La dimensione teologico-pastorale della “Caritas in veritate”

Vari i timori che hanno accompagnato la gestazione dell’enciclica: su tutti, la persuasione diffusa e condivisa che i temi sociali non appartenessero alle corde profonde della teologia e della pastorale di Joseph Ratzinger.
Un papa “teologo”: appassionato a questioni di fede e all’affermazione della verità soprattutto ad intra Ecclesiae, solo occasionalmente dedito a questioni ad extra Ecclesiae e soltanto quando si tratti di difendere la possibilità della religione di chiesa nel mondo e nella cultura post-moderni.
1.Carità nella verità: reciproca inclusione di teoria e prassi Invece il primo dato, emergente fin dal titolo, è l’affermazione dell’unità profonda di verità e di carità, di fede creduta e di vita vissuta, di fides quae e di fides qua.
Chi si occupa di teologia pastorale avrà tirato un sospiro di sollievo, ritrovando nella riflessioni introduttive (i nn.
1-7) il filo che trattiene inestricabilmente teoria e prassi, teologia speculativa e teologia pratica.
Su tale filo si regge la teologicità non solo della teologia pastorale ma anche della Dottrina sociale della chiesa, nonchè la loro legittimità, tanto ad intra che ad extra.
Il tema della reciproca inclusione di teoria e di prassi nonchè della loro specificità è giustificato dall’enciclica a partire da un’unità originaria del conoscere, che possiamo qui riassumere come unità di intelligenza e di amore.
Già in Deus caritas est, 10 il papa dimostrava come questo fosse un dato che sporge non solo dall’esperienza umana elementare, ma pure dalla rivelazione cristiana.
Si comprende così perchè la teologia si interessi di tutte le questioni pratiche umane, e dunque anche di quelle sociali.
Che l’azione sia inscritta nella comprensione, è tanto dato originario dell’uomo quanto nota peculiare della Rivelazione cristiana, la cui attestazione non è mai solo informativa, ma sempre performativa: cioè conversione interiore e cambio della vita.
Anche sociale.
2.
La Dottrina sociale ha il suo “luogo” nella Tradizione della fede apostolica “Appartiene da sempre alla verità della fede […] che la Chiesa, essendo a servizio di Dio, è a servizio del mondo in termini di amore e di verità” (n.11).
Tale dato originario è richiamato dal papa attraverso il rapporto che egli stabilisce tra l’enciclica, il Concilio, il magistero sociale precedente e soprattutto la Populorum progressio di Paolo VI (nn.
8-11 e l’intero primo capitolo), omaggiata di un impegnativo riconoscimento: “esprimo la mia convinzione che la Populorum progressio merita di essere considerata come ‘la Rerum novarum’ dell’epoca contemporanea” (n.
8).
Questa unità tra pronunciamenti sociali diversi ma tutti con le medesime radici è spiegata dal papa come sviluppo della Tradizione della fede apostolica (n.
10).
Si tratta di un tema “classico” e in fondo prevedibile in un pontefice che interpreta il Concilio entro l’ermeneutica della continuità.
Ciò che appare se non nuova almeno ribadita con fermezza, è l’uso di una tale ermeneutica per il corpus della Dottrina sociale.
Il che può significare non tanto (come certamente si affanneranno a interpretare – e scrivere – altri, non noi) che al potenziale di emancipazione sociale iscritto nel cristianesimo si vuol mettere la museruola di una riduzione conservatrice, ma che nella chiesa non si è ancora sufficientemente compreso e agito intendendo la Dottrina sociale come “parte integrante della nuova evangelizzazione”.
Dunque come un ambito che non può essere trascurato dalla ordinaria predicazione e dalla pastorale ordinaria delle comunità cristiane.
La Dottrina sociale – nella sua valenza culturale e con la sua pretesa di offrire non solo precetti, ma anche una visione complessiva dell’uomo e della società, coestensiva alla visione cristiana della vita, è un capitolo strutturale del contributo che la fede cristiana può e desidera offrire al superamento della crisi della ragione moderna occidentale, ricollocando l’uomo nella sua costitutiva relazionalità sociale.
3.
Una questione sociale complessa, non solo per via della globalizzazione Tale “crisi antropologica” è in fondo alla base delle molte cose che non vanno anche in economia, politica e sistemi sociali vari (cfr.
n.
34), cosicchè si potrebbe sostenere che la questione sociale oggi viene a coincidere con la “questione antropologica” di ruiniana memoria (cfr.
n.
51).
La carità nella verità vede urgente ricomporre un intero che sia di nuovo l’uomo-non-scisso: in cui, ad esempio, fede e ragione si sostengono e si “allargano” a vicenda, i regni di Dio tornano ad essere uno (e non uno nella mano destra e un altro nella sinistra, come sosteneva Lutero), l’anima e il corpo non si ignorano tra loro, l’individuo sia parte di una società, e più in generale l’uomo non tratti Dio da nemico.
Tali scissioni – per certi versi senz’altro all’origine della modernità, nonchè di quell’esito che è la differenziazione luhmanniana – necessitano di essere risignificate anche nella sfera sociale della vita a partire da un centro.
Questo centro non può essere costitutito da un sottosistema-quale-che-sia (n.34).
La religione cattolica ritiene che dall’incarnazione del Figlio di Dio in poi, un tale centro sia offerto a tutti: in forza dell’unione ipostatica Dio e l’uomo non sono scissi o separati tra loro, così che il papa può sorprendentemente ri-affermare che “l’annuncio di Cristo è il primo e principale fattore di sviluppo” (n.
8; PP n.
16).
Questo sviluppo ‘integrale’ si dà entro un’intelaiatura chel’enciclica tesse tra la questione della vita umana, quella del diritto al vangelo e quella sociale.
Proprio ricalcando il magistero montiniano, Benedetto XVI lega Humanae vitae (HV), Evangelii nuntiandi (EN) e Populorum progressio (PP).
La questione della vita umana (HV), del progresso sociale ed economico (PP) e del diritto al vangelo (EN) si saldano tra loro fondando la dignità inviolabile e l’effettiva possibilità dello sviluppo dei popoli e dei singoli a un livello che non rimanga puramente quello del potere e dell’economia (o del potere dell’economia).
Per quanto affermato fin dall’inizio a proposito del legame tra tra teoria e prassi, risulta chiaro che una certa visione della procreazione umana porta implicito un certo legame o non-legame con il Dio rivelato dal vangelo e dunque un certo modello di rapporti sociali ed economici.
E così via.
Sarà a carico di chi rigetterà l’enciclica esplicitare il proprio apparato teorico a riguardo dell’antropologia e dell’evangelizzazione, implicito in quel rifiuto pratico; e sostenere la congruenza tra la sua posizione e quella espressa da Gesù, così come ci è stata trasmessa finora.
Possibilmente, senza creare nuove scissioni.
4.
Gv 21, 25 a Cioè: “Vi sono ancora molte altre cose…” nell’enciclica che meriterebbero di essere riprese.
Una osservazione si può ancora fare: quanto è bella la chiesa quando non parla solo di se stessa! Quando il sale o il lievito di cui essa dispone vengono immessi dentro la pasta che è la vita del mondo.
Isolare le prese di posizione della Chiesa e trattarle come distillati da laboratorio, senza farli regire con situazioni e contesti concreti, non porta che a un’estenuazione del dato di fede.
A dibattiti che, avvitandosi su se stessi, rendono incomprensibile se non inutile la fede, perchè privata del suo essenziale supposto che è non l’uomo astratto, ma quello reale (cfr.
RH n.
14).
Che pena se la recezione dell’enciclica in Italia si limitasse al dibattito “meglio per la Chiesa lasciar perdere la bioetica e concentrarsi sulle questioni sociali”- come se non esistesse tra loro la connessione di cui sopra! Sarà interessante raccogliere le reazioni e i dibattiti di quanti sono impegnati nella pastorale sociale e nella Caritas, più o meno internationalis: ci aiuteranno a coniugare la carità nella verità? O si perpetueranno – anche qui – le “moderne” scissioni: carità/giustizia, evangelizzazione/promozione umana, impegno sociale/vita spirituale, cittadino/cristiano? ————- *Don Paolo Asolan insegna Teologia Pastorale all’Istituto Pastorale “Redemptor Hominis” della Pontificia Università Lateranense.

Dio o gli dei

GIAMPAOLO CREPALDI , Dio o gli dei.
Dottrina sociale della Chiesa: percorsi, Ediz.
Cantagalli, 2009, ISBN 978-88-8272-440-5.
pp.
192 ,euro 14,50  Benedetto XVI ci sta insegnando che assegnare un posto a Dio nella sfera pubblica è indispensabile perché le energie umane si possano pienamente sviluppare, suscitate dal ”Dio dal volto umano”.
In questa luce, anche la parola della Chiesa e con essa la sua dottrina sociale, acquistano la loro fondamentale importanza.
La Dottrina sociale della Chiesa non è un sapere marginale o residuale.
Essa, come afferma la Deus caritas est, è all’incrocio della fede e della ragione, e interloquisce a pieno titolo con i saperi che presiedono all’organizzazione del mondo.
Ecco l’importante novità di metodo di questo libro.
Vengono affrontati fondamentali problemi dell’età nostra e viene dimostrato sul campo che la Dottrina sociale della Chiesa ha una capacità orientativa insostituibile.

Serve un nuovo inizio per la musica sacra

Temi tradizionali e utilizzo di nuovi linguaggi.
Un connubio per alcuni impossibile, dai più poco frequentato, per tutti quelli che si occupano d’arte sempre più necessario e attuale.
L’argomento diventa spinoso quando si vuole affiancare un soggetto spirituale – in particolare tornando all’antica pratica dell’oratorio – con la grammatica dei moderni linguaggi musicali.
Il Pontificio Consiglio della Cultura si impegna in questo senso ai massimi livelli, coinvolgendosi direttamente con il suo presidente, l’arcivescovo Gianfranco Ravasi, che si è assunto l’onere di sintetizzare il testo biblico dell’Apocalisse per l’oratorio Apokàlypsis del compositore Marcello Panni eseguito per la prima volta il 10 luglio a Spoleto nell’ambito del 52° Festival dei due mondi.
Il tentativo sembra quello di mantenere viva la funzione di riferimento delle grandi narrazioni scritturistiche,  aprendo al tempo stesso un nuovo dialogo con la musica contemporanea.  L’intervista all’arcivescovo Gianfranco Ravasi In che modo avete affrontato il problema con il compositore? Il punto di riferimento emblematico del connubio tra un testo classico e la modernità è il Mosè e Aronne di Schönberg, che è stato concepito un po’ come un oratorio.
Da lì siamo partiti per sposare l’antico al nuovo in una maniera il più possibile armonica.
Con il compositore non abbiamo avuto un rapporto continuo – avrebbe richiesto un tempo enorme, purtroppo non disponibile – ma siamo partiti dalla definizione della qualità del testo, contro ogni tentativo di equivoco.
In qualche modo abbiamo prima di tutto circoscritto il campo.
Ci faccia un esempio pratico.
L’equivoco sempre in agguato quando si parla dell’Apocalisse è considerarla l’oroscopo della fine del mondo, un passo tragico e catastrofico.
Pensiamo ad Apocalypse now di Francis Ford Coppola:  una rappresentazione della distruzione, anche simbolica.
Basti ricordare la danza degli elicotteri che nel film è una sorta di recupero di alcune componenti della marcia dei cavalieri del testo biblico.
Superare questo equivoco significa evitare di produrre un’opera, magari monumentale, ma che non tenga conto di tutte le componenti dell’Apocalisse, dove certo troviamo un accento fortissimo sul male del mondo che inquina e incrina la storia,  ma  anche  un  messaggio  finale di speranza.
In realtà essa, così come è scritta, è un’opera sghemba:  ha venti capitoli sostanzialmente tragici e gli ultimi due luminosissimi.
Sono la vera  meta  del  libro di solito dimenticata.
Quindi non un’adesione diretta tra ogni verso e la musica, non un’esegesi del testo attraverso il suono, ma un lavoro sulla forma.
Il lavoro che ho fatto sul testo tende a preservarlo nella sua sostanza, senza garantirne l’integrità.
Non abbiamo privilegiato l’elemento di speranza penalizzando quello catastrofico, ma gli equilibri fanno sì che ci sia una attesa, non della catastrofe, ma dell’epistrophè, della conversione.
In questo senso la forma è proprio quella dell’Apocalisse in senso stretto, che già per sua natura è drammatica e musicale.
Su queste basi  ho  tentato  di  conservare l’autenticità  del  testo,  cercando  di  evitare il rischio della didascalia.
Dal punto  di  vista  musicale  usare  la banda, con un grande organico, consente di non perdere la dimensione escatologica, nel senso tradizionale del termine.
Che  rapporto c’è tra testo e musica in questo lavoro? Si dà molta importanza alla parola.
C’è sia il cantato, affidato al coro, sia il parlato, da solo o in forma di melologo.
Il testo quindi fiorisce in musica e non è utilizzato come un pretesto.
Come ha scelto le parti da musicare? Ho fatto una selezione divisa in sette quadri – anche per salvaguardare la mistica delle cifre – con un prologo e un glorioso epilogo.
È inoltre prevista una scansione in due parti, per costruire un intervallo pensato come momento di meditazione.
Che rapporto c’è tra il testo originale e la sua riduzione? Il testo c’è in tutte le sue parti, ma non integralmente.
Viene riprodotta cioè la dinamica letteraria dell’Apocalisse.
Non è  un  estratto,  ma  un   condensato che  mantiene  la  struttura dell’originale.
In che senso? Pensiamo alle lettere di apertura, un elemento indispensabile per capire che si tratta di un testo indirizzato alle Chiese.
Il momento delle lettere viene mantenuto, ma se ne privilegiano solo due:  quelle indirizzate alla Chiesa di Efeso e a quella di Laodicea, i due testi di maggiore impatto.
Efeso è la Chiesa più importante, il nodo attorno al quale le altre sei si raccordano, quello rivolto alla Chiesa di Laodicea è un impressionante atto di accusa, di eccezionale modernità.
Poi c’è l’uso dei trittici di settenari, con il gioco del sette e del tre.
La forma poetica viene conservata così come i sette sigilli, le sette coppe o le sette trombe, ma si è cercato di evitare una deriva didascalica e di resistere alla tentazione di introdurre tutti i simboli citati.
L’importante è che permanga la struttura e l’idea simbolica, così come rimangono la grande scena finale del dramma della storia – Babilonia scaraventata nel Mediterraneo – e l’affresco finale della Gerusalemme celeste.
L’Apocalisse è un testo fortemente musicale, che presenta continuamente suoni di trombe e cori.
Come è stato affrontato questo aspetto? I cori più importanti sono stati conservati, ma proposti in latino per sottolinearne la natura liturgica.
Non bisogna infatti dimenticare che una delle interpretazioni dell’Apocalisse è che fosse un testo proprio a uso liturgico.
La voce recitante, invece, consente di presentare un testo articolato capace di rendere l’idea generale della narrazione biblica da cui deriva.
Da un punto di vista estetico – come dicevo – il richiamo è al Mosè e Aronne di Schönberg, dove Aronne canta rappresentando il sacerdote pomposo e anche un po’ il fascino dell’idolatria, mentre Mosè usa il parlato, perché non rappresenta la parola che seduce, ma quella che conquista l’anima e costringe a un’opzione.
In questa  luce  le voci, una maschile e una femminile, hanno proprio la funzione di recuperare la nudità della parola.
Quella che in Schönberg è la contrapposizione tra Mosè e Aronne qui è riprodotta nel rapporto tra coro e voci recitanti.
A eccezione del fatto che il coro cantando non cerca come Aronne di ammaliare, ma rappresenta la liturgia che salva.
Ma perché il coro finale è in greco e non in latino? Quando il testo arriva al suo apice ritorna alla lingua misterica, quella originale del testo, il greco appunto.
Quindi per le ultime frasi, quelle decisive del libro, è stata utilizzata la pronuncia bizantina, cioè quella della liturgia.
Qualcuno però potrebbe non ritrovarsi con la lingua studiata a scuola.
La pronuncia che si insegna ora è infatti una convenzione prevalentemente rinascimentale, mentre quella itacistica che ho usato è bizantina e molto simile a quella del greco che si parla oggi.
Qual è il suo ruolo nell’esecuzione? Quello di strappare la performance al rischio che sia solo un concerto.
L’idea è quella di conservare il senso di meditazione del testo originale.
Il mio intervento non è stato quello del conferenziere che all’inizio spiega cosa si sta per ascoltare, ma si è basato sul modello dell’esecuzione delle passioni nella liturgia protestante.
In quel caso il pastore teneva un sermone prima dell’inizio della musica, un’altra predica era prevista a metà, dove adesso si ricorre spesso a un intervallo, strutturalmente assurdo trattandosi di una passione.
Io ho proposto proprio questo schema, per conservare l’aspetto sacrale in una dimensione esistenziale.
È aperta da tempo la grande questione dell’adeguamento agli stilemi contemporanei della musica liturgica e di quella sacra.
La prima si muove più lentamente, ma per quanto riguarda la musica di argomento sacro è realistico pensare che questa iniziativa segni l’inizio di un rinnovato rapporto tra Chiesa e compositori di oggi? Il tentativo di riaprire un canale di comunicazione in questo senso è in pratica l’unica ragione per cui ho accettato di essere coinvolto personalmente in questo progetto.
L’oratorio fa parte di una strategia più ampia che tende a riallacciare un dialogo con l’arte contemporanea, in tutte le sue sfaccettature.
Si è partiti con l’idea di considerare prima di tutto il rapporto con le arti visive, per esempio stringendo un legame con la Biennale di Venezia nella quale saremo presenti nel 2011.
Abbiamo infatti notato che anche gli artisti che si muovono seguendo la nuova grammatica dei linguaggi contemporanei sentono sempre di più il bisogno di tornare a grandi temi.
Un esempio è quello di Bill Viola, che insiste nei suoi video su dolore, vita, morte, acqua, purificazione.
Dopo avere lavorato sulle arti visive ora bisogna aprire il dialogo sulla musica.
Cominciamo da questo esperimento.
Perché Marcello Panni? È un compositore estremamente competente, che scrive una musica avanzata e capace di comunicare direttamente anche a un pubblico non abituato a certe forme espressive.
Io non esiterei a utilizzare linguaggi anche estremi, alla Cage, ma forse non è ancora il momento.
(©L’Osservatore Romano – 12 luglio 2009)

“Caritas in veritate”.

