanto, esse dovrebbero indurre cristiani e musulmani a sondare ancor più profondamente l’essenziale rapporto fra Dio ed il suo mondo, così che insieme possiamo darci da fare perché la società si accordi armoniosamente con l’ordine divino.
A tale riguardo, la collaborazione realizzata qui in Giordania costituisce un esempio incoraggiante e persuasivo per la regione, in realtà anzi per il mondo, del contributo positivo e creativo che la religione può e deve dare alla società civile.
Distinti amici, oggi desidero far menzione di un compito che ho indicato in diverse occasioni e che credo fermamente cristiani e musulmani possano assumersi, in particolare attraverso il loro contributo all’insegnamento e alla ricerca scientifica, come pure al servizio alla società.
Tale compito costituisce la sfida a coltivare per il bene, nel contesto della fede e della verità, il vasto potenziale della ragione umana.
I cristiani in effetti descrivono Dio, fra gli altri modi, come Ragione creatrice, che ordina e guida il mondo.
E Dio ci dota della capacità a partecipare a questa Ragione e così ad agire in accordo con ciò che è bene.
I musulmani adorano Dio, Creatore del cielo e della terra, che ha parlato all’umanità.
E quali credenti nell’unico Dio, sappiamo che la ragione umana è in se stessa dono di Dio, e si eleva al piano più alto quando viene illuminata dalla luce della verità di Dio.
In realtà, quando la ragione umana umilmente consente ad essere purificata dalla fede non è per nulla indebolita; anzi, è rafforzata nel resistere alla presunzione di andare oltre ai propri limiti.
In tal modo, la ragione umana viene rinvigorita nell’impegno di perseguire il suo nobile scopo di servire l’umanità, dando espressione alle nostre comuni aspirazioni più intime, ampliando, piuttosto che manipolarlo o restringerlo, il pubblico dibattito.
Pertanto l’adesione genuina alla religione – lungi dal restringere le nostre menti – amplia gli orizzonti della comprensione umana.
Ciò protegge la società civile dagli eccessi di un ego ingovernabile, che tende ad assolutizzare il finito e ad eclissare l’infinito; fa sì che la libertà sia esercitata in sinergia con la verità, ed arricchisce la cultura con la conoscenza di ciò che riguarda tutto ciò che è vero, buono e bello.
Una simile comprensione della ragione, che spinge continuamente la mente umana oltre se stessa nella ricerca dell’Assoluto, pone una sfida: contiene un senso sia di speranza sia di prudenza.
Insieme, cristiani e musulmani sono sospinti a cercare tutto ciò che è giusto e retto.
Siamo impegnati ad oltrepassare i nostri interessi particolari e ad incoraggiare gli altri, particolarmente gli amministratori e i leader sociali, a fare lo stesso al fine di assaporare la soddisfazione profonda di servire il bene comune, anche a spese personali.
Ci viene ricordato che proprio perché è la nostra dignità umana che dà origine ai diritti umani universali, essi valgono ugualmente per ogni uomo e donna, senza distinzione di gruppi religiosi, sociali o etnici ai quali appartengano.
Sotto tale aspetto, dobbiamo notare che il diritto di libertà religiosa va oltre la questione del culto ed include il diritto – specie per le minoranze – di equo accesso al mercato dell’impiego e alle altre sfere della vita civile.
Questa mattina prima di lasciarvi, vorrei in special modo sottolineare la presenza tra noi di Sua Beatitudine Emmanuel III Delly, patriarca di Baghdad, che io saluto molto calorosamente.
La sua presenza richiama alla mente i cittadini del vicino Iraq, molti dei quali hanno trovato cordiale accoglienza qui in Giordania.
Gli sforzi della comunità internazionale nel promuovere la pace e la riconciliazione, insieme con quelli dei leader locali, devono continuare in vista di portare frutto nella vita degli iracheni.
Esprimo il mio apprezzamento per tutti coloro che sostengono gli sforzi volti ad approfondire la fiducia e a ricostruire le istituzioni e le infrastrutture essenziali al benessere di quella società.
Ancora una volta, chiedo con insistenza ai diplomatici ed alla comunità internazionale da essi rappresentata, come anche ai leader politici e religiosi locali, di compiere tutto ciò che è possibile per assicurare all’antica comunità cristiana di quella nobile terra il fondamentale diritto di pacifica coesistenza con i propri concittadini.
Distinti amici, confido che i sentimenti da me espressi oggi ci lascino con una rinnovata speranza per il futuro.
L’amore e il dovere davanti all’Onnipotente non si manifestano soltanto nel culto ma anche nell’amore e nella preoccupazione per i bambini e i giovani – le vostre famiglie – e per tutti i cittadini della Giordania.
È per loro che faticate e sono loro che vi motivano a porre al cuore delle istituzioni, delle leggi e delle funzioni della società il bene di ogni persona umana.
Possa la ragione, nobilitata e resa umile dalla grandezza della verità di Dio, continuare a plasmare le vita e le istituzioni di questa Nazione, così che le famiglie possano fiorire e tutti possano vivere in pace, contribuendo e al tempo stesso attingendo alla cultura che unifica questo grande regno! __________

«Star Trek» di J. J. Abrams

Facendo capolino in una libreria antiquaria o in una preziosa biblioteca, l’appassionato e lo studioso sanno bene l’emozione e la meraviglia che è possibile provare quando gli occhi si posano sulle antiche relazioni dei viaggi di esplorazione, sui diari di bordo delle navigazioni intorno al mondo che nel XVI secolo hanno cambiato il volto della geografia, del commercio e della società.
Vi sono documenti di viaggio – ed è un piacere leggerli – altrettanto famosi delle grandi opere letterarie:  il Mundus Novus di Amerigo Vespucci, Pigafetta che ricorda le scoperte di Magellano, la straordinaria impresa editoriale di Gian Battista Ramusio.
Risalendo i secoli fino al nostro, lo scaffale si riempie delle memorie scritte da tanti intrepidi avventurieri o intraprendenti scienziati partiti alla scoperta dei nuovi continenti, dei “passaggi” a settentrione e dei due Poli.
Oggi che queste avventure sono esaurite e il loro fascino depositato, appunto, nelle preziose pagine; oggi che ogni angolo del nostro pianeta ha esaurito il suo mistero e gli astronauti sono sbarcati sulla luna e fanno la spola con le stazioni orbitanti nello spazio; oggi che Google Earth ha portato a tutti sullo schermo di casa l’immagine dell’angolo di terra preferito, il fascino e il sapore dell'”ultima frontiera” non è andato perduto.
Lo dobbiamo, soprattutto, alla fantasia di Gene Roddenberry e al “diario di bordo” più famoso del cinema, quello dettato con data astrale al computer della più amata e invincibile nave spaziale a memoria d’uomo, la U.S.S.
Enterprise, nome che ricorda le tante caravelle del passato ed è stato imposto, a furor di popolo, al prototipo dello Space Shuttle della Nasa.
Che fascino insuperabile mantiene ancora l’epopea di Star Trek! È la serie più applaudita e longeva della storia, la prima a strutturare in episodi televisivi la fantascienza, a portare il senso dell’ignoto e dell’avventura spaziale nelle case di milioni di americani e di appassionati nel mondo:  iniziata l’8 settembre del 1966 (due anni prima dell’Odissea nello Spazio di Kubrick), proseguita con settantanove episodi fino al 1969, risorta a più intervalli generando ben quattro nuove serie (The Next Generation, Deep Space Nine, The Voyager, Enterprise) e una animata, ha oltrepassato il Nuovo Millennio, toccando il 2005.
Il grande schermo ha cavalcato, naturalmente, questo successo planetario:  dal 1979 dieci film (il primo, e fino a oggi il migliore, con la regia di Robert Wise), molto alterni nei risultati, nei successi e negli incassi.
Certo la grande famiglia dei “treccker” non ha mai abbandonato, in oltre quarant’anni di vita, il capitano James T.
Kirk, nervi d’acciaio e coraggio da vendere, il signor Spock, vulcaniano di ferro quasi privo di emozioni con le inconfondibili orecchie a punta e tutti gli ufficiali e sottufficiali in servizio sull’Enterprise, fiore all’occhiello della flotta interstellare della Federazione Unita dei Pianeti:  Scotty, McCoy, Sulu, Chekov, Uhura.
Da notare i loro nomi:  su quella nave sono rappresentate tutte le etnie (il bianco americano, l’orientale dagli occhi a mandorla, il pallido russo europeo e la longilinea africana di colore).
Ciò che ha fatto, fin dall’inizio, la fortuna di Star Trek è stato, infatti, non solo l’inconfondibile, duraturo ottimismo, ma la sua ibridazione interrazziale.
Soltanto un regista come il newyorkese J.
J.
Abrams – che di talento, a soli quarantadue anni, ne ha parecchio – poteva prendersi il rischio di girare l’undicesimo film e portarlo alle vette del successo e della visibilità, ritornando all’origine dell’Enterprise, agli anni giovanili del suo equipaggio, ai suoi “eroici furori”.
Facciamo conoscenza con i ragazzi e le ragazze, perfetti ed efficienti nelle loro tute colorate diventate, già quarant’anni fa, un fenomeno di moda, e finalmente ci viene svelato perché si sono conosciuti, come partecipano al primo dei loro viaggi stellari, sfrecciando oltre la velocità della luce con la “propulsione a curvatura” (copiata poi da Star Wars).
Anche questa volta fanno abbondante uso del teletrasporto, visitando pianeti più o meno pericolosi ed entrando in contatto con civiltà buone e cattive, le prime da aiutare e le seconde da redimere, prima che da combattere.
Produttore e scrittore di tre intriganti serie televisive di incondizionato successo – Alias, Lost e Fringe – e regista del terzo capitolo di Mission Impossible, Abrams ha preso in mano un soggetto cinematografico che, parlando del futuro, sembrava non averne più e lo ha trasformato in un film rocambolesco, ambizioso, godibilissimo.
Rimanendo, anche nel nuovo, fedele all’originale.
“La mia è una storia ottimistica – afferma il regista americano – come lo era la prima serie televisiva.
Fa riferimento ad alcune paure classiche che troviamo nei racconti di fantascienza, ma tutto il film è segnato da un profondo senso di speranza, connesso alla visione di quale potrebbe essere il nostro futuro”.
Dopo molti guai e molte paure, il giovane Kirk, orfano di padre, scavezzacollo e strafottente, capirà il valore e il senso del bene comune e la responsabilità che lo deve sostenere.
Spock, dal canto suo, interpretato da Zachary Quinto – suscita, inevitabilmente, l’applauso dei fan in sala il cammeo di Leonard Nimoy, il primo a dar volto al vulcaniano – orfano di madre, dovrà scendere a compromessi che stridono con la sua cultura ferrea e superiore, con la sua glaciale logica “vulcaniana”, facendosi “contaminare” dall’amore, dal sentimento e dalla lealtà.
