Si celebra il primo settembre 2009 la IV Giornata per la Salvaguardia del Creato, dal titolo: “Laudato si’, mi’ Signore… per frate vento et per aere et nubilo et sereno et onne tempo, per lo quale, a le Tue creature dài sustentamento”.
Promotori dell’evento l’Ufficio Nazionale per i problemi sociali e il lavoro e l’Ufficio Nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della CEI.
Il testo del messaggio per la Giornata e le indicazioni per la sua celebrazione a livello diocesano sono reperibili in rete su www.chiesacattolica.it/lavoro o www.chiesacattolica.it/ecumenismo.
In allegato trovate anche il testo della catechesi pronunciata da Bendetto XVI a Castel Gandolfo durante l’udienza generale di mercoledì 26 agosto e dedicata proprio al tema della Giornata.
Documenti allegati:CATECHESI DEL SANTO PADRE.doc
Categoria: Formazione
Un documento della Compagnia delle Opere sulla scuola
Con un approccio nuovo e veramente significativo il documento che la Compagnia delle Opere dedica alla scuola, e che qui presentiamo, evidenzia la stretta connessione che intercorre tra il tema educazione e il tema istruzione.
Le proposte che qui vengono avanzate per un cambiamento del sistema scolastico sono per lo più riconosciute e condivise dai migliori centri di studio e di approfondimento sul tema istruzione, quali l’Associazione TreeLLLe, la Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo, la Fondazione Agnelli ecc.
I punti sono noti: autonomia (nuova governance) e parità, contro lo statalismo ipercentralista; reale valutazione del sistema scolastico; nuova professionalità e carriera per i docenti; personalizzazione dei percorsi; abolizione del valore legale del titolo di studio.
Sono tutti punti essenziali, la cui importanza è anche in un certo senso sistemica: una cosa senza l’altra (ad esempio, autonomia senza valutazione) sarebbe una cosa fatta a metà, e quindi fatta male.
A tutti questi temi il nostro giornale ha già dedicato moltissimi interventi di approfondimento e continuerà a farlo.
Il punto caratterizzante del documento è un altro: non solo la centralità del tema educazione, ma la diretta consequenzialità e correlazione tra la tensione educativa e la ricerca di risposte concrete a livello di sistema di istruzione.
Non c’è educazione che non entri nel merito anche delle scelte concrete, sia nella didattica che nella politica scolastica; e d’altro canto parlare di istruzione senza porsi il problema educativo sarebbe ridurre tutto a un vacuo tecnicismo utopistico.
Non si creerà mai un sistema talmente perfetto da rendere superfluo il rapporto educativo tra docente e studente, elemento centrale della scuola; ma non si darà mai vera incidenza alla tensione educativa se la si lascerà a lato delle problematiche della scuola (riducendola di fatto a ciò che è lo svago del sabato sera rispetto alla settimana lavorativa).
Nel documento “Una scuola che parla al futuro” è segnata una stretta interdipendenza tra i due aspetti.
Basta confrontare i punti essenziali alla voce “Educazione” e le proposte programmatiche, e si vedrà che dai primi discendono le seconde: quando si dice che «la prima condizione che realizza l’educazione è la presenza di figure adulte autorevoli» significa, di conseguenza, che è necessario che ci siano «docenti e dirigenti come veri professionisti» (d’altronde, finché lo studente continuerà a guardare al professore come a un fallito nella scala sociale tutto resterà molto difficile); quando si dice che «l’autorevolezza deriva dalla partecipazione ad un cammino unitario di costruzione del proprio io» e che «gli alunni non sono da intendere come il terminale astratto di iniziative che li vedono passivi», ne deriva la necessità di avere «percorsi di studio flessibili e personalizzati».
E così via.
Le esigenze educative si concretano in scelte di politica scolastica, che non saranno mai la soluzione perfetta, ma permetteranno o di facilitare il processo educativo, o quanto meno (e già sarebbe molto!) di non ostacolarlo.
Questa è dunque la grande sfida che questo documento lancia nel dibattito sulla scuola.
In un momento in cui, per altro, l’emergenza educativa è sempre più evidente e centrale.
In questo senso, le molte indagini e ricerche (alcune recentissime) che testimoniano la totale indifferenza degli studenti verso la loro esperienza scolastica sono un dato drammatico e ineludibile: i docenti non sono un punto di riferimento, né umano né culturale; le cose che contano veramente le si imparano altrove; la scuola non è né buona né cattiva, ma semplicemente indifferente, perché da essa non ci si aspetta nulla.
Ecco come educazione e istruzione vengono allora a coincidere: nel momento in cui ci si rende pienamente conto che, come fu detto autorevolmente, non c’è cosa più assurda della risposta a una domanda che non si pone.
Far emergere la domanda di sapere e conoscenza è compito educativo, che si realizza dentro un’autorevole e riconosciuta professionalità didattica che abbia come fine l’istruzione.
Un ultimo appunto, che rende particolarmente importante e attuale il documento Cdo: proprio in questi giorni l’Assemblea della Conferenza episcopale italiana ha rilanciato il tema educazione come tema del prossimo decennio.
Significa che c’è una grande responsabilità, non solo per i cattolici, e un impegno per tutti, in termini di riflessione, approfondimento, lavoro concreto: l’educazione e la scuola dovranno essere i pilastri del dibattito politico-culturale nei prossimi anni.
Per consultare il documento: Scuola e futuroIl sussidiario Oggi il ministro Gelmini, attesa al meeting di Rimini per un suo intervento, è chiamata anche implicitamente a fornire risposte ad un documento predisposto dalla Compagnia delle Opere dedicato alla scuola e contenente una stretta interconnessione tra educazione e istruzione.
Ne parla sul proprio sito la testata on-line “Il sussidiario” che riporta il testo integrale del documento.
Le proposte avanzate dalla Compagnia delle Opera – osserva l’editoriale de “Il sussidiario” – per un cambiamento del sistema scolastico “sono per lo più riconosciute e condivise dai migliori centri di studio e di approfondimento sul tema istruzione, quali l’Associazione TreeLLLe, la Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo, la Fondazione Agnelli ecc.”.
I punti trattati dal documento e che chiamano in causa la Gelmini sono: – autonomia (nuova governance) e parità, contro lo statalismo ipercentralista; – reale valutazione del sistema scolastico; – nuova professionalità e carriera per i docenti; – personalizzazione dei percorsi; – abolizione del valore legale del titolo di studio.
“Sono tutti punti essenziali – fa notare Il sussidiario – la cui importanza è anche in un certo senso sistemica: una cosa senza l’altra (ad esempio, autonomia senza valutazione) sarebbe una cosa fatta a metà, e quindi fatta male”.
“Il punto caratterizzante del documento è la diretta correlazione tra la tensione educativa e la ricerca di risposte concrete a livello di sistema di istruzione.
Non c’è educazione che non entri nel merito anche delle scelte concrete, sia nella didattica che nella politica scolastica; e d’altro canto parlare di istruzione senza porsi il problema educativo sarebbe ridurre tutto a un vacuo tecnicismo utopistico.”
Adozione dei libri di testo
Con Ordinanza n.
4328 dell’8 agosto, il Consiglio di Stato ha respinto l’appello del Ministero dell’istruzione che aveva chiesto di sospendere la sentenza del Tar Lazio sui libri di testo.
La sentenza, originata da un ricorso di docenti lombardi sostenuti dalla Cgil-scuola territoriale, aveva ritenuta non legittima la disposizione ministeriale per l’adozione dei libri di testo nella parte in cui non prevedeva la deroga al vincolo quinquennale o sessennale dei testi adottati, qualora un nuovo docente assegnato alla classe avesse ritenuto opportuna una scelta diversa.
Il Consiglio di Stato, nel respingere qualche giorno fa, per mancanza dei motivi di urgenza, la richiesta del Miur di sospendere l’applicazione della sentenza del Tar Lazio che riconosce il diritto di docenti neo-trasferiti di derogare dal blocco quinquennale dei libri di testo adottati, ha richiamato una sua recente ordinanza in merito che sembra porre fine alla questione.
Il 19 maggio scorso, infatti, lo stesso Consiglio di Stato ha emesso l’ordinanza n.
2540 con la quale in modo inequivocabile chiarisce l’eventuale diritto dei docenti neo-assegnati ad una scuola di derogare dal blocco di adozione quinquennale dei libri di testo e di rivendicare il diritto di modificare l’adozione.
“l’impostazione seguita dall’amministrazione nella circolare impugnata – recita l’ordinanza – secondo la quale il trasferimento dell’insegnante non costituisce specifica e motivata esigenza che consente, ai sensi dall’art.
5 del D.
L. 1 settembre 2008, n.137, il cambio di libri di testo prima del decorso del quinquennio, appare conforme al dettato normativo, che sottolinea l’eccezionalità dei casi nei quali è consentito il suddetto cambio, e non appare irrazionale, in quanto le valutazioni del docente subentrante non costituiscono evento obiettivo, tale da imporsi come eccezione alla volontà del legislatore”.
XXII Domenica del tempo ordinario anno B
Questo popolo mi onora con le labbra Fratelli, siamo umili, deponendo ogni vanagloria, vanità, stoltezza, ira e adempiamo ciò che sta scritto; lo Spirito santo dice, infatti: «Il saggio non si vanti della sua saggezza, né il forte della sua forza, né il ricco della sua ricchezza, ma chi si vanta si vanti nel Signo-re, di cercarlo e di praticare il diritto e la giustizia» (cfr.
Ger 9,22-23; 1Re 2,10; 1Cor 1,31; 2Cor 10,17).
Ricordiamoci soprattutto delle parole del Signore Gesù, quando ci insegnava la benevolenza e la grandezza d’animo.
Così diceva: «Siate misericordiosi per ottenere mi-sericordia; perdonate per essere perdonati, come farete, così sarà fatto a voi; come date, co-sì sarà dato a voi; come giudicate, così sarete giudicati; la bontà che usate, sarà usata con voi; la misura con la quale misurate, verrà usata con voi» (cfr.
Mt 6,14-15; 7,1-2; Lc 6,31.36-38).
Attacchiamoci saldamente a questo comandamento e a questi precetti per procedere umili e obbedienti nelle sue sante parole; dice infatti la sua santa Parola: «A chi rivolgerò lo sguardo, se non al mite, al pacifico e che teme le mie parole?» (Is 66,2).
Uniamoci, dunque, a quelli che vivono la pace nella fede, non a quelli che fingono di volerla con ipocrisia.
Dice infatti: «Questo popolo mi onora con le labbra e il suo cuore è lontano da me» (Is 29,13; Mc 7,6).
E ancora: «Con la loro bocca benedicono, con il loro cuo-re maledicono» (Sal 61 [62] ,5).