La  terza enciclica di questo pontificato, firmata dal papa il 29 giugno 2009 e resa pubblica il 7 luglio, “sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità” Il testo integrale dell’enciclica, nel sito del Vaticano: > “Caritas in veritate” 1.
LA CARITÀ NELLA VERITÀ, di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera.
[…] 3.
[…] Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo.
L’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente.
È il fatale rischio dell’amore in una cultura senza verità.
[…] Nella verità la carità riflette la dimensione personale e nello stesso tempo pubblica della fede nel Dio biblico, che è insieme Agápe e Lógos: Carità e Verità, Amore e Parola.
4.
[…] Un cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali.
In questo modo non ci sarebbe più un vero e proprio posto per Dio nel mondo.
Senza la verità, la carità viene relegata in un ambito ristretto e privato di relazioni.
È esclusa dai progetti e dai processi di costruzione di uno sviluppo umano di portata universale, nel dialogo tra i saperi e le operatività.
[…] 28.
Uno degli aspetti più evidenti dello sviluppo odierno è l’importanza del tema del rispetto per la vita, che non può in alcun modo essere disgiunto dalle questioni relative allo sviluppo dei popoli.
Si tratta di un aspetto che negli ultimi tempi sta assumendo una rilevanza sempre maggiore, obbligandoci ad allargare i concetti di povertà e di sottosviluppo alle questioni collegate con l’accoglienza della vita, soprattutto là dove essa è in vario modo impedita.
Non solo la situazione di povertà provoca ancora in molte regioni alti tassi di mortalità infantile, ma perdurano in varie parti del mondo pratiche di controllo demografico da parte dei governi, che spesso diffondono la contraccezione e giungono a imporre anche l’aborto.
Nei paesi economicamente più sviluppati, le legislazioni contrarie alla vita sono molto diffuse e hanno ormai condizionato il costume e la prassi, contribuendo a diffondere una mentalità antinatalista che spesso si cerca di trasmettere anche ad altri Stati come se fosse un progresso culturale.
Alcune organizzazioni non governative, poi, operano attivamente per la diffusione dell’aborto, promuovendo talvolta nei paesi poveri l’adozione della pratica della sterilizzazione, anche su donne inconsapevoli.
Vi è inoltre il fondato sospetto che a volte gli stessi aiuti allo sviluppo vengano collegati a determinate politiche sanitarie implicanti di fatto l’imposizione di un forte controllo delle nascite.
Preoccupanti sono altresì tanto le legislazioni che prevedono l’eutanasia quanto le pressioni di gruppi nazionali e internazionali che ne rivendicano il riconoscimento giuridico.
[…] 29.
C’è un altro aspetto della vita di oggi, collegato in modo molto stretto con lo sviluppo: la negazione del diritto alla libertà religiosa.
Non mi riferisco solo alle lotte e ai conflitti che nel mondo ancora si combattono per motivazioni religiose, anche se talvolta quella religiosa è solo la copertura di ragioni di altro genere, quali la sete di dominio e di ricchezza.
Di fatto, oggi spesso si uccide nel nome sacro di Dio, come più volte è stato pubblicamente rilevato e deplorato dal mio predecessore Giovanni Paolo II e da me stesso.
Le violenze frenano lo sviluppo autentico e impediscono l’evoluzione dei popoli verso un maggiore benessere socio-economico e spirituale.
Ciò si applica specialmente al terrorismo a sfondo fondamentalista, che genera dolore, devastazione e morte, blocca il dialogo tra le Nazioni e distoglie grandi risorse dal loro impiego pacifico e civile.
Va però aggiunto che, oltre al fanatismo religioso che in alcuni contesti impedisce l’esercizio del diritto di libertà di religione, anche la promozione programmata dell’indifferenza religiosa o dell’ateismo pratico da parte di molti paesi contrasta con le necessità dello sviluppo dei popoli, sottraendo loro risorse spirituali e umane.
Dio è il garante del vero sviluppo dell’uomo, in quanto, avendolo creato a sua immagine, ne fonda altresì la trascendente dignità e ne alimenta il costitutivo anelito ad “essere di più”.
[…] 34.
La carità nella verità pone l’uomo davanti alla stupefacente esperienza del dono.
[…] Talvolta l’uomo moderno è erroneamente convinto di essere il solo autore di se stesso, della sua vita e della società.
È questa una presunzione, conseguente alla chiusura egoistica in se stessi, che discende – per dirla in termini di fede – dal peccato delle origini.
[…] La convinzione di essere autosufficiente e di riuscire a eliminare il male presente nella storia solo con la propria azione ha indotto l’uomo a far coincidere la felicità e la salvezza con forme immanenti di benessere materiale e di azione sociale.
La convinzione poi della esigenza di autonomia dell’economia, che non deve accettare “influenze” di carattere morale, ha spinto l’uomo ad abusare dello strumento economico in modo persino distruttivo.
A lungo andare, queste convinzioni hanno portato a sistemi economici, sociali e politici che hanno conculcato la libertà della persona e dei corpi sociali e che, proprio per questo, non sono stati in grado di assicurare la giustizia che promettevano.
Come ho affermato nella mia enciclica “Spe salvi”, in questo modo si toglie dalla storia la speranza cristiana, che è invece una potente risorsa sociale a servizio dello sviluppo umano integrale, cercato nella libertà e nella giustizia.
La speranza incoraggia la ragione e le dà la forza di orientare la volontà.
È già presente nella fede, da cui anzi è suscitata.
La carità nella verità se ne nutre e, nello stesso tempo, la manifesta.
Essendo dono di Dio assolutamente gratuito, irrompe nella nostra vita come qualcosa di non dovuto, che trascende ogni legge di giustizia.
Il dono per sua natura oltrepassa il merito, la sua regola è l’eccedenza.
Esso ci precede nella nostra stessa anima quale segno della presenza di Dio in noi e della sua attesa nei nostri confronti.
La verità, che al pari della carità è dono, è più grande di noi, come insegna sant’Agostino.
[…] 35.
Il mercato, se c’è fiducia reciproca e generalizzata, è l’istituzione economica che permette l’incontro tra le persone, in quanto operatori economici che utilizzano il contratto come regola dei loro rapporti e che scambiano beni e servizi tra loro fungibili, per soddisfare i loro bisogni e desideri.
Il mercato è soggetto ai principi della cosiddetta giustizia commutativa, che regola appunto i rapporti del dare e del ricevere tra soggetti paritetici.
Ma la dottrina sociale della Chiesa non ha mai smesso di porre in evidenza l’importanza della giustizia distributiva e della giustizia sociale per la stessa economia di mercato, non solo perché inserita nelle maglie di un contesto sociale e politico più vasto, ma anche per la trama delle relazioni in cui si realizza.
Infatti il mercato, lasciato al solo principio dell’equivalenza di valore dei beni scambiati, non riesce a produrre quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per ben funzionare.
Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica.
Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare, e la perdita della fiducia è una perdita grave.
Opportunamente Paolo VI nella “Populorum progressio” sottolineava il fatto che lo stesso sistema economico avrebbe tratto vantaggio da pratiche generalizzate di giustizia, in quanto i primi a trarre beneficio dallo sviluppo dei paesi poveri sarebbero stati quelli ricchi.
Non si trattava solo di correggere delle disfunzioni mediante l’assistenza.
I poveri non sono da considerarsi un “fardello”, bensì una risorsa anche dal punto di vista strettamente economico.
È tuttavia da ritenersi errata la visione di quanti pensano che l’economia di mercato abbia strutturalmente bisogno di una quota di povertà e di sottosviluppo per poter funzionare al meglio.
È interesse del mercato promuovere emancipazione, ma per farlo veramente non può contare solo su se stesso, perché non è in grado di produrre da sé ciò che va oltre le sue possibilità.
Esso deve attingere energie morali da altri soggetti, che sono capaci di generarle.
36.
[…] La Chiesa ritiene da sempre che l’agire economico non sia da considerare antisociale.
Il mercato non è, e non deve perciò diventare, di per sé il luogo della sopraffazione del forte sul debole.
La società non deve proteggersi dal mercato, come se lo sviluppo di quest’ultimo comportasse “ipso facto” la morte dei rapporti autenticamente umani.
È certamente vero che il mercato può essere orientato in modo negativo, non perché sia questa la sua natura, ma perché una certa ideologia lo può indirizzare in tal senso.
Non va dimenticato che il mercato non esiste allo stato puro.
Esso trae forma dalle configurazioni culturali che lo specificano e lo orientano.
Infatti, l’economia e la finanza, in quanto strumenti, possono esser mal utilizzati quando chi li gestisce ha solo riferimenti egoistici.
Così si può riuscire a trasformare strumenti di per sé buoni in strumenti dannosi.
Ma è la ragione oscurata dell’uomo a produrre queste conseguenze, non lo strumento di per sé stesso.
Perciò non è lo strumento a dover essere chiamato in causa ma l’uomo, la sua coscienza morale e la sua responsabilità personale e sociale.
La dottrina sociale della Chiesa ritiene che possano essere vissuti rapporti autenticamente umani, di amicizia e di socialità, di solidarietà e di reciprocità, anche all’interno dell’attività economica e non soltanto fuori di essa o “dopo” di essa.
La sfera economica non è né eticamente neutrale né di sua natura disumana e antisociale.
Essa appartiene all’attività dell’uomo e, proprio perché umana, deve essere strutturata e istituzionalizzata eticamente.
La grande sfida che abbiamo davanti a noi, fatta emergere dalle problematiche dello sviluppo in questo tempo di globalizzazione e resa ancor più esigente dalla crisi economico-finanziaria, è di mostrare, a livello sia di pensiero sia di comportamenti, che non solo i tradizionali principi dell’etica sociale, quali la trasparenza, l’onestà e la responsabilità non possono venire trascurati o attenuati, ma anche che nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica.
Ciò è un’esigenza dell’uomo nel momento attuale, ma anche un’esigenza della stessa ragione economica.
Si tratta di una esigenza ad un tempo della carità e della verità.
[…] 42.
[…] La globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva.
Sarà ciò che le persone ne faranno.
[…] I processi di globalizzazione, adeguatamente concepiti e gestiti, offrono la possibilità di una grande ridistribuzione della ricchezza a livello planetario come in precedenza non era mai avvenuto; se mal gestiti, possono invece far crescere povertà e disuguaglianza, nonché contagiare con una crisi l’intero mondo.
[…] 43.
[…] Si assiste oggi a una pesante contraddizione.
Mentre, per un verso, si rivendicano presunti diritti, di carattere arbitrario e voluttuario, con la pretesa di vederli riconosciuti e promossi dalle strutture pubbliche, per l’altro verso, vi sono diritti elementari e fondamentali disconosciuti e violati nei confronti di tanta parte dell’umanità.
Si è spesso notata una relazione tra la rivendicazione del diritto al superfluo o addirittura alla trasgressione e al vizio, nelle società opulente, e la mancanza di cibo, di acqua potabile, di istruzione di base o di cure sanitarie elementari in certe regioni del mondo del sottosviluppo e anche nelle periferie di grandi metropoli.
La relazione sta nel fatto che i diritti individuali, svincolati da un quadro di doveri che conferisca loro un senso compiuto, impazziscono e alimentano una spirale di richieste praticamente illimitata e priva di criteri.
L’esasperazione dei diritti sfocia nella dimenticanza dei doveri.
[…] 44.
[…] Considerare l’aumento della popolazione come causa prima del sottosviluppo è scorretto, anche dal punto di vista economico: basti pensare, da una parte, all’importante diminuzione della mortalità infantile e il prolungamento della vita media che si registrano nei paesi economicamente sviluppati; dall’altra, ai segni di crisi rilevabili nelle società in cui si registra un preoccupante calo della natalità.
Resta ovviamente doveroso prestare la debita attenzione ad una procreazione responsabile, che costituisce, tra l’altro, un fattivo contributo allo sviluppo umano integrale.
La Chiesa, che ha a cuore il vero sviluppo dell’uomo, gli raccomanda il pieno rispetto dei valori umani anche nell’esercizio della sessualità: non la si può ridurre a mero fatto edonistico e ludico, così come l’educazione sessuale non si può ridurre a un’istruzione tecnica, con l’unica preoccupazione di difendere gli interessati da eventuali contagi o dal “rischio” procreativo.
[…] L’apertura moralmente responsabile alla vita è una ricchezza sociale ed economica.
Grandi nazioni hanno potuto uscire dalla miseria anche grazie al grande numero e alle capacità dei loro abitanti.
Al contrario, nazioni un tempo floride conoscono ora una fase di incertezza e in qualche caso di declino proprio a causa della denatalità, problema cruciale per le società di avanzato benessere.
La diminuzione delle nascite, talvolta al di sotto del cosiddetto “indice di sostituzione”, mette in crisi anche i sistemi di assistenza sociale, ne aumenta i costi, contrae l’accantonamento di risparmio e di conseguenza le risorse finanziarie necessarie agli investimenti, riduce la disponibilità di lavoratori qualificati, restringe il bacino dei “cervelli” a cui attingere per le necessità della nazione.
Inoltre, le famiglie di piccola, e talvolta piccolissima, dimensione corrono il rischio di impoverire le relazioni sociali, e di non garantire forme efficaci di solidarietà.
Sono situazioni che presentano sintomi di scarsa fiducia nel futuro come pure di stanchezza morale.
Diventa così una necessità sociale, e perfino economica, proporre ancora alle nuove generazioni la bellezza della famiglia e del matrimonio, la rispondenza di tali istituzioni alle esigenze più profonde del cuore e della dignità della persona.
In questa prospettiva, gli Stati sono chiamati a varare politiche che promuovano la centralità e l’integrità della famiglia, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, prima e vitale cellula della società.
[…] 45.
[…] Oggi si parla molto di etica in campo economico, finanziario, aziendale.
[…] È bene, tuttavia, elaborare anche un valido criterio di discernimento, in quanto si nota un certo abuso dell’aggettivo “etico” che, adoperato in modo generico, si presta a designare contenuti anche molto diversi, al punto da far passare sotto la sua copertura decisioni e scelte contrarie alla giustizia e al vero bene dell’uomo.
Molto, infatti, dipende dal sistema morale di riferimento.
Su questo argomento la dottrina sociale della Chiesa ha un suo specifico apporto da dare, che si fonda sulla creazione dell’uomo “ad immagine di Dio” (Genesi 1, 27), un dato da cui discende l’inviolabile dignità della persona umana, come anche il trascendente valore delle norme morali naturali.
Un’etica economica che prescindesse da questi due pilastri rischierebbe inevitabilmente di perdere la propria connotazione e di prestarsi a strumentalizzazioni; più precisamente essa rischierebbe di diventare funzionale ai sistemi economico-finanziari esistenti, anziché correttiva delle loro disfunzioni.
Tra l’altro, finirebbe anche per giustificare il finanziamento di progetti che etici non sono.
[…] 56.
La religione cristiana e le altre religioni possono dare il loro apporto allo sviluppo solo se Dio trova un posto anche nella sfera pubblica, con specifico riferimento alle dimensioni culturale, sociale, economica e, in particolare, politica.
La dottrina sociale della Chiesa è nata per rivendicare questo “statuto di cittadinanza” della religione cristiana.
[…] La ragione ha sempre bisogno di essere purificata dalla fede, e questo vale anche per la ragione politica, che non deve credersi onnipotente.
A sua volta, la religione ha sempre bisogno di venire purificata dalla ragione per mostrare il suo autentico volto umano.
La rottura di questo dialogo comporta un costo molto gravoso per lo sviluppo dell’umanità.
57.
Il dialogo fecondo tra fede e ragione non può che rendere più efficace l’opera della carità nel sociale e costituisce la cornice più appropriata per incentivare la collaborazione fraterna tra credenti e non credenti nella condivisa prospettiva di lavorare per la giustizia e la pace dell’umanità.
[…] Manifestazione particolare della carità e criterio guida per la collaborazione fraterna di credenti e non credenti è senz’altro il principio di sussidiarietà, espressione dell’inalienabile libertà umana.
La sussidiarietà è prima di tutto un aiuto alla persona, attraverso l’autonomia dei corpi intermedi.
Tale aiuto viene offerto quando la persona e i soggetti sociali non riescono a fare da sé e implica sempre finalità emancipatrici, perché favorisce la libertà e la partecipazione in quanto assunzione di responsabilità.
La sussidiarietà rispetta la dignità della persona, nella quale vede un soggetto sempre capace di dare qualcosa agli altri.
Riconoscendo nella reciprocità l’intima costituzione dell’essere umano, la sussidiarietà è l’antidoto più efficace contro ogni forma di assistenzialismo paternalista.
Essa può dar conto sia della molteplice articolazione dei piani e quindi della pluralità dei soggetti, sia di un loro coordinamento.
Si tratta quindi di un principio particolarmente adatto a governare la globalizzazione e a orientarla verso un vero sviluppo umano.
Per non dar vita a un pericoloso potere universale di tipo monocratico, il governo della globalizzazione deve essere di tipo sussidiario, articolato su più livelli e su piani diversi, che collaborino reciprocamente.
La globalizzazione ha certo bisogno di autorità, in quanto pone il problema di un bene comune globale da perseguire; tale autorità, però, dovrà essere organizzata in modo sussidiario e poliarchico, sia per non ledere la libertà sia per risultare concretamente efficace.
[…] 67.
Di fronte all’inarrestabile crescita dell’interdipendenza mondiale, è fortemente sentita, anche in presenza di una recessione altrettanto mondiale, l’urgenza della riforma sia dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che dell’architettura economica e finanziaria internazionale.
[…] Urge la presenza di una vera Autorità politica mondiale, quale è stata già tratteggiata dal mio predecessore, il beato Giovanni XXIII.
Una simile Autorità dovrà essere regolata dal diritto, attenersi in modo coerente ai principi di sussidiarietà e di solidarietà, essere ordinata alla realizzazione del bene comune, impegnarsi nella realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale ispirato ai valori della carità nella verità.
Tale Autorità inoltre dovrà essere da tutti riconosciuta, godere di potere effettivo per garantire a ciascuno la sicurezza, l’osservanza della giustizia, il rispetto dei diritti.
Ovviamente, essa deve godere della facoltà di far rispettare dalle parti le proprie decisioni, come pure le misure coordinate adottate nei vari fori internazionali.
In mancanza di ciò, infatti, il diritto internazionale, nonostante i grandi progressi compiuti nei vari campi, rischierebbe di essere condizionato dagli equilibri di potere tra i più forti.
Lo sviluppo integrale dei popoli e la collaborazione internazionale esigono che venga istituito un grado superiore di ordinamento internazionale di tipo sussidiario per il governo della globalizzazione.
[…] 75.
[…] Oggi occorre affermare che la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica, nel senso che essa implica il modo stesso non solo di concepire, ma anche di manipolare la vita, sempre più posta dalle biotecnologie nelle mani dell’uomo.
La fecondazione in vitro, la ricerca sugli embrioni, la possibilità della clonazione e dell’ibridazione umana nascono e sono promosse nell’attuale cultura del disincanto totale, che crede di aver svelato ogni mistero, perché si è ormai arrivati alla radice della vita.
Qui l’assolutismo della tecnica trova la sua massima espressione.
In tale tipo di cultura la coscienza è solo chiamata a prendere atto di una mera possibilità tecnica.
Non si possono tuttavia minimizzare gli scenari inquietanti per il futuro dell’uomo e i nuovi potenti strumenti che la “cultura della morte” ha a disposizione.
Alla diffusa, tragica, piaga dell’aborto si potrebbe aggiungere in futuro, ma è già surrettiziamente “in nuce”, una sistematica pianificazione eugenetica delle nascite.
Sul versante opposto, va facendosi strada una “mens eutanasica”, manifestazione non meno abusiva di dominio sulla vita, che in certe condizioni viene considerata non più degna di essere vissuta.
Dietro questi scenari stanno posizioni culturali negatrici della dignità umana.
Queste pratiche, a loro volta, sono destinate ad alimentare una concezione materiale e meccanicistica della vita umana.
Chi potrà misurare gli effetti negativi di una simile mentalità sullo sviluppo? Come ci si potrà stupire dell’indifferenza per le situazioni umane di degrado, se l’indifferenza caratterizza perfino il nostro atteggiamento verso ciò che è umano e ciò che non lo è? Stupisce la selettività arbitraria di quanto oggi viene proposto come degno di rispetto.
Pronti a scandalizzarsi per cose marginali, molti sembrano tollerare ingiustizie inaudite.
Mentre i poveri del mondo bussano ancora alle porte dell’opulenza, il mondo ricco rischia di non sentire più quei colpi alla sua porta, per una coscienza ormai incapace di riconoscere l’umano.
Dio svela l’uomo all’uomo; la ragione e la fede collaborano nel mostrargli il bene, solo che lo voglia vedere; la legge naturale, nella quale risplende la Ragione creatrice, indica la grandezza dell’uomo, ma anche la sua miseria quando egli disconosce il richiamo della verità morale.
[…] 78.
Senza Dio l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia.
[…] La chiusura ideologica a Dio e l’ateismo dell’indifferenza, che dimenticano il Creatore e rischiano di dimenticare anche i valori umani, si presentano oggi tra i maggiori ostacoli allo sviluppo.
L’umanesimo che esclude Dio è un umanesimo disumano.
[…] 79.
Lo sviluppo ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio nel gesto della preghiera, cristiani mossi dalla consapevolezza che l’amore pieno di verità, “caritas in veritate”, da cui procede l’autentico sviluppo, non è da noi prodotto ma ci viene donato.
[…] L’anelito del cristiano è che tutta la famiglia umana possa invocare Dio come “Padre nostro!”.
Insieme al Figlio unigenito, possano tutti gli uomini imparare a pregare il Padre e a chiedere a Lui, con le parole che Gesù stesso ci ha insegnato, di saperlo santificare vivendo secondo la sua volontà, e poi di avere il pane quotidiano necessario, la comprensione e la generosità verso i debitori, di non essere messi troppo alla prova e di essere liberati dal male.
[…] __________