Chris Pine, volto sconosciuto, perfetto per interpretare Kirk, coglie assai bene lo spirito del suo personaggio:  “Da giovane è un ragazzo arrabbiato, arrogante, fragile, che cerca di mascherare un’incredibile insicurezza e paura.
Non è sicuro se vuole rimanere all’ombra della memoria del padre, che lo schiaccia.
La parte interessante del suo viaggio è proprio quella di imparare come imbrigliare tutte le emozioni che nascono da questo suo conflitto, passando dall’essere un giovane scriteriato alla maturità di un capitano concentrato e responsabile.
Non è un supereroe, ma un uomo che affronta fin da giovane tremende sfide”.
Se volessimo parlare di fantascienza edificante, Star Trek di Abrams potrebbe dirsi un singolare, avvincente gioiello del genere.
(©L’Osservatore Romano – 10 maggio 2009)

I luoghi santi di Gerusalemme.

«Se l’adesione alla moralità e alla giustizia impedisce il cammino verso il compromesso, come possiamo aspettarci di raggiungere un compromesso in questioni di credo? A complicare ulteriormente le cose, c’è la consapevolezza che nella Città santa, cara a tutte e tre le religioni monoteiste, nessuno può realmente separare la religione e la politica».
Ecco il punto di partenza della relazione, pronunciata il 6 marzo presso l’Istituto «Enrico Mattei» di Alti studi sul Vicino e Me dio Oriente di Roma dall’ambasciatore d’Israele presso la Santa Se de, Mordechay Lewy.
Attraverso un’ana lisi del conflitto sui Luoghi santi di Gerusalemme, da una prospettiva israeliana, l’ambasciatore presenta le sue riserve sui disegni di pace proposti finora nella Città santa, appunto perché la pace è stata sempre associata «a un’idea di moralità e giustizia», senza cercare il compromesso.
In questo contesto s’inserisce il viaggio di Benedetto XVI in Terra santa, dall’8 al 15 maggio prossimi, con l’intento – come ha detto il papa a una delegazione del Gran rabbinato d’Israele ricevuta in Vaticano il 12 marzo scorso – di contribuire alla pacifica convivenza tra cristiani, ebrei e mu sulmani in Terra santa.
Per la consultazione Riferimento: Regno-doc.
n.9, 2009, p.305

“Il caso Galileo. Una rilettura storica, filosofica, teologica”

Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano parteciperà all’inaugurazione del convegno internazionale di studi “Il caso Galileo.
Una rilettura storica, filosofica, teologica”, in programma a Firenze dal 26 al 30 maggio e organizzato dall’Istituto Stensen dei gesuiti di Firenze, diretto da Padre Ennio Brovedani sj, ideatore dell’iniziativa.    Il convegno verrà inaugurato martedì 26 maggio nella basilica di Santa Croce – mausoleo dei sommi italiani, dove si trova la tomba di Galileo – con le lectiones magistrales di Nicola Cabibbo (presidente della Pontificia Accademia delle Scienze) e Paolo Rossi (Professore emerito di Storia della Scienza dell’Università degli Studi di Firenze).
Oltre al Presidente della Repubblica, saranno presenti numerose autorità del mondo istituzionale italiano.
  “Ritengo che, visti gli ampi strumenti che verranno messi sul tavolo, il convegno potrebbe portare realmente ad una svolta storica della complessa questione galileiana, una delle più scottanti della storia – ha detto Paolo Rossi – Il convegno affronta, con un’ampiezza finora intentata, tutti i temi essenziali: la condanna della dottrina di Copernico nel 1616 e il processo a Galileo del 1633; la genesi del “caso Galilei” nell’Italia, Francia e Inghilterra del Seicento; la storia di quel caso prima nell’Illuminismo e poi nell’Ottocento (nell’età del positivismo e del Risorgimento) e infine nel Novecento, fino a questi nostri giorni”.
  “La partecipazione del Presidente della Repubblica – sottolinea P.
Brovedani  – rivela che il Quirinale ha colto non solo l’evidente valore culturale del Convegno, ma anche e soprattutto la sua alta valenza politica.
La memoria del passato e la corretta contestualizzazione della ‘vicenda galileiana’ contribuirà sicuramente a favorire le condizioni per un rapporto di collaborazione e serenità tra la Chiesa e le istituzioni di ricerca, soprattutto nella prospettiva delle complesse e, a volte,  inedite problematiche filosofiche ed etiche sollevate dalle prospettive della ricerca bio-tecno-scientifica contemporanea.”   Il convegno fiorentino ha ottenuto l’adesione e la partecipazione di 18 autorevoli Istituzioni, che si ritrovano per la prima volta insieme dopo 400 anni.
Queste istituzioni, rappresentative di importanti settori della vita culturale e scientifica, sono storicamente coinvolte in una vicenda e in un evento che hanno fortemente caratterizzato l’intelligenza e la creatività italiane, innescando tuttavia tensioni mai completamente risolte nei rapporti tra la Chiesa e diversi ambiti della produzione intellettuale.
  Al convegno interverranno i massimi esperti e studiosi mondiali del tema (teologi, storici, filosofi): tra gli altri, George Coyne, Evandro Agazzi, Nicola Cabibbo, Claus Arnold, Paolo Prodi, Adriano Prosperi, Annibale Fantoli, Jean-Robert Armogathe, Horst Bredekamp, Michele Ciliberto, Paolo Rossi e Paolo Galluzzi.
In allegato il programma

“Secondo le Scritture”.

“Per aprire i tesori della Scrittura al mondo di oggi e a tutti noi” di Benedetto XVI Cari fratelli e sorelle, il lavoro per il mio libro su Gesù offre ampiamente l’occasione per vedere tutto il bene che ci viene dall’esegesi moderna, ma anche per riconoscerne i problemi e i rischi.
La [costituzione conciliare] “Dei Verbum” 12 offre due indicazioni metodologiche per un adeguato lavoro esegetico.
In primo luogo, conferma la necessità dell’uso del metodo storico-critico, di cui descrive brevemente gli elementi essenziali.
Questa necessità è la conseguenza del principio cristiano formulato in Giovanni 1, 14: “Verbum caro factum est”.
Il fatto storico è una dimensione costitutiva della fede cristiana.
La storia della salvezza non è una mitologia, ma una vera storia ed è perciò da studiare con i metodi della seria ricerca storica.
Tuttavia, questa storia ha un’altra dimensione, quella dell’azione divina.
Di conseguenza la “Dei Verbum” parla di un secondo livello metodologico necessario per una interpretazione giusta delle parole, che sono nello stesso tempo parole umane e Parola divina.
Il Concilio dice, seguendo una regola fondamentale di ogni interpretazione di un testo letterario, che la Scrittura è da interpretare nello stesso spirito nel quale è stata scritta ed indica di conseguenza tre elementi metodologici fondamentali al fine di tener conto della dimensione divina, pneumatologica della Bibbia.
Si deve cioè: 1) interpretare il testo tenendo presente l’unità di tutta la Scrittura; questo oggi si chiama esegesi canonica; al tempo del Concilio questo termine non era stato ancora creato, ma il Concilio dice la stessa cosa: occorre tener presente l’unità di tutta la Scrittura; 2) si deve poi tener presente la viva tradizione di tutta la Chiesa, e finalmente 3) bisogna osservare l’analogia della fede.
Solo dove i due livelli metodologici, quello storico-critico e quello teologico, sono osservati, si può parlare di una esegesi teologica, di una esegesi adeguata a questo Libro.
Mentre circa il primo livello l’attuale esegesi accademica lavora ad un altissimo livello e ci dona realmente aiuto, la stessa cosa non si può dire circa l’altro livello.
Spesso questo secondo livello, il livello costituito dai tre elementi teologici indicati dalla “Dei Verbum”, appare quasi assente.
E questo ha conseguenze piuttosto gravi.
La prima conseguenza dell’assenza di questo secondo livello metodologico è che la Bibbia diventa un libro solo del passato.
Si possono trarre da esso conseguenze morali, si può imparare la storia, ma il Libro come tale parla solo del passato e l’esegesi non è più realmente teologica, ma diventa pura storiografia, storia della letteratura.
Questa è la prima conseguenza: la Bibbia resta nel passato, parla solo del passato.
C’è anche una seconda conseguenza ancora più grave: dove scompare l’ermeneutica della fede indicata dalla “Dei Verbum”, appare necessariamente un altro tipo di ermeneutica, un’ermeneutica secolarizzata, positivista, la cui chiave fondamentale è la convinzione che il Divino non appare nella storia umana.
Secondo tale ermeneutica, quando sembra che vi sia un elemento divino, si deve spiegare da dove viene tale impressione e ridurre tutto all’elemento umano.
Di conseguenza, si propongono interpretazioni che negano la storicità degli elementi divini.
Oggi il cosiddetto “mainstream” dell’esegesi in Germania nega, per esempio, che il Signore abbia istituito la Santa Eucaristia e dice che la salma di Gesù sarebbe rimasta nella tomba.
La Resurrezione non sarebbe un avvenimento storico, ma una visione teologica.
Questo avviene perché manca un’ermeneutica della fede: si afferma allora un’ermeneutica filosofica profana, che nega la possibilità dell’ingresso e della presenza reale del Divino nella storia.
La conseguenza dell’assenza del secondo livello metodologico è che si è creato un profondo fossato tra esegesi scientifica e “Lectio divina”.
Proprio di qui scaturisce a volte una forma di perplessità anche nella preparazione delle omelie.
Dove l’esegesi non è teologia, la Scrittura non può essere l’anima della teologia e, viceversa, dove la teologia non è essenzialmente interpretazione della Scrittura nella Chiesa, questa teologia non ha più fondamento.
Perciò per la vita e per la missione della Chiesa, per il futuro della fede, è assolutamente necessario superare questo dualismo tra esegesi e teologia.
La teologia biblica e la teologia sistematica sono due dimensioni di un’unica realtà, che chiamiamo teologia.
Di conseguenza, mi sembra auspicabile che in una delle proposizioni [del sinodo] si parli della necessità di tener presenti nell’esegesi i due livelli metodologici indicati dalla “Dei Verbum” 12, dove si parla della necessità di sviluppare una esegesi non solo storica, ma anche teologica.
Sarà quindi necessario allargare la formazione dei futuri esegeti in questo senso, per aprire realmente i tesori della Scrittura al mondo di oggi e a tutti noi.
 Il 23 aprile 2009 Benedetto XVI ha incontrato la pontificia commissione biblica, riunita per preparare un documento su “Ispirazione e verità nella Bibbia”.
E nell’occasione ha tracciato le linee maestre per la lettura della Sacra Scrittura “nel contesto della tradizione vivente di tutta la Chiesa”.
Il testo integrale del discorso è nel sito del Vaticano: > “La Scrittura si comprende all’interno della Chiesa” Tra pochi giorni il quotidiano “la Repubblica” e il settimanale “L’espresso” offriranno al pubblico italiano, in centinaia di migliaia di copie e a un prezzo di favore, l’intera Bibbia cristiana, nella nuova traduzione curata dalla conferenza episcopale, con un ampio corredo di note e illustrata con i capolavori dell’arte di tutti i tempi.