E ancora: «Lo amavano con la bocca e con la lingua gli mentivano, il loro cuore non era retto con lui, né rimanevano fedeli alla sua alleanza» (Sal 77 [78] , 36-37).
[…] Cristo appartiene agli umili e non a quelli che si elevano sopra il suo gregge.
Lo scettro della maestà di Dio, il Signore Gesù Cristo, non è venuto nella vanaglo-ria e nell’orgoglio, anche se avrebbe potuto, ma nell’umiltà, come lo Spirito santo aveva detto di lui.
Sta scritto infatti: «Signore, chi ha creduto alla nostra predicazione? E il brac-cio del Signore a chi fu rivelato? Noi l’abbiamo annunciato in sua presenza: è come un bambino, come una radice in terra arida; non ha apparenza, né gloria» (Is 53,1-2).
Vedete, carissimi, quale modello ci è dato! (CLEMENTE DI ROMA, Lettera ai Corinti 13.15-16, SC 167, pp.
120-126).
L’umiltà «Che abbiamo di buono che non lo abbiamo ricevuto? e se l’abbiamo ricevuto, perché vogliamo riportarne orgoglio? Al contrario, la viva considerazione delle grazie ricevute ci rende umili, poiché la conoscenza genera riconoscenza» (Introduction à la vie dévote [Filotea], V, 5).
«Il punto forte di tale umiltà sta non solo nel riconoscere volontariamente la nostra a-biezione, ma nell’amarla e compiacervisi, e non per mancanza di coraggio e di generosità, ma piuttosto per esaltare tanto più la Maestà divina e stimare molto di più il prossimo a paragone di noi stessi» (Introduction à la vie dévote [Filotea], III, 6).
Verità e umiltà Ci sono degli istanti in cui Dio ci conduce all’estremo limite della nostra impotenza ed è allora e solo allora che comprendiamo fino in fondo il nostro nulla.
Per tanti anni, per troppi anni, mi sono battuto contro la mia impotenza, contro la mia debolezza.
Il più sovente l’ho nascosta, preferendo apparire in pubblico con una bella ma-schera di sicurezza.
E’ l’orgoglio che non vuole accettare l’impotenza, è la superbia che non fa accettare di essere piccolo; e Dio, poco alla volta, me l’ha fatto capire.
Ora non mi batto più, cerco di accettarmi, di considerare la mia realtà senza veli, senza sogni, senza romanzi.
E’ un passo innanzi, credo; e se l’avessi fatto subito, quando imparavo a memoria il ca-techismo, avrei guadagnato quarant’anni.
Ora l’impotenza mia la metto tutta in faccia al-l’onnipotenza di Dio: il cumulo dei miei peccati sotto il sole della sua misericordia, l’abisso della mia piccolezza in verticale sotto l’abisso della sua grandezza.
E mi pare essere giunto il momento d’un incontro con Lui mai conosciuto fino ad ora, uno stare insieme come mai avevo provato, uno spandersi del suo amore come mai avevo sentito.
Sì, è proprio la mia miseria che attira la sua potenza, le mie piaghe che lo chiamano urlando, il mio nulla che fa precipitare a cateratte su di me il suo Tutto.
E in questo incontro fra il Tutto di Dio e il nulla dell’uomo sta la meraviglia più grande del creato.
E’ lo sposalizio più bello perché fatto da un Amore gratuito che si dona e da un Amore gratuito che accetta.
E’, in fondo, tutta la verità di Dio e dell’uomo.
E l’accettazione di questa verità è dovuta all’umiltà ed è per questo che senza umiltà non c’ è verità, e senza verità non c’ è umiltà.
(Carlo Carretto) Preghiera Signore Gesù, liberaci dall’ipocrisia.
Desideriamo con l’aiuto del tuo Santo Spirito per-seguire quello stile di vita che ci qualifica come tuoi veri discepoli.
Permettici di riconosce-re le nostre incoerenze, che offuscano lo splendore del tuo vangelo, e di vegliare sull’au-tenticità della nostra relazione con te e fra di noi.
Ti ringraziamo perché nella tua Pasqua tu ci hai generati a nuova vita, manifestando l’amore del Padre verso di noi.
Per questo c’impegniamo davanti a te a non permettere che nei nostri rapporti comunitari prevalga la ricerca dell’apparire e del dominare.
Ci impe-gniamo a custodire la consapevolezza della nostra immeritata figliolanza divina e della fraternità che deve regnare tra noi, nostro compito ma soprattutto tuo inestimabile dono.
Signore Gesù, desideriamo restare radicalmente tuoi discepoli, senza pretendere di di-ventare maestri di altri, perché dalla bocca tua, o solo Maestro, potremo comprendere, con sempre rinnovata gioia, l’amore di Dio Padre per noi suoi figli.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Deuteronomio 4,1-2.6-8 Mosè parlò al popolo dicendo: «Ora, Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, affinché le mettiate in pratica, perché viviate ed entriate in possesso della terra che il Signo-re, Dio dei vostri padri, sta per darvi.
Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla; ma osservere-te i comandi del Signore, vostro Dio, che io vi prescrivo.
Le osserverete dunque, e le metterete in pratica, perché quella sa-rà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli, i quali, udendo parlare di tutte queste leggi, diranno: “Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente”.
Infatti quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invo-chiamo? E quale grande nazione ha leggi e norme giuste come è tutta questa legislazione che io oggi vi do?».
La prima lettura ci presenta Mosè che parla al popolo e lo esorta a mettere in pratica la legge del Signore: esortazione, che costituisce il tema fondamentale del Deuteronomio (Dt 4,l; cf.
5,1; 6,1; 8,1; 11.
8-9).
I versetti iniziali del capitolo quattro sono costruiti con termini e forme linguistiche tipi-che dello stile deuteronomistico: «Ora, Israele (Shemá Israel); «Signore, Dio dei vostri padri»; «i comandi del Signore, vostro Dio, che io vi prescrivo».
Questi versetti sono come un preludio musicale, nel quale vengono anticipati i motivi dell’intera composizione (cf.
N.
Lohfink, Ascolta Israele, Esegesi di testi del Deuteronomio, Paideia Brescia 1965, p.
106).
Mosè invita con insistenza il popolo a mettere in pratica gli ordinamenti che egli ha ri-cevuto da Dio ed insegna al popolo.
La conseguenza della pratica dei comandamenti è la vita: Israele, attraverso l’obbedienza ai comandamenti è introdotto nella sfera della vita del Signore.
La libertà piena sarà raggiunta nella terra «che il Signore ha giurato di dare ai vo-stri padri e alla loro discendenza» (Dt 11,9; cf.
Dt 8,1).
Anche la vita libera e serena nella terra è legata all’obbedienza ai precetti.
La disobbedienza può comportare la perdita della terra, come è il caso di Israele in esilio, quando il Deuteronomio viene scritto.
Allora sorge una domanda angosciante; Israele che non ha più la terra, non ha più il tempio, può anco-ra distinguersi come popolo di fronte alle altre nazioni? I versetti 6-8 del capitolo 4, insie-me con tutto il libro del Deuteronomio, rispondono: «Israele senza terra e senza tempio è ancora una nazione distinta dalle altre, perché la sua identità di popolo di Dio gli è data dalla Tôrà del Signore, che contiene ordinamenti più saggi e più giusti di tutti quelli degli altri popoli.
Questa risposta del Deuteronomio sarà molto preziosa anche dopo la distru-zione del secondo tempio e di Gerusalemme nel 70 d.C.
da parte dei romani.
Intorno alla Tôrà si ricostituirà l’identità del popolo e la testimonianza al Dio unico, peculiare missione di Israele fra le genti, si esprimerà nella pratica dei precetti, l’osservanza dei precetti della Tôrà costituisce la saggezza e l’intelligenza di Israele «agli occhi dei popoli, i quali, udendo par-lare di tutte queste leggi, diranno: “Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente» (Dt 4,6).
Israele, oltre che per gli ordinamenti, si distingue per la particolare vicinanza a Dio.
In ebraico c’è un gioco di parole fra «vicino» (qarob) e «invocare» (qarà).
Israele, in esilio, apparentemente abbandonato dal suo Dio, lo ha ancora così vicino, che lo ascolta ogni volta che lo invoca, la vicinanza di Dio non è per Israele legata a un luogo, ma all’ascolto della sua Parola, che deve essere messa in pratica sempre e dovunque.
Dopo la colpa, c’è la possibilità del ritorno (teshuvà) «perché il Signore tuo Dio è un Dio mise-ricordioso, non ti abbandonerà e non ti distruggerà, non dimenticherà l’alleanza che ha giurato ai tuoi padri» (Dt 4,31).
In questa luce si capisce l’entusiasmo del Deuteronomio e di altre pagine bibliche, in particolare i Salmi, per i decreti e gli ordinamenti della Tôrà, che costituisce il patrimonio prezioso di Israele, che lo distingue dagli altri popoli e lo rende vicino a Dio in un modo del tutto peculiare.
Seconda lettura: Giacomo 1,17-18.21-22.27 Fratelli miei carissimi, ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre, creatore della luce: presso di lui non c’è variazione né ombra di cambiamento.
Per sua volontà egli ci ha generati per mezzo della parola di veri-tà, per essere una primizia delle sue creature.
Accogliete con docilità la Parola che è stata piantata in voi e può portarvi alla salvezza.
Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi.
Religione pura e senza macchia davanti a Dio Padre è questa: visitare gli orfa-ni e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo.
I quattro versetti del primo capitolo della lettera di Giacomo (17-18.21.27) che la liturgia ci fa leggere oggi fanno parte della pericope 1,17-27, che è un’esortazione ad ascoltare e mettere in pratica la parola di Dio, perfettamente in linea con la prima lettura.
Giacomo si rivolge a discepoli di Gesù ebrei con un linguaggio a loro familiare.
Dio è Padre della luce e Padre di coloro che «per sua volontà egli ci ha generati per mezzo della parola di verità» (Gc 1,18).
I figli da lui scelti devono rispondergli con l’obbedienza, segno dell’ac-cettazione dei suoi doni, che sono permanenti e perfetti, non caduchi come quelli degli uomini (Gc 1,17).
Perfetta è la legge, che è il dono di Dio per eccellenza; essa è «la legge della libertà» (Gc 1,25).
La lettera di Giacomo, entrata nel canone allo stesso titolo delle lettere paoline, può aiu-tarci a mantenere un atteggiamento equilibrato nei confronti della Tôrà di Mosè, che gli e-brei religiosi del tempo di Gesù e dei secoli posteriori fino ad oggi hanno sempre cercato di mettere in pratica e di insegnare ai figli di generazione in generazione.
La presenza della lettera di Giacomo nel canone, ci ricorda che non possiamo farci una rivelazione su misura.
La Bibbia presenta spesso pagine che sembrano a una prima lettura in contraddizione, non dobbiamo di fronte alle difficoltà scegliere una pagina, ignorando l’altra.