Pavel Florenskij

Come anticipazione alla mostra su Pavel Florenskij che sarà allestita in occasione del prossimo Meeting di Rimini, la rivista “La nuova Europa” ripropone nel terzo numero di quest’anno un suo profilo scritto da uno dei protagonisti della rinascita religiosa in Urss.
Ne pubblichiamo alcuni stralci.
Eccoci, dunque, a parlare di Pavel Florenskij.
Non basterebbero neppure dieci incontri per trattare particolareggiatamente l’opera letteraria, scientifica e filosofica di quest’uomo, figurarsi uno solo.
Ma il mio compito è semplice.
Come negli incontri precedenti, vorrei che sentiste, che vedeste la figura di quest’uomo, il suo stile di pensiero, che riusciste a gettare uno sguardo sul suo percorso creativo ed esistenziale.
Si tratta di un personaggio che ha avuto un destino molto, molto speciale.
Infatti, la maggior parte dei pensatori religiosi russi di cui abbiamo parlato sono stati espulsi dal Paese o l’hanno lasciato di propria volontà, e il loro destino è rimasto legato all’emigrazione russa.
Florenskij è stato uno dei pochi a rimanere qui.
Non solo, Florenskij è una persona di cui non si può dare una definizione univoca.
Un ingegnere? Sì, ha brevettato trenta invenzioni, in epoca sovietica.
Un filosofo? Sì, uno dei più luminosi interpreti del platonismo, uno dei più brillanti platonici russi.
Un poeta? Sì, forse non grandissimo, ma che comunque ha composto versi e ha pubblicato un libro di poesie, che è stato amico di Andrej Belyj ed è cresciuto nell’atmosfera dei simbolisti.
Un matematico? Sì, un discepolo del celebre professor Bugaev, padre di Andrej Belyj, che ha formulato teorie molto interessanti in questo campo; un uomo che, contemporaneamente e indipendentemente da Aleksandr Fridman, lo scienziato di Pietrogrado oggi famoso, era arrivato all’idea dello spazio curvo.
Fridman è il padre della teoria dell’universo in espansione, che aveva formulato sulla base delle equazioni di Einstein.
E Florenskij si era avvicinato molto a questa teoria proprio nello stesso periodo, nel 1922, mentre lavorava al capo opposto del Paese.
Il pensiero di Florenskij si estendeva alla storia dell’arte che era, si può dire, la sua seconda professione (o la terza, o la decima, se si vuole).
Florenskij era un fine teologo.
Un erudito.
Padre Vasilij Zen’kovskij, autore di una monumentale Storia della filosofia russa, parla della sua impressionante erudizione.
Persone che avevano conosciuto Florenskij, mi hanno raccontato che poteva dare risposte circostanziate praticamente a qualsiasi domanda nei più diversi campi delle scienze umane e tecniche.
Florenskij era uno storico, sebbene le tematiche storiche siano poco presenti nelle sue opere, era tuttavia un archeologo, autore di numerose brevi monografie e saggi sull’arte russa antica e medievale, sull’iconografia, sulle piccole sculture.
Lavorava instancabilmente.
Era una persona che Vernadskij’ stimava e apprezzava.
Nelle loro ricerche scientifiche, operavano nello stesso alveo.
Purtroppo, non tutte le opere di Florenskij sono state ancora pubblicate; tuttavia oggi si può dire che la sua figura, sebbene sia stata e sia tutt’ora discussa, ha senz’altro un valore immenso.
Del resto, tutti i grandi personaggi hanno suscitato delle discussioni: da Puskin a Leonardo da Vinci…
Quelli di cui non si discute, non interessano a nessuno.
Florenskij era legato all’università di Mosca, ai progetti e agli istituti per l’elettrificazione del Paese, inoltre era professore dell’Accademia teologica di Mosca, docente di storia della filosofia; al tempo stesso era redattore della rivista “Bogoslovskij vestnik”.
La molteplicità di interessi era emersa in lui sin dall’infanzia, lo chiamavano il Leonardo da Vinci russo.
Ma quando diciamo “Leonardo da Vinci”, ci viene in mente un maestoso vegliardo, che guarda l’umanità dall’alto dei suoi anni.
Florenskij, invece, è morto giovane.
Era scomparso.
Arrestato nel 1933, era sparito e i suoi familiari, moglie e figli, non sapevano dove fosse, né cosa gli fosse accaduto: lo ignorarono per molto tempo, perché nel 1937 gli avevano tolto il diritto di corrispondenza.
Mi ricordo quando con la mamma camminavo per Zagorsk, in tempo di guerra, lei salutava la moglie di Florenskij e diceva: “Questa donna sta portando un’enorme croce”.
E mi spiegava che non sapeva cosa fosse accaduto al marito.
Anche mio padre a quel tempo era appena stato liberato dalla detenzione e io, sebbene fossi abbastanza giovane, capivo cosa voleva dire.
In realtà, a quell’epoca Florenskij era già morto.
Ai tempi di Chruscëv, nel 1958, sua moglie aveva chiesto la riabilitazione, e aveva ricevuto un certificato in cui si attestava che Florenskij era morto nel 1943, ossia alla fine della condanna.
Infatti nel 1933 gli avevano dato dieci anni, come a un pericoloso delinquente.
Sì, quando io e la mamma parlavamo della sua sorte, lui ormai non c’era già più.
Questo è il certificato di morte che i familiari hanno ricevuto solo ora, nel novembre dello scorso anno.
“Certificato di morte (eccetera)…
Il cittadino Florenskij Pavel Aleksandrovich…
è deceduto l’8 dicembre 1937…
Età: 55 anni [non è vero, ne aveva 56]…
Causa del decesso: fucilazione…
Luogo del decesso: …
regione di Leningrado”.
Un uomo che, alcuni mesi prima di questi eventi, trovandosi ai lavori forzati in condizioni infernali, proseguiva attivamente il suo lavoro di ricerca; un uomo che aveva una profonda vita spirituale, intellettuale, che trasmetteva ai figli le sue ricche conoscenze.
Fino al 1937, infatti, ebbe il permesso di scrivere, e vi furono persino dei momenti in cui la famiglia poté andarlo a trovare.
Di un uomo come lui può andare fiera qualsiasi civiltà: sta sullo stesso piano di Pascal, di Teilhard de Chardin, di molti studiosi e pensatori di tutti i tempi e popoli.
Fra i filosofi russi, Florenskij era il più apolitico.
Tutto immerso nei suoi pensieri, nel suo lavoro, stava sempre un po’ in disparte dalla vita pubblica.
Eppure, preferirono fucilarlo.
Assieme a questo certificato, il Kgb ha consegnato ai familiari la copia della “Sentenza della trojka dell’Unkvd, verbale n.
199 del 25 gennaio 1937 in merito al condannato alla pena capitale Florenskij Pavel Aleksandrovich.
La condanna è stata eseguita l’8 dicembre 1937, il che è attestato dal presente atto”.
Seguono le firme, come in tutti i documenti di cancelleria.
C’è anche una fotografia allegata: un uomo con il volto segnato dalle percosse, che ha toccato il fondo, perché lo hanno straziato e torturato.
Ecco in che epoca siamo vissuti.
Pavel (…) aveva una predilezione per le pietre, le piante, i colori: in questo senso assomiglia molto a Teilhard de Chardin, che pure, da bambino, provava tenerezza per la materia, era, oserei dire, innamorato della materia.
Per Florenskij questo era iniziato dall’infanzia.
Forse il mondo delle persone gli era persino estraneo e talvolta opprimente.
Almeno tre profonde crisi interiori colpirono la vita di Pavel Aleksandrovich.
La prima fu una crisi salutare, nel periodo della giovinezza, quando Florenskij, cresciuto in una famiglia non religiosa, lontana dalla Chiesa, a un certo punto comprese l’inconsistenza della visione materialistica del mondo, e si mise a cercare appassionatamente una via d’uscita.
Vi fu un’altra grave crisi, per così dire personale, quando cercò di compiere da sé la propria vita.
Per uno come lui non era affatto semplice portare il proprio fardello, il peso di se stesso.
Un suo conoscente mi ha raccontato che Florenskij gli aveva detto, scherzando, che dal punto di vista logico era in grado di dimostrare, e in modo molto convincente, cose assolutamente contraddittorie.
Il suo intelletto era una macchina colossale, ma al tempo stesso Florenskij non era solo un uomo astratto, era un uomo profondamente appassionato.
Berdjaev ricorda di aver visto Florenskij da giovane in un monastero, da uno starec dove lo avevano portato alcuni amici devoti: stava in piedi in mezzo alla chiesa e piangeva, singhiozzando…
Una vita tutt’altro che semplice, la sua.
Infine, a 42 anni, sopraggiunse un’altra crisi, senza contare quella immediatamente precedente alla rivoluzione, quando Florenskij stava scrivendo il libro su Chomjakov.
O meglio, non proprio su Chomjakov, si trattava dello studio critico di un’opera su Chomjakov.
E in questo studio avanzava tutta una serie di tesi, che suscitarono la dura reazione dei suoi amici ultraortodossi.
Questi era un ex tolstojano, passato poi all’ortodossia, una persona molto buona e cordiale ma che, non avendo una forma mentis filosofica, apprezzava moltissimo Chomjakov.
La critica a Chomjakov lo aveva messo così in subbuglio, che Novosëlov era partito di gran carriera per Sergiev Posad, aveva raggiunto Florenskij e per tutta la notte l’aveva rimproverato, finché padre Pavel, scrollando la testa, non aveva detto: “Non scriverò più niente di teologia”.
Non doveva essere stato semplice, per un uomo come lui, autore di un libro celebre come La colonna e il fondamento della verità, lasciarsi sfuggire un’espressione del genere.
Di fatto, dopo questo episodio Florenskij non avrebbe più scritto su argomenti filosofico-religiosi.
La sua ultima opera del genere, quasi un commiato dal mondo strettamente teologico, sono le sue lezioni sulla filosofia del culto.
Sono state pubblicate postume solo moltissimi anni dopo, e forse sono state quelle che hanno suscitato le maggiori critiche.
Era una persona difficile e contraddittoria, padre Pavel.
Si era laureato brillantemente in matematica all’università di Mosca, dove aveva subito ottenuto una cattedra.
La matematica era per lui come il fondamento dell’universo.
Alla fine, era arrivato a pensare che tutta la natura visibile, in sostanza, può essere ridotta a dei punti d’appoggio invisibili.
Per questo amava tanto Platone, infatti per quest’ultimo l’invisibile è la fonte di ciò che è visibile.
Florenskij amò, studiò, commentò Platone per tutta la vita.
Non c’è da meravigliarsene.
Il filosofo inglese Whitehead diceva che tutta la filosofia mondiale non è che una serie di note in calce a Platone.
Il pensiero di Platone ha definito una volta per tutte le linee principali dello spirito e del pensiero umano.
Negli anni in cui era studente, Florenskij fu molto influenzato da Vladimir Solov’ëv.
Bisogna dire che entrambi erano platonici, che ad entrambi stava a cuore il problema del fondamento spirituale dell’essere e il tema misterioso della Sofia-Sapienza Divina.
Forse per questo Florenskij cercava di prendere le distanze da Solov’ëv, quasi non lo cita e se lo cita, lo fa in modo critico.
Eppure, nella storia del pensiero i due sono molto vicini, molto più di quanto lo stesso Florenskij potesse sospettare.
Ma la matematica non rimase la sua preferita per tutta la vita.
Florenskij abbandonò la scienza, si trasferì a Sergiev Posad ed entrò all’Accademia teologica.
Andrej Belyj, che l’aveva conosciuto in quegli anni, parla con tenerezza e ironia di questo giovane dai capelli lunghi; dice che lo chiamavano “il naso coi riccioli”, perché Florenskij aveva un viso olivastro, ereditato dalla madre armena, un naso come quello di Gogol’ e lunghi capelli ondulati.
Era basso di statura e di costituzione esile.
Parlava a bassa voce, soprattutto dopo essersi stabilito nel monastero: senza volere aveva fatto proprio il comportamento monastico.
Quando nel 1909 venne inaugurato il monumento a Gogol’ (il vero monumento a Gogol’, quello che ora sta nel cortile, non quella specie di idolo che c’è adesso), quando fu tolto il drappo un uomo esclamò: “Ma questo è Pavlik!”.
In effetti, la figura curva, i capelli, il naso somigliavano straordinariamente a quelli di Florenskij.
Lo scrittore religioso Sergej Fudel, figlio del noto sacerdote moscovita Iosif Fudel’, da giovane aveva conosciuto Florenskij.
Mi descriveva il suo aspetto esteriore, i suoi gesti, e diceva che assomigliava a un affresco egiziano che aveva preso vita.
Raccontava che poteva ascoltarlo a lungo quando parlava con suo padre a voce sommessa.
Non era sempre chiaro di cosa stessero parlando, nei loro discorsi si mescolavano tanti argomenti: la moda femminile, che era un indicatore preciso dello stile della civiltà del tempo; le esperienze occulte; il mistero dei colori delle icone; i significati misteriosi, profondi, delle parole.
Florenskij conservò per tutta la vita un interesse filologico e filosofico per il significato delle parole.
Pavel Aleksandrovich aveva un amico, Sergej Troickij, cui era molto legato in gioventù.
La separazione da quest’ultimo lo ferì dolorosamente: Troickij andò a Tbilisi e, di lì a pochi anni, perì in circostanze tragiche.
A lui Florenskij dedicò il suo libro principale, La colonna e il fondamento della verità, scritto da un uomo che era passato attraverso una tempesta di dubbi.
(…) E questa tempesta ha lasciato il segno nell’opera.
Il sottotitolo è “saggio di teodicea ortodossa”.
Se pensate che sia un trattato nel quale viene esposta in modo coerente e sistematico una certa concezione, vi sbagliate.
Qui non ci sono capitoli, ma lettere indirizzate a un amico.
Ed è fatto volutamente.
Proprio per questo, fra l’altro, il saggio aveva suscitato tanto disaccordo negli ambienti accademici.
Florenskij, per la pubblicazione del libro, volle che fosse stampato in un carattere particolare.
A ogni capitolo vi erano delle vignette, prese da un trattato latino del XVIII secolo, accompagnate da frasi molto laconiche e commoventi.
Quasi ogni capitolo si apriva con un’introduzione lirica.
Un libro dottissimo, in cui i commenti scientifici occupano quasi la metà del testo, con migliaia e migliaia di citazioni da autori antichi e moderni, era scritto come un diario lirico! Che cos’era? Un capriccio? No, era quello che di lì a poco in Europa avrebbero chiamato filosofia esistenziale.
Non filosofia della teoria, bensì filosofia dell’uomo, dell’uomo vivo.
(©L’Osservatore Romano – 10 luglio 2009)