L’opera sarà in tre volumi: il primo con il Pentateuco e i libri storici; il secondo con i libri sapienziali e i profeti; il terzo con i Vangeli, gli Atti degli Apostoli, le lettere e l’Apocalisse.
L’iniziativa è tanto più sigjnificativa in quanto “la Repubblica” e “L’espresso” sono testate leader dell’opinione laica in Italia, spesso critiche nei confronti della Chiesa cattolica e della stessa fede cristiana.
Ma questo non toglie che, nell’offrire al pubblico i tre volumi, i due giornali presentino la Bibbia come “un libro da avere, da leggere e da vivere”, con in più la “garanzia di autorevolezza” della traduzione ufficiale della Chiesa.
I tre volumi sono introdotti dal cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della CEI, e da Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze e coordinatore dell’impresa della nuova traduzione, durata quasi vent’anni ad opera di insigni studiosi.
Nel risvolto di copertina è citata la celebre frase di san Gregorio Magno: “Le divine parole crescono con chi le legge”.
Qui di seguito, ecco l’articolo con cui “L’espresso” presenta la Bibbia ai suoi lettori e suggerisce come leggerla a chi l’accosta per la prima volta.
Non tutta di seguito ma cominciando dalla Genesi, poi passando subito al Nuovo Testamento con il Vangelo di Marco, poi tornando all’Antico con il libro di Giona, poi…
Questa guida alla lettura è naturalmente opinabile, ma riflette lo stile con cui la Chiesa legge le Scritture nelle sue liturgie.
Subito dopo, in questa stessa pagina, è riportato l’intervento di Benedetto XVI al sinodo dei vescovi su “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa”, la mattina di martedì 14 ottobre 2008.
In quell’occasione papa Joseph Ratzinger, parlando a braccio, spiegò come lui desidera che le Sacre Scritture siano lette, per gustarne il senso autentico e pieno, in un’epoca in cui “si propongono interpretazioni che negano la presenza reale di Dio nella storia”.
”Le divine parole crescono con chi le legge” Per Marc Chagall la Bibbia era l’alfabeto di colori a cui ha attinto tutta l’arte occidentale.
Verissimo.
Secolo dopo secolo, la fortuna artistica delle Sacre Scritture è stata così smisurata che oggi sono molti di più quelli che hanno appreso la storia sacra dalla pittura, dalla scultura, dall’architettura, di quelli che ne hanno letto il testo.
La Bibbia è il libro più venduto al mondo.
Ma che l’abbiano letta per intero sono pochi.
Paul Claudel, poeta francese convertito, diceva che “i cattolici mostrano un così grande rispetto per la Bibbia che se ne stanno il più lontano possibile”.
Errore imperdonabile.
Perché se è vero che Raffaello insegna tante cose, è ancor più vero che le stanze vaticane da lui affrescate restano indecifrabili se non si conosce la trama biblica che le sostanzia, se non si vede ad esempio che i filosofi della “Scuola di Atene” sono in cammino verso la liturgia celeste e terrena della “Disputa del Santissimo Sacramento” dipinta sulla parete di fronte.
La Bibbia è il “grande codice” della cultura occidentale.
Su questo i maggiori critici letterari sono ormai concordi.
Erich Auerbach, in un capitolo memorabile di “Mimesis”, mostrò che la Genesi e i Vangeli, ancor più dell’Odissea di Omero, sono la matrice del realismo della letteratura moderna: “Fu la storia di Cristo, con la sua spregiudicata mescolanza di realtà quotidiana e d’altissima e sublime tragedia, a sopraffare le antiche leggi stilistiche”.
Certo, pochi sanno leggere la Bibbia nel testo originale, ebraico per l’Antico Testamento e greco per il Nuovo.
Ma ora che la conferenza episcopale italiana ha sfornato dopo quasi vent’anni di lavoro da parte di biblisti e letterati la più accurata traduzione italiana della Bibbia di sempre, un motivo in più per leggerla c’è.
Questa nuova traduzione della Bibbia, che “L’espresso” e “la Repubblica” propongono ai loro lettori, è la stessa che si legge ogni domenica a messa.
È fatta quindi anche per essere proclamata, cantata, musicata, illustrata: come la Vulgata di san Girolamo, l’antica traduzione latina delle Scritture che per secoli ha fatto tutt’uno con la grande arte occidentale e, nello stesso tempo, con la vita e il linguaggio quotidiani di miriadi di uomini e donne.
Ma attenzione, la Bibbia cristiana può punire chi vi si avventura alla cieca.
È un libro specialissimo, anzi, un insieme di libri, settantatre in tutto, prodotti in un migliaio d’anni e ripartiti in due grandi collezioni, l’Antico e il Nuovo Testamento, che è vietatissimo separare, pena il non capire più nulla.
La messa insegna.
Non vi si legge mai una pagina del Vangelo senza che prima non si legga una pagina dell’Antico Testamento che l’anticipa “in figura”.
Gesù è incomprensibile senza i profeti.
Se è risorto dai morti, come i Vangeli attestano e il “Credo” proclama, ciò è accaduto “secondo le Scritture”.
Se dal fianco squarciato di Gesù zampillano sangue ed acqua, con Maria e Giovanni ai piedi della croce, è impossibile non pensare al secondo capitolo della Genesi, ad Adamo dormiente dal cui fianco Dio trae Eva, la madre dei viventi.
La croce è il nuovo albero della vita del paradiso, come la magnifica croce fiorita del mosaico della basilica romana di San Clemente.
È la sorgente della Chiesa, è l’inizio della nuova creazione.
Dell’Antico Testamento, per cominciare, si legga la Genesi.
Non ci si stupisca se i racconti della creazione non sono uno ma due, l’uno di seguito all’altro e così diversi di stile e di contenuto.
La Bibbia non vuole dire come il mondo è nato, ma perché.
E anche perché, in un mondo che pure è benedetto da Dio come “buono”, si sprigiona tanto male, non per destino ma per libera scelta volontaria, travolgendo con l’uomo anche la natura.
Da Caino a Lamech, dalla torre di Babele al diluvio, la malvagità invade la terra.
Ma c’è Noè il giusto, nell’arca salvata dalle acque.
Poi c’è la chiamata di un altro giusto, Abramo.
E c’è una giustizia anche al di là del popolo eletto, nel misterioso Melchisedech “senza padre, senza madre, senza genealogia”, come scriverà nel Nuovo Testamento l’autore della lettera agli Ebrei.
E c’è Dio che visita Abramo nella persona dei tre ospiti anonimi che Rublev nel XV secolo dipingerà come icona della Trinità.
E ancora Dio che lotta con Giacobbe sulle rive del torrente Yabbok.
Dio? La Bibbia non lo scrive.
Lo fa intuire.
Forse.
In questo la Bibbia è davvero modernissima.
Non dice mai tutto.
Anzi.
Obbliga il lettore a entrare nella trama e a decidere.
“Le divine parole crescono con chi le legge”, disse papa Gregorio Magno in un’omelia su Ezechiele profeta.
È come se le Scritture dormano, prima che il lettore arrivi a destarle dal sonno.
Sono state scritte così, piene di enigmi, ellissi, salti, penombre.
E l’esegesi rabbinica è così da sempre: il “midrash” è un inesauribile accumulo di letture e riletture, rimontaggi e reinterpretazioni, realtà e visione.
Un dipinto di Chagall ne è illustrazione perfetta.
E così la liturgia cristiana: lì la Parola di Dio non è una lettura libresca, ma diventa realtà vivente nei simboli sacramentali.
Il Verbo di Dio prende corpo e sangue.
C’è un’antifona, nella messa dell’Epifania secondo il rito ambrosiano che si celebra a Milano, che è un inno alla creatività, nell’accostare la Bibbia.
Essa canta: “Oggi al celeste Sposo s’è congiunta la Chiesa, poiché nel Giordano egli ha lavato i suoi peccati.
Accorrono i Magi con doni alle nozze regali e s’allietano i convitati dell’acqua mutata in vino.
Alleluia!”.
Qui i rimandi ai Vangeli sono almeno tre: alla visita dei Magi con i doni al Bambino, al battesimo di Gesù adulto nel Giordano, al miracolo delle nozze di Cana.
Ma l’ordine cronologico è del tutto saltato e la narrazione è stata scomposta e ricomposta.
Le nozze diventano quelle tra Gesù e la Chiesa, le acque battesimali purificano la sposa, i Magi portano i doni alla festa e gli invitati si comunicano bevendo il miracoloso vino procurato dallo stesso Gesù, qui ed ora.
Letta la Genesi, si salti al Nuovo Testamento e si legga Marco, il più antico, il più breve e il più folgorante dei quattro Vangeli.
Tutto imperniato sul “segreto messianico” come trama narrativa, un segreto che fa balenare solo a tratti, dalla penombra, la vera identità di Gesù, e solo alla fine la svela con le parole del centurione romano davanti alla croce: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”.
Altro elemento modernissimo del Vangelo di Marco è il suo finale tronco, in sospeso.
A riconoscere Gesù nella fede è stato un ufficiale pagano, i discepoli sono tutti fuggiti, e le donne che vedono la tomba vuota non dicono niente a nessuno “perché impaurite”.
Punto.
Col leggere un simile finale, come sfuggire dal prendere posizione? Come resistere dall’entrare in scena anche noi? Dispiace che della “Marcus-Passion” di Johann Sebastian Bach sia andata perduta la musica, visti quei capolavori sublimi che egli ha tratto dalla più solenne, ieratica, passione di Matteo, e da quella mistica di Giovanni.
E poi di nuovo si torni all’Antico Testamento.
Si legga il brevissimo libro di Giona, il profeta mandato da Dio a convertire e perdonare la Ninive pagana, ingoiato dal pesce e vomitato vivo il terzo giorno, scintillante racconto tutto intessuto di fine ironia: e allora si capirà perché Gesù si sia identificato nel “segno di Giona” e perché Michelangelo abbia dipinto proprio questo profeta, in forme grandiose, alla sommità della parete d’altare della Cappella Sistina, tra la Creazione e il Giudizio, tra l’inizio e la fine dei tempi.
E poi si legga il libro di Giobbe, grande teologia e poesia altissima.
E il Cantico dei Cantici, incantevole carme d’amore.
E poi di nuovo si apra il Nuovo Testamento, col dittico del Vangelo di Luca e degli Atti degli Apostoli, con le avventure di Paolo che fa naufragio a Malta e infine arriva a Roma.
Non diremo mai più che la Bibbia è noiosa.
Da “L’espresso” n.
18 del 2009

La martire Perpetua

Il primo elemento che colpisce è il fatto che l’autrice sia una donna, una giovane donna di 22 anni, sposata e con un bambino ancora lattante: si tratta di un elemento che non ha paralleli nelle letterature greca e romana e che trova solo analogie parziali con esempi moderni – Perpetua è stata accostata ad Anna Frank e a Sophie Scholl.