Non possiamo parlare di grazia senza la legge; la legge (Tôrà) è il dono gratuito di Dio per eccellenza, come dice il Deuteronomio, il segno del patto di alleanza, che costitui-sce Israele nella realtà di popolo di Dio e lo fa vivere come tale.
I cristiani, se provenienti dal giudaismo, come dovevano essere quelli a cui Giacomo scriveva, devono continuare a seguire la legge di Dio «perfetta e legge della libertà», come ha dato l’esempio Gesù stesso.
Paolo stesso, nella lettera ai Romani dice: «Non coloro che ascoltano la legge sono giusti davanti a Dio, ma quelli che mettono in pratica la legge saranno giustificati» (Rom 2,13).
Anche i cristiani venuti dal paganesimo, non sono esonerati dal mettere in pratica la Paro-la di Dio, l’esempio di Gesù vale anche per loro.
Resta la problematica dell’interpretazione e del modo di applicazione, che si fa acuto per i cristiani provenienti dal paganesimo, co-me ne costatiamo il riflesso nella pagina evangelica.
Vangelo: Marco 7,1-8.14-15.21-23 In quel tempo, si riunirono attorno a Gesù i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme.
Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate – i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti –, quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?».
Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaìa di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me.
Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”.
Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini».
Chiamata di nuovo la folla, diceva lo-ro: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro.
Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro».
E diceva [ai suoi discepoli]: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza.
Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo».
Esegesi La pericope evangelica Mc 7,1-23, di cui leggiamo oggi i versetti 1-8, 14-15.21-23 è co-struita intorno alla problematica fondamentale di come distinguere il «comandamento di Dio», dal «precetti degli uomini».
Non è messa in discussione la Tôrà (insegnamento, leg-ge) data da Dio a Mosè sul Sinai, ma la sua interpretazione e le modalità della sua messa in pratica.
Gesù si scaglia in maniera molto polemica contro «le tradizioni degli uomini», che possono far dimenticare le esigenze fondamentali dei precetti divini, non contro que-st’ultimi, che invece devono essere eseguiti, come lui stesso da l’esempio.
I personaggi messi in scena dal brano sono nel primo quadro: i farisei e alcuni scribi ve-nuti da Gerusalemme, Gesù e i suoi discepoli (vv.
1-13); nel secondo: Gesù e la folla, chia-mata da lui (14-15.[16]); nel terzo: Gesù e i discepoli rientrati in casa (17-23).
La cornice è poco attendibile storicamente, è un pretesto per fissare l’attenzione sulle problematiche discusse.
Farisei e scribi, infatti, arrivati addirittura da Gerusalemme, pon-gono a Gesù una domanda: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione de-gli antichi, ma prendono cibo con mani impure?» (Mc 7,5) e poi scompaiono di scena, senza ri-spondere all’invettiva polemica di Gesù, nei loro confronti.
Dobbiamo rilevare che non è Gesù a commettere un’infrazione rituale (cf.
Mc 2,23), ma solo i discepoli non seguono la regola, presentata come facente parte della «tradizione de-gli antichi» (Mc 7,3).
Il desiderio di purificazione, che si manifestava nei bagni rituali, nelle immersioni, a-spersioni e abluzioni varie era diffuso nelle popolazioni antiche, non solo in Israele.
Il Vangelo di Marco presenta la regola di lavarsi le mani prima di prendere cibo come co-mune sia ai farisei sia a tutti i giudei (Mc 7,1-3).
Una affermazione, dice Piero Stefani nel suo commento al brano, che «appare difficilmente valida se situata all’epoca di Gesù.
Il la-vaggio delle mani (e dei piedi) si presenta, infatti, come esplicito precetto biblico solo nel caso del sacerdote che deve seguirlo prima di entrare nel luogo sacro per compiervi un’of-ferta (Es 30,17-21; cf.
Dt 21,6-7), (ma nulla era richiesto, neppure al sacerdote, in relazione alla consumazione del cibo comune).
All’epoca di Gesù, però, particolari gruppi di ebrei (detti chaverini), che si proponevano di realizzare la santificazione di ogni aspetto della vi-ta, e che perciò tendevano a comportarsi nelle loro case come i sacerdoti nel tempio, adot-tarono la prassi di lavarsi ritualmente le mani prima di mangiare.
È proprio quest’esten-sione della sacralità, tanto accentuata da farla in un certo senso coincidere con la profanità, indicò una delle vie che consentiranno all’ebraismo di proseguire la propria vicenda anche dopo la distruzione del secondo tempio.
Tuttavia questi gruppi (di cui non è neppure uni-versalmente condivisa l’identificazione con i farisei) rappresentavano solo una piccola mi-noranza della popolazione, non certo «tutti i giudei» (Mc 7,3).
Solo dopo la distruzione del tempio (in una data incerta, ma anteriore alla metà del II secolo), tale norma fu estesa a tut-ti e integrata nella codificazione della Mishná; in tal modo essa, secondo lo spirito proprio della tradizione ebraica, divenne, nonostante fosse stata promulgata dai maestri, tanto va-lida come se provenisse direttamente dal Signore, cosicché tuttora, quando si compie que-sta abluzione (detta notilat judalm), si recita la seguente benedizione: «Benedetto sei tu, o Signore Dio nostro re del mondo, che ci hai santificato con i tuoi precetti e ci hai comanda-to il lavaggio delle mani».
È però assai difficile ritenere che all’epoca di Gesù qualcuno po-tesse recitare una simile benedizione.
Sullo sfondo di queste precisazioni, risulta quanto meno strano che in Marco (ma non in Matteo 15,1-20) il discorso sulla purità prosegue fino a sfociare in una presa di posizione relativa alla stessa esistenza di cibi ritualmente puri (kasher).
«Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può contaminarlo, perché non entra nel cuore, ma nel ventre e va fino alla fogna?.
Dichiarava così mondi tutti gli alimenti» (Mc 7,18-19).
Non vi è dubbio infatti che le norme sulle purità del cibo non possono in alcun modo ritenersi «tradizioni degli uomini» (o degli antichi) (cf.
Mt 15,2.2.6; Mc 7,8.9.13); al contrario, esse devono venir considerate solidamente fondate sulla Tôrà scritta (Pentateuco) (cf.
Lv 11; Dt 14,3-20).
Né vi è alcuna indicazione che Gesù e i suoi discepoli (almeno prima della pa-squa) non si attenessero a questi precetti (stando a quanto pronunciato da Pietro nel libro degli Atti se ne dedurrebbe anzi il contrario, cf.
At 10,14; 11,8).
La disputa sui cibi divenne argomento di dibattito e tensione entro le comunità cristiane di origine pagana (cf.
Gai 2,11-14; Rm 14,1-6), perciò si è ragionevolmente proposto di veder proiettati sulle pagine evangeliche i motivi propri di tali dispute.
Subito dopo la discussione sull’impurità, Marco afferma che Gesù «partito di là, andò nel territorio di Tiro e Sidone» (Mc 7,24; cf.
Mt 15,21); espressione quest’ultima che nel suo indicare una terra pagana assume un significato non tanto geografico quanto teologico (cf.
1Re 17,8-16; Le 4,25-26).
Nella grande sezione del libro degli Atti (10, 1- 11,18), le tre volte avvenuta e le due volte raccontata visione di Pietro indicano chiaramente che il non consi-derare più impuro nessun cibo, in quanto tutto è purificato, deve ritenersi come grande metafora del rapporto (profondamente mutato dalla vicenda pasquale) tra figli d’Israele e figli delle genti; tant’è vero che Pietro stesso riassume il senso della sua visione con queste parole: «Ma a me Dio ha insegnato a non chiamare nessun uomo profano (koinos) e im-mondo (kathartos) (At 10,28).
Ai nostri giorni perciò, quando le polemiche interne a quelle primitive comunità sono ormai lontane, è legittimo (o addirittura richiesto) sostenere che la possibile partecipazione universale, attraverso la fede in Cristo, alla discendenza di A-bramo da parte dei figli delle genti (cf.
Gal 4,29) non solo non esclude, ma anzi addirittura comporta che i figli di Israele, popolo sacerdotale (Es 19,6), la cui elezione non è stata tolta (Rom 11,29), continuino ad essere assoggettati a norme più rigide a motivo della propria e altrui santificazione.
Si è detto che il giudaismo, così come vissuto dai farisei (e/o dai chaverim), affrontava il problema della santificazione d’Israele (e santificare qui significa separare), e questo com-pito si distingue marcatamente dalla dinamica tipica della predicazione del regno e del buon annuncio di salvezza tipico di Gesù e degli apostoli.
Per più aspetti tale affermazione appare convincente, ma ciò non dovrebbe impedire di comprendere adeguatamente le re-gole insite in tale santificazione, che non coincidono affatto, come una superficiale lettura di qualche passo evangelico indurrebbe a credere (cf.
Mt 15,1-20; 23,1-36; Mc 7,1-23; Lc 15,38-52), con un ipocrita tentativo di sostituire un’osservanza puramente esteriore all’ese-cuzione di più gravi e precisi precetti etici.
Per comprenderlo basterebbe tenere presente l’ovvia quanto dimenticata distinzione che «ritualmente impuro» non equivale affatto a «moralmente riprovevole».
Non a caso la maggior parte delle regole bibliche sulla purità indicano la maniera di purificare un’impu-rità contratta in modo inevitabile (e quindi moralmente neutro), come ad esempio quelle derivate dalle mestruazioni o dal parto (cf.
ad es.
Lv 12,1-8; 15,1-27; Num 19,11-22; Lc 2,22).
Una tipica espressione rabbinica per indicare la canonicità di un testo sacro è quella di sostenere che esso «rende impure le mani» (cf.
m.
Jadaim 3,5); tale espressione sarebbe da sola sufficiente ad indicare l’ambito in cui il giudaismo colloca la sfera dell’impurità o della purità, sfera che ha a che fare non con l’eticità (e ancor meno con l’igiene), bensì con una santificazione della vita compiuta secondo una procedura che non dovrebbe venir schernita, non foss’altro a motivo della millenaria fedeltà con cui è stata osservata da Israe-le» (P.
STEFANI, Sia santificato il tuo nome.
Commenti ai Vangeli della domenica.
Anno B, Marietti Genova 1987, p.
163-166).
Se è dall’interno di noi che hanno inizio gli impulsi malvagi o quelli buoni, nel nostro stato di creature corporee abbiamo bisogno anche di segni esterni; proprio il gesto del la-vaggio rituale delle dita, con la recita di un versetto di un salmo («Lavami Signore da ogni colpa, purificami da ogni peccato».
Sal 51,4) è il gesto che il sacerdote compie nel rito della messa subito dopo la preparazione delle offerte, prima di iniziare la grande preghiera eu-caristica.