Testrimoni del nostro tempo: Padre Pio

Ricordo di padre Pio Il frate e il sindaco socialista di Giuseppe Tamburrano Presidente della Fondazione Nenni La visita che il Papa farà alla tomba di padre Pio mi emoziona come figlio di San Giovanni Rotondo.
Una visita molto significativa perché non tutti nella Chiesa hanno amato il frate con le stimmate.
Ed evoca in me il ricordo di un villaggio contadino, di un piccolo convento francescano aggrappato alla roccia della montagna, di quel cappuccino con le mani piagate nei guanti e un volto sorridente, circondato dalla devozione quasi clandestina di pochi.
Non riesco a dissociare quelle mani e quel volto dai ricordi della mia prima giovinezza, ragazzo vivace, irriverente, propenso più a combattere per il paradiso sulla terra che ad aspirare a quello dei cieli.
Ribelle, ma padre Pio col suo sorriso dolce e ironico mi placava.
Mi voleva bene: chissà perché.
Forse perché sentiva in me il laico cristiano.
È stampato vividissimo nella mia memoria il suo viso trasfigurato, sofferente e rigato di lacrime mentre mi porge l’ostia della prima comunione.
Dopo le quotidiane sassaiole contro la squadra dei figli dei “signori” io, caporione della squadra dei figli dei “cafoni”, andavo al convento a preparare le recite che la maestra Cleonice organizzava in onore di padre Pio – ricordo sant’Agnese, interpretata da una bionda, eterea fanciulla che fu il mio primo amore: io ero nelle vesti del centurione Vinicio, convertito da Agnese – o a esercitarmi per le mie esibizioni canore: ricordo l’Ideale del Tosti che ho cantato accompagnato all’organo dal sacerdote Di Gioia.
E ricordo soprattutto l’atmosfera triste della mia casa, il volto afflitto di mio padre nel cavo della sua mano e i profondi, dolorosi sospiri di mia madre.
Mio padre, figlio di contadini, riuscì a laurearsi in giurisprudenza grazie ai sacrifici dei genitori.
Ma la passione politica lo infiammò più dell’agone forense.
Fu il leader del Partito socialista e fu eletto sindaco nelle elezioni dell’ottobre 1920.
Di quel tragico ottobre che, il giorno 14, registrò quattordici cadaveri e molti feriti tra i proletari – tante donne! – che volevano issare la bandiera rossa sul municipio e furono ricevuti a colpi di arma da fuoco dalla forza pubblica e dagli agrari.
Il destino di mio padre fu segnato: l’emarginazione sociale e civile e la miseria dell’esiliato in patria.
Mia madre apparteneva a una buona famiglia borghese e quanto era mite mio padre tanto ella era orgogliosa.
E la vedo curva sulla macchina da cucire Singer o con l’ago da ricamo lavorare per le sue “amiche” dell’establishment fascista.
E ricordo la zia Annina che viveva sola in una modesta abitazione ma godeva di buone rendite che divideva con la nipote prediletta: “Giusè, va’ a trovare zia Annina”, si raccomandava mia madre.
E mio padre, senza clienti e senza amici (tutti diventati fascisti) non diceva nulla: subiva, viveva triste, assente.
Dopo ho capito perché non voleva vedermi vestito da balilla moschettiere andare alle adunanze del sabato fascista.
“Tu lo vedi ora spento.
Avresti dovuto vederlo qualche anno fa: sembrava un leone con l’abbondante chioma al vento e la voce calda nei comizi proletari” mi diceva mia madre.
Ebbene quest’uomo mite, onesto, umiliato, escluso dal consorzio civile del paese trovò in padre Pio un vero amico, un cuore fraterno, una mente intelligente che sapeva come nessuno farlo sorridere e dargli la forza della speranza.
E non gli chiese mai: perché non entri in chiesa? Prima di morire, mio padre, cristiano autentico per tutta la vita, riconobbe il Dio cattolico.
(©L’Osservatore Romano – 21 giugno 2009  Due sono le principali fonti autobiografiche  di  padre Pio.
La prima è senz’altro costituita dal suo Epistolario (i-iv, San Giovanni Rotondo, 1992).
Il primo volume, in particolare, ha un valore notevole essendovi raccolta la corrispondenza con i direttori spirituali nella quale il cappuccino svela gran parte della sua interiorità.
Vi sono poi le risposte giurate e sottoscritte da padre Pio davanti al visitatore apostolico, il vescovo Raffaello Carlo Rossi, nel 1921.
Si tratta di 142 dichiarazioni fino a poco tempo fa sconosciute, nelle quali il cappuccino rivela importanti e a volte decisivi aspetti della sua vita spirituale e mistica.
Durante l’esame stimmatico condotto dal visitatore apostolico, peraltro, padre Pio spiega fenomeni sinora ignoti relativi alle sue piaghe.
Tale documento è ora pubblicato integralmente nel libro Padre Pio sotto inchiesta.
L’autobiografia segreta (Milano, Edizioni Ares, 2008, pagine 328, euro 14, a cura di chi scrive).
Oltre alle fonti ricordate prima, sono state e certamente ne verranno pubblicate altre – cartoline, lettere, auguri e così via – che, per quantità e contenuto saranno però difficilmente avvicinabili al valore delle prime due.
Circa le fonti testimoniali, di notevole rilevanza sono gli appunti di uno dei suoi direttori spirituali, editi nel Diario di Agostino da San Marco in Lamis, (San Giovanni Rotondo, 2003).
Possono poi essere utilmente lette le pubblicazioni di memorie o diari di tanti figli spirituali.
Richiedono tuttavia un attento vaglio critico.
Su san Pio, biografie scientifiche definitive non esistono giacché molti archivi – soprattutto quelli del Sant’Uffizio e dell’Archivio Segreto Vaticano – non sono ancora completamente esplorabili.
Tra le numerose biografie – spesso divulgative, ora devote, ora prevenute in senso opposto – segnaliamo quelle di Alessandro da Ripabottoni, Padre Pio da Pietrelcina.
“Il cireneo di tutti” (San Giovanni Rotondo, 1991); di Ferdinando da Riese, Padre Pio da Pietrelcina, croficisso senza croce (San Giovanni Rotondo, 1984) e di Yves Chyron, Padre Pio.
Le stigmatisé (Paris, 2004).
A queste opere va affiancata la lettura di monografie su questioni particolari.
Su tali argomenti ricordiamo Un tormentato settennio (1918-1925) nella vita di padre Pio da Pietrelcina di Giuseppe Saldutto (Roma, 1974, con buona ricostruzione storica); Alla scuola spirituale di padre Pio da Pietrelcina di Melchiorre da Pobladura (San Giovanni Rotondo, 1978); Il Calvario di padre Pio, i-ii di Giuseppe Pagnossin (Padova, 1978); I casi di morale di padre Pio di Luigi Di Matteo (San Giovanni Rotondo, 1991), Don Luigi Orione e padre Pio da Pietrelcina.
Nel decennio della tormenta.
1923-1933.
Fatti e documenti, di Flavio Peloso (Milano, 1999); Il beato Pio da Pietrelcina di Gerardo Di Flumeri (San Giovanni Rotondo, 2001); Il divenire inquieto di un desiderio di santità.
Padre Pio da Pietrelcina:  saggio psicologico di Giuseppe Esposito e Silvana Consiglio (Siena, 2002); L’itinerario di fede di padre Pio da Pietrelcina nell’Epistolario di Luigi La Vecchia (San Giovanni Rotondo, 2003); Nella comunione dei santi.
Santa Gemma Galgani a san Pio da Pietrelcina di Luca Lucchini (Città del Vaticano, 2005) e L’epistolario di padre Pio.
Una lettura mistagogica di Luciano Lotti (San Giovanni Rotondo, 2006).
Tra gli studi recenti, di valore appare il volume di Carmelo Pellegrino, Oltre la sapienza di parola.
Paolo di Tarso e Pio da Pietrelcina:  linee didattiche cristiane tra antichità e novità (San Giovanni Rotondo, 2007).
Per uno studio sulla stigmatizzazione del frate fondamentale appare la lettura dei lavori di Johannes Hocht, Träger der Wundmale Christi (Stein am Rhein, 1964) e di quelli curati da Gerardo di Flumeri Le stigmate di padre Pio da Pietrelcina:  testimonianze, relazioni (San Giovanni Rotondo, 1985); La trasverberazione di padre Pio da Pietrelcina (San Giovanni Rotondo, 1985); Atti del convegno di studio sulle stigmate del servo di Dio padre Pio da Pietrelcina (San Giovanni Rotondo, 1988).
Sul rapporto di padre Pio con Giovanni Paolo II, ricordiamo il documento autobiografico del Pontefice pubblicato nel libro di Stefano Campanella, Il Papa e il frate (San Giovanni Rotondo, 2007); circa la terza lettera di Wojtyla a padre Pio, rimandiamo all’articolo di chi scrive, La terza lettera di monsignor Wojtyla a padre Pio, pubblicato nella rivista “Servi della Sofferenza”, XVIi, (2008), pp.
6-11.
Infine è utile consultare i numeri delle riviste “Voce di padre Pio” e “Studi su padre Pio”.
Per ulteriori approfondimenti si può anche ricorrere al libro di Alessandro da Ripabottoni, Molti hanno scritto di lui.
Bibliografia di padre Pio da Pietrelcina (San Giovanni Rotondo, 1986).
(francesco castelli)
Due sono le principali fonti autobiografiche  di  padre Pio.
La prima è senz’altro costituita dal suo (i-iv, San Giovanni Rotondo, 1992).
Il primo volume, in particolare, ha un valore notevole essendovi raccolta la corrispondenza con i direttori spirituali nella quale il cappuccino svela gran parte della sua interiorità.
Vi sono poi le risposte giurate e sottoscritte da padre Pio davanti al visitatore apostolico, il vescovo Raffaello Carlo Rossi, nel 1921.
Si tratta di 142 dichiarazioni fino a poco tempo fa sconosciute, nelle quali il cappuccino rivela importanti e a volte decisivi aspetti della sua vita spirituale e mistica.
Durante l’esame stimmatico condotto dal visitatore apostolico, peraltro, padre Pio spiega fenomeni sinora ignoti relativi alle sue piaghe.
Tale documento è ora pubblicato integralmente nel libro (Milano, Edizioni Ares, 2008, pagine 328, euro 14, a cura di chi scrive).
Oltre alle fonti ricordate prima, sono state e certamente ne verranno pubblicate altre – cartoline, lettere, auguri e così via – che, per quantità e contenuto saranno però difficilmente avvicinabili al valore delle prime due.
Circa le fonti testimoniali, di notevole rilevanza sono gli appunti di uno dei suoi direttori spirituali, editi nel di Agostino da San Marco in Lamis, (San Giovanni Rotondo, 2003).
Possono poi essere utilmente lette le pubblicazioni di memorie o diari di tanti figli spirituali.
Richiedono tuttavia un attento vaglio critico.
Su san Pio, biografie scientifiche definitive non esistono giacché molti archivi – soprattutto quelli del Sant’Uffizio e dell’Archivio Segreto Vaticano – non sono ancora completamente esplorabili.
Tra le numerose biografie – spesso divulgative, ora devote, ora prevenute in senso opposto – segnaliamo quelle di Alessandro da Ripabottoni, (San Giovanni Rotondo, 1991); di Ferdinando da Riese, (San Giovanni Rotondo, 1984) e di Yves Chyron, (Paris, 2004).
A queste opere va affiancata la lettura di monografie su questioni particolari.
Su tali argomenti ricordiamo di Giuseppe Saldutto(Roma, 1974, con buona ricostruzione storica); di Melchiorre da Pobladura (San Giovanni Rotondo, 1978); , i-ii di Giuseppe Pagnossin (Padova, 1978); di Luigi Di Matteo (San Giovanni Rotondo, 1991), , di Flavio Peloso (Milano, 1999); di Gerardo Di Flumeri (San Giovanni Rotondo, 2001); di Giuseppe Esposito e Silvana Consiglio (Siena, 2002); di Luigi La Vecchia (San Giovanni Rotondo, 2003); di Luca Lucchini(Città del Vaticano, 2005) e di Luciano Lotti (San Giovanni Rotondo, 2006).
Tra gli studi recenti, di valore appare il volume di Carmelo Pellegrino, (San Giovanni Rotondo, 2007).
Per uno studio sulla stigmatizzazione del frate fondamentale appare la lettura dei lavori di Johannes Hocht, (Stein am Rhein, 1964) e di quelli curati da Gerardo di Flumeri (San Giovanni Rotondo, 1985); (San Giovanni Rotondo, 1985); (San Giovanni Rotondo, 1988).
Sul rapporto di padre Pio con Giovanni Paolo II, ricordiamo il documento autobiografico del Pontefice pubblicato nel libro di Stefano Campanella, (San Giovanni Rotondo, 2007); circa la terza lettera di Wojtyla a padre Pio, rimandiamo all’articolo di chi scrive, , pubblicato nella rivista “Servi della Sofferenza”, XVIi, (2008), pp.
6-11.
Infine è utile consultare i numeri delle riviste “Voce di padre Pio” e “Studi su padre Pio”.
Per ulteriori approfondimenti si può anche ricorrere al libro di Alessandro da Ripabottoni, (San Giovanni Rotondo, 1986).
() (©L’Osservatore Romano – 21 giugno 2009) Le date 1887.
Il 25 maggio a Pietrelcina (Benevento) nasce Francesco Forgione.
1891.
Iniziano le vessazioni diaboliche.
1892.
All’età di cinque anni percepisce il desiderio di consacrarsi a Dio e l’anno successivo gli appare il Sacro Cuore di Gesù.
1899.
Riceve il sacramento della cresima e si accosta per la prima volta all’Eucaristia.
1903.
Entra tra i cappuccini, nel noviziato di Morcone (Benevento).
Prende il nome di fra Pio da Pietrelcina.
1907.
Emette la professione dei voti solenni.
A circa 20 anni comincia il dono dei “rapimenti”.
1910.
Il 10 agosto viene ordinato sacerdote nel duomo di Benevento dall’arcivescovo Paolo Schinosi.
Inizia il fenomeno delle stimmate.
1912.
Il fenomeno della stimmatizzazione invisibile si ripete dal giovedì sera fino al sabato.
1915.
Su richiesta di padre Agostino da San Marco in Lamis, confessa di aver subito quasi ogni settimana, da più anni, la “coronazione di spine” e la “flagellazione”.
1918.
Il 30 maggio si offre vittima per i peccatori perché la guerra finisca.
Tra il 5 e il 7 agosto vive il fenomeno della transverberazione.
Il 20 settembre Gesù Crocifisso gli appare sofferente e gli dice: “Ti associo alla mia Passione”, poi lo stimmatizza.
1919.
Primi esami medici delle stimmate.
1920.
Il 18 aprile Agostino Gemelli visita padre Pio per pochi minuti.
Dopo un brevissimo colloquio, Gemelli invia al Sant’Uffizio una valutazione non positiva sull’origine del fenomeno delle stimmate pur elogiando la vita religiosa del frate.
1921.
Dal 14 al 21 giugno si svolge la prima visita apostolica del Sant’Uffizio da parte del vescovo di Volterra, Raffaello Carlo Rossi.
Nella relazione presenta un profilo estremamente positivo del cappuccino e della sua fedeltà al Signore.
1922.
I cardinali del Sant’Uffizio scrivono al ministro generale dei cappuccini dichiarando di rimanere in osservazione su padre Pio; di evitare ogni “singolarità e rumore”; che “per nessun motivo egli mostri le così dette stimmate”; che interrompa con padre Benedetto da San Marco in Lamis “ogni comunicazione anche epistolare”; che i superiori dell’ordine si preparino a trasferire padre Pio quando il clima popolare lo consentirà.
In questo periodo giungono al Sant’Uffizio nuove accuse dal clero locale poi rivelatesi infondate.
1923.
Il Sant’Uffizio afferma che non consta la soprannaturalità dei fatti attribuiti a padre Pio ed esorta i fedeli a conformarsi a queste dichiarazioni.
Gli viene proibito di celebrare la messa in pubblico.
Sommossa popolare di tremila persone davanti al convento.
Al frate viene concessa la facoltà di celebrare in chiesa.
1923-1926.
Al Sant’Uffizio giungono costantemente numerose accuse del clero locale provocando timori e sospetti.
1931.
Il 23 maggio il Sant’Uffizio comunica la proibizione per padre Pio di celebrare in pubblico e il ritiro della facoltà di confessare.
1933.
Il 16 luglio viene autorizzato a celebrare di nuovo in pubblico e gradualmente gli viene restituita la facoltà di confessare.
1947.
Inizia la costruzione della Casa Sollievo della Sofferenza.
1948.
In aprile don Karol Wojtyla incontra padre Pio e si confessa da lui.
1956.
Il 2 luglio inizia la costruzione della chiesa di San Giovanni Rotondo.
1959.
Mentre la statua della Madonna di Fátima fa tappa a San Giovanni Rotondo, padre Pio guarisce da una pleurite.
1960.
Dal 30 luglio al 17 settembre si svolge la visita apostolica di monsignor Carlo Maccari.
1961.
Nuove disposizioni del Sant’Uffizio, anche sulla durata della messa di padre Pio.
1962.
Monsignor Wojtyla, vescovo ausiliare di Cracovia, scrive a padre Pio chiedendo e ottenendo la guarigione del medico Wanda Póltawska.
1963.
Nuovi contatti epistolari tra Wojtyla e padre Pio.
Il vescovo chiede preghiere per se stesso e per la sua delicata situazione pastorale.
1964.
Il cardinale Ottaviani, a capo del Sant’Uffizio, comunica la volontà di Paolo VI che “Padre Pio svolga il suo ministero in piena libertà”.
1968.
La salute di padre Pio declina.
Le stimmate iniziano a chiudersi senza lasciare alcun segno.
1968.
Il 23 settembre padre Pio muore.
1983.
Il 20 marzo si apre il processo cognizionale sulla vita e le virtù del servo di Dio Pio da Pietrelcina.
1997.
Il 20 marzo Padre Pio è dichiarato venerabile.
1999.
2 giugno viene proclamato beato.
2002.
Il 16 giugno Giovanni Paolo II proclama padre Pio santo e ne istituisce la memoria liturgica obbligatoria.
(francesco castelli) La salvezza dei «fratelli» al centro della spiritualità sacerdotale di padre Pio Tra il dolore e la bellezza di Cristo di Francesco Castelli Il 2008 è stato un anno di eccezionale importanza per la conoscenza di padre Pio da Pietrelcina.
La pubblicazione di due documenti ha svelato aspetti umani e mistici del cappuccino inediti e di profondo significato.
Nel febbraio 2008 è avvenuta la scoperta di una nuova lettera, la terza, del vescovo vicario capitolare a Cracovia Karol Wojtyla al cappuccino, nella quale il futuro Pontefice chiedeva a padre Pio di pregare questa volta anche per lui e per la propria difficile situazione pastorale.
Poi, è seguita la pubblicazione degli atti della prima visita apostolica del Sant’Uffizio, compiuta nel giugno 1921, per otto giorni, lunghi e intensi, dal vescovo di Volterra Raffaello Carlo Rossi, futuro cardinale.
Un confronto netto e serrato, ma anche equilibrato, durante il quale padre Pio fu chiamato a rispondere su tutti gli aspetti della sua vita, da quelli più semplici della quotidianità fino alle pieghe più intime della sua vita interiore e mistica.
Le risposte del frate, ben 142, trascritte e inviate sub secreto al Sant’Uffizio, offrono oggi un elemento fondamentale per conoscere la spiritualità sacerdotale di questo grande santo del xx secolo: il racconto preciso e dettagliato della stimmatizzazione e con esso della missione a lui affidata dal Signore.
Che cosa accadde dunque quella mattina del 20 settembre 1918, quando padre Pio, dopo aver celebrato la messa, si ritirò in preghiera? Quale missione fu affidata al giovane sacerdote di San Giovanni Rotondo? Padre Pio, com’è noto, era stato sempre restio nel parlare di quel giorno e di quello speciale incontro.
“Un misterioso personaggio”, così diceva, gli era apparso e gli aveva impresso i segni della passione.
Ora, invece, la pubblicazione degli atti dell’inchiesta ha svelato il contenuto e le stesse parole di quell’incontro.