Si è talora dubitato che il testo sia stato effettivamente scritto da lei e che non abbia subito interventi redazionali, ma è difficile negare credito alle ripetute e solenni affermazioni del redattore, il quale sottolinea come avesse narrato lei le vicende del suo martirio nel documento che aveva lasciato – dice – “scritto di suo pugno e secondo il suo modo di sentire” (2, 3; cfr.
14).
L’autenticità viene confermata dalle differenze linguistiche e stilistiche delle sezioni autobiografiche rispetto alla parte redazionale nel testo latino della Passio, che secondo l’opinione comune è quello originale (esiste anche una versione greca).
Del resto la martire aveva tutte le capacità di elaborare uno scritto, avendo ricevuto una buona istruzione in conformità con le condizioni elevate della famiglia.
Un altro elemento che rende singolare questo scritto è il contenuto stesso: come nota Auerbach, nel racconto di Perpetua “vengono rappresentate cose che nella letteratura antica non si trovano”, e che raramente sono state descritte in prima persona: le sensazioni di orrore e disagio provate nell’ambiente del carcere, le emozioni contrastanti, di tormento oppure di sollievo e gioia, prodotte dagli incontri con i famigliari, in particolare il rapporto travagliato con il padre rimasto pagano, la pena per il bambino, le confidenze con il fratello.
Osserva ancora Auerbach: “nella letteratura antica c’era Antigone; ma qualche cosa di simile non c’era e non ci poteva essere; non c’era un genus letterario per questa realtà in tanta dignità e sublimità”.
Perpetua non solo racconta di ambienti e circostanze umili e quotidiane, di esperienze personali intime e concrete, ma lo fa con grande semplicità di linguaggio e di stile e insieme con eccezionale capacità espressiva, che raggiunge toni elevati, talora tragici, e non è affatto priva di effetti retorici.
Guardato nel suo complesso, lo scritto di Perpetua non si riesce a classificare in modo soddisfacente.
È stato definito dagli studiosi “memoria” o “autobiografia spirituale” o “diario”.
Ma solo impropriamente si può parlare di “diario” (così come si può parlare di diario di Anna Frank): nella forma in cui ci è pervenuto, non appare compilato giorno per giorno e l’autrice si mostra pienamente consapevole della sorte che la attende, avendone ricevuta una sorta di rivelazione attraverso un sogno, o visione notturna, già nei primi tempi della carcerazione (4, 10).
Inoltre, non scrive soltanto per se stessa, ma per lasciare un messaggio di fede ai fratelli della comunità cristiana.
Indizi di una composizione elaborata e intenzionale sono l’accurata alternanza e i nessi tra i fatti e le visioni, la struttura speculare e concentrica delle visioni, lo sviluppo progressivo della narrazione, che è di segno negativo per quanto riguarda i rapporti col padre e le prospettive della propria esistenza terrena, di segno positivo per quanto riguarda la comprensione del proprio destino sul piano della salvezza spirituale.
Si potrebbe supporre che Perpetua abbia, in una fase di revisione finale, selezionato e ordinato i materiali del suo diario avendo in mente una sorta di progetto.
In particolare hanno un rilievo strategico le visioni, o sogni, che costituiscono la componente più rilevante del testo e sono state oggetto di molta attenzione, ma sono anche state e sono tuttora molto discusse a proposito del loro carattere e del loro significato.
Si tratta di esperienze reali o di artifici letterari? Sono manifestazioni oniriche da interpretare coi metodi della psicologia dell’inconscio o sono costruzioni narrative i cui simboli vanno compresi sulla base del patrimonio religioso di Perpetua? E quale? La tradizione pagana ancora radicata nel profondo o l’immaginario biblico assimilato nella catechesi? Una soluzione equilibrata può essere quella di ammettere che alla base ci siano stati fenomeni effettivi (si possono notare riferimenti alle concrete vicende vissute) e che alcuni particolari apparentemente assurdi si spieghino come tratti onirici, e non va neppure negata a priori la possibilità di una plurivalenza delle immagini.
Ma i sogni, o visioni, che conosciamo sono frutto di una trascrizione effettuata in stato di veglia, in base a un ripensamento intervenuto a posteriori che ne ha colto un significato: non a caso ogni volta i racconti delle visioni si concludono con la formula “e compresi” (intellexi o cognovi) o “comprendemmo” (intelleximus).
Inoltre la volontà di lasciare il documento alla comunità indica un intento comunicativo che non può non aver influenzato la scrittura.
L’ambito di riferimento più chiaro e significativo sono la Bibbia e la fede cristiana.
È evidente un buon numero di allusioni bibliche, che rinviano in particolare alla Genesi, all’Apocalisse, a Paolo; in alcuni casi si tratta di vere e proprie citazioni, come è la frase “gli calcai il capo”, che rinvia a Genesi, 3, 15 e ricorre sia nella prima sia nella quarta visione e viene applicata al dragone (4, 7) e all’avversario egizio (10, 11), entrambi immagini del diavolo.
Ma sono anche riconoscibili in tutte le visioni allusioni di tipo sacramentale.
Anche da questo punto di vista si coglie una progressione, una sorta di via perfectionis.
Del resto anche i racconti di episodi fanno trapelare allusioni simboliche, spesso bibliche, e riferimenti metafisici: ad esempio, nella descrizione del primo incontro col padre, Perpetua assimilando se stessa, come cristiana, a un recipiente che si trova nella cella (3, 1-2) verosimilmente riutilizza un’immagine paolina e alla fine dell’incontro associa i ragionamenti del padre a quelli del diavolo (3, 3).
Si può dire che il diario, nella pluralità e nell’intreccio degli elementi che lo compongono, assolva a diversi obiettivi, personali e comunitari: mira al superamento delle disarmonie e delle ansie dolorose del vissuto presente per ricomporle su di un livello della realtà altro e più vero; addita a sé e agli altri un progetto divino del tutto positivo, già rivelato nella Sacra Scrittura, mostrando che si realizza pienamente al di fuori della storia ma già trova occasioni di compimento nella vita cristiana e nella comunione coi fratelli di fede.
(©L’Osservatore Romano – 1 maggio 2009) Il diario di Perpetua testimonia, insieme a un buon numero di altri scritti, antecedenti e posteriori, quanto il cristianesimo abbia favorito il parlare e raccontare di sé, in misura maggiore e in modalità originali rispetto alla tradizione classica.
Per lo più questo fenomeno è stato riconosciuto a partire dalle Confessioni di Agostino, che si collocano alla fine del iv secolo e sono state considerate il vero inizio dell’autobiografia in senso moderno.
In realtà una produzione di tipo autobiografico compare fin dall’inizio della letteratura cristiana in varie forme e contesti: pensiamo a molte pagine dell’apostolo Paolo, ma anche, per limitarci ad autori del ii secolo precedenti a Perpetua, a Ignazio di Antiochia, a Erma, a Giustino.
Però il suo diario mostra caratteri del tutto eccezionali e si può dire unici per il mondo antico.

Quello che la Bibbia non ha mai raccontato

La Pasqua secondo gli apocrifi.
Giuda, Pilato, Maria di Gianfranco Ravasi È paradossale, ma non è impresa difficile quella di ordinare una mostra che abbia come filo conduttore i vangeli apocrifi, come appunto è testimoniato dalla grandiosa esposizione che si è aperta il 24 aprile a Illegio in Friuli, cittadina divenuta nota per i suoi straordinari eventi artistici.
Questa letteratura ebbe, infatti, uno straordinario successo proprio nell’arte e nella tradizione popolare.
Sotto il termine di “apocrifi” – letteralmente, dal greco, i libri “nascosti” – si stende, infatti, un’immensa produzione letteraria e religiosa, anche di bassa qualità, che corre parallela ma autonoma rispetto all’Antico e al Nuovo Testamento i quali contengono invece i libri “canonici”, ossia quelli riconosciuti dall’ebraismo e dal cristianesimo come testi sacri, ispirati da Dio.
Questi documenti si distribuiscono anche nell’ultima fase dell’ebraismo anticotestamentario e costituiscono un capitolo della stessa letteratura religiosa giudaica.
Gli apocrifi giudaici sono almeno 65 testi diversi, composti a partire dal III secolo prima dell’era cristiana fino al II secolo, riconducibili ad ambiti e generi diversi.
Importanti, ad esempio, sono certi scritti apocalittici come i tre diversi libri di Enoch che offrono una testimonianza variegata ma decisiva di molte concezioni del giudaismo.
Significativi sono anche i “testamenti” messi in bocca a vari personaggi biblici come i vari patriarchi, oppure Giobbe, Mosè o Salomone.
C’è, poi, una serie di opere di taglio filosofico o sapienziale, come l’antico racconto di Achikar, di origine babilonese, adottato e trasformato dal mondo giudaico e divenuto molto popolare.
Non mancano, inoltre, preghiere, odi, salmi, alcuni venuti alla luce a Qumran, sulla costa del mar Morto, in una delle più celebri scoperte del secolo scorso.
Sono da registrare anche aggiunte o approfondimenti liberi di testi biblici come la “Vita di Adamo ed Eva” o la storia d’amore tra Giuseppe e Asenet.
La mostra di Illegio, però, mette in scena rappresentazioni artistiche legate agli apocrifi cristiani che puntano a ricreare, spesso molto liberamente, la vita di Gesù dando origine a nuovi Vangeli – non mancano però Apocalissi o Atti di vari apostoli e lettere sul modello di quelle paoline.
Si tratta di una massa rilevante di scritti cristiani, nati soprattutto dalla pietà popolare ma anche da ambiti colti: pensiamo agli scritti gnostici egiziani.
Essi furono ben presto contestati, nonostante rivendicassero il desiderio di allinearsi e di completare i libri canonici.
Questa esclusione, per altro spesso motivata a causa della loro qualità teologica discutibile e della loro fantasiosa creatività storica, non ne impedì l’ingresso nella devozione popolare, nella stessa storia della teologia, nella liturgia e soprattutto nella tradizione artistica dei secoli successivi.
Entriamo, dunque, anche noi come viandanti stupiti in questa selva di pagine, di immagini, di colpi di scena, di simboli, di fantasie.
Qui appaiono, ad esempio, le “divine malefatte” di un Gesù ragazzo che fa morire e risorgere o mutare in capretti i compagni di giuoco, che paralizza il maestro che sta per picchiarlo a causa della sua sapienza troppo saccente, ma che sa guarire dai morsi di vipera e estrae prodigiosamente bimbi caduti in forni o pozzi, che aggiusta senza fatica manuale un letto sghembo uscito dalla falegnameria di Giuseppe.
Tra le decine di percorsi che si aprono davanti a noi in tale foresta letteraria ne scegliamo uno che ci conduca all’evento della Pasqua di Cristo, il periodo liturgico che ci sta accompagnando.
Un’enorme massa di racconti segue, infatti, le ore della settimana che verrà poi chiamata “santa”.
Inseguiremo solo alcuni attori di quei giorni oscuri e gloriosi, prescindendo quindi dai vari soggetti esposti nella mostra friulana.