Meditazione Spesso, nei racconti evangelici, ci imbattiamo in lunghe ed aspre polemiche che vedono a confronto Gesù, il suo comportamento e la sua parola, con l’élite più rappresentativa e impegnata della cultura religiosa ebraica, i farisei e gli scribi.
Questi, alcune volte conte-stano a Gesù o ai suoi discepoli un comportamento non conforme alle pratiche religiose comunemente e tradizionalmente accolte nel mondo giudaico; altre volte, invece lo inter-rogano su questo o quell’aspetto della Scrittura per sapere ciò che realmente pensa.
In ogni caso questi incontri producono sempre tensione, scontro e si rimane stupiti dalla durezza con cui spesso Gesù reagisce di fronte a quel mondo spirituale e giuridico di cui i farisei erano rappresentanti.
Soprattutto ciò che sembra irritare maggiormente Gesù non è tanto l’interpretazione della Scrittura che caratterizzava la visione religiosa di questi uomini, quanto piuttosto la loro sfacciata incoerenza che nascondeva, sotto una apparenza di per-fezione, una autosufficienza idolatrica, quella radicale doppiezza di vita che si concentra nel titolo con cui spesso i farisei sono chiamati: ipocriti.
È il caso della situazione presentata nel capitolo 7 di Marco il brano proposto in questa domenica (anche se la liturgia presenta solo una scelta di versetti per dare maggiore unita-rietà al contenuto).
«Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?» (v.
5).
L’interrogativo stupito e irritato che gli scribi e i farisei pongono a Gesù è dunque motivato da un comportamento ‘spavaldo’ dei discepoli, i quali sembrano non tener in nessun conto le prescrizioni della legge.
Il rap-porto tra Scrittura e Tradizione/tradizioni (vv.
6-13) e la relazione tra puro e impuro (vv.
14-23) che caratterizzano il dibattito che segue a questa domanda, mettono a fuoco un aspetto fondamentale.
Ciò che è in questione in questa polemica, non sono tanto delle pratiche re-ligiose, la loro validità o meno.
Al centro c’è la relazione con Dio, la scoperta del luogo profondo e vero in cui questa relazione prende forma e da qualità a tutta la vita.
Ma, proprio a partire da questo testo di Marco, ci si può domandare: erano realmente così i farisei? Citando il testo di Isaia 29,13, Gesù si rivolge ai farisei in questi termini: «Be-ne ha profetato Isaia di voi, ipocriti…
Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuo-re è lontano da me» (v.
6).
L’ipocrisia è una prerogativa dei farisei oppure è qualcosa che si nasconde nel cuore dell’uomo? E perché, in ogni caso, l’ipocrisia poteva essere un rischio di questa categoria dei persone? Farisei e scribi di fatto rappresentavano la parte religio-samente più impegnata di Israele, seriamente preoccupata di tradurre nella vita concreta quel rapporto con Dio, quella saggezza che sgorgava dalla parola e che caratterizzava l’u-nicità del popolo dell’Alleanza.
La responsabilità personale, l’interiorità della decisione morale, il profondo senso della santità e dell’alterità di Dio, la consapevolezza del dono ricevuto nella Legge orientavano questi uomini nella ricerca di una sincera e radicale fedeltà alla volontà di Dio.
Ma corre-vano un rischio: credevano di essere fedeli alla legge ‘ripetendola’ e pensavano di essere attuali frantumandola in una casistica sempre più complicata.
È il rischio che porta a una illusione: la pretesa di programmare il rapporto con Dio, la ricerca della sua volontà attra-verso una serie di comportamenti che danno sicurezza e in qualche modo fanno sentire a posto nella relazione con Dio o con gli altri.
La gratuità di una relazione, lo stupore di un Dio che sempre è al di là delle immagini che l’uomo ha di lui, la novità del dono, il cuore e l’essenziale della parola, tutto questo viene soffocato e annullato dalla pretesa dell’uomo di conoscere Dio e la sua volontà.
Gesù smaschera questo pericolo mettendo a confronto ciò che l’uomo cerca (in questo caso ciò che i farisei difendono) e ciò che Dio desidera dal-l’uomo.
E c’è un primo confronto che colpisce.
Il testo del Deuteronomio mette in bocca a Mosè queste parole: «…quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?» (Dt 4,7).
Colui che è il Santo, la cui tra-scendenza sembra rendere la creatura molto lontana da un incontro, è il Dio vicino, sem-pre disponibile quando lo si invoca, è il Dio che ha deciso di fare storia con l’uomo, di camminare con lui.
Pur restando irriducibile alla creatura, si lascia trovare ogni giorno e la sua vicinanza si trasforma in fedeltà all’uomo e alla sua storia.
Dio non è lontano; è l’uomo che spesso cammina per altre vie e colloca il suo cuore in luoghi diversi da quelli in cui può scoprire il volto di Dio.
E Gesù ricorda la parola di Isaia: «Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me» (Mc 7,6).
Ecco il pericolo: la pretesa di accostarsi a Dio, rimanendo tuttavia estranei a Lui, lontani.
E questo avviene quando il cuore della vita non aderisce veramente a Dio e alla sua parola, anche se si pretende di rendere un culto che è, alla fine, pura appa-renza.
Ma c’è un luogo in cui questa vicinanza si fa presenza efficace, parlante: è la Parola stes-sa di Dio contenuta nella Scrittura.
Ancora Mosè ricorda al popolo di Israele: «Israele, a-scolta le leggi e le norme che io vi insegno affinché le mettiate in pratica , perché viviate…
quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza» (Dt 4,1.6).
A Israele, il Signore chiede di ricambiare la fedeltà di cui Egli ha dato prova lungo il cammino di liberazione attra-verso il deserto, con l’obbedienza e l’ascolto di una Parola di vita e di saggezza.
Ed ecco al-lora un altro contrasto: «Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini…
Annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi» (Mc 7,8.13).
L’uomo ha bisogno di attualizzare una obbedienza alla parola di Dio: è la legge della In-carnazione.
Ma deve sempre tenere presente questo: che la parola di Dio resta continua-mente aperta, anzi è la porta per un incontro vivo e personale con il Signore.
Non basta os-servare un precetto, se poi non si incontra veramente il volto del Signore.
E questo avviene quando si va al cuore della Parola, al luogo dove si rivela ciò che Dio vuole da noi.
E su questo punto Gesù è molto chiaro: il rischio che si incontra nell’assolutizzare un modo concreto di tradurre la Parola, è quello di non riuscire più ad andare al cuore di essa.
Come il cuore della Parola ci rivela la volontà di Dio, ce lo fa incontrare, così è il cuore dell’uomo il luogo che deve essere custodito nella verità e nella purezza.
Ecco il terzo con-trasto che Gesù ci presenta.
L’impurità che ci impedisce di accostarci a Dio o la purezza che ci permette di entrare nel luogo dove abita, non sono da ricercare fuori dell’uomo.
E se c’è un comportamento esterno che ostacola il nostro rapporto con Dio o con i fratelli, in ogni caso il punto di partenza è sempre nel cuore dell’uomo: «Dal di dentro, cioè dal cuore degli uomini escono i propositi di male…»(v.
21).
Il cuore dell’uomo non purificato è il covo di vizi che causano la rovina (cfr.
Lc 6,45).
E Gesù ci offre anche un elenco di ‘propositi di male’ (dialogismoi kakoi): dodici vizi, sei al plurale e sei al singolare che manifestano lo stato negativo del cuore attraverso un errato rapporto con sé stessi, con il proprio corpo, con gli altri.
L’ultimo vizio, la stoltezza, e la sintesi di un cuore intaccato dalla impurità e la fonte di ogni altro vizio: lo stolto è l’uomo che «non conosce Dio», l’uomo che dimentica e di-sprezza Dio, l’uomo lontano da Dio.
«Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo» (v.
20): non ci si purifica dalla vita quotidiana per incontrare Dio in chissà quale luogo perfetto e irreale; ci si deve purificare dal peccato che portiamo dentro di noi.
È il cuore malvagio che ci rende incapaci di avvicinarci a Dio; ciò che unisce ed avvicina a Dio è il cuore nuovo, il cuore puro che Dio stesso crea nell’uomo, in tutti, peccatori e giusti, giudei e pagani.
I farisei si accontentavano di prendere il pane con mani lavate; Gesù ci di-ce che per ‘afferrare’ il pane non servono mani pure, ma il cuore ‘secondo il Signore’.
Il pa-ne, il cibo, sono i simboli della vita, il simbolo della parola che è vita e che Gesù stesso ci dona.
Per ricevere da lui questo pane di vita si deve avere un cuore nella verità, un cuore che ama, un cuore buono, che desidera la vita.
Subito dopo questa disputa, Marco colloca l’episodio della donna siro-fenicia (Mc 7,24-30).
A questa donna, pagana e perciò impura, Gesù dirà: «Non è bene prendere il pane di figli e gettarlo ai cagnolini» (v.
27).
Così ri-sponderà la donna: «Signore, anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei fi-gli».
La consapevolezza umile di una lontananza da Dio rende il cuore di quella donna pu-ro e lo avvicina a Dio: può sedersi alla mensa ed afferrare il pane che vi è posto sopra, il pane del Figlio.
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le stra-de.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cu-ra di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
Narrare la fede… coi gialli /3
Puntata: “Homer l’eretico” (Stagione 4, puntata 3) La trama: Come ogni domenica, Marge e i figli vanno in chiesa, ma questa volta Homer decide di restare a casa e ne approfitta per mangiare frittelle e guardare la tv: convinto di aver quindi vissuto “la giornata più bella della sua vita”, Homer stabilisce che starà a casa tutte le domeniche mattina e comunica a Marge la sua volontà di abbandonare la chiesa per seguire una propria religione.
Quello stesso giorno Homer sogna di incontrare Dio, che dà il suo benestare alla nuova religione.
La domenica successiva Homer resta nuovamente a casa, legge una rivista per adulti e si accende un sigaro che, cadendo mentre lui si è addormentato, fa divampare un incendio.
Ned Flanders corre in soccorso del vicino di casa e riesce a portarlo in salvo.
Nel frattempo una specie di Protezione Civile immediatamente attivatasi (composta, tra gli altri, dal reverendo Lovejoy, dal clown ebreo Krusty e dal commerciante induista Apu) spegne l’incendio, salvando così anche la casa.
Il Reverendo spiega a Homer che Dio non è contro di lui ma, piuttosto, è nel cuore delle persone che hanno salvato lui e la sua casa.
Il nostro pigro padre di famiglia torna sui suoi passi: abbandona la nuova religione fai-da-te e la domenica successiva torna in chiesa, dove però si addormenta subito e sogna un altro incontro con Dio, al quale chiede quale sia il significato della vita…
che però a noi non è dato di sapere! vedi nell’allegato: Spuntini di riflessione
“Siamo il popolo della Bibbia. Qui siamo tornati a casa”.