È lo stesso padre Pio a riferirne, sotto giuramento, a monsignor Rossi, a tre anni di distanza dai fatti.
La mattina di quel 20 settembre “vidi Nostro Signore in atteggiamento di chi sta in croce, ma non mi ha colpito se avesse la Croce, lamentandosi (sic) della mala corrispondenza degli uomini, specie di coloro consacrati a Lui e più da Lui favoriti.
Di qui si manifestava che Lui soffriva e che desiderava di associare delle anime alla sua passione.
M’invitava a compenetrarmi dei suoi dolori e a meditarli: nello stesso tempo occuparmi per la salute dei fratelli.
In seguito a questo mi sentii pieno di compassione per i dolori del Signore e chiedevo a Lui che cosa potevo fare.
Udii questa voce: “Ti associo alla mia passione”.
E in seguito a questo, scomparsa la visione, sono entrato in me, mi son dato ragione e ho visto questi segni qui, dai quali gocciolava il sangue.
Prima nulla avevo”.
In padre Pio, dunque, l’affidamento della missione di “occuparsi della salvezza dei fratelli” era stato indissolubilmente legato con l’annuncio delle sofferenze in unione a Cristo: “Ti associo alla mia passione”.
Da quel giorno – come in parte già avveniva – quel “Ti associo alla mia passione” era divenuto la ragione della sua vita e del suo amore.
Era cresciuto in lui uno speciale amore per i suoi fratelli.
Era come un fuoco che gli bruciava nel petto.
Proprio parlando di ciò al suo padre spirituale ebbe a dire: “Per i fratelli (…) quante volte, per non dir sempre, mi tocca dire a Dio giudice, con Mosè: o perdona a questo popolo o cancellami dal libro della vita.
Che brutta cosa è vivere di cuore! Bisogna morire in tutti i momenti di una morte che non fa morire se non per vivere morendo e morendo vivere”.
Padre Pio si trovò, così, per tutta la vita, ad ascoltare un numero straripante di confessioni, ad avere una personale esperienza della consistenza del male causato dal peccato, della distruzione che esso provoca nel cuore dell’uomo, della necessità che esso sia smaltito, “smaltito con l’amore”.
Per questo “Ti associo alla mia passione” divenne un elemento caratterizzante la sua fisionomia spirituale di sacerdote nel quale percepì l’indole esigente delle purificazioni di Dio e la fecondità dell’amore sofferente che egli, come sacerdote, poteva offrire al Signore.
Da allora non si allontanò né spiritualmente né fisicamente dal confessionale.
Monsignor Rossi apprese che padre Pio vi rimaneva fino a sedici ore al giorno.
Domandare il perdono al Signore, aiutare i fratelli nella conversione spirituale divenne – con puntuale fedeltà verso l’invito di quel 20 settembre 1918 – l’imperativo della sua esistenza.
La sua domanda di perdono per i fratelli, gli ricordava “Colui che per il perdono ha pagato il prezzo della discesa nella miseria dell’esistenza umana e della morte in croce”.
Nascevano così in lui la gratitudine per l’amore sofferente del Signore – e questo spiegava la sua preghiera continua, notte e giorno, senza cessare – e poi la gioia di associarsi alla sua passione.
Per questo scriveva: “Sì, io amo la croce, la croce sola: l’amo perché la vedo sempre alle spalle di Gesù: (…) Deh, padre mio, compatitemi se tengo questo linguaggio; Gesù solo può comprendere che pena sia per me, allorché mi si prepara davanti la scena dolorosa del Calvario”.
Sacrifici subiti, incomprensioni, ostilità: tutto accolse pur di essere fedele al quel dono oneroso di domandare perdono per gli altri e di ottenere la gioia dell’amicizia con Dio per i suoi fratelli.
Altre sofferenze non andò a cercarle.
Anzi, a fronte di una richiesta del visitatore che gli domandava quali mortificazioni al di fuori di quelle prescritte facesse per fugare ogni dubbio, gli rispose.
“Non ne fo: prendo quelle che manda il Signore”.
“Ti associo alla mia passione” divenne così per il sacerdote padre Pio un modo tutto nuovo con il quale capire le parole del Signore: “Quando sarò elevato da terra attirerò tutti a me” (Giovanni, 12, 32).
Anch’egli, da quando venne stimmatizzato, iniziò ad attirare molti non a sé, ma al Signore e al suo amore.
A molti, a moltissimi ottenne guarigioni fisiche ma a molti di più quelle dell’anima.
“Sono pronto a tutto – diceva – purché Gesù sia contento e mi salvi le anime dei fratelli, specie quelle che egli mi ha affidate” (18 dicembre 1920).
Da allora tanti divennero suoi figli spirituali, numerose furono le grazie, numerosissime le conversioni.
I molti che facevano ricorso a lui, andavano via soddisfatti, spiritualmente aiutati e umanamente soccorsi.
Proprio con la sua disponibilità d’amore ad associarsi alle sofferenze del Signore, padre Pio verificò visibilmente nella conversione e crescita spirituale dei suoi figli che con “Gesù entra gioia nella tribolazione”.
Così egli mostrò che “non c’è amore senza sofferenza” – “l’amore si conosce nel dolore”, scriveva – e che con l’amore sofferente egli poteva, in un mondo in cui la menzogna è potente, dare pubblica testimonianza di fedeltà all’amore e proprio così alla vera gioia.
In tale maniera il frate di Pietrelcina divenne un vero sacerdote del Signore.
Offerente della Vittima divina e vittima egli stesso, colpiva i suoi discepoli e visitatori proprio per il personale e spirituale coinvolgimento durante la messa, piena realizzazione della sua spiritualità sacerdotale.
Sono molte le testimonianze di quanti lo ricordano in modo indelebile sull’altare.
Giovanni Paolo II, menzionando la sua personale esperienza nel vederlo celebrare, ebbe a scrivere espressioni vive e forti: “Ho partecipato alla santa messa (di padre Pio), che fu lunga e durante la quale si vide la sua faccia che soffriva profondamente.
Vidi le sue mani che celebravano l’Eucaristia; i luoghi delle stigmate erano coperti con una fascia nera.
Tale evento è rimasto in me come un’esperienza indimenticabile.
Si aveva la consapevolezza che qui sull’altare, a San Giovanni Rotondo, si compiva il sacrificio di Cristo stesso, il sacrificio incruento e, nello stesso tempo, le ferite sanguinose sulle mani ci facevano pensare a tutto quel sacrificio, a Gesù crocifisso.
Questo ricordo dura fino a oggi e, in qualche modo, fino a oggi ho davanti agli occhi quello che allora vidi io stesso”.
La qualità liturgica della celebrazione di padre Pio che colpiva tutti, perfino il futuro Papa, manifestava un vero cammino interiore di graduale assimilazione a Cristo, nel dolore e nella gioia, nella morte e nella risurrezione, nell’ubbidienza e nella libertà vera.
In definitiva, in lui il “sì” alla croce e alle sofferenze permesse dal Signore divenne la via ordinaria della sua gioia e di una più profonda amicizia con Cristo come suo sacerdote.
I suoi figli spirituali dicevano e dicono di aver continuato negli anni a vedere nel suo viso qualcosa di angelico e straordinariamente sereno, nonostante la sofferenza da lui vissuta nel corpo attraverso le stimmate, e, spiritualmente, per la conversione dei peccatori.
Gioia e dolore, sofferenza e beatitudine furono e rimasero così in lui due tratti costitutivi del volto spirituale di sacerdote, proprio come Gesù che per la sua bellezza paradossale è “il più bello dei figli dell’uomo” (Salmo, 44, 3) e allo stesso tempo colui che “non ha bellezza né apparenza; l’abbiamo veduto: un volto sfigurato dal dolore” (Isaia, 53, 2).
Proprio parlando della paradossale bellezza di Gesù, il cardinale Joseph Ratzinger scrisse: “Colui che è la Bellezza stessa si è lasciato colpire in volto, sputare addosso, incoronare di spine, la Sacra Sindone di Torino può farci immaginare tutto questo in maniera toccante.
Ma proprio in questo Volto così sfigurato appare l’autentica, estrema bellezza: la bellezza dell’amore che arriva “sino alla fine” e che, appunto in questo, si rivela più forte della menzogna e della violenza”.
Proprio di tale bellezza il sacerdote padre Pio ha dato testimonianza alla Chiesa e al mondo facendo della paradossale bellezza di Gesù la sua spiritualità sacerdotale.
(©L’Osservatore Romano – 21 giugno 2009)  Dall’accoglienza alla comunione di Mario Ponzi San Giovanni Rotondo ha certamente confidenza con i grandi eventi ecclesiali.
Eventi in parte legati alla fama di santità dei figli dell’antica terra del Gargano, di padre Pio in particolare, e in parte dovuti alla tradizionale religiosità di un popolo devoto, generoso e accogliente.
Sta di fatto che la macchina che si è messa in moto per ricevere la visita di Benedetto XVI domenica prossima, 21 giugno, non ha perso un colpo e “tutto è pronto per mostrare al Papa l’anima vera del Gargano” confida a “L’Osservatore Romano” monsignor Domenico Umberto D’Ambrosio, in procinto di fare – subito dopo la visita del Papa – il suo ingresso nell’arcidiocesi  di Lecce, sede dove è stato trasferito già dallo scorso mese di aprile.
 Ha retto la Chiesa di Manfredonia-Vieste-San Giovanni Rotondo dal 2002 e oggi, come ultimo atto della sua missione, prepara la sua gente ad accogliere Benedetto XVI.
Ci sono tanti motivi per definire indimenticabile il momento che si prepara a vivere domenica prossima:  la visita del Papa sembra essere il prezioso sigillo al suo incarico pastorale tra queste genti del Gargano.
 Come  state  vivendo  questa vigilia?  Effettivamente è un momento particolare.
Il Papa, successore di Pietro, viene a confermarci nel cammino di fede compiuto in questi anni.
Il fatto che venga tra di noi per pregare sulla tomba del nostro santo padre Pio, e solo due giorni dopo aver inaugurato l’anno sacerdotale, sta a significare il riconoscimento del clima di ricchezza sacerdotale che si respira nella nostra terra, della fecondità della nostra testimonianza di devozione e di fedeltà al carisma del santo, al suo messaggio, che è il messaggio stesso della Croce.
Nei giorni passati abbiamo molto riflettuto su questo messaggio e sugli insegnamenti di Benedetto XVI.
Diversi vescovi si sono quotidianamente alternati nel parlarne ai fedeli della nostra diocesi ma anche ai tanti pellegrini che passano di qui.
Simbolicamente questo cammino si concluderà nella veglia di sabato notte al santuario.
Nella preparazione della visita è tornato spesso un motivo:  è la seconda volta in poco più di venti anni che un Papa viene tra di noi.
Un evento di grazia che si rinnova, dunque.
La visita di Giovanni Paolo II è rimasta nel cuore dei fedeli.
Si è fermato due giorni in questi luoghi e ha lasciato un grande messaggio di speranza.
E dalla visita di Benedetto XVI cosa vi aspettate? Intanto ci attendiamo una rinnovata percezione dell’intensità del rapporto con la Chiesa che non può ridursi alle formalità.
Un rapporto, per intenderci, del quale ci si accorge solo per necessità contingenti, cioè perché si vuole fruire dei servizi religiosi tipo il battesimo, la cresima, il matrimonio 0 quando c’è bisogno di certificazioni come se la Chiesa fosse una stazione di servizio, anche se religioso.
Ecco io mi auguro che quest’esperienza accanto a Benedetto XVI ci farà da viatico per una reale inversione di tendenza.
Accogliere milioni di pellegrini che vengono qui da ogni parte del mondo comporta uno scambio di doni spirituali con la comunità ecclesiale dei residenti? Questo è un altro degli aspetti sui quali vorrei tanto che portasse una parola nuova la visita del Papa.
È una delle questioni che io ritengo tra le più grandi che debba affrontare e risolvere questa Chiesa che sto per lasciare.
La nostra comunità quotidianamente si deve confrontare con i quattro cinque milioni di pellegrini che, solo a San Giovanni Rotondo, annualmente salgono a questo colle.
A essi vanno poi ad aggiungersi gli oltre due milioni di quelli che annualmente fanno visita all’altro grande santuario di queste terre, quello ultramillenario dedicato a San Michele Arcangelo a Monte Sant’Angelo.
Ma è proprio questa marea di persone che si trasforma per la nostra Chiesa, una sfida da affrontare.
Non dovrebbe essere un problema visto che San Giovanni Rotondo è nota nel mondo proprio come “Città della pace e dell’accoglienza”.
Certo noi i pellegrini li accogliamo molto bene.
Garantiamo per quello che può essere il servizio religioso, la soddisfazione di loro bisogni, delle loro esigenze.
In moltissimi casi si tratta di pellegrinaggi che durano un giorno, o due al massimo però possono trascorrere tranquillamente e nel giusto clima.
Ma non è questo il problema che mi preoccupa.
La domanda che ci poniamo infatti è un’altra:  cosa diamo a questa gente? cosa possiamo ricevere da questa gente? In questi anni ho visto quasi una frattura fra queste due componenti, cioè tra la Chiesa che vive in questi luoghi e quanti qui vengono per attingere alla santità di padre Pio, a cercare, nell’incontro spirituale con lui, risposte ad attese e ad incognite che pervadono la loro esistenza, a sofferenze che portano dentro di sé sino a deporle ai piedi della tomba del santo quasi gli chiedessero aiuto per sopportarle.
Certamente si sarà fatto un’idea di cosa fare per risanare questa frattura.
Bisogna reimpostare la pastorale per far sì che sia soprattutto pastorale dell’accoglienza.
Non basta infatti continuare a dire che San Giovanni Rotondo è la città della pace e dell’accoglienza; bisogna fare di più perché in realtà non c’è un rapporto vero tra questa comunità ecclesiale e questa massa di persone che portano con sé il bagaglio della loro fede.
Né gli uni ne gli altri ricevono un granché da questa seppure fugace vicinanza.
Ecco cosa mi aspetto dalla visita del Papa.
Mi aspetto che da quanto ci dirà nei tre momenti centrali della sua visita, possano venire delle indicazioni chiare e precise per il cammino futuro di una Chiesa che è comunque già di per sé vivace e in questo momento avviata nel progetto “giovani, famiglia e missione”, affinché possa realmente trasformarsi in Chiesa in missione tra questa massa di persone che vengono a bussare alle sue porte.
Non possiamo più limitarci a dare quel poco che può essere la confessione o la celebrazione.
Tantomeno possiamo accontentarci del ritorno dal punto di vista economico per le strutture alberghiere e di ristorazione del posto e così via.
Dobbiamo offrire la ricchezza di una fede che risale alle origini della Chiesa apostolica e che vive autonomamente, separata dalla comunque provvidenziale presenza di padre Pio.
Allargando un po’ lo sguardo all’intera Capitanata ci può dire quali sono le sfide che deve affrontare la Chiesa oggi in quest’area che sembra essere particolarmente colpita dalla crisi economica? La Capitanata è un territorio molto vasto ma poco popolato.
La situazione sociale presenta diverse sfaccettature.
Lungo le nostre coste, per esempio, dove il turismo è la forza trainante, i riflessi della crisi non hanno lasciato tracce profonde.
La situazione cambia drasticamente nelle zone interne, segnate da larghe fasce di povertà, dove i tassi di disoccupazione, soprattutto giovanile, raggiungono indici gravissimi.
È una condanna che ci portiamo dietro da sempre.
E se non fosse per quei bagliori riflessi dell’industria del turismo per tutto il territorio conosceremmo i morsi della povertà estrema.
La situazione si aggrava per la distrazione, diciamo così, di chi dovrebbe provvedere ad un’equa distribuzione delle risorse tra le diverse aree della Puglia, tanto che da qualche tempo ha ripreso forza l’ondata emigratoria.
Non ha ancora raggiunto i livelli di quella degli anni cinquanta, ma di fatto bisogna prendere atto della recrudescenza di questo fenomeno che riguarda soprattutto i giovani, tra i quali sono sempre più numerosi quelli che hanno conseguito lauree ed alte specializzazioni.
Per loro non c’è spazio in casa, non ci sono opportunità.
Dunque bisogna emigrare.
Ciò comporta non solo un distacco dalle proprie origini ma anche un cambiamento di mentalità, di atteggiamenti.
Si abbandonano tutti i principi, anche etici e morali, acquisiti per immergersi in una cultura che non gli appartiene, si imbevono di un’etica lontana dalla bontà di tutto ciò di cui si sono nutriti nella loro terra originaria.
Però la situazione oggi è talmente grave che la fuga si presenta come unica alternativa.
Noi come Chiesa, con l’aiuto della Conferenza episcopale italiana (Cei) abbiamo istituto un fondo di solidarietà, abbiamo anche effettuato interventi ad ampio raggio, ma la situazione è quella che è.
Mi preoccupa piuttosto la mancata risposta da parte di chi sarebbe preposto ad intervenire, a creare strumenti e progetti che garantiscano un approccio diverso alla povertà che fa soffrire così tante famiglie.
Cassa integrazione, mobilità, licenziamenti  sembrano  essere  invece le uniche risposte alla crisi.
E questo anche perché industrie che hanno ricevuto il contributo dello Stato per aprire attività in loco, non esitano a chiudere subito dopo.
Questo crea grande sofferenza.
Ed è estremamente pericoloso perché dà il via libera ad attività criminose, alla malavita organizzata che trova sempre più abbordabili adepti tra i giovani, e anche tra i giovanissimi.
Dal punto di vista pastorale cosa la preoccupa di più? In questo periodo stiamo dedicando un’attenzione particolare alla famiglia.
Assistiamo ad un’impennata dei divorzi.
È un problema che ci assilla.
C’è un allentamento dei costumi che porta all’abbandono della fedeltà coniugale, e alla separazione.
I giovani sembrano sempre più orientati verso la convivenza più che verso il matrimonio.
C’è poi una certa recrudescenza della pratica dell’aborto.
Spesso restano coinvolti proprio dei giovanissimi, ma che hanno comunque il sostegno dei genitori.
Di qui la necessità di reimpostare una pastorale giovanile che sappia andare incontro ai giovani, andarli a cercare senza aspettare che vengano loro, offrire loro proposte recepibili da parte dei giovani stessi.
C’è anche bisogno di reimpostare la pastorale familiare, fondandola sull’aiuto di laici esemplari che  sappiano  offrire  modelli  da  imitare.
Dobbiamo cioè aiutare la gente a recuperare il senso della stabilità della famiglia, il sapore della sua genuinità, il valore di un amore che nasce dal cuore.
Il dono che il Papa ci fa è una possibilità che ci offre per trovare modi nuovi di vivere la nostra fede, per cogliere le novità che si presentano grazie all’incontro con tante persone che portano esperienze di Chiese diverse e che dunque possono costituire un arricchimento per la nostra Chiesa come valore universale.
(©L’Osservatore Romano – 21 giugno 2009)