*** Il primo a venirci incontro è Giuda Iscariota, il traditore, un personaggio che ha continuato a generare nuovi “apocrifi” fino ai nostri giorni con vari romanzi e opere di autori diversi moderni.
Per gli apocrifi antichi la storia del traditore di Gesù ha radici remote e molto fantasiose.
Figlio del sacerdote Caifa, fin da piccolo Giuda – secondo il “Vangelo arabo dell’infanzia del Salvatore”, un apocrifo carissimo ai cristiani d’Oriente e persino ai musulmani – dava segni di possessione diabolica.
Sua moglie, stando invece a un testo copto egiziano, aveva accolto presso di sé per allattarlo il figlio neonato di Giuseppe d’Arimatea, colui che avrebbe offerto la tomba di famiglia per deporvi il cadavere di Gesù.
Ebbene, quando Giuda tornò a casa stringendo in mano i trenta denari del tradimento, quel neonato non volle più succhiare il latte.
Venne, allora, convocato suo padre Giuseppe: appena il piccolo lo vide, prodigiosamente si mise a gridare: “Vieni, padre mio, portami via dalle mani di questa donna che è una bestia selvatica.
Ieri, nell’ora nona, hanno preso il prezzo del sangue del Giusto”.
Infatti sempre secondo i testi apocrifi, era stata la moglie a spingere Giuda al tradimento per venalità: costringeva già da tempo il marito a rubare alla cassa comune dei discepoli che, come si legge nel Vangelo canonico di Giovanni (12, 6), era appunto gestita da Giuda.
Ma la scena più clamorosa è narrata dalle Memorie o Vangelo di Nicodemo, un famoso apocrifo greco, giunto a noi anche in versione copta e latina, forse dell’inizio del II secolo.
Giuda, dopo aver tradito Gesù, si ritira a casa sua, cupo e deciso al suicidio.
Sua moglie cerca di convincerlo a non impiccarsi, certa che Cristo non potrà mai risorgere.
La donna sta arrostendo un gallo per il pranzo e scommette con il marito: “Nello stesso modo in cui questo gallo arrostito può cantare, così Gesù potrà risorgere.
Ma, proprio mentre stava parlando, quel gallo allargò le ali e cantò tre volte.
Giuda, allora, del tutto convinto, con la corda fece un capestro e andò a impiccarsi”.
È evidente la ripresa in forma surreale ed esasperata del tema evangelico del gallo che canta al momento del tradimento di Pietro.
Altri apocrifi dipingeranno la morte di Giuda, invece, come un’esplosione dopo che il suo corpo si era gonfiato a dismisura – c’è un libero riferimento ad Atti degli Apostoli 1, 18 – e rappresenteranno la sua anima mentre vaga disperata nell’Amenti, cioè negli inferi.
*** Non poteva mancare una fioritura apocrifa anche attorno a un altro attore del racconto evangelico delle ultime ore terrene di Gesù: il procuratore romano Ponzio Pilato.
Lo scrittore e martire cristiano Giustino nel 155 circa chiamava “Atti di Pilato” quelle Memorie di Nicodemo a cui abbiamo appena accennato.
Esse, infatti, contengono una vivace sceneggiatura del processo romano di Cristo, nei confronti del quale vengono avanzati come capi di imputazione la nascita impura da fornicazione e la violazione della legge, soprattutto quella del riposo sabbatico.
Ma lasciamo la parola all’antico narratore che già esalta la grandezza sovrumana di Cristo.
“Pilato chiamò un messo e gli ordinò: Mi sia condotto qui Gesù, ma con gentilezza! Il messo uscì e, quando riconobbe Gesù, lo adorò, stese a terra il sudario che aveva in mano e gli disse: Signore, cammina qui sopra e vieni perché il governatore ti chiama.
[…] Quando Gesù entrò da Pilato, le immagini che i vessilliferi reggevano sulle insegne si inchinarono da sole e adorarono Gesù”.
Sfilano poi davanti a Pilato i testimoni a discarico: ciechi, paralitici, un gobbo, l’emorroissa, tutti guariti da Gesù, e Nicodemo, membro del Sinedrio giudaico.
Qui entra in scena la moglie stessa del procuratore della quale i vari apocrifi offrono anche il nome, Claudia Procula, o Procla: “Sapete che mia moglie – dice Pilato agli accusatori di Gesù – simpatizza con voi riguardo al giudaismo.
Gli ebrei risposero: Sì, lo sappiamo! Pilato: Ecco, mia moglie mi ha mandato a dire: Non ci sia nulla tra te e quest’uomo giusto! Questa notte, infatti, ho sofferto molto a causa sua.
Gli ebrei, allora, replicarono a Pilato: Non ti abbiamo forse detto che è un mago? È lui che ha inviato a tua moglie i fantasmi dei sogni”.
È evidente anche in tal caso come la base narrativa del Vangelo canonico di Matteo (27, 19) venga ampliata con aggiunte di colore.
A questo punto Pilato – stando al Vangelo di Pietro che è stato definito “il più antico racconto non canonico della Passione di Cristo” (scritto attorno al 100 e ritrovato solo nel 1887 in Alto Egitto nella tomba di un monaco) – “si alzò; nessuno degli ebrei si lavò le mani, né Erode né alcuno dei suoi giudici”.
Solo Pilato, dunque, si lava le mani dichiarando simbolicamente la sua innocenza.
Poi, sempre secondo le Memorie di Nicodemo, “ordinò che fosse tirato il velo davanti alla sedia curule e disse a Gesù: Il tuo popolo ti accusa di assumere il titolo di re.
Perciò ho decretato che, in ossequio alla legge dei pii imperatori, tu sia prima flagellato e poi appeso alla croce nel giardino dove sei stato catturato.
Disma e Gesta, entrambi malfattori, saranno crocifissi con te”.
Appaiono così anche i nomi improbabili dei due compagni di crocifissione di Gesù, anonimi secondo Luca 23, 39-43.
È, però, soprattutto sulla vita successiva di Pilato che si scatenerà la fantasia apocrifa, compresa quella moderna: pensiamo al “Procuratore di Giudea” di Anatole France, a “Il punto di vista di Ponzio Pilato” di Paul Claudel, alla “Moglie di Pilato” di Gertrud von Le Fort, al “Ponzio Pilato” di Roger Caillois, al “Pilato” di Friedrich Dürrenmatt, al “Maestro e Margherita” di Michail A.
Bulgakov e così via.
Ci è giunta dall’antichità cristiana una relazione apocrifa inviata da Pilato agli imperatori Tiberio e Claudio con i riscontri dei destinatari, una lettera di Pilato a Erode e una “Paradosi” di Pilato, cioè un’ipotetica “tradizione” storica delle sue vicende.
C’erano persino apocrifi pagani su di lui, tant’è vero che lo storico cristiano Eusebio di Cesarea lamentava che l’imperatore Massimino Daia nel 311 avesse fatto distribuire nelle scuole delle false memorie di Pilato “piene di empietà contro Cristo” e avesse ordinato che i ragazzi le imparassero a memoria per istigarli all’odio contro il cristianesimo.
Ma gli apocrifi cristiani si accaniranno in particolare sulla morte di Pilato con esiti antitetici.
Da un lato, la citata “Paradosi” descrive una fine tragica durante una partita di caccia con l’imperatore.
“Un giorno Tiberio, andando a caccia, stava inseguendo una gazzella; ma, quando questa giunse davanti alla porta di una caverna, si fermò.
Pilato si spinse a vedere.
Tiberio lanciò nel frattempo una freccia per colpire l’animale, ma essa attraversò l’ingresso della caverna e uccise Pilato”.
Più impressionante è la fine narrata da un altro testo e divenuta popolare nel Medioevo, secondo cui Pilato morì suicida a Roma con un colpo del suo prezioso pugnale.
Gettato con un peso nel Tevere, il cadavere dovette essere ripescato perché attirava gli spiriti maligni rendendo pericolosa la navigazione sul fiume.
Traslato a Vienne in Francia e immerso nel Rodano, dovette essere recuperato per la stessa ragione e sepolto a Losanna.
Ma anche qui, a causa del suo corpo infestato di demoni, lo si dovette riesumare e scaraventare in un pozzo naturale, in alta montagna.
D’altro lato, la tradizione apocrifa cristiana esalta invece la conversione di Pilato che muore come martire, decapitato per ordine di Tiberio, e viene accolto in cielo da Cristo.
Non per nulla la Chiesa etiopica venera come santo nel suo calendario liturgico il procuratore romano.
La stessa sorte toccherà a sua moglie Claudia Procula.
Ecco, infatti, un’altra versione della fine di Pilato secondo la “Paradosi” che abbiamo sopra citato.
“Il comandante Labio, incaricato dell’esecuzione capitale, troncò la testa di Pilato e un angelo del Signore la raccolse.
Sua moglie Procula, vedendo l’angelo giunto a prendere la testa del marito, ebbe un trasporto di gioia ed emise l’ultimo respiro.
Fu, così, sepolta con suo marito Pilato per volere e benevolenza del Signore nostro Gesù Cristo”.
La conversione del procuratore era avvenuta in coincidenza della risurrezione di Cristo, secondo il Vangelo di Gamaliele, opera copta del V secolo.
Infatti, “entrato nella tomba di Cristo, Pilato prese le bende mortuarie, le abbracciò e per la gran gioia scoppiò in lacrime.
Si volse poi a un suo capitano che aveva perso un occhio in guerra e rifletté: Sono sicuro che queste bende restituiranno la luce al suo occhio.
Avvicinò a lui le bende mortuarie e gli disse: Non senti, fratello, il profumo di queste bende? Non è un odore di cadavere ma di porpora regale impregnata di soavi aromi.
[…] Il capitano prese quelle bende e si mise a baciarle dicendo: Sono certo che il corpo che voi avete avvolto è risorto dai morti! Nell’istante in cui il suo volto le toccò, il suo occhio guarì e vide la gioiosa luce del sole come prima.
Fu come se Gesù avesse posto su di lui la mano, proprio come era accaduto al cieco nato”.
*** Un capitolo particolare in molti Vangeli apocrifi è riservato ai testimoni della risurrezione che si moltiplicano rispetto ai Vangeli canonici e che diventano spettatori di epifanie clamorose.
Ecco come lo stesso Pilato narra la sua esperienza secondo il citato Vangelo di Gamaliele: “Vidi Gesù al mio fianco! Il suo splendore superava quello del sole e tutta la città ne era illuminata, ad eccezione della sinagoga degli ebrei.
Egli mi disse: Pilato, piangi forse perché hai fatto flagellare Gesù? Non aver paura! Sono io il Gesù che morì sull’albero della croce e sono io il Gesù che è risorto dai morti.
Questa luce che tu vedi è la gloria della mia risurrezione che irradia di gioia il mondo intero! Corri, dunque, alla mia tomba: troverai le bende mortuarie che sono rimaste là e gli angeli che le custodiscono; gettati davanti ad esse e baciale, diventa assertore della mia risurrezione e vedrai nella mia tomba grandi miracoli: i paralitici camminare, i ciechi vedere e i morti risorgere.