“Il nostro compito è costruire piccoli paradisi” di Giulio Meotti “Siamo tornati a casa”, proclama il cartello all’ingresso di Givat Assaf, un avamposto israeliano che prende il nome da un colono ebreo ucciso dai palestinesi.
Il leader della comunità, Benny Gal, spiega così la loro presenza: “In questo punto preciso, 3.800 anni fa, la terra d’Israele fu promessa al popolo ebraico.
Se ci portano via di qui, in pericolo sarà l’aeroporto internazionale Ben Gurion”.
Givat Assaf è uno dei capisaldi della “Hilltop Youth”, la gioventù delle colline, la seconda generazione di coloni che sta organizzando la resistenza all’evacuazione degli insediamenti giudicati illegali, i cosiddetti “outpost”, al centro delle trattative fra il primo ministro israeliano Netanyahu e l’amministrazione Obama.
Per questi giovani il risorgimento ebraico passa, come all’inizio del Novecento, dal confronto gomito a gomito con gli arabi.
Le regole del processo di pace non sembrano scalfirli.
I soldati israeliani, quelli con cui i coloni condividono brigate e divisa, devono trascinarli via a forza quando da Gerusalemme arriva l’ordine di evacuazione.
Chi resta, vive palmo a palmo con la morte.
Lo scorso aprile uno di questi giovani è stato ucciso a colpi di ascia.
In caso di conflitto non conta la legge dello Stato, ma quella del Signore.
È come la frontiera americana dell’epopea western.
Guai a pensare che sia un fenomeno di estrema destra, categoria priva di senso in Israele.
Con Ariel Sharon primo ministro sono nati 44 avamposti.
Altri 39, secondo i dati di Peace Now, furono edificati sotto Rabin, Peres e Barak, i protagonisti dei negoziati di Oslo.
Gli esecutivi laburisti non hanno fatto quasi nulla per impedire che gli avamposti si moltiplicassero.
Israele non li considera enclave ribelli, almeno a giudicare dalle cospicue forze di sicurezza messe a loro protezione.
Alcuni hanno strade pavimentate, fermate degli autobus, sinagoghe, perfino campi sportivi.
Si va dal semplice container piazzato in cima a una collina o qualche fila di baracche, sino a veri e propri insediamenti realizzati con prefabbricati tipo post terremoto.
Per la preghiera del sabato serve un minyam, il quorum necessario di dieci uomini.
Basta questo per fare un outpost.
Così si trovano dieci famiglie di peruviani convertiti all’ebraismo in un avamposto appena fuori l’insediamento di Efrat, tra Betlemme e Hebron.
David Ha’ivri, originario di Long Island, è uno dei leader della gioventù delle colline e vive con moglie e figli a Kfar Tapuach.
Il villaggio è celebre per il miele che vi si produce, ma soprattutto per essere citato nella Bibbia, nel capitolo 12 del libro di Giosuè.
È una delle trenta città conquistate dagli ebrei al loro arrivo migliaia di anni fa.
Oggi è uno degli insediamenti di punta della Cisgiordania, che i coloni chiamano con i nomi biblici di Giudea e Samaria.
Della “Hilltop Youth” fanno parte giovani nati e cresciuti nelle colonie, che hanno deciso di abbandonare il tetto paterno nei grandi conglomerati per andare ad annidarsi in cima alle colline.
Pregano in sinagoghe spesso fatte di terracotta.
Si costruiscono la casa con le proprie mani, sono single o appena sposati, da pochissimo genitori.
Si ritengono la nuova avanguardia dei coloni.
Il loro motto è: “Costruiamo e il permesso arriverà”.
Vivono a un tiro di schioppo dagli arabi.
Si muovono a cavallo o con un asino.
È una nuova generazione imbevuta di un nazionalismo mistico che si coniuga al pionierismo e all’ascetismo, rigetta il consumismo delle grandi città sulla costa e vive di ideologia e ardore.
Le donne indossano il mitpahat, l’equivalente ebraico, meno avvolgente e più delicato, del chador islamico.
Gli uomini hanno capigliature al vento, lunghi riccioli laterali e camicie a quadri.
“Sono giovani che incarnano l’ideologia della Torah e l’autosacrificio”, ci spiega Ha’ivri.
“La salvezza di Israele e del popolo ebraico non può venire da politicanti che pensano che la battaglia per la terra sia un gioco tattico.
Dieci anni fa abbiamo iniziato a creare avamposti.
Sono giovanissime coppie che hanno deciso di essere pionieri come i genitori, credono nel sionismo, sono idealisti, pronti a lasciare ogni esistenza confortevole nelle grandi città o nelle grandi colonie.
Vogliono essere autosufficienti, con tutti i limiti che questo comporta”.
Shani Simkovitz dirige la Gush Etzion Foundation.
È americana e ha cinque figli.
“Questa è terra contesa, da patteggiare, non terra occupata”, spiega.
“Più di tremila anni fa i nostri padri ci hanno dato una terra, che non è Roma, non è New York, ma questa: la terra ebraica.
Ci hanno mandato qui a costruire, a coltivare, a vivere, ci hanno sostenuto sempre, soprattutto Rabin, Peres e gli altri laburisti.
Fino a oggi.
I miei figli sono nati qui, ma non c’è più terra legale su cui costruire, il governo da tempo non concede più permessi per una casa, per questo nascono gli outpost.
Gli avamposti sono estensioni delle comunità esistenti.
Ma lo stesso avviene a Gerusalemme, dove migliaia di israeliani abitano al di là della Linea Verde”.
Un altro leader delle colline vive in un agglomerato di roulotte abbarbicate sul monte Artis, chiamato Pisgat Yaakov, che significa la collina di Giacobbe.
Un luogo isolato d’inverno, tanto lì nevica.
Tra queste trenta famiglie c’è Yishai Fleischer, il fondatore di Kumah, un’organizzazione che promuove alyah, cioè immigrazione di ebrei in Israele, e conduce un programma radiofonico di grande successo.
“Abbiamo una vita idilliaca e naturalistica, è una regione bellissima, in mezzo alle montagne”, ci dice Yishai.
“I nostri padri hanno camminato qui tremila anni fa, siamo un po’ come i nuovi hippy.
Lavoriamo la terra.
C’è molta musica, religione, è una vita felice.
Preghiamo, meditiamo, conduciamo un’esistenza spirituale.
Siamo il popolo aborigeno.
Ero a New York, da studente credevo nel sionismo e decisi che questo era il posto dove avrei dovuto vivere.
Abbiamo quello che ci serve.
Ci sentiamo pionieri, siamo dei veri sionisti.
Molti miei amici sono religiosissimi e lavorano nel settore high tech.
I nostri figli crescono con valori autentici”.
È una vita, ammette Yishai, molto pericolosa.
“Giro armato, odio le pistole, non significa che debba usarle, ma devo proteggere la mia famiglia.
Il nostro villaggio è citato più volte nella Bibbia, per questo attrae molte persone.
Lei vive a Roma, una città sacra per il suo popolo, il mio è nato e cresciuto in Israele.
Qui senti di essere parte della terra e del cielo.
Siamo cresciuti sapendo che il prossimo passo sarebbe stato il nostro”.
Yishai sa bene che i coloni non sono amati dagli israeliani che vivono sulla costa.
“Siamo isolati nell’opinione pubblica, ma lavoriamo ogni giorno per migliorare.
Oggi il nazionalismo non è “cool”, non è politicamente corretto.
Non mi aspetto di conquistare i cuori delle persone che non vivono qui.
È semplice: questa è la nostra terra.
Secondo le norme internazionali, secondo la Bibbia, secondo la storia.
Viviamo in tempi eccitanti in cui il popolo ebraico torna a casa.
Quando ci svegliamo la mattina non pensiamo alla pace, ma a condurre una vita felice, dignitosa e piena di amore.
Dobbiamo essere vigili, ci sono persone qui che vogliono ucciderci in quanto ebrei.
Hanno la stessa ideologia dei nazisti.
Gli europei non si sono interessati alla sorte degli ebrei sessant’anni fa, e allora stiano lontani da noi oggi.
Sappiamo perché siamo qui, abbiamo una missione che portiamo avanti tutti i giorni.
Il nostro posto è qui”.
David Ha’ivri descrive così i giovani delle colline: “Molti sono contadini o pastori, ci sono studenti, tutti pionieri che vivono in zone desertiche, vuote, senza abitanti, non ci sono palestinesi cui venga sottratto alcunché, i coloni piantano alberi, coltivano la terra, portano acqua, cibo, elettricità.
Nei grandi insediamenti la sicurezza è ben organizzata, ma in queste comunità di poche famiglie il peso della sicurezza è enorme.
La seconda generazione è molto più attaccata alla terra della prima, sono nati qui, il loro sangue viene da qui.
Sono persino più religiosi dei padri”.
Molti di questi avamposti sono stati creati negli anni proprio lì dove i palestinesi avevano ammazzato un colono.
Come Itay Zar, che oggi vive in un outpost intitolato al fratello ucciso.
Venti famiglie, una dozzina di scatole di metallo, quaranta bambini e un maneggio per cavalli.
“Non siamo venuti qui per divertirci.
C’era il deserto, oggi la terra fiorisce”.
Il leader spirituale dell’outpost, Ariel Lipo, dice che il loro compito è costruire “piccoli paradisi”.
Maoz Esther, sette baracche di lamiera e cinque famiglie, non lontano da Ramallah, è il primo avamposto preso di mira da Netanyahu da quando è salito al potere.
È già stato rimosso tre volte.
E per tre volte ricostruito.
L’ultima pochi giorni fa.
Il leader della comunità, Avraham Sandack, è arrivato su questa altura direttamente da una delle colonie smantellate a Gaza da Ariel Sharon.
Studia per diventare rabbino e intanto fa le pulizie in una sinagoga.
“Il nostro spirito è lo stesso dei nostri padri”, ci dice Avraham.
“Due anni fa era la festa di Hanukkah, siamo partiti da un insediamento vicino e abbiamo costruito una casa di pietra.
Una mamma con tre figlie piccole si è trasferita da sola per due mesi sulla collina.
Non avevano elettricità né acqua.
Ma sapevano di appartenere alla terra d’Israele.
Nella Bibbia si parla di questa terra per la profezia del regno di Dio.
Ci dà forza per andare avanti.
Ieri abbiamo iniziato a ricostruire quello che l’esercito ha distrutto.
Qui riusciamo a essere equi con la nostra anima.
Qui c’è qualcosa di metafisico.
Dio non è in cielo o da qualche parte.
Dio è parte di noi, è in tutta la nostra vita”.