“Ascoltare le domande, comunicare il Vangelo, condividere l’incontro con il Cristo”

Si è svolto a Reggio Calabria, presso l’Auditorium “Calipari” nel Palazzo del Consiglio Regionale della Calabria, il XLIII Convegno Nazionale dei direttori degli uffici catechistici diocesani, organizzato dall’Ufficio Catechistico Nazionale della CEI.
“Ascoltare le domande, comunicare il Vangelo, condividere l’incontro con il Cristo” è stato il tema dei lavori, ispirato a 2 Cor 3,2 (“La nostra lettera siete voi…”).  Si è aperto lunedì 15 giugno con il saluto e l’introduzione di don Guido Benzi, Direttore dell’Ufficio Catechistico Nazionale.
Tra le relazioni quelle di S.E.
Mons.
Lucio Soravito de Franceschi, Vescovo di Adria-Rovigo e Segretario della Commissione Episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi; di S.E.
Mons.
Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto e Presidente della Commissione Episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi.
Mercoledì 17 giugno S.E.
Mons.
Mariano Crociata, Segretario Generale della CEI, è intervenuto sul tema “Comunità cristiane e accompagnamento delle persone in ricerca: ascolto, dialogo e questione educativa.” Il programma completo dei lavori del convegno e maggiori informazioni sulle modalità di partecipazione sono disponibili in rete, nel sito dell’Ufficio Catechistico Nazionale (http://www.chiesacattolica.it/pls/cci_new/%22http://www.chiesacattolica.it/ucn%22)   Documenti allegati:InterventoMons.
Crociata.doc

XII Domenica del tempo ordinario anno B

L’inquietudine della notte della fede Ripartire da Dio vuol dire sapere che noi non lo vediamo, ma lo crediamo e lo cerchiamo così come la notte cerca l’aurora.
Vuol dunque dire vivere per sé e contagiare altri dell’inquietudine santa di una ricerca senza sosta del volto nascosto del Padre.
Come Paolo fece coi Galati e coi Romani, così anche noi dobbiamo denunciare ai nostri contemporanei la miopia del contentarsi di tutto ciò che è meno di Dio, di tutto quanto può divenire idolo.
Dio è più grande del nostro cuore, Dio sta oltre la notte.
Egli è nel silenzio che ci turba davanti alla morte e alla fine di ogni grandezza umana; Egli è nel bisogno di giustizia e di amore che ci portiamo dentro; Egli è il Mistero santo che viene incontro alla nostalgia del Totalmente Altro, nostalgia di perfetta e consumata giustizia, di riconciliazione e di pace.
Come il credente Manzoni, anche noi dobbiamo lasciarci interrogare da ogni dolore: dallo scandalo della violenza che sembra vittoriosa, dalle atrocità dell’odio e delle guerre, dalla fatica di credere nell’Amore quando tutto sembra contraddirlo.
Dio è un fuoco divorante, che si fa piccolo per lasciarsi afferrare e toccare da noi.
Portando Gesù in mezzo a voi, non ho potuto non pensare a questa umiliazione, a questa “contrazione” di Dio, come la chiamavano i Padri della Chiesa, a questa debolezza.
Essa si fa risposta alle nostre domande non nella misura della grandezza e della potenza di questo mondo, ma nella piccolezza, nell’umiltà, nella compagnia umile e pellegrinante del nostro soffrire.
(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 66).
Cristo comandò al mare e si fece una grande bonaccia Anche il sonno di Cristo è un segno esteriore di una realtà nascosta.
Sono come dei naviganti quelli che fanno la traversata di questa vita su di un’imbarcazione.
Anche quella barca era figura della chiesa.
E ogni persona è tempio di Dio, naviga nel proprio cuore e non fa naufragio, se prova buoni sentimenti.
Se hai udito un’offesa, è come il vento; sei adirato? Ecco la tempesta.
Se soffia il vento e giunge la tempesta, corre pericolo la nave, corre pericolo il tuo cuore ed è agitato.
All’udire l’offesa, desideri vendicarti; ecco, ti sei vendicato e, godendo del male altrui, hai fatto naufragio.
E perché? Perché Cristo in te dorme.
Che cosa significa: «In te Cristo dorme»? Che ti sei dimenticato di Cristo.
Risveglia dunque Cristo, ricordati di Cristo, sia desto in te Cristo, considera lui.
Che cosa volevi? Volevi vendicarti.
Ti eri dimenticato che egli, essendo crocifisso, disse: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,24).
Egli che dormiva nel tuo cuore non volle vendicarsi.
Sveglialo e ricordalo.
Il ricordo di lui è la sua parola, il ricordo di lui è il suo comando.
Se in te è desto Cristo, tu dirai tra te e te: «Che razza di uomo sono io che mi voglio vendicare? Chi sono io, che mi permetto di minacciare un altro? Forse morrò prima di vendicarmi.
E quando ansante, infiammato di collera e assetato di vendetta, uscirò da questo corpo, non mi accoglierà Colui che non volle vendicarsi, non mi accoglierà colui che disse: «Date e vi sarà dato, perdonate e vi sarà perdonato» (Lc 6,37-38).
Frenerò allora la mia collera e tornerò alla pace del mio cuore».
Cristo comandò al mare e si fece una grande bonaccia.
In tutte le altre vostre tentazioni attenetevi a ciò che ho detto riguardo all’ira.
Quando sorge una tentazione, è come il vento; tu sei agitato, c’è la tempesta.
Sveglia Cristo affinché parli con te.
[…] Imita i venti e il mare: ubbidisci al Creatore! (AGOSTINO, Discorso 63,1-3, NBA XXX/1, pp.
284-286).
Come si fa ad avere fede? «Un giorno, durante un acquazzone improvviso, ci riparammo nell’ingresso di una grotta.
“Come si fa ad avere fede? gli chiesi là dentro”.
“Non si fa, viene”.
Lei ce l’ha già ma il suo orgoglio le impedisce di ammetterlo, si pone troppe domande, dov’è semplice complica.
In realtà ha soltanto una paura tremenda.
Si lasci andare e ciò che ha da venire verrà».
(Susana Tamaro, Va dove ti porta il cuore, Rizzoli, p.
148).
Il dubbio che porta al tramonto Si narra che un alpinista, fortemente motivato a conquistare un’altissima vetta, iniziò la sua impresa dopo anni di preparazione.
Deciso a non spartire la gloria con alcuno, iniziò l’impresa senza compagni.
Iniziò l’ascesa ma si fece tardi, sempre più tardi, senza che egli si decidesse ad accamparsi, insistendo nell’ascesa.
Ben presto fu buio.
La notte giunse bruscamente sulle alture della montagna, sicché non si poteva vedere assolutamente nulla.
Tutto era tenebra, il buio regnava sovrano, la luna e le stelle erano coperte dalle nubi.
Salendo per un costone roccioso, a pochi metri dalla cima, scivolò e precipitò nel vuoto, cadendo a velocità vertiginosa.
Nella caduta, l’alpinista poteva appena vedere delle macchie scure e sperimentare la sensazione di essere risucchiato dalla forza di gravità.
Continuava a cadere… e in quegli attimi angosciosi, gli passarono per la mente gli episodi più importanti della sua vita.
Rifletteva, ormai vicino alla morte.
D’improvviso avvertì il violento strappo della lunga fune che aveva assicurato alla cintura.
In quel momento di terrore, sospeso nel vuoto, non gli rimase che gridare: ”Dio mio, aiutami!” Improvvisamente una voce grave e profonda dal cielo gli domandò: ”Cosa vuoi che io faccia?” “Mio Dio, salvami!” “Credi realmente che io possa salvarti?” “Sì, mio Signore.
Lo credo” Allora, recidi la corda che ti sostiene!” Ci fu un momento di silenzio; poi l’uomo si avvinse ancora più fortemente alla corda.
Il resoconto della squadra di soccorso, afferma che l’alpinista fu trovato, ormai morto per congelamento, fortemente avvinghiato alla corda… A soli due metri dal suolo… La vita è un atto di fede Ho appreso che la ricerca di Dio è una Notte Buia.
E che anche la Fede è una Notte Buia.
Di certo, non può dirsi una sorpresa.
Per l’uomo, ogni giorno è una Notte Buia.
Nessuno sa che cosa accadrà nell’istante successivo, eppure tutti vanno avanti.
Perché ‘confidano’.
Perché hanno Fede.
[…] Ogni momento della vita è un atto di fede.
(Paulo COELO, Brida, Bompiani, Milano, 2008, 31).
Racconto In un paese c’ era un incrocio con tre strade: verso il mare, verso la città, verso nessuna parte.
Giovanna domanda, ma dove porta la strada «verso nessuna parte»..? Tutti i saggi del paese dicono che è pericoloso, che nessuno ha fatto mai questa strada, che non si torna più….Nonostante, Giovanna un giorno si decide a percorrere quella strada pericolosa…valli, montagne…alla fine trova un cane….il cane porta Giovanna ad una casa dove abita una fata misteriosa che dice: da tanto tempo aspettavo una visita…..guarda la mia casa e prendi l’oro che vuoi…..Cosi fece Giovanna….quando tornò al paese tutti aspettavano….vedendo l’oro che portava Giovanna tutti si affrettarono a percorrere la strada che ‘porta da nessuna parte’….Non trovarono nulla.
Arrabbiati tornano da Giovanna: “sei una imbrogliona….bugiarda…”.
Non, ma soltanto che per avere l’oro si deve percorrere la strada che porta verso nessuna parte.
Preghiera Aiutami a fare silenzio, Signore, voglio ascoltare la tua voce.
Prendi la mia mano, guidami nel deserto, per incontrarci soli, Tu e io.
Ho bisogno di contemplare il tuo volto, ho bisogno del calore della tua voce, di camminare insieme…
di tacere, perché possa parlare tu.
Mi metto nelle tue mani, voglio guardare la mia vita, scoprire ciò che deve cambiare, rendere più saldo ciò che va bene, sorprendermi per le novità che mi chiedi.
Aiutami a lasciar da parte la carriera, le preoccupazioni che riempiono la testa, blocca i miei dubbi e le mie insicurezze, aiutami ad archiviare le mie risposte prefabbricate.
Voglio condividere con te la mia vita e verificarla accanto a te.
Vedere dove “preme forte e sicura la scarpa” per operare il cambio.
Portami nel deserto, Signore, liberami da ciò che mi lega, scuoti le mie certezze e metti alla prova il mio amore.
Per incominciare nuovamente, umile, semplice, con la forza dello Spirito, a vivere fedele a Te.
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cura di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Giobbe 38,1.8-11 Il Signore prese a dire a Giobbe in mezzo all’uragano: «Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando usciva impetuoso dal seno materno, quando io lo vestivo di nubi e lo fasciavo di una nuvola oscura, quando gli ho fissato un limite, gli ho messo chiavistello e due porte dicendo: “Fin qui giungerai e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde”?».
Il libro di Giobbe può essere diviso in tre parti.
La prima parte (1-2) introduce i personaggi; la seconda parte (3-42,6) contiene il dialogo tra gli attori nel quale viene esposto il grande problema della sofferenza del giusto; la terza parte (42,7-17) riferisce la sentenza di Dio al termine dell’azione.
Il brano della lettura si trova nella seconda parte, ed è costituito dall’inizio del primo discorso di Dio, il quale proclama la sua onnipotenza e trascendenza con queste parole in mezzo al turbine: «Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando usciva impetuoso dal seno materno, quando io lo vestivo di nubi e lo fasciavo di una nuvola oscura, quando gli ho fissato un limite, gli ho messo chiavistello e due porte dicendo: “Fin qui giungerai e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde”?» (Gb 38,1.8-11).
Per comprendere questo testo occorre avere presente il contenuto dell’azione precedente.
Giobbe, uomo giusto, viene colpito dalla sventura; dapprima è colpito nei beni e nei figli, poi nella sua stessa carne, con una malattia dolorosa e ripugnante.
Egli rimane sottomesso a Dio.
Tre suoi amici vengono a consolarlo.
Dapprima si tratta di una conversazione a quattro; in tre cicli di discorsi Giobbe e gli amici confrontano le loro concezioni riguardo alla giustizia divina.
I tre amici difendono la tesi della retribuzione terrena; se Giobbe soffre, ciò vuol dire che egli ha peccato; e se anche egli è giusto ai propri occhi, non lo è agli occhi di Dio.
Giobbe sostiene la propria innocenza e gli altri si irrigidiscono nelle loro posizioni.
Ad essi Giobbe contrappone la propria esperienza dolorosa e la ingiustizia di cui il mondo è pieno.
Egli si scontra con il mistero di Dio il quale permette che il giusto sia afflitto.
Giobbe alterna momenti di sottomissione a Dio a momenti di protesta della sua innocenza.
In questo movimento entra in scena Dio stesso «in mezzo al turbine», cioè nello scenario delle teofanie.
Dio riprende Giobbe o meglio, Dio rifiuta di dare risposta alle domande di Giobbe perché l’uomo non ha diritto di mettere Dio sotto inchiesta in quanto Dio è l’infinitamente sapiente e l’onnipotente che non può essere misurato dalla debolezza dell’intelligenza e dalle sue categorie di giustizia.
Giobbe riconosce di avere parlato da insipiente e dà ragione a Dio.
Il brano della lettura sta nell’inizio dell’intervento di Dio.
In esso Dio espone la sua attività creatrice, nella quale si esplica l’infinita sapienza e l’onnipotenza.
Di fronte all’opera di Dio non si può che ammirarne la bellezza e grandezza.
L’onnipotenza di Dio viene esaltata attraverso la rievocazione della creazione del mare; il mare è una creatura che esprime essa stessa una immensa potenza, ma Dio ha posto dei limiti precisi alla potenza del mare e il mare non può trasgredirli.
Questa descrizione esaltante della signoria divina incute riverenza, timore, sottomissione, che sono atteggiamenti non soltanto della volontà ma anche dell’intelligenza.
L’uomo moderno ha esplorato con grande acume e capacità la creazione, lo spazio, l’universo, ha scandagliato le profondità del mare e ha cercato di spiegare i segreti del cosmo.
Il vero saggio, tuttavia, pur avendo raggiunto una tale conoscenza del mondo e capacità di dominarlo, non ne prova orgoglio, al contrario si sente piccolo e sempre superato dai feno-meni della natura e sa di essere ancora impotente di fronte a tanti suoi segreti.
Nasce spontanea la domanda: se la creazione è così inesauribile e inafferrabile nella moltitudine e profondità dei suoi segreti, che cosa sarà il Creatore? Seconda lettura: 2 Corinzi 5,14-17 Fratelli, l’amore del Cristo ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti.
Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro.
Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così.
Tanto che, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove.
Il passo della lettura si trova nella prima parte della epistola in continuazione con il testo della precedente domenica.
San Paolo parla dell’amore di Cristo e della conoscenza di Cristo: «L’amore del Cristo ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti.
Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro.
Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così.
Tanto che, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove» (2 Cor 5,14-17).
La prima affermazione: Cristo è morto per tutti, rivela che Gesù ha compiuto il sacrificio in nome di tutti come capo che rappresenta l’intera umanità.
Ciò che ha valore davanti a Dio in questa morte è l’obbedienza di amore che manifesta il sacrificio di una vita interamente donata a Dio.
Dice san Paolo di Gesù ai Filippesi: «Umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce.
Per questo Dio lo ha esaltato» (Fil 2,8-9) e ancora ai Romani: «Come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti» (Rm 5,19).
I fedeli, resi partecipi di questa morte di Gesù con il sacramento del battesimo che li immerge in essa, devono ratificare questa oblazione del Cristo con la loro vita, devono attuare ciò che dice san Paolo nella presente lettura subito dopo: quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per lui che è morto ed è risuscitato per loro (2 Cor 5,15).
Poi l’apostolo viene al tema della conoscenza di Cristo: «se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così» (2 Cor 5,16).
Paolo non dice che ha conosciuto personalmente Gesù di Nazaret, afferma che tutti, anche quelli che hanno potuto conoscerlo, devono rinunciare a dare importanza alla affinità carnale con Gesù, alla conoscenza di lui secondo la carne: legame di parentela, legame di consuetudine familiare e di nazionalità.
Conclude scrivendo: «se uno è in Cristo, è una nuova creatura» (2 Cor 5,17).
Dio che aveva creato tutte le cose per il Cristo, ha restaurato la sua opera, sconvolta dal peccato, ricreandola nel Cristo.
Il centro di questa nuova creazione che interessa tutto l’universo, è l’uomo nuovo, che è stato creato nel Cristo, per una vita nuova di giustizia e di santità: «Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti con lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (Rm 6,4).
Perciò: «Dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera» (Ef 4,23-24).
Così l’uomo nuovo, ricreato nel Cristo, che è l’immagine di Dio ritrova la rettitudine primitiva nella quale aveva avuto origine e giunge alla pienezza della imitazione di Gesù e quindi alla pratica della esistenza morale.
Vangelo: Marco 4,35-41 In quel giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva».
E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca.
C’erano anche altre barche con lui.
Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena.
Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva.
Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?».
Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!».
Il vento cessò e ci fu grande bonaccia.
Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».
E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».
Esegesi Il tratto della lettura nella prima parte del vangelo di Marco, ove è descritto il ministero di Gesù nella Galilea.
Racconta il prodigio della tempesta sedata con lo stile caratteristico di Marco: «In quel giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva».
E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca.
C’erano anche altre barche con lui.
Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena.
Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva.
Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?».
Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!».
Il vento cessò e ci fu grande bonaccia.
Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».
E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?» (Mc 4,35-41).
Il racconto del vangelo sulla tempesta nel lago sedata da Gesù culmina nel tema della fede e mostra Gesù nella sua potestà sulla natura e sui suoi elementi.
L’episodio evoca, nei confronti di Gesù, ciò che nella Scrittura è detto di Dio nei riguardi della natura: «Tu fai tacere il fragore del mare, il fragore dei suoi flutti» (Sl 65,8).
«Tu domini l’orgoglio dei mari, tu plachi il tumulto dei suoi flutti» (Sl 89,10).
«Ridusse la tempesta alla calma, tacquero i flutti del mare, si rallegrarono nel vedere la bonaccia, egli li condusse al porto sospirato» (Sl 107, 29-30).
Tale è l’acclamazione finale nell’episodio evangelico; a Gesù anche il vento e il mare obbediscono; la sua potenza è come quella di Dio sulla natura.
Gesù nelle parole rivolte ai suoi discepoli sottolinea la necessità della fede: «Non avete ancora fede?» (Mc 4,40).
La fede che Gesù richiede fin dall’inizio della sua attività: «Credete» (Mc 1,15) e che richiederà incessantemente è un movimento di fiducia e di abbandono per il quale l’uomo credente rinuncia a fare affidamento sui propri pensieri e sulle proprie forze per rimettersi alle parole e alla potenza di colui nel quale crede.
Gesù richiede la fede particolarmente in occasione dei miracoli.
Al centurione che gli chiedeva di guarire il suo servo dice, dopo averne ammirato la fede: «Vai e sia fatto secondo la tua fede» (Mt 8,13).
Alla donna che pativa flusso di sangue, dice: «Coraggio, figlia, la tua fede ti ha guarito» (Mt 9,22).
Ai ciechi che gli chiedono: «Figlio di Davide abbi pietà di noi» (Mt 9,27) Gesù dice: «Credete voi che io possa fare questo? Gli risposero: Sì, Signore.
Allora toccò loro gli occhi e disse: sia fatto a voi secondo la vostra fede.
E si aprirono loro gli occhi» (Mt 9,27-30).
In tale modo i miracoli sono atti che offrono il segno della missione di Gesù e il segno della presenza del regno dei cieli.
Gesù non può compiere miracoli se non trova la fede che deve dare ad essi il loro vero significato; a Nazaret, infatti, «non fece molti miracoli a causa della loro incredulità» (Mc 13,58).
Esigendo un sacrificio dell’intelligenza e della volontà e di tutto l’essere, la fede è un atto non facile di umiltà che molti rifiutano di compiere, particolarmente in Israele, o lo compiono solo in modo imperfetto, come il padre dell’epilettico indemoniato, il quale dopo avere chiesto a Gesù la guarigione del figlio e avere ascoltato da Gesù: «Tutto è possibile a chi crede» (Mc 9,23) dice: «Credo, aiutami nella mia incredulità» (Mc 9,24).
I discepoli stessi di Gesù, che pure gli aderiscono di cuore, mostrano le difficoltà della fede perché sono lenti a credere e sono spesso rimproverati da Gesù per la loro poca fede; nell’episodio raccontato nella lettura Gesù dice: «Non avete ancora fede?» (Mc 4,40).
Quando è forte la fede opera meraviglie: «Se avete fede pari a un granellino di senapa potrete dire a questo monte: spostati di qua e là, ed esso si sposterà e niente vi sarà impossibile» (Mt 17,20).
«Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e se berranno qualche veleno non recherà loro danno» (Mc 16,17).
L’episodio evangelico della tempesta sedata, attraverso il rimprovero di Gesù ai suoi sulla pochezza della loro fede è un richiamo all’esigenza della fede e della fiducia in Gesù nella vita cristiana come caratteristica che la distingue e che ne costituisce la specificità nel mondo in mezzo agli uomini.
Meditazione II racconto della ‘tempesta sedata’ nella versione di Marco 4,35-41 (la narrazione è presente anche in Mt 8,18.23-27 e Lc 8,22-25) è al centro della liturgia della Parola di questa domenica.
Ed è un racconto ricco di risonanze simboliche che rimandano chiaramente all’immaginario culturale e religioso biblico e che fanno da sottofondo a una narrazione segnata da significativi contrasti, interrogativi aperti, reazioni opposte.
Da una parte Marco evidenzia la signoria di Gesù che trasmette una sovrumana tranquillità interiore, espressione di quella capacità di valutare la portata degli eventi, senza lasciarsi travolgere da essi in quanto si conosce il senso di ciò che sta accadendo.
Dall’altra, di fronte a questa forza e serenità di Gesù che, singolarmente assume l’espressione simbolica del sonno (interpretata dai discepoli come una sorta di disinteresse: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?»: v.
38), c’è lo smarrimento dei Dodici su cui incombe l’esperienza della morte e che significativamente passa dalla paura al timore.
Anche la natura sembra entrare in questo gioco di contrasti, quasi ad esprimere esteriormente ciò che i discepoli stanno vivendo nel loro cuore: Marco ci descrive lo spettacolo di una natura che scatena tutta la sua forza bruta, diventando incontrollabile e minacciosa, e lo spettacolo di una natura che rivela armonia e pace.
Ed è un passaggio segnato da una parola e da un gesto che Gesù compie come risposta all’angosciata preghiera dei discepoli e che suscita un interrogativo finale: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mari gli obbediscono?» (v.
41).
La dinamica di questo racconto ci suggerisce allora alcune sottolineature.
Anzitutto notiamo che un elemento simbolico e reale allo stesso tempo, emerge come sottofondo biblico di tutto il racconto.
Ed è quello del mare.
Secondo il linguaggio che caratterizza molti testi del Primo Testamento, l’immagine del mare, caratterizzata dalla superficie instabile delle acque e dai fenomeni minacciosi e imprevedibili della tempesta, rappresenta una potenza misteriosa e oscura, una forza non domabile dall’uomo.
È l’esperienza dei naviganti descritta nel Salmo 106, i cui versetti 23-31 compongono il salmo responsoriale: travolti dalla tempesta su di un mare minaccioso, coloro «che commerciavano su grandi acque…
si sentivano venir meno nel pericolo, ondeggiavano e barcollavano…
tutta la loro abilità era svanita».
Di fronte al pericolo minaccioso e alla morte che incombe, l’uomo non ha potere, perde la sua abilità.
E appunto la reazione istintiva, connotata dalla paura della morte, che caratterizza anche i discepoli di fronte a quella «grande tempesta di vento» e a quelle «onde che si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena» (v.
37).
Secondo la Scrittura, solo Dio ha la forza di dominare questo spazio misterioso e pieno di incognite, perché solo Dio conosce i limiti entro cui questo simbolico luogo di morte può esercitare il suo potere.
Così il Signore dice a Giobbe: «Chi ha chiuso fra due porte il mare?…
gli ho fissato un limite…
dicendo: “Fin qui giungerai e non oltre e qui si infrangerà l’orgoglio delle tue onde”» (Gb 38,8-11).
Il gesto di Dio che pone le acque dentro un spazio ben delimitato è il gesto della creazione (cfr.
Gen 1,9-10).
Ma Dio ha anche potere di piegare il mare e la sua forza bruta mettendolo a servizio del suo disegno di salvezza: il mare può diventare un cammino di liberazione, una strada sicura per il popolo di Dio (il passaggio attraverso il mar Rosso narrato in Es 14).
La straordinaria ricchezza di queste immagini bibliche è come condensata nel gesto e nella parole di Gesù; proprio in quel Gesù, che Marco ci presenta anche molto umano, stanco, affaticato e per questo addormentato, si rivela la potenza di Dio.
Gesù assume così i tratti del Kyrios, il Signore della creazione e dell’esodo.
Vediamo che Gesù, svegliato e quasi rimproverato dai discepoli terrorizzati (v.
38), «si destò».
Questo movimento segna il passaggio dal sonno all’atteggiamento di colui che veglia ed è ben presente a se stesso e agli eventi che lo circondano; ma indica anche il passaggio da una situazione oscura e pericolosa segnata dalla morte incombente, alla vita (abbiamo qui una allusione alla dinamica pasquale).
Ma significativa è anche la parola che Gesù pronuncia sul mare sconvolto dalla tempesta: «minacciò il vento e disse al mare: “Taci, calmati!”» (v.
39).
Gesù ha l’ultima parola sul creato, sulla storia, su tutte le forze che la compongono e che la minacciano, perché tutto il creato e ogni evento dipendono da quella parola, in quanto solo essa ha la forza di creare e di rivelare il logos di tutto.
Ecco perché a quella Parola «anche il vento e il mari gli obbediscono».
Se tutta la scena con il suo straordinario dinamismo ha la forza di rivelare l’identità di Gesù, essa permette anche di sottolineare l’atteggiamento del discepolo di fronte a questo volto che si rivela.
Diventa allora fondamentale l’interrogativo con cui si chiude l’episodio: «Chi è dunque costui?» (v.
41).
A un certo punto Gesù domanderà ai discepoli: «Ma voi, chi dite che io sia?» (Mc 8,29; la domanda che è posta da Marco al centro del cammino del discepolo).
L’interrogativo pieno di stupore e di timore con cui si conclude il racconto della ‘tempesta sedata’ è come un avvio a questa consapevolezza che il discepolo deve maturare a riguardo della identità di Gesù.
Ed è una consapevolezza che mette in gioco la fede.
Ecco allora una altro interrogativo che Gesù stesso pone e a cui il discepolo deve dare una risposta proprio a partire da ciò che ha vissuto: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (v.
40).
Nei discepoli c’è fede, perché prendono con loro Gesù «così com’era, sulla barca» (v.
39).
C’è fede perché nel pericolo si accostano a Gesù e lo supplicano: «Maestro…».
Ma manca in loro ancora fede, c’è un cammino ancora da compiere, devono ancora comprendere molto di Gesù.
E soprattutto il salto di qualità da compiere, proprio a partire dalla esperienza vissuta, è quello che permette di passare dalla paura ad una abbandono totale nelle mani di Gesù, quel Gesù che li ha «scelti perché stessero con lui» (Mc 3,14), quel Gesù che, pur addormentato e apparentemente assente, conosce il cammino da seguire.
La fede dei discepoli deve compiere un salto; deve, simbolicamente, passare all’altra riva.
E proprio l’atteggiamento che suscita la domanda finale, segna l’inizio di questo passaggio.
Alla fine il discepolo non ha più paura, ma ha timore, è il timore di fronte alla grandezza e alla potenza di un Dio che può veramente calmare il mare agitato delle vicende umane, un Dio che si prende cura della fragilità e della paure dell’uomo per educarlo alla fede in Lui.
Forse il discepolo ha sempre bisogno di sentirsi rivolgere questa domanda da Gesù: Non avete ancora fede? Solo così il discepolo può camminare dietro a Gesù e comprender che la sua fede in lui deve incessantemente compiere altri passi, passare attraverso mari in tempesta, sperimentare pace e calma ed essere sempre accompagnata dall’interrogativo: Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?