Sii forte, Pilato, per essere illuminato dallo splendore della mia risurrezione che gli ebrei negheranno”.
E di fatti Pilato giunto al sepolcro di Cristo – come si è già visto – passerà di sorpresa in sorpresa, incontrando anche il ladrone risorto.
C’è, dunque, un “altro” Cristo risorto che viene incontro negli scritti apocrifi a una folla di persone, rispetto alla ben più sobria e rigorosa narrazione dei Vangeli canonici.
Un’apparizione è riservata, ad esempio, anche all’apostolo Bartolomeo nell’omonimo vangelo apocrifo: in quell’occasione Gesù svela tutti i segreti dell’Ade, ove aveva trascorso il periodo tra la sua morte e l’alba di Pasqua.
In un altro testo è Giuseppe d’Arimatea a incontrare il Signore risorto.
Arrestato dai giudei per aver offerto a Gesù il sepolcro, egli vede avanzare Gesù con il ladrone pentito nella tenebra della sua cella: “Nella camera risplendette una luce accecante, l’edificio fu sospeso ai quattro angoli verso l’alto, si aprì un passaggio e io uscii.
Ci mettemmo in viaggio per la Galilea, mentre attorno a Gesù brillava una luce insopportabile a occhio umano e dal ladrone emanava un gradito profumo che era quello del paradiso”.
Anche Pietro, al di là delle apparizioni pasquali “canoniche”, ha un incontro straordinario registrato dagli Atti di Pietro, un apocrifo composto tra il 180 e il 190, sulla via di Roma, e divenuto la sostanza del “Quo Vadis?”, il famoso romanzo che il polacco Henryk Sienkiewicz compose tra il 1894 e il 1896.
*** Particolarmente vivace è poi la tradizione apocrifa riguardante la madre di Gesù, Maria.
I Vangeli canonici tacciono sull’incontro del Risorto con lei.
Infatti, dopo la scena del Calvario (Giovanni 19, 25-27) si passa a quella degli Atti degli Apostoli secondo la quale i discepoli di Gesù “sono assidui e concordi nella preghiera” con Maria “al piano superiore della casa [di Gerusalemme] ove abitavano” (1, 13-14) e non si aggiunge nulla sull’incontro tra la Madre e il Risorto.
A questo vuoto suppliscono abbondantemente gli apocrifi.
Riprendiamo tra le mani il Vangelo di Gamaliele.
Maria, prostrata dal dolore, rimane in casa, ed è Giovanni che le riferisce le notizie sulla sepoltura del Figlio.
Essa, tuttavia, non si rassegna a restar lontana dalla tomba di Gesù e, tra le lacrime, dice a Giovanni: “Anche se la tomba di mio Figlio fosse gloriosa come l’arca di Noè, io non ne avrei nessun conforto se non la potessi vedere per versarvi le mie lacrime.
Giovanni le rispose: Come possiamo andarci? Davanti alla tomba sono di guardia quattro soldati dell’esercito del governatore! […] La Vergine, però, non si lasciò trattenere e la domenica, di buon mattino, si recò al sepolcro.
Giunta di corsa, si guardò intorno e fissò lo sguardo sulla pietra: era stata rotolata via dal sepolcro! Allora esclamò: Questo miracolo è avvenuto a favore di mio Figlio! Si sporse in avanti, ma non vide nel sepolcro il corpo del Figlio.
Quando il sole spuntò, mentre il cuore di Maria era malinconico e triste, si sentì penetrare nella tomba dall’esterno un profumo aromatico: sembrava quello dell’albero della vita! La Vergine si voltò e in piedi, presso un cespuglio di incenso, vide Dio vestito con uno splendido abito di porpora celeste”.
Maria, tuttavia, non riconosce in questa figura gloriosa suo Figlio.
Allora inizia un dialogo simile a quello che il Vangelo di Giovanni (20, 11-18) intesse tra Maria Maddalena e il Cristo risorto e alla fine si ha lo scioglimento dell’enigma: “Non smarrirti, Maria, osserva bene il mio volto e convinciti che io sono tuo Figlio”.
E Maria replicherà augurandogli una “felice risurrezione”, inginocchiandosi a adorarlo e a baciargli i piedi.
Un’altra testimonianza, ancor più fastosa, dell’apparizione del Risorto a sua madre è conservata in un frammento copto del V-VII secolo, traduzione di un testo più arcaico.
“Il Salvatore apparve sul grande carro del Padre di tutto il mondo e, nella lingua della sua divinità, esclamò: Maricha, marima, Tiath.
Che significa: Mariam, madre del Figlio di Dio! Mariam ne capiva il senso; perciò si volse e rispose: Rabbuní, Kathiath, Thamioth.
Che significa: Figlio di Dio! Il Salvatore le disse: Salve a te, che hai portato la vita a tutto il mondo! Salve, madre mia, mia santa arca, mia città, mia dimora, mio abito di gloria del quale mi sono vestito venendo al mondo! Salve, mia brocca piena di acqua santa! Tutto il paradiso gioisce per merito tuo.
Ti assicuro, Maria, mia madre: colui che ti ama, ama la vita.
Poi il Salvatore aggiunse: Va’ dai miei fratelli e di’ loro che sono risorto dai morti e che andrò al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro.
[…] Maria disse a suo Figlio: Gesù, mio Signore e mio unico Figlio, prima di andare nei cieli dal tuo Padre, benedicimi perché io sono tua madre, anche se non vuoi che io ti tocchi! E Gesù, vita di tutti noi, le rispose: Tu sarai assisa con me nel mio regno.
Allora, il Figlio di Dio s’innalzò sul suo carro di cherubini, mentre miriadi di angeli cantavano: Alleluia! Il Salvatore stese la mano destra e benedisse la Vergine”.
Ormai con questo testo ci ritroviamo in un’altra regione, quella della devozione mariana, cara soprattutto alle Chiese d’Oriente.
L’accento scivola sulla mariologia, lasciando sullo sfondo il riferimento cristologico.
*** La ricca esemplificazione che abbiamo offerto – sebbene si riferisca a una sola fase della storia di Gesù Cristo – non rende ragione del tutto riguardo alla molteplicità tematica e ai riflessi della varie situazioni ecclesiali che sono rivelati dalle pagine apocrife.
Essa, però, riesce a mostrare in modo inequivocabile la qualità radicalmente differente, sia per attendibilità storica sia per rigore teologico, degli scritti canonici neotestamentari, esempio della loro essenzialità tematica e sobrietà narrativa.
Significativa, per contrasto, è l’elaborazione della “gnosi” – secondo la quale la salvezza è offerta solo dalla conoscenza – diffusa soprattutto in Egitto.
Essa introdurrà, ad esempio, nel Vangelo di Tommaso una collezione di frasi o detti di Gesù evangelici ed extra-evangelici, alcuni di grande interesse storico, ma anche aprirà la stura a discutibili speculazioni teologiche, spesso molto elaborate e sofisticate e fin stravaganti.
In positivo potremmo dire che, però, domina un forte senso della grandezza dell’evento cristologico e una viva coscienza dell’identità cristiana.
In un apocrifo egiziano gnostico, noto come il Vangelo di Filippo, si legge: “Se dici: Sono ebreo! nessuno si commuove.
Se dici: Sono romano! nessuno trema.
Se dici: Greco, barbaro, schiavo, libero! Nessuno si agita.
Ma se dico: Sono cristiano! Il mondo trema”.
Un anno fa misero in mostra la Genesi.
L’anno prima l’Apocalisse.
Ed entrambe le volte richiamarono a Illegio, piccolo borgo di montagna sulle Alpi della Carnia, un gran numero di visitatori, incantati dai capolavori d’arte lì raccolti da importanti musei d’Italia e del mondo.
Fu tale il successo che la mostra sull’Apocalisse fu addirittura replicata a Roma, nei Musei Vaticani.
Quest’anno, dal 24 aprile al 4 ottobre, a Illegio sono in mostra gli Apocrifi.
Cioè le memorie e le leggende non scritte nei libri dell’Antico e del Nuovo Testamento ma entrate nella tradizione cristiana, riprese dall’arte e raffigurate anche in tante chiese.
A cominciare dal bue e dall’asinello accanto al neonato Gesù, sono numerosi gli episodi e i personaggi della storia sacra tramandati al di fuori dei testi canonici della Bibbia.
Ad esempio la nascita e l’infanzia di Maria con i suoi genitori Anna e Gioacchino, il suo sposalizio con Giuseppe, i nomi e le vicende dei Magi, i particolari della fuga in Egitto, la “dormizione” della Madonna e la sua assunzione al cielo.
Sono ottanta le opere raccolte ad Illegio con soggetto gli Apocrifi e con autori di prima grandezza, come Bruegel e Guercino, Dürer e Caravaggio.
Di quest’ultimo, nelle prime settimane della mostra, è esposto lo splendido “Riposo nella fuga in Egitto” conservato nella Galleria Doria Pamphili di Roma.
Con Maria e il Bambino dormienti e un angelo che accompagna al violino un mottetto con parole del Cantico dei Cantici.
Giuseppe regge lo spartito musicale e l’asino guarda ed ascolta, estasiato.
Sulla copertina del catalogo della mostra edito da Skira c’è un dipinto del Guercino del 1628 (vedi sopra) con l’incontro tra Gesù risorto e la madre: anche questo non raccontato dai Vangeli.
La scelta di dedicare la mostra agli Apocrifi non è priva di addentellati con l’uso odierno di alcuni testi extrascritturali.
Dal “Codice da Vinci” alla vicenda di Giuda è oggi tutto un pullulare di libri e di film sostanzialmente mirati a invalidare i Vangeli: libri e film che si presentano come portatori di una “verità nascosta”, occultata dagli stessi Vangeli e dalla Chiesa.
Questo della “verità nascosta” è un carattere che già apparteneva ai testi apocrifi di impronta gnostica dei primi secoli.
Non sorprende che oggi ritrovi successo, con il moderno gnosticismo anticristiano.
Le opere d’arte esposte ad Illegio mostrano invece che larga parte degli Apocrifi hanno avuto e possono continuare ad avere tutt’altra funzione: non di contrastare e invalidare i Vangeli canonici, ma di dilatarne il racconto, di arricchirne la comprensione, di nutrire la devozione, in sostanziale continuità con la trama fondante delle Sacre Scritture.
E questa è una ragione in più per esplorare il vasto insieme degli scritti extracanonici.
È ciò che fa qui di seguito in modo avvincente l’arcivescovo Gianfranco Ravasi, studioso di fama mondiale della Bibbia e della letteratura ad essa connessa, presidente del pontificio consiglio della cultura.
Ravasi è tra quelli che hanno presentato ufficialmente al pubblico la mostra di Illegio sugli Apocrifi, lo scorso 23 aprile, a Roma, nel palazzo dell’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede.