Sono i figli e i nipoti dei primi coloni inviati dai governi israeliani a “far fiorire il deserto” nei territori contesi dopo la guerra dei sei giorni del 1967.
Bibbia in mano e fucile in spalla, tanti bambini, vita di sacrifici, un’anima nazionalista e una religiosa.
Nell’insieme, i coloni sono circa trecentomila, e il presidente americano Barack Obama, nel discorso del Cairo, li ha indicati come l’ostacolo principale sulla via di quella pace tra “due popoli e due Stati” che è anche l’obiettivo della politica vaticana.
Per tre quarti di loro l’ostacolo non appare insormontabile.
Vivono non lontano dalla Linea Verde del vecchio armistizio tra Israele e Giordania, a est di Gerusalemme, nei grandi insediamenti di Ariel, Gush Etzion, Ma’aleh Adumim, Givat Zeev, Latrun, che non coprono più del cinque per cento dei territori contesi, trattabili.
Ma poi ci sono gli altri.
I cinquantamila che vivono in piccoli o piccolissimi insediamenti di poche centinaia o decine di abitanti.
Oppure negli outpost, gli avamposti.
Gli avamposti, nei luoghi più impervi e sperduti, sono la nuova realtà degli insediamenti.
Se ne contano ormai un centinaio.
Si sono moltiplicati in questi ultimi anni, assieme alla Hilltop Youth, alla “gioventù delle colline”, la nuova generazione dei coloni.
Gli outpost sono tutti illegali.
I giovani li costruiscono e l’esercito israeliano li sgombera.
Ma sempre ne risorgono di nuovi.
Chi sono questi giovani delle colline? Come vivono? Quale visione biblica li muove? Perché si avventurano lì? Accetteranno di lasciare? Il reportage che segue risponde a queste domande.
Ne è autore Giulio Meotti, già noto ai lettori di www.chiesa per un’inchiesta choc su Rotterdam islamizzata che ha fatto il giro del mondo in più lingue.
L’articolo è apparso l’8 agosto 2009 sul quotidiano “il Foglio”, con un seguito sullo stesso giornale il 13 agosto.
In settembre uscirà un libro-inchiesta di Meotti su Israele.
La sentenza del TAR del Lazio e e gli insegnanti di religione
Sentenza TAR Lazio n.
7076 del 17-7-2009 Repubblica Italiana In nome del popolo italiano Il Tribunale Amministrativo Regionale del LAZIO, Sez.III-quater ANNO 2009 composto da dr.
Mario di Giuseppe (Presidente) dr.
Antonio Amicuzzi (Consigliere) dr.
Umberto Realfonzo (Consigliere-rel.) ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi qui riuniti rispettivamente: RG.
n.
4297/2007 presentato da CONSULTA ROMANA PER LA LAICITA’ DELLE ISTITUZIONI ALLEANZA EVANGELICA ITALIANA ASS.
XXXI OTTOBRE PER UNA SCUOLA LAICA E PLURALISTA ASSOCIAZIONE NAZIONALE DEL LIBERO PENSIERO GIORDANO BRUNO ASSOCIAZIONE PER LA SCUOLA DELLA REPUBBLICA ASSOCIAZIONE SCUOLA UNIVERSITA’ RICERCA ASSUR BAGNI FILIPPO CRIDES CENTRO ROMANO INIZIATIVA DIFESA DIRITTI NELLA SCUOLA FEDERAZIONE DELLE CHIESE EVANGELICHE IN ITALIA DEMOCRAZIA LAICA UNIONE ITALIANA DELLE CHIESE CRISTIANE AVVENTISTE 7^ GIORNO UNIONE CRISTIANA EVANGELICA BATTISTA D’ITALIA UAAR UNIONE DEGLI ATEI E DEGLI AGNOSTICI RAZIONALISTI TAVOLA VALDESE SEGRE RUBEN FEDERAZIONE DELLE CHIESE PENTECOSTALI CONSULTA TORINESE PER LA LAICITA’ DELLE ISTITUZIONI CHIESA EVANGELICA LUTERANA IN ITALIA CIDI CENTRO DI INIZIATIVA DEMOCRATICA DEGLI INSEGNANTI COMITATO BOLOGNESE SCUOLA E COSTITUZIONE COMITATO INSEGNANTI EVANGELICI ITALIANI (CIEI) COMITATO TORINESE PER LA LAICITA’ DELLA SCUOLA in persona dei rispettivi rappresentanti legali, tutti rappresentati e difesi dagli avvocati Fausto Buccellato e Massimo Luciani, ed elettivamente domiciliata presso lo studio del primo in Roma in viale Angelico, n.
45; CONTRO – la PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, nella persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura dello Stato; – il MINISTERO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE nella persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato e nei confronti – della Conferenza Episcopale Italiana, non costituitasi in giudizio; – di Ragazzi Lorenzo, non costituitosi in giudizio; con l’intervento ad adjuvandum – dell’UCEI -in persona dei rispettivi rappresentanti legali costituitisi in giudizio con gli Avvocati Buccellato Fausto e Luciani Massimo; – del M.C.E.
in persona dei rispettivi rappresentanti legali costituitisi in giudizio con gli Avvocati Buccellato Fausto e Luciani Massimo; — dell’ORGANIZZAZIONE SINDACALE – COBAS SCUOLA in persona dell’Avv.
Salerni Arturo; e con l’intervento ad opponendum del Sindacato Nazionale Autonomo degli Insegnanti di Religione (SNADIR); del professor Ruscia Orazio e della professoressa Scivoletto Marisa rappresentati difesi dagli avvocati Nastasi Giuseppe, La Rocca Tavana Laura; per l’annullamento dell’ORDINANZA MINISTERIALE n.
26/07 PROT.
n..
2578 recante “ISTRUZIONI E MODALITA’ PER LO SVOLGIMENTO DEGLI ESAMI DI STATO NELLE SCUOLE STATALI E NON STATALI – A.S.
2006/07” e — RG n.
5712/2008 proposto da: CONSULTA ROMANA PER LA LAICITA’ DELLE ISTITUZIONI ASS NAZ LIBERO PENSIERO “GIORDANO BRUNO” ASS COMITATO BOLOGNESE SCUOLA E COSTITUZIONE ASS NAZIONALE EVANGELICA ITALIANA ASS NAZIONALE PER LA SCUOLA DELLA REPUBBLICA ASS.
“XXXI OTTOBRE PER UNA SCUOLA LAICA E PLURALISTA (promossa dagli Evangelici Italiani); ASSOCIAZIONE SCUOLA UNIVERSITA’ RICERCA “AS.SUR” CRIDES-CENTRO ROMANO INIZIATIVA DIFESA DIRITTI NELLA SCUOLA FEDERAZIONE CHIESE PENTECOSTALI DEMOCRAZIA LAICA UNIONE DELLE COMUNITA’ EBRAICHE ITALIANE UNIONE CRISTINA EVANGELICA BATTISTA D’ITALIA UAAR- UNIONE DEGLI ATEI E DEGLI AGNOSTICI RAZIONALISTI TAVOLA VALDESE TASSINARI ARIANNA MCE – MOVIMENTO COOPERAZIONE EDUCATIVA FUSAROLI ALESSANDRO FNISM – FEDERAZIONE NAZIONALE INSEGNANTI UNIONE ITALIANA CHIESE CRISTIANE AVVENTISTE 7^ GIORNO FEDERAZIONE DELLE CHIESE EVANGELICHE IN ITALIA CONSULTA TORINESE LAICITA’ DELLE ISTITUZIONI CGD – COORDINAMENTO GENITORI DEMOCRATICI CHIESA EVANGELICA LUTERANA IN ITALIA CIDI – CENTRO DI INIZIATIVA DEMOCRATICA INSEGNANTI COMITATO INSEGNANTI EVANGELICI ITALIANI (CIEI) COMITATO TORINESE PER LA LAICITA’ DELLA SCUOLA In persona dei rispettivi rappresentati legali, tutti rappresentati e difesi dagli avvocati Fausto Buccellato e Massimo Luciani, ed elettivamente domiciliati presso lo studio del primo in Roma in viale Angelico, n.
45; contro – il Ministero della Pubblica Istruzione, in persona del Ministro pro tempore, costituitosi in giudizio tramite l’Avvocatura dello Stato; – la Presidenza del Consiglio dei Ministri, nella persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura dello Stato; e nei confronti di – la Conferenza Episcopale Italiana, rappresentata e difesa dagli avvocati Alessandro Gigli e Franco Gaetano Scoca con domicilio eletto in Roma,v.
G.
Paisiello, 55; — VITI LUDOVICA, non costituitasi in giudizio per l’annullamento dell’Ordinanza Ministeriale n.
30/08 prot.
2724 recante “Istruzioni e Modalita’ per lo svolgimento degli Esami di Stato” Visto il ricorso con i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione delle Amministrazioni intimate; Visti gli atti tutti della causa; Nominato relatore alla Pubblica Udienza dell’11 febbraio 2009, il Consigliere Umberto Realfonzo; e uditi gli avvocati di cui al verbale d’udienza.
Ritenuto e considerato, in fatto e in diritto, quanto segue: FATTO I.
Con il primo ricorso di cui in epigrafe, la Consulta Romana per la Laicita’ delle Istituzioni; altre associazioni laiche e atee; altre istituzioni cristiane; ed alcuni studenti iscritti all’ultimo anno di istruzione superiore che avevano scelto di non avvalersi né della religione cattolica, né di insegnamenti sostitutivi chiedono l’annullamento delle ordinanze relativa alla disciplina dell’attribuzione dei crediti scolastici per gli esami di maturita’ per l’anno scolastico 2006-2007 nella parte in cui si prevede: — che i docenti che svolgono insegnamento della religione cattolica partecipino a pieno titolo alle deliberazioni del consiglio di classe concernente l’attribuzione del credito scolastico agli alunni che si avvalgono di tale insegnamento; che analoga posizione completa, sia riconosciuta in sede di attribuzione del credito scolastico ai docenti delle attivita’ didattiche formative alternative all’insegnamento della religione cattolica, limitatamente agli alunni che abbiano seguito le attivita’ medesime (all’art.
8, punto 13); — che l’attribuzione al punteggio, nell’ambito della banda di oscillazione, tenga conto, oltre che degli elementi con l’articolo 14 comma 2 del d.p.r.
323 del 23 luglio 1998, del giudizio formulato dai docenti di cui al precedente comma 13 riguardante l’interesse col quale autunno ha seguito l’insegnamento della religione cattolica ed il profitto che ne ha tratto; ovvero le altre attivita’, ivi compreso lo studio individuale, che si sia tradotto in un arricchimento culturale disciplinare specifico, purché certificato valutato alla scuola secondo modalita’ deliberate dalla istituzione medesima; — che gli alunni che abbiano scelto di assentarsi dalla scuola per partecipare alle iniziative formative in ambito scolastico potessero far valere tali attivita’ esclusivamente come crediti formativi soltanto in presenza dei requisiti previsti dal D.