I Templari e la sindone di Cristo

Dopo il 1250, perduta ormai da decenni Gerusalemme e allontanandosi sempre più la prospettiva di recuperarla, i Templari sentirono il bisogno di mantenere un contatto fisico, concreto con i luoghi della vita di Cristo; così presero l’abitudine di farsi delle reliquie personali da portare sempre addosso come difesa contro i peccati dell’anima e i rischi della battaglia: in fondo questo rispondeva bene alla loro fisionomia di ordine militare e religioso, e anche san Bernardo aveva sottolineato che il Templare combatte sempre su due fronti tutti i giorni della sua vita.
Durante i decenni precedenti, quando Gerusalemme e il Santo Sepolcro erano custoditi dai cristiani, i Templari si recavano nella grande basilica per celebrare particolari liturgie notturne delle quali le fonti non ci dicono nulla: probabilmente consacravano le loro cordicelle, simbolo dei voti religiosi del Tempio, poggiandole proprio su quella pietra dove era stato deposto il cadavere di Gesù dopo la crocifissione.
Se così fu, le rendevano in tal modo inestimabili reliquie della Passione di Cristo da tenere sempre su di sé, a tutela della loro salvezza fisica e spirituale.
Più tardi, perduto il Sepolcro per la riconquista del Saladino, dovettero rassegnarsi a consacrare le loro corde con qualcosa di diverso: altri Luoghi Santi del regno cristiano che però non avevano certo lo stesso valore del Sepolcro, oppure alcune reliquie di cui l’ordine era entrato in possesso, che nella seconda metà del Duecento formavano un tesoro custodito nella città di Acri.
La voce che il misterioso “idolo” fosse conservato proprio nel tesoro di Acri circolava fra i Templari e tutto lascia pensare che la sua identità venisse tenuta segreta alla maggioranza dei frati.
Qualunque cosa fosse, nell’ordine esistevano molte copie sparpagliate fra le varie commende; questi simulacri sembra venissero esposti alla venerazione dei Templari ma anche dei fedeli laici che frequentavano le chiese del Tempio come se appartenessero a un misterioso personaggio sacro che proteggeva l’ordine in maniera speciale.
Il ritratto era considerato più una reliquia che non una semplice immagine, veniva conservato ed esposto insieme alle altre reliquie dei Templari, e anche la liturgia con cui era venerato prevedeva proprio quel bacio rituale che per tradizione si dava alle reliquie.
Secondo alcuni Templari l’idolo era chiamato “il Salvatore”; si pregava chiedendogli non favori materiali come la ricchezza, il successo con le donne o il potere nel mondo, ma piuttosto il più alto dei valori cristiani, la salvezza dell’anima.
Esiste la possibilità di sapere con certezza chi mai fosse l’uomo raffigurato in questo ritratto? Fortunatamente sì.
Nell’anno 1268 il sultano Baibars si impadronì del fortilizio di Saphed che era stato in possesso dei Templari; certo si meravigliò di trovare nella sala principale della fortezza, proprio quella in cui si celebrava il capitolo dell’ordine, un bassorilievo che raffigurava la testa di un uomo con la barba.
Il sultano non capì chi fosse quell’uomo, e purtroppo anche lo storico moderno non può fare alcuna ipotesi perché il monumento è andato distrutto.
Esistono comunque alcune raffigurazioni dello stesso personaggio che si trovano su oggetti appartenuti sicuramente ai Templari, oggetti che si conservano ancor oggi e permettono di vedere, diciamo pure toccare con mano, l’identità dell’uomo misterioso: sono alcuni sigilli di Maestri del Tempio conservati in archivi della Germania, che portano sul verso proprio il ritratto di un uomo con la barba, e un pannello di legno ritrovato nella chiesa della magione templare di Templecombe, in Inghilterra.
Sono senza dubbio tutte copie del Volto di Cristo raffigurato senza né aureola né collo, come se la testa fosse stata in qualche modo isolata dal resto del corpo.
È un modello iconografico abbastanza raro nell’Europa del medioevo ma invece estremamente diffuso in Oriente perché riproduce il vero aspetto del Cristo come appariva dal mandylion, la più preziosa delle reliquie posseduta dagli imperatori bizantini.
Secondo una tradizione molto antica si trattava di un ritratto di Cristo non fatto da mano umana, bensì prodottosi in maniera miracolosa quando Gesù aveva passato sul volto un asciugamano (in greco appunto mandylion); non era un ritratto in senso vero e proprio, cioè un disegno, ma piuttosto un’impronta.
Custodito nel grande sacrario del palazzo imperiale di Costantinopoli, il mandylion fu copiato innumerevoli volte in affreschi, miniature, icone su tavola di legno, e la tradizione di questo ritratto miracoloso si diffuse pian piano anche in Occidente.
Ancor oggi in alcune fra le maggiori basiliche d’Europa restano opere d’arte che la riproducono, come ad esempio l’icona su tessuto nota come Santo Volto di Manoppello, quelle conservate a Genova, Jaen, Alicante, quella custodita nella basilica di San Pietro in Vaticano dentro la cappella di Matilde di Canossa: sono tutte copie del mandylion realizzate in Oriente.
La tavola trovata nella chiesa templare di Templecombe sembra molto interessante perché riproduce addirittura la forma della teca-reliquiario di Costantinopoli così come ci risulta in tante raffigurazioni, prima fra tutte la splendida miniatura sul codice Rossiano greco 251 della Biblioteca Apostolica Vaticana (secolo XII): il Volto appare inserito dentro una specie di custodia rettangolare che ha proprio le dimensioni di un asciugamano, più largo che lungo, e questa custodia ha un’apertura al centro che lascia vedere soltanto il Volto di Cristo isolato dal collo e dal resto del corpo.
Nell’icona di Templecombe la forma di questo riquadro che scopre le fattezze umane di Gesù e le isola dalla copertura è un elegante motivo geometrico a quadrifoglio molto amato in Oriente, e usato nei reliquiari bizantini già dal ix secolo.
Il fantomatico idolo dei Templari era dunque in se stesso un ritratto di Gesù Cristo di tipo molto particolare: ma nel guazzabuglio degli interrogatori, sotto tortura o anche solo suggestionati dagli inquisitori, molti frati finirono per descrivere ogni cosa che potesse in qualche modo somigliare a quella strana testa maschile su cui gli aguzzini volevano informazioni a ogni costo.
Era un ritratto che seguiva un’iconografia orientale, importata da Costantinopoli ma poco nota in Europa, ed era presente in molte commende dell’ordine in forme diverse: come icona su legno, come bassorilievo, in forma di un telo di lino che però ne portava la rappresentazione del corpo per intero.
L’ultimo di questi oggetti fu visto solo da alcuni frati nel sud della Francia: non sembrava un dipinto ma piuttosto un’immagine dai tratti indefiniti, ed era un’immagine monocromatica.
Si trattava di un ritratto assolutamente particolare, impossibile da riconoscere per chi non fosse consapevole di certi fatti: riproduceva il Cristo in una versione tragicamente umana, lontanissima da quella del Risorto che i Templari erano abituati a vedere di solito.
E tutto lascia pensare che i dirigenti dell’ordine ebbero le loro ragioni per decidere di mantenere segreta la sua esistenza.
Secondo Ian Wilson la sindone ripiegata in modo da lasciar vedere solo l’immagine del volto era in realtà un oggetto a suo tempo posseduto dagli imperatori bizantini, ritenuto fra le più venerate e preziose reliquie della cristianità: era un ritratto autentico del viso di Gesù che ne riproduceva fedelmente la fisionomia.
Ian Wilson crede che la sindone-mandylion sparì da Costantinopoli durante il terribile saccheggio che la città dovette subire al tempo della quarta crociata (1204).
Restò nascosta per molti decenni, poi ricomparve nell’anno 1353 presso Lirey, una cittadina della Francia centrosettentrionale: in quell’anno il cavaliere Geoffroy de Charny, Portaorifiamma nell’esercito di re Giovanni il Buono nonché uomo tra i nobili più in vista a corte, donò la singolare reliquia alla chiesa collegiata che aveva appena fondato proprio a Lirey.
La sindone cominciò a essere esibita alla venerazione come vero sudario del Cristo in una serie di ostensioni solenni che attirarono l’entusiasmo dei fedeli e le gelosie del vescovo locale; passata dopo varie vicissitudini nelle mani della famiglia Savoia, fu custodita dapprima a Chambéry presso la sontuosa Sainte-Chapelle del palazzo ducale, poi trasferita a Torino dove si trova tuttora.
Il legame con l’ordine dei Templari è stato suggerito a Ian Wilson dalla circostanza che l’uomo morto sul rogo insieme a Jacques de Molay si chiamava Geoffroy de Charny, cioè esattamente come il proprietario della sindone a Lirey.
Alcuni sollevano un’obiezione a quest’ultimo punto e sostengono che il primo possessore della sindone si trova nominato come Geoffroy de Charny, mentre il cognome del Precettore templare in Normandia compare nei vari documenti che lo citano in forme diverse, cioè Charny ma anche Charneyo, Charnayo, Charniaco.
A loro giudizio ci sarebbe insomma una piccola differenza di suoni e ciò basterebbe per supporre che si trattò di due persone diverse.
Mi permetto di far notare che in un registro amministrativo del tempo di re Filippo vi di Valois il cognome del primo possessore della sindone è reso con le forme de Charneyo e anche Charni, Charnyo oppure Charniaco proprio come si trova per il suo parente templare Geoffroy morto sul rogo il 18 marzo 1314 insieme a Jacques de Molay.
Un simile ragionamento che pretende di spaccare il capello in quattro sulle varianti d’ortografia del latino medievale può essere dato in pasto solo a chi non ha alcuna pratica di documenti del medioevo.
Il discorso sarebbe giusto se il nostro personaggio fosse vissuto nella Francia di Napoleone o di Victor Hugo, ovvero in un mondo dominato dalla carta stampata e soprattutto con una cultura che è ormai ufficialmente in francese.
Per la società del medioevo le cose sono completamente diverse.
Gli atti del processo contro i Templari, come un numero incalcolabile di altri documenti della stessa epoca, furono scritti a mano e questo significa che si potevano facilmente commettere piccoli errori; ma soprattutto, venivano composti in latino da alcuni notai che traducevano simultaneamente mentre ascoltavano i testimoni parlare nella loro lingua nativa, in questo caso il francese.
Quanto possiamo trarre dai documenti del processo contro i Templari conferma l’ipotesi di Wilson.
Geoffroy de Charny apparteneva alla cerchia ristretta dei fedeli di Jacques de Molay ed era l’unico compaignon dou Maistre cui Nogaret riconobbe un potere tale nel Tempio da rinchiuderlo nelle prigioni di Chinon insieme ai membri dello Stato Maggiore: il tipo di isolamento prescelto, e il fatto di volerli negare al Papa che desiderava interrogarli, fa supporre che Charny e gli altri fossero in grado di dare una testimonianza determinante.
Geoffroy veniva da una famiglia di rango cavalleresco ed era diventato templare nel 1269 presso la magione di Étampes, nella diocesi di Sens: la sua cerimonia d’ingresso fu celebrata da un alto dignitario templare chiamato Amaury de La Roche, di cui parleremo in seguito, un personaggio di primo piano nell’ordine del Tempio ma anche uomo legatissimo alla corona di Francia.
Dovette trattarsi di una cerimonia importante, visto che anche il precettore di Parigi Jean le Franceys si spostò dalla sua magione per assistere alla cerimonia.
Nato intorno al 1250, il cavaliere Geoffroy de Charny nel 1294 era responsabile della magione di Villemoison, in Borgogna, e un anno più tardi, a soli 45 anni, deteneva la responsabilità della provincia templare di Normandia; fece un carriera prestigiosa, ma non fu solo il suo grado gerarchico a determinarne il potere e il prestigio nel Tempio.
Le fonti templari documentano che quest’uomo fu sempre molto vicino alla persona di Jacques de Molay; nel 1303 era nella magione di Marsiglia dove assistette all’ingresso di un giovane servitore del Gran Maestro, preposto alla cura dei suoi arnesi e dei suoi cavalli, il quale fu ricevuto da Symon de Quincy allora soprintendente alla traversata verso Outremer.
Marsiglia era il principale porto francese d’imbarco verso l’Oriente ed entrambe le testimonianze affermano che i frati presenti in quel capitolo partirono poi alla volta di Cipro: una norma degli statuti gerarchici templari proibiva ai precettori delle province occidentali di recarsi in Outremer a meno che non obbedissero a un espresso ordine del Gran Maestro, dunque è sicuro che Geoffroy de Charny si trovava in quel luogo mentre era in viaggio con gli altri frati per raggiungere Jacques de Molay.
Esisteva di sicuro un forte legame di amicizia personale fra il Gran Maestro e Geoffroy de Charny: la cronaca nota come Continuazione di Guillaume de Nangis ricorda che solo il Precettore di Normandia volle seguire Molay sul rogo gridando alle folle, durante l’ultimo appello loro concesso, che il Tempio era innocente e non aveva tradito la fede cristiana.
Geoffroy de Charny sembra costantemente fra i più importanti dignitari del Tempio.
C’è anche un altro dettaglio.
Se guardiamo ai documenti del processo nella loro interezza, notiamo che il Precettore di Normandia Geoffroy de Charny era noto ai confratelli anche con un soprannome che indicava la sua zona d’origine, come noi oggi diremmo “il toscano” o “il siciliano”.
Charny era chiamato anche le berruyer, che nel francese trecentesco significava “originario del Berry”: è la zona oggi detta Champagne berrichonne, la quale nel tardo medioevo si trovava incuneata fra i due grandi potentati feudali del conte di Champagne e del duca di Borgogna.
Si tratta proprio della zona dove vissero e fiorirono i de Charny, che infatti dovettero sempre barcamenarsi nel difficile gioco dei poteri imposto dalla presenza di queste due grandi signorie.
Il Precettore templare di Normandia Geoffroy de Charny e il Portaorifiamma di Francia che possedeva la sindone alla metà del Trecento appartenevano con ogni probabilità alla stessa famiglia, anche se le fonti non ci permettono di vedere in dettaglio quale fosse l’esatto legame di parentela.
I de Charny si erano legati all’ordine del Tempio verso la fine del XII secolo: nel 1170 Guy vendette al Tempio un bosco ma i suoi figli Haton e Symon, 11 anni più tardi, doneranno all’ordine 15 arpenti di terra, mentre nel 1262 un altro membro del lignaggio, Adam, donerà all’ordine il feudo di Valbardin.
È da notare che queste donazioni si facevano spesso come “dote” per un figlio che entrava nell’ordine.
Il dominio templare a Charny distava soltanto un quarto di lega dalla commanderia.
Grazie al cartulario di Provins veniamo a conoscenza del fatto che nel 1241 viveva un templare chiamato Hugues de Charny, il quale potrebbe ben essere uno zio del futuro Precettore di Normandia.
La famiglia ebbe a che fare (seppur in via indiretta) con un altro evento che riguardò la sindone da vicino: la quarta crociata, con il tremendo saccheggio di Costantinopoli durante il quale la reliquia sparì.
Il conte Guillaume de Champlitte, uno dei maggiori baroni che parteciparono alla presa di Costantinopoli e divenne poi principe di Acaia, chiese in moglie Elisabeth del lignaggio di Mont Saint-Jean, signori di Charny.
Già dalla metà del XII secolo il feudo di Charny era intimamente legato alla famiglia de Courtenay: Pietro i de Courtenay, signore anche di Charny e ultimo figlio del re di Francia Luigi il Grosso, era il padre di Pietro ii de Courtenay destinato a divenire imperatore di Costantinopoli nel 1205; un anno dopo la conquista della capitale greca, cioè proprio nel 1205, un personaggio del lignaggio de Courtenay risiede nel castello di Charny.
Più tardi, anche quando i greci ripresero il controllo dell’impero d’Oriente, i de Charny mantennero legami concreti con i feudi che si erano creati laggiù: agli inizi del Trecento il cavaliere Dreux de Charny sposò la nobildonna Agnès erede della signoria greca di Vostzitza.
Le fonti note indicano comunque che la famiglia de Charny non entrò in possesso della sindone all’indomani del grande sacco, bensì molti decenni più tardi.
(©L’Osservatore Romano – 17 giugno 2009) FRALE B., I Templari e la sindone di Cristo, il Mulino,Bologna,2009 , pp.251, ISBN 272, 978-88-15-13157-7, pp. € 16,00 I Templari, l’ordine religioso-militare più potente del Medioevo, con tutta probabilità per un certo periodo custodirono la sindone oggi conservata a Torino.
Venerato nel più rigido segreto e conosciuto nella sua reale natura solo dai maggiori dignitari dell’ordine, il telo era conservato nel tesoro centrale dei Templari, che avevano fama di essere autorità nel campo delle reliquie.
In un’epoca di confusione dottrinale diffusa in gran parte della Chiesa, la sindone per i Templari rappresentava un potente antidoto contro il proliferare delle eresie.
Seguendone l’itinerario nel corso del Medioevo l’autrice procede anche a ritroso nel tempo, fino agli albori dell’era cristiana, aprendo una prospettiva nuova sulla controversa reliquia.
Barbara Frale, storica ed esperta di documenti antichi, è ufficiale dell’Archivio Segreto Vaticano.
Studiosa dei Templari e delle crociate, ha scritto “L’ultima battaglia dei Templari” (Viella, 2001), “Il papato e il processo ai Templari” (Viella, 2003) e “I Templari” (Il Mulino, 2004; trad.
inglese, francese, spagnola, portoghese, polacca e ceca).

Testimoni del nostro tempo: Il cardinale Massaia

L’8 giugno 1809, a Piovà d’Asti, nasceva il servo di Dio cardinale Guglielmo Massaia.
Nel Bicentenario di tale evento, si stanno svolgendo varie iniziative per riproporre alla considerazione della gioventù d’oggi questa grande figura di missionario dei tempi moderni.
Con lo spirito di san Francesco d’Assisi, il Massaia obbedì alla voce del Papa Gregorio XVI, che gli proponeva un’attività apostolica immane in un territorio fino ad allora poco conosciuto.
Confidando nella Provvidenza Divina, egli accettò d’essere inviato in Etiopia, come vicario apostolico dei Galla.
Era, per lui, un mondo nuovo, ma, sorretto dalla fede dei santi, iniziò il suo eroico apostolato che doveva durare per ben 35 anni.
Si trattò di un’attività missionaria gigantesca, che ancor oggi continua a stupirci.
Era quindi giusto far nuovamente conoscere agli uomini d’oggi tale grande opera apostolica.
Con molta soddisfazione, ho quindi salutato l’iniziativa del noto studioso di storia della santità moderna, qual è monsignor Alessandro Pronzato, che ha voluto regalarci una nuova pubblicazione sul cardinale Massaia.
È un’opera che ho letto con profondo interesse, ammirando soprattutto lo sforzo nel sottolineare la santità di vita di questo importante apostolo dell’Africa.
In realtà, i numerosi scritti finora apparsi sulla figura di tale leggendario missionario abbondavano nel descrivere le sue caratteristiche di viaggiatore instancabile, di studioso della vita dei popoli, di buon samaritano verso tanti ammalati, di uomo dedito, secondo le circostanze, anche ai lavori più umili per aiutare quelle popolazioni.
Bene ha fatto il nostro biografo nell’insistere sull’anima del suo apostolato, su quel fuoco interiore d’amore per Cristo e per i fratelli, che sempre lo sospingeva sul suo doloroso cammino.
Scorrendo le pagine di tale libro, emerge chiaramente la santità eroica del cardinale Massaia, come ben leggiamo nella seconda parte della biografia: “Se questo non è un santo”! Del resto, la sua santità di vita era ben nota al Papa Leone XIII, il Papa che, nel Concistoro del 10 novembre 1884, aveva voluto esaltare tale intrepido missionario creandolo cardinale di Santa Romana Chiesa e che, poi, alla sua morte, il 6 agosto 1889, aveva esclamato, profondamente commosso: “È morto un santo!” Grande fu pure la fama di santità presso i suoi contemporanei.
Qui basterebbe ricordare come parlava di lui il suo grande amico, san Daniele Comboni, che conosceva a fondo il Massaia e con il quale collaborò nella ricerca delle vie migliori per l’apostolato missionario in terra africana.
Basterebbe leggere una lettera che il giovane Comboni scrisse da Parigi al rettore dell’istituto Mazza di Verona, il 22 marzo 1865, nella quale vi sono le seguenti espressioni: “Ho la consolazione di essere qui con un santo uomo, che mi ama come suo figlio e mi circonda di mille premure, e mi fa fino da infermiere.
Più che studio e che pratico con questo sant’uomo, più mi comparisce ammirabile…
Egli, uomo semplice come l’acqua, ma assai colto, menò la vita più santa, di cui so molti particolari”.
Circa la fama di santità di cui godeva in vita il nostro missionario cappuccino, basterebbe pure leggere la testimonianza di san Giustino De Jacobis, il noto sacerdote vincenziano, nominato vicario apostolico per l’Abissinia Superiore e ordinato vescovo dal medesimo cardinale Massaia.
Nei suoi scritti, il De Jacobis parla sovente del “santo prelato”, definendolo “uno dei più preziosi monumenti moderni alla carità apostolica”, e anche “il sant’Eusebio dei nostri giorni” – alludendo alle gravi sofferenze ed all’esilio che dovette subire il santo vescovo di Vercelli.
Felicemente, quindi, monsignor Pronzato ha voluto sottolineare la santità di vita del Massaia.
È stata una grata sorpresa anche per me leggere alcune pagine del libro che hanno il sapore dei Fioretti di san Francesco.
Già conoscevo parecchie testimonianze di altri contemporanei del Massaia.
Le aveva ben sintetizzate nel 2003 il cappuccino Antonino Rosso, noto studioso del cardinale Massaia, in un suo scritto dal titolo Evangelizzazione, promozione umana, fama di santità (Pinerolo, 2003).
Con la presente pubblicazione, monsignor Alessandro Pronzato ha contribuito magistralmente a presentarci la statura spirituale di questo grande uomo di Dio, quale fu il Massaia, sia come religioso cappuccino a Torino, che come vescovo missionario di Africa ed infine come cardinale di Santa Romana Chiesa.
Personalmente, poi, in quest’anno in cui commemoriamo i duecento anni dalla sua nascita, ho voluto rileggere le belle pagine delle memorie storiche redatte dal Massaia per ordine del Papa Leone XIII, e recanti il noto titolo: I miei trentacinque anni di Missione in Alta Etiopia (Roma-Milano, 1885-1895).
Ho voluto poi riflettere sugli scritti dei numerosi altri studiosi, di ieri e di oggi, e sono giunto alla stessa conclusione.
In passato, alla causa di canonizzazione del Massaia era forse nociuto che alcuni scrittori l’avessero piuttosto presentato come il viaggiatore, lo scopritore, l’etnologo, il poliglotta, il medico, il diplomatico che trattava con i responsabili dei cinque regni esistenti nel territorio affidatogli e che manteneva poi contatti con le potenze coloniali europee.
Gli studi recenti hanno però contribuito a porre in giusta luce la spiritualità del Massaia.
Non rimane perciò che esprimere il voto che presto possiamo anche venerare sugli altari questa grande figura di servo di Dio dei tempi moderni.
Si sono aperte a Piovà Massaia, in provincia d’Asti, con una messa presieduta dal decano del collegio cardinalizio Angelo Sodano, le celebrazioni per ricordare i duecento anni dalla nascita del cardinale Guglielmo Massaia, grande missionario dell’Etiopia.
“Egli non ha voluto solo annunciare la Buona novella di Cristo con la sua vita e la sua parola – ha ricordato il porporato nell’omelia – ma ha consacrato tutta la sua esistenza a portare la luce del Vangelo anche nelle lontane terre africane”.
I suoi viaggi apostolici lo portarono, infatti, in molte regioni dell’Africa, anche al di fuori dell’Abissinia.
È ormai giunta al termine – ha ricordato poi il cardinale – l’indagine della Chiesa sulla vita e le opere di “questo grande apostolo dei tempi moderni”.
Sodano ha perciò auspicato che “la celebrazione del bicentenario della nascita del nostro grande cardinale ci spinga tutti a pregare perché presto sia anche riconosciuta dalla Chiesa la sua santità eroica”.
Una preghiera perché il Signore “attraverso anche qualche suo segno straordinario, quali sono i miracoli, voglia guidare la Chiesa a riconoscere presto la santità di questo suo figlio illustre”.
Numerosissime sono le iniziative in programma fino al prossimo autunno in tutta Italia per ricordare la figura di Massaia:  convegni, incontri di preghiera, mostre, libri.
Pubblichiamo la prefazione del cardinale decano a un volume appena uscito (Alessandro Pronzato, Tanta strada sotto quei sandali…
Cardinale Guglielmo Massaia un santo dimenticato, Milano, Gribaudi, 2009, pagine 204, euro 13,50) che ne ripercorre l’itinerario umano e spirituale.