Il suo intervento è uscito anche su “L’Osservatore Romano” del 24 aprile 2009, col titolo: “Il canto del gallo arrostito e la conversione di Ponzio Pilato”.
Ravasi si sofferma soprattutto sugli ampliamenti che gli Apocrifi hanno fatto dei racconti della Passione.
La conversione di Ponzio Pilato è uno di questi sviluppi: entrato a tal punto nella tradizione, che la Chiesa etiopica venera come santo il procuratore romano che condannò a morte Gesù.
Il sito della mostra.
con tutte le informazioni: > Apocrifi.
Memorie e leggende oltre i Vangeli
Promotore della mostra è il Comitato di San Floriano, animato da don Alessio Geretti, viceparroco della pieve e studioso dell’arte cristiana.
__________ Il servizio dedicato da www.chiesa alla precedente mostra sulla Genesi: > Miracolo a Illegio, piccolo borgo di montagna (30.5.2008)

La mia Chiesa

(…).
1) La comprensione incondizionata dell’uomo Più che una “dittatura del relativismo”, che potrebbe compromettere ogni ricerca della verità, oggi si avverte uno “spaesamento dei valori” (diritto, doveri, giustizia, libertà, educazione, rispetto, sicurezza sociale, pace).
L’atteggiamento della Chiesa di fronte a queste realtà è molteplice.
È la spettatrice critica di fronte ai processi della società, e magari diventa arcigna e violenta di fronte ai fenomeni giudicati degenerativi della società.
Si pensi come il “magistero” ha inteso la “modernità”.
Essa è stata pensata come una deformazione delle coscienze, quando poteva tradursi in una grande educazione di umanità.
È comprensibile la diffidenza che la Chiesa ha verso la ricerca scientifica? Forse la Chiesa non ha mai voluto ammettere il “date (rendete) a Cesare quel che è di Cesare” e il “date a Dio quel che è di Dio” (Mt.
22, 21).
(…).
Attualmente la Chiesa sembra voler essere l’“autovelox” della morale.
Sta nascosta dietro l’angolo e quando la cultura sfreccia e magari sembra violare, per eccesso di velocità, soprattutto i temi della morale, eleva sanzioni (…).
La Chiesa certamente deve condurre gli uomini alla vita vera.
Ma come fa la madre.
Ella non insegna, ma educa, costruisce, con infinita comprensione, con uno spirito di riconciliazione senza limite.
La sua non è sterile constatazione, o peggio controllo (“inquisizione”), ma sempre lievito, fermento di vita, promozione.
L’umanità è comunque sofferente e bisognosa, al di là di ogni forma di peccato, e la Chiesa, con l’unica sua verità, che è la misericordia di Cristo, ripete: “Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò” (Mt.
11, 28).
Il cap.
15 di Luca potrebbe essere il “manifesto” del comportamento della Chiesa.
Narra le parabole della pecora smarrita, della dramma perduta e del figlio prodigo.
Si capisce in questo manifesto cosa significhi comprendere e amare l’essere umano che è sempre così debole.
I primi sette versetti del capitolo sono di una emotività eccelsa ed estrema.
“Pantes oi telonai cai oi amartoloi – Tutti i pubblicani e i peccatori vanno da lui”.
L’appuntamento di “tutte” le persone sregolate è da Gesù.
È comprensibile lo scandalo delle persone rette, i farisei e gli scribi.
E Gesù, “umile di cuore” anche con loro, dice: “Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova?”.
No, nessuno userebbe questo criterio pastorale.
Ma Gesù insiste e sostiene di essere nella gioia solo quando ritrova la pecora.
E a conferma della arditezza del suo amore, senza parametri umani: “Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore che si converte che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione”.
 2) La “Cattolicità” “Deus vult omnes homines salvos fieri – Dio vuole che tutti gli uomini vengano salvati” (1 Tm.
2,4).
È evidente l’afferma-zione biblica, perché, con l’“incarnazione”, Dio si fa uomo in ogni uomo.
“Non fa preferenze di persona” (At.
10, 34).
Anzi “ogni uomo a qualsiasi popolo appartenga” è bene accetto a Dio” (At.
10, 34).
La consegna agli Apostoli, dopo la risurrezione, è: “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura” (Mc.
16, 15).
Probabilmente l’assicurazione: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt.
28, 20) viene fatta per garantire che la sua Chiesa “avrà le porte sempre aperte” (Ap.
21, 25), per accogliere tutte le genti.
Riservare il cristianesimo alla civiltà occidentale è tradire il Vangelo.
Rivendicare le “radici cristiane” dell’Europa rischia di compromettere l’universalità del Vangelo.
Il Vangelo è incarnazione attiva presso tutte le genti.
Le quali sono chiamate ad esprimere il loro volto cristiano (cf.
Mt.
28, 19).
Gli Apostoli non sono mandati per dare alle genti un cristianesimo occidentale, ma per affidare a tutti il Vangelo quale sorgente di originalità.
Il messaggio del Vangelo rimane genuino e originale presso tutti i popoli: “Costoro che parlano sono tutti Galilei.
E com’è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadocia, del Ponto, e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, stranieri di Roma, Ebrei e proseliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio” (At.
2, 7-11).
(…).
  3) L’Unità L’unità di tutto il genere umano ha per fondamento il Vangelo.
Dio si è incarnato in ogni uomo, rendendo ognuno di noi uguale al fratello.
Non c’è umanità, pertanto, senza l’amore del fratello.
Il quale ha tutti i diritti al mio amore, perché “nessun uomo è profano o immondo” (At.
10, 28).
L’unità, in realtà, non si fa con la dottrina, non si fa con i principi, non si fa con una religione codificata, ma soltanto con l’amore.
Amos Oz riferisce un aneddoto: “Avevo dato all’amico un appuntamento al bar.
Assolsi ad un piccolo impegno d’urgenza e subito raggiunsi l’amico.
Con mia sorpresa vidi già seduto accanto a lui un signore dal nobile aspetto.
Con qualche gesto impercettibile chiesi all’amico chi fosse.
Quegli, con fare circospetto, mi disse: mi pare tanto che sia Dio.
Mi sedetti accanto e, parlando, anch’io ebbi l’impressione che fosse Dio.
Volli allora togliermi una curiosità.
Dissi: da noi qui ci sono tante religioni: la cristiana, l’ebraica, la musulmana.
Qual è quella vera? Rispose: non lo so; io non sono religioso.
Sono venuto sulla terra per amare gli uomini e per salvarli”.
Invece il confronto religioso diventa facilmente violenza, dalla lotta contro gli Albigesi alle “crociate”.
Francesco nella Regula non bullata (cap.
16) ha una pagina di grande significato: “I frati coraggiosi vadano presso gli infedeli e, presentandosi come cristiani, si mettano a servizio di tutti senza mai contrasti e dispute”.
Incantato dalla sua figura, il delegato papale di Damietta Jaques De Gratry riferisce che Francesco si presentò al sultano “sine armis et sine argumentis philosophicis, ma solo con l’amore di Cristo”.
Giovanni XXIII, veramente ispirato, nel discorso di apertura del Concilio, chiedeva a Dio che questo evento portasse alla costituzione dell’unica famiglia umana, “all’unità dei cristiani tra loro, all’unità dei cristiani con gli uomini di altre religioni, all’unità dei credenti con i non credenti”.
L’occasione attuale della miscelatura di tutti i popoli, occidentali e arabi, cinesi e indiani, cristiani e musulmani, offre ai discepoli di Cristo la possibilità di effondere tutto l’amore di Cristo, fino alla costruzione della “Pacem in terris”.
  4) La Carità La carità è la Chiesa: “charitas Christi urget nos”.
I tre Vangeli sinottici sono il poema della carità di Gesù.
Gesù è sempre in attività, per guarire tutti gli ammalati, per dare conforto a tutti i bisognosi.
Sta volentieri con le persone anonime, con le “folle”, che non hanno qualificazioni sociali, che “sono come pecore senza pastore”, e prova pietà per loro: “misereor super turbam”.
Le folle sono particolarmente bisognose, sono di solito affamate.
E Gesù provvede loro con la “moltiplicazione dei pani”.
(…).
La Chiesa pensa oggi alle “masse affamate” del mondo? Oggi, il dramma dei popoli, Iraq, Sudan, ha riscontro nella Chiesa? Gesù scombina anche i rigorosi precetti della legge mosaica, per andare incontro alle necessità dell’uomo: “Il sabato è per l’uomo e non l’uomo per il sabato”.
Con gli Apostoli Gesù percorre tutte le strade della Palestina, non per andare a formare cenacoli e gruppi di preghiera, né per andare a costruire chiese e sinagoghe, ma per “cercare e salvare ciò che era perduto” (Lc.
19, 10).
Sembra quasi trascurare il culto e anche la catechesi, quando raccomanda: “Se fai l’offerta all’altare e ti ricordi che il fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì l’offerta, corri a riconciliarti con il fratello, poi torni e fai l’offerta all’altare” (Mt.
5, 23-24).
Di grande provocazione è il suo identificarsi con il “Buon Samaritano” e trascurare il sacerdote e il levita, ma anche il “dottore della legge”, al quale dice in pratica che non sono necessari né il tempio, né la Torah, quando invece indispensabile è agire come il Samaritano (Lc.
10, 25-37).
Incandescente per me è l’episodio del “battesimo”.
Egli, l’innocenza di Dio, vuole purificarsi come gli altri, apparire un peccatore tra i peccatori.
È chiaro allora che non c’è un reietto che non sia Lui, non c’è una vittima che non sia Lui, non c’è uno straniero che non sia Lui, non c’è un disperato che non sia Lui (cf.
Mt.
25).
  5) Oscuramento di Cristo È certo che credere nel Dio annunciato da Gesù, un Dio umile e nascosto, dischiude problemi nella Chiesa, alla ricerca del suo compito e della sua autorità.
Il rischio della Chiesa di cambiare l’originalità dell’istituzione è grandissimo e sempre incombente.
Da discepola e testimone del Risorto, essa si fa interprete, vicaria e sostituta di Dio.
Si pone come unica titolare e depositaria del divino sulla Terra.
Gesù aveva proclamato la “giustizia superiore” delle “beatitudini”, vincendo le tentazioni della ricchezza, del prestigio e del potere.
La Chiesa invece preferisce tenere in disparte Gesù e sacralizzare questi beni (“La leggenda del Grande Inquisitore”).
L’irrilevanza di Gesù è caratterizzata da quasi tutta la modernità.
E sembra esplicita nella Chiesa.
Nelle recenti dispute con i legislatori italiani e spagnoli e con i costituenti europei, la Chiesa fa appello alla biologia, alla natura, alla storia, alle tradizioni culturali, alla precauzione politica, non al Vangelo.
Anzi ci tiene ad affermare che la sua dottrina, la verità di cui è custode, corrispondono a una visione razionale e umana a tutti comune.
La trascuranza di Cristo sembra così evidente.
Ma “sine me nihil potestis facere” (Gv.
15, 5).
E questo oscuramento del Cristo è la ragione di tutti i nostri smarrimenti.