M.
49 del 24 febbraio 2000 (art.
8, punto 14).
Le parti ricorrenti, premessa una puntualizzazione dei rispettivi profili di legittimazione direttamente connessi ai loro interessi ovvero collegabili alle rispettive finalita’ statutarie ed associative, denunciano tre rubriche di gravame.
In particolare i ricorrenti lamentano: a.
Con il primo motivo si assume la violazione dell’articolo 11 delle disposizioni preliminari del codice civile, all’articolo 9 della legge n.
121 del 1985; all’articolo unico del d.p.r.
202 del 1990 all’articolo 309 del decreto legislativo 297/1994.
Il provvedimento impugnato si porrebbe in contrasto con la lettera c) dell’articolo 9 della legge 121 del 1985, per cui l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non puo’ “dar luogo ad alcuna forma di discriminazione”.
b.
Con il secondo motivo di gravame si lamenta sotto tre profili l’eccesso di potere per disparita’ di trattamento; violazione del principio di ragionevolezza e del principio di certezza giuridica del principio dell’affidamento e del divieto di retroattivita’ degli atti amministrativi in quanto: — adotta diversa criteri di valutazione per l’attribuzione del credito scolastico che svantaggiano nel profitto chi non la sceglie (primo profilo); — l’articolo 8, comma 14, della ordinanza impugnata prevede criteri del tutto indeterminati per l’eventuale valutazione, quali crediti formativi, delle attivita’ svolte dagli studenti che non si siano avvalsi dell’insegnamento della religione cattolica, né di attivita’ sostitutive; e che sono lasciati all’ampia discrezionalita’ di ciascun istituto scolastico con i rischi di ulteriori discriminazioni (secondo profilo in realta’ rubricato al punto 2.1.); — irragionevolmente le disposizioni censurate che avrebbero preteso, alla fine dell’anno scolastico, di fissare i criteri per la valutazione delle attivita’ che erano gia’ state compiute durante l’anno scolastico passato.
Si discriminerebbe cosi’ retroattivamente gli studenti che avevano scelto liberamente di non valersi della religione cattolica, non immaginando che la penalizzazione conseguente sotto il profilo del merito scolastico.
La retroattivita’ cosiddetta impropria (ex Cassazione Sezioni Unite 1 aprile 1993 n.
3888) — incidendo su di un rapporto in essere in ragione di un fatto passato – avrebbe alterato la disciplina conosciuta dagli interessati e sulla quale essi facevano legittimo affidamento – in violazione del principio dell’affidamento del cittadino sulla situazione giuridica e sulla certezza del diritto piu’ volte ricordato dalla Corte Costituzionale a partire dalla sentenza numero 349/1985 (terzo profilo in realta’ rubricato al punto 2.2.).
c.
In via subordinata i ricorrenti deducono l’illegittimita’ costituzionale dell’articolo 9 della legge n.
121 del 1985; dell’articolo unico del d.p.r.
202 del 1990;dell’articolo 309 del decreto legislativo 297/1994 laddove interpretate nel senso del provvedimento impugnato per violazione degli articoli 3,2,7,8 e 21 della Costituzione per l’inaccettabile compressione del principio di parita’ fra confessioni religiose e del diritto di libera manifestazione del pensiero.
I ricorrenti concludono per l’accoglimento del ricorso e l’annullamento dell’ordinanza ministeriale impugnata.
Si e’ costituito in giudizio il Ministro dell’Istruzione, Universita’ e della Ricerca, che con memoria, in linea preliminare, ha eccepito l’inammissibilita’ del ricorso per la carenza di interesse a ricorrere da parte dei ricorrenti.
Nel merito la Difesa Erariale ha sottolineato l’infondatezza del gravame richiamando il precedente della Corte Costituzionale n.
203/2000 e quello del Tar del Lazio (n.
7101/2000); e rilevando altresi’ che: — l’ordinanza sarebbe una mera proiezione del precetto di cui all’articolo 11 del d.p.r.
n.
323/1998; — che la religione cattolica, al pari delle altre attivita’ alternative, concorre alla determinazione del credito scolastico necessario che non e’ limitato alla considerazione del mero rendimento dell’alunno ma che invece considera la personalita’ umana nel suo complesso ed in tutte le sue manifestazioni.
Sono intervenuti ad adjuvandum con separati atti: il Movimento di cooperazione educativa, la Federazione Nazionale Insegnanti Scuola, e l’Unione degli Studenti, il Coordinamento Genitori Democratici; e l’Unione delle Comunita’ Ebraiche Italiane, rappresentativo della Confessione Ebraica nei rapporti con lo Stato italiano, lamentando che l’attribuzione del credito scolastico condizionerebbe la scelta di avvalersi o meno della religione cattolica, che per tale via non sarebbe cosi’ piu’ realmente libera.
L’ordinanza del 23 maggio 2007 n.2408/2007 con cui e’ stata accolta l’istanza di sospensione cautelare del provvedimento e’ stata riformata dal Consiglio di Stato con ordinanza n.
2920 del 12 giugno 2007 in considerazione della ritenuta inconsistenza giuridica del ricorso; della carenza di danno e del difetto di interesse delle parti.
II.
Con il secondo ricorso la medesima Consulta Romana per la Laicita’ delle Istituzioni; ed i rappresentanti delle altre istituzioni ad associazioni laiche, atee e cristiane ed alcuni studenti iscritti all’ultimo anno di istruzione superiore che avevano scelto di non avvalersi della religione cattolica, né di insegnamenti sostitutivi (tutti meglio indicati in epigrafe) chiedono l’annullamento dell’ordinanza relativa alla disciplina degli esami di maturita’ per l’anno scolastico 2007-2008 nella parte in cui si riproducono le stesse identiche disposizioni dell’ordinanza dell’anno precedente impugnata con il ricorso che precede.
Il ricorso e’ affidato alla denuncia di tre motivi di gravame assolutamente identici a quelli del ricorso che precede ed alla cui sommaria esposizione si rinvia.
In questo secondo giudizio si sono costituiti in giudizio sia il Ministero dell’Istruzione, i cui scritti difensivi riprendono, in rito e nel merito, le medesime argomentazioni sostanziali gia’ svolte sul precedente gravame.
Si’ e’ costituita in giudizio ad opponendum la Conferenza Episcopale Italiana per cui in via preliminare il ricorso sarebbe inammissibile in quanto: – non sarebbe ravvisabile alcun pregiudizio né per le associazioni ricorrenti e neppure per i singoli ricorrenti in quanto l’esame di maturita’ non avrebbe un carattere comparativo (cfr.
TAR Veneto n.1117/2000); non sarebbe stato notificato ad alcun studente che avrebbe scelto la Religione Cattolica mentre sarebbe stata evocata la Conferenza Episcopale che non avrebbe alcun titolo alla chiamata in giudizio.
Né si potrebbe ritenersi sussistente alcun effetto discriminatorio nei confronti di coloro, che non avendo usufruito di insegnamenti alternativi, hanno partecipato in misura minore al dialogo educativo.
Illegittimamente si riconoscerebbe invece l’arricchimento culturale e disciplinare chi partecipa alacremente all’insegnamento della religione.
La mancata considerazione ai fini del credito formativo violerebbe i diritti degli insegnanti di religione che fanno parte del corpo docente con gli stessi diritti e doveri degli altri insegnanti come ricordato dalla Corte Costituzionale (cfr.
sent.
n.390/1999) e che non viene sminuito dalla natura di giudizio motivato.
Nel merito per la Conferenza Episcopale l’ordinanza impugnata non prevederebbe alcun favoritismo per la religione cattolica, limitandosi a prevedere — in applicazione del vigente quadro normativo di cui alla legge 100 21/1985, d.p.r.
751/1985 e del d.p.r.
202/1990; ed e’ il d.p.r.
323/1998 — che anche la religione cattolica, al pari delle altre attivita’ alternative svolte in luogo della stessa, possa concorrere alla determinazione del credito scolastico necessario ai fini della determinazione del voto per l’esame finale.
Chiamata all’udienza pubblica dell’11 febbraio 2008 il ricorso, uditi i difensori delle rispettive parti, e’ stato trattenuto in decisione.
DIRITTO 1.
Deve preliminarmente disporsi la riunione dei ricorsi di cui in epigrafe ai sensi dell’art.52 del Regolamento di cui al R.D.
17 agosto 1907 n.642, stante gli evidenti profili di connessione soggettiva ed oggettiva.
2.
Devono preliminarmente essere esaminate congiuntamente le eccezioni preliminari delle parti resistenti che attengono per la gran parte a profili sostanzialmente coincidenti.
2.1.
Come eccepito, nelle rispetto dalla Difesa Erariale, dal Sindacato Nazionale autonomo degli Insegnanti di Religione, entrambi i gravami sarebbero inammissibile per l’originaria e persistente carenza di interesse dei ricorrenti sia nei sensi evidenziati dal Tar del Lazio con la decisione n.
7101/2000 e sia relativamente ai due alunni, che non avrebbero poi impugnato le operazioni di scrutinio con cui i consigli delle loro rispettive classi, con la partecipazione degli insegnanti di religione delle discipline alternative, hanno segnato i crediti scolastici degli ultimi due anni.
In particolare la Conferenza episcopale costituitasi sul secondo ricorso riporta le argomentazioni dell’ord.
n.
2408/2007 del Consiglio di Stato; ed assume che l’atto impugnato non avrebbe attribuito alcuna misura di favore all’insegnamento della religione cattolica rispetto alle altre attivita’ formative ed alle altre opzioni religiose.
Eccepisce, in via preliminare che: il ricorso sarebbe inammissibile in quanto: – non sarebbe ravvisabile alcun pregiudizio né per le associazioni ricorrenti e neppure per i singoli ricorrenti in quanto, come rilevato, l’esame di maturita’ non avrebbe un carattere comparativo; non sarebbe stato notificato ad alcun studente che avrebbe scelto la Religione Cattolica.
La evocata Conferenza Episcopale non avrebbe infine avuto alcun titolo alla chiamata in giudizio L’eccezione non puo’ essere complessivamente condivisa.
Non puo’ essere condivisa l’opinione per cui “la maturazione del credito scolastico e del parallelo istituto del credito formativo e’ talmente ampia da non richiedere identita’ di posizioni” (cosi’ la n.
7101/2000 cit.
dalle parti resistenti) perche’ l’interesse concreto perseguito dai ricorrenti, attiene alla tutela di valori di contenuto ideale e morale che, come tali, attengono alla personalita’ dell’essere umano.
Qui e’ invocata la tutela dei diritti sociali, religiosi e culturali di tutte le varie minoranze, comunque, non cattoliche.