Per fortuna e per grazia, anche se noi trascuriamo il Signore, egli viene a noi incontro.
“Gesù in persona si accosta a me e con me cammina” (Lc.
24,15).
E mi confida: “Ecco, io sto alla tua porta e busso.
Se tu ascolti la mia voce e mi apri la porta, io vengo da te, ceno con te e tu con me” (Ap.
3, 20).
  6) Il “principio speranza” “Noi diamo ragione della speranza che palpita nel nostro cuore”, perché abbiamo il Vangelo.
E il Vangelo è tutta la speranza.
Il Vangelo è una proiezione infinita di luce, è l’apertura e la libertà della vita, è “pieno di immortalità”.
“Gesù è colui che vive e più non muore” (Ap.
1, 18).
È lui il destino dell’uomo e quindi è la sua speranza infinita.
Anche la Chiesa non ha nessuna verità da dare.
Ha unicamente l’“amore eterno” (Ger.
31, 3), da comunicare a tutti.
(…).
  Esercizi di nonviolenza – L’evangelizzazione oggi sembra asfittica.
Occorre annunziare di nuovo le Beatitudini e il Magnificat.
Se Gesù ci chiede di superare le tentazioni della ricchezza, del potere, del prestigio, il Magnificat ci assicura che lui rovescia i potenti dai troni e innalza gli umili.
– Recuperare la memoria del Concilio: non dimenticare le salutari avanguardie che hanno aperto nuovi percorsi; riconoscere, come papa Giovanni XXIII, che “Ecclesia sempre reformanda”; proclamare il valore dell’Ecumenismo ad ogni costo; credere nella scelta preferenziale dei poveri; la solidarietà della Gaudium et spes: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo” (n.
5.1).
– Superare la neutralità: un giovane non può rimanere neutrale tra dittatura e democrazia, tra libertà e fascismo, tra pace e guerra, tra obiezione di coscienza e militarismo, tra accoglienza degli stranieri e razzismo.
– Recuperare la memoria dei Profeti: don Mazzolari, don Milani, p.
Balducci, p.
Turoldo, p.
Dossetti, La Pira, Lazzati, Bachelet, Moro, Dorothy Day, M.L.
King, mons.
Romero, mons.
Camara…
È necessario raccontarli per poterli rivivere.
– Resistere ai “vitelli d’oro”: consumismo, telecrazia…, non rifiuto acritico, ma ragionato.
Reagire al neo-nazismo, al neo-liberismo, alla xenofobia, al nazionalismo.
Combattere l’integralismo e difendere la laicità della politica.
– La libertà.
È una parola difficile e non deve creare equivoci.
A me hanno insegnato ad amare questa parola Gandhi, Martin Luther King, Oscar Romero e Madre Teresa di Calcutta.
Libertà non è liberismo sfrenato, è liberazione dall’oppressione, dalla tirannia, difesa del pluralismo, della tolleranza, dell’ascolto, del dialogo.
Libertà è difesa delle minoranze politiche, religiose, culturali, sociali, etniche.
– Educazione alla condivisione delle risorse, alla redistribuzione delle risorse, per ridurre il fossato Nord-Sud, per affrontare la questione dei flussi migratori inarrestabili.
– Impegno di lotta senza quartiere contro le mafie e le camorre.
Rivoltarsi contro le sottoculture dell’illegalità.
Studiare catechismi di solidarietà.
– Rifondare il sindacato di tutti, non solo dei “protetti”, ma anche degli “esclusi”.
– Lotta per la libertà dell’informazione.
Impegno per la crescita delle voci non omologate, locali e nazionali.
Sostenere l’informazione libera e la comunicazione conviviale.
– Scelta di campo per i poveri.
Non solo interiore, teologica, emotiva, ma concreta sul territorio.
(…).
– Accoglienza dell’altro.
Dell’immigrato e del rom.
Questi dovrebbero essere accolti non dalle polizie, ma dalle amministrazioni locali o da istituzioni a ciò preposte.
(…).
  Amo la mia gente con le opere di Misericordia Gesù è l’uomo per gli altri.
Anch’io, suo apostolo, devo essere l’uomo per gli altri.
Sono personalmente convinto che oggi la Chiesa sia fortemente ancorata alla liturgia e alla evangelizzazione e meno sensibile alla carità, all’amore verso tutti gli uomini.
Sogno una Chiesa piena di vangelo, che rende Gesù visibile dovunque.
Gesù parla poco di questioni morali, mentre la sua condotta sembra “eccessivamente” misericordiosa.
Non insiste mai sui precetti e sulle ideologie giustificatrici.
Presentandosi come “Figlio dell’uomo”, non appare certo come il Dio dei poteri, delle istituzioni e dei sistemi, che creano le vittime e gli sfiduciati.
Ma sta con coloro che piangono e che “hanno fame e sete di giustizia”.
Non cerca i grandi templi, con lo scopo di onorare Dio, ma gli bastano “lo spirito e la verità” (Gv.
4,23).
Oggi una Chiesa autoreferenziale confonde facilmente i suoi fini con i suoi interessi.
Sembra si debba pensare che Dio è nella Chiesa e pertanto il mondo esista per servire la Chiesa e questa per difendere ad ogni costo se stessa.
Invece Dio è nel mondo e la Chiesa esiste per servire il mondo, creato da Dio e amato, e redento e perdonato da Lui.
Questo mondo è il nostro mondo, è quello che Dio ci ha dato da amare.
Non siamo qui per giudicarlo, ma per annunciargli il Vangelo, cioè la salvezza e la felicità.
Per Gesù i sabati, i templi, le filatterie, i precetti diventano totalmente secondari di fronte al dolore degli uomini.
Gesù lascia le curie del potere e va nell’“orto”, dove egli suda il sangue dei poveri.
L’opzione della Chiesa dovrebbe ancora essere il predicare un cristianesimo di sequela, piuttosto che un cristianesimo di consumo.
Non si può pensare che con più praticanti si salvano più uomini.
Se non esagero, vorrei proporre oggi una Chiesa di frontiera.
La frontiera è fuori dal tempio.
La frontiera è un luogo esposto.
È il luogo degli arrivi e delle partenze.
È il luogo dell’imprevisto, dell’inedito.
È il luogo dell’originale.
È il luogo dell’uomo sempre nuovo e sempre in attesa di una patria.
Ma è anche il luogo di Cristo.
Non si può pensare qualcosa di più urgente e di più precario della Capanna della sua nascita.
La Chiesa è artigiana della pace, non solo della pace dei cuori, ma anche della pace che passa attraverso l’azione politica.
Deve pregare per la pace, ma anche difendere l’uomo dal dominio incontrollato delle istituzioni e delle corporazioni, che rischiano di renderlo puro strumento della loro volontà di potenza.
Deve intervenire per allargare gli ordinamenti democratici, che esprimono la sovranità popolare, per rendere attiva sempre la libertà personale.
Deve difendere l’uguaglianza tra gli uomini, impedire lo sfruttamento di una sull’altra, di un popolo su un altro e combattere apertamente l’onnipotenza del capitale e del profitto, della mafia e della camorra.
Deve denunciare quelle scelte politiche che procurano la corsa agli armamenti e deve sostenere il disarmo progressivo.
Deve solidarizzare con coloro che pongono gesti di doverosa protesta: obiezione di coscienza, marce per la pace, giudizi di illegalità per le spese militari.
Deve combattere l’autoritarismo, le forme molteplici di violenza, la chiusura ideologica.
L’esaltazione dei condottieri, il disprezzo per i vinti, il culto della razza, la magnificenza della patria, l’eurocentrismo non sono certamente elementi che rendono maturo e idoneo l’uomo del villaggio globale.
La denuncia delle inadempienze radicali degli uomini e delle intollerabili povertà di certe categorie sociali non è sufficiente.
È necessario che la Chiesa difenda i diritti e le attese dei poveri e dei bisognosi, intervenendo nelle forme più attente ed efficaci.
Gesù con la “moltiplicazione dei pani” nutre le folle e le fa vivere nella speranza.
La Chiesa o è carità o è falsità.
La Chiesa è sempre e solo amare la gente.
(…).
  Responsabilità verso la Camorra La camorra, in Campania, impedisce le riforme strutturali, indispensabili per organizzare la speranza del futuro.
Procura le dimissioni di ogni imprenditoria intelligente e produttiva.
Una politica che crea progetti, stabilisca obiettivi, dia la spinta alla soluzione dei problemi è impensabile.
E le dirigenze di ogni tipo confondono facilmente il bene comune con l’interesse privato.
Il degrado, il sottosviluppo e la disoccupazione fanno sì che l’emigrazione dei giovani volenterosi sia enorme.
I talenti migliori salgono al Nord, privando le nostre terre di quella propulsività fatta di promozione e di progresso.
Ritengo che, in particolare nel meridione, la Chiesa deve esercitare la sua forza istitutrice di etica e di civiltà.
Purtroppo, l’esempio fulgido di un don Peppino Diana, che viene ucciso dopo quel documento salutare, Per amore del mio popolo non tacerò, rimane ancora controllato e isolato.
Le gerarchie ecclesiastiche sono molto preoccupate di difendersi dai nemici “ideologici”, massoni, comunisti, laicisti di ogni genere, e sottovalutano l’inquinamento morale e civile causato dai poteri illegali.
I camorristi, che pure sradicano il Vangelo dal cuore della nostra gente, negando ogni forma di amore del prossimo, diventano facilmente promotori delle iniziative della ritualità religiosa e della collettività.
Proteggono un certo ordine stabilito, e quindi vengono corteggiati dalle istituzioni.
E, per un falso amore di pace, la Chiesa tace.
(…) La storia della Campania, come la sua cronaca contemporanea, non si spiega senza tenere nel debito conto l’influenza della Chiesa.
Si osserva quindi che le espressioni religiose, soprattutto quelle enfatiche, e la camorra non sono due fenomeni indipendenti.
Fortunatamente non si arriva mai alla complicità.
Non si può tuttavia rimanere in disparte, scaricando la realtà criminale alla competenza dello Stato.
L’esercizio del potere nel mondo della camorra si prefigge l’infiltrazione nelle istituzioni per gestirle in maniera privatistica e clientelare.
E se la camorra diventa mentalità di popolo, il messaggio d’amore di Cristo non può avere vita.
Per cominciare, nelle parrocchie si devono superare supporti che possono configurarsi come camorristi: gli atteggiamenti autoritari, la violenza di un potere costituito, la precettistica morale imposta come inquisizione delle coscienze, la mancanza di democrazia nella gestione comunitaria, gli accordi unidirezionali che producono i gruppi fra loro conflittuali.
La Chiesa è di tutti ed è essenziale che si mantenga libera dal potere politico e di casta, e lasci trasparire lo stile di un servizio incondizionato all’uomo, “senza preferenze di persone” o di categorie sociali.
Insisto perché nelle parrocchie si faccia il catechismo della legalità.
  Archivio anno 2009-  Adista documenti n.
5 Adista, 12 gennaio ’09