I rappresentanti dei Cristiani Evangeliciti, dei Pentecostali, dei Cristiani Avventisti del 7^ Giorno, dei Cristiani Battisti, dei Valdesi, dei Pentecostali degli Evangelici, dei Luterani, delle Comunita’ Ebraiche nonché delle associazioni laiche e razionaliste perseguono cioe’ il riconoscimento di una loro pari dignita’ culturale e sociale, che assumono violata.
Pertanto non pare che possano sommariamente liquidarsi i ricorrenti con l’insinuazione di essere, sostanzialmente, degli ignavi in cerca di una pretestuosa tutela per la loro svogliatezza rispetto ai diligenti alunni che hanno optato per la religione cattolica, ma e’ manifesto che i ricorrenti sono soggetti evidentemente portatori di una differente sensibilita’, sia essa religiosa o laica.
L’interesse al ricorso, nel caso in esame, non e’ quindi tanto un interesse di tipo “proprietario”, cioe’ collegato ad un’immediata utilita’ di carattere strumentale o economico dei ricorrenti e delle altre associazioni religiose e laiche, ma si radica in relazione alla richiesta di tutela dei valori di carattere morale, spirituale e/o confessionale che – sia pure numericamente minoritari nella nostra societa’ — sono tutelati direttamente dalla Costituzione, e che quindi come tali non possono restare estranei all’alveo della tutela del giudice amministrativo.
Le associazioni sono legittimate a difendere in sede giurisdizionale gli interessi dei soggetti di cui hanno la rappresentanza istituzionale o di fatto, quando si tratti della violazione di norme poste a tutela della categoria stessa, ovvero di perseguire il conseguimento di vantaggi, di carattere puramente strumentale, giuridicamente riferibili alla sfera della categoria.
(arg.
ex Consiglio Stato, sez.
V, 07 settembre 2007, n.
4692; Consiglio Stato, sez.
VI, 01 luglio 2008, n.
3326).
In sostanza nel caso in esame si rinviene: -) sia la “legitimatio ad causam” in senso stretto, cioe’ l’astratta riferibilita’ del rapporto giuridico processuale al soggetto ricavata dal processo civile che agisce e quindi, la corrispondenza fra l’attore ed il destinatario della sentenza; -) sia la “legittimazione a ricorrere”, cioe’ l’interesse attuale e concreto all’annullamento dell’atto e quindi al ripristino dello status quo ante, connesso con la diretta lesione alla situazione giuridica sostanziale, qui conseguente al notevole rilievo complessivo dei crediti scolastici sull’importo del voto finale.
Per questo il Collegio non si sente di condividere che “non potrebbe avere tutela del soggetto, che pur avendo conseguito buoni risultati dello studio, ha mostrato scarsa partecipazione al dialogo educativo ovvero non ha avuto assiduita’ nella frequenza scolastica oppure non ha voluto impegnarsi in esperienze coerenti con il corso di studi frequentato …fino al punto da disconoscere agli altri vantaggi che l’ordinamento intende loro attribuire” per cui “nessuno ….
puo’ sentirsi pregiudicato per il solo fatto che un altro alunno abbia praticato lo sport e ricevuto credito, altro abbia svolto attivita’ artistiche, altro abbia lavorato percependo una distribuzione se stessi e vedi che ad esercitare attivita’ sportiva ovvero non si abbia attitudine artistica ovvero spirito di intraprendenza”(sempre la n.
7101 cit.
dalle parti resistenti).
L’assunto e’ infatti fondato su un presupposto logico e giuridico che non puo’ essere condiviso, cioe’ che l’insegnamento di una religione qualunque essa sia (sia cattolica che di altri culti) possa essere assimilata a qualsiasi altra attivita’ intellettuale o educativa in senso tecnico del termine.
Qualsiasi religione – per sua natura — non e’ ne’ un’attivita’ culturale, ne’ artistica, ne’ ludica, ne’ un’attivita’ sportiva ne’ un’attivita’ lavorativa ma attiene all’essere piu’ profondo della spiritualita’ dell’uomo ed a tale stregua va considerata a tutti gli effetti.
Come sara’ evidente in seguito, salvo che in una teocrazia (di cui non mancano purtroppo esempi negativi anche nell’epoca contemporanea) la fede in un Dio non puo’ essere—nemmeno indirettamente — qualificata come un’ordinaria “materia scolastica”, al pari delle altre.
Di qui l’interesse dei non credenti, ovvero dei differentemente credenti, ad impugnare gli atti che ritengono violino le loro piu’ profonde convinzioni morali o religiose.
Infine si deve rilevare come i ricorsi risultano comunque ritualmente notificati ad almeno un alunno che aveva optato per l’insegnamento della religione.
2.2.
Pur con tutto il rispetto per la differente opinione del Giudice d’appello non si rinviene alcun effetto preclusivo assoluto derivante dal fatto che alcune ricorrenti (quali ad es.
la Tavola Valdese ed il Comitato Torinese per la laicita’ della Scuola) avessero partecipato al giudizio conclusosi con la predetta decisione passata in giudicato, dato che comunque altre associazioni non erano state parti di quel giudizio.
L’articolo 205, primo comma, del decreto legislativo 16 aprile 1994 n.297 prevede il potere di disciplinare anno per anno (evidentemente secondo le indicazioni del Ministro di turno) tali profili.
Deve osservarsi in conseguenza che, per una precisa scelta del legislatore, tra le diverse ordinanze non vi e’ alcun diretto rapporto di continenza o di continuita’, ma ciascuna di esse e’ una autonoma fonte regolatrice rispetto alle precedenti analoghe disposizioni ministeriali.
Come e’ evidente dal loro stesso oggetto, l’efficacia dispositiva delle ordinanze precedenti era limitata al relativo anno scolastico ed, analogamente fanno quelle impugnate.
Percio’ nessuna preclusione processuale puo’ essere rinvenuta nel fatto che una certa definizione di un punto in un precedente provvedimento (il cui gravame sia stato disatteso) venga poi ripreso analogamente in un successivo analogo ma ontologicamente separato atto.
Non appare dunque ostativa all’esame del gravame la mancata impugnativa delle precedenti ordinanze ministeriali, dato che non vi e’ un alcun vincolo di presupposizione necessaria tra le diverse ordinanze.
2.3.
Per il medesimo ordine di ragioni di cui sopra devono essere disattese le eccezioni del Sindacato Nazionale autonomo degli Insegnanti di Religione che lamentano che l’accoglimento del ricorso risulterebbe gravemente lesivo della funzione e della dignita’ professionale degli insegnanti di religione cattolica relativamente alla asserita mancata impugnativa delle precedenti ordinanze ministeriali.
In coerenza con quello che si diceva prima e’ infatti evidente come – se il vulnus qui lamentato attiene ai diritti personalissimi — il ricorso non e’ diventato inammissibile né e’ sopravvenuta la carenza di interesse dei due alunni ricorrenti per la mancata successiva impugnativa da parte loro delle operazioni di scrutinio con i crediti attribuiti con la partecipazione degli insegnanti di religione delle discipline alternative.
Anche tale eccezione va disattesa.
3.
Nel merito, nell’ordine logico delle questioni deve essere esaminato il terzo motivo.
3.1.
Con tale mezzo si lamenta, in via subordinata, l’illegittimita’ costituzionale dell’articolo 9 della legge n.
121 del 1985; dell’articolo unico del d.p.r.
202 del 1990; e dell’articolo 309 del decreto legislativo 297/1994 laddove interpretate nel senso del provvedimento impugnato per violazione degli articoli 3,2,7,8 e 21 della Costituzione per l’evidente irragionevolezza e per le possibili discriminazione e disparita’ di trattamento che ne deriverebbero; per l’inaccettabile compressione del principio di parita’ fra confessioni religiose, nonché della liberta’ religiosa e del diritto di manifestazione del pensiero.
Per le ricorrenti, si impedirebbe la garanzia che la scelta per l’una o per l’altra soluzione fosse dettata solo da considerazioni personali dell’interessato in assenza di qualsiasi condizionamenti o discriminazioni, in violazione dei principi della Corte Cost.
che aveva configurato anche la situazione di “non obbligo” per coloro che non esercitano nessuna delle tre scelte proposte “non essendo alternativi e equivalenti l’insegnamento della religione cattolica ed altro impegno scolastico, per non condizionare dall’esterno della coscienza individuale l’esercizio della liberta’ costituzionale, come quella religiosa, coinvolgente l’interiorita’ della persona”.
Posto dunque che, secondo l’insegnamento del Giudice delle Leggi, il giudice remittente deve privilegiare l’interpretazione della disposizione conforme a Costituzione non puo’ proporre questioni meramente interpretative, volte a suffragare, o a far escludere, la legittimita’ di tesi ermeneutiche (cfr infra multa Corte Costituzionale, 18 marzo 2005, n.
112) e’ cosi’ evidente come un convincimento circa la rilevanza e la manifesta fondatezza dell’eccezione potrebbe eventualmente pervenirsi solo nel caso in cui si ritenesse di dover aderire al convincimento del giudice d’appello circa la legittimita’ – e quindi la conformita’ alle norme di legge richiamate — delle ordinanze impugnate con i presenti ricorsi.
Nel caso in esame, la prospettata eccezione di incostituzionalita’ non appare strettamente pregiudiziale al fine della richiesta di valutazione circa l’illegittimita’ degli atti impugnati.
Contrariamente a quanto vorrebbero, sia pure in via subordinata, le parti ricorrenti – e come sara’ meglio chiarito in seguito – e’ l’interpretazione delle norme data dall’Amministrazione che ha portato all’adozione di una disciplina annuale delle modalita’ organizzative degli scrutini di esame, che appare aver generato una violazione dei diritti di liberta’ religiosa e della libera espressione del pensiero; nonche’ di libera determinazione degli studenti relativamente all’insegnamento della religione cattolica.
Di qui la non manifesta rilevanza, allo stato, della questione.
4.
Per ragioni di economia espositiva possono essere esaminati unitariamente– attesa la loro assoluta specularita’ ed assorbenza — i seguenti profili di gravame relativi alla prima ed alla seconda censura di entrambi i ricorsi.
4.1.
Con il primo motivo si deduce che il provvedimento impugnato si porrebbe in contrasto con la lettera c) dell’articolo 9 della legge 121 del 1985, recante applicazione del concordato nel 1984 fra lo Stato italiano e la Santa Sede, per cui la scelta degli studenti o dei loro genitori di avvalersi, o meno, dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non puo’ “dar luogo ad alcuna forma di discriminazione”.
Il protocollo addizionale agli accordi del 1984 che fu formalizzato con il d.p.r.
202 del 1990, prevedeva che gli insegnanti di religione cattolica non avrebbero potuto disporre, né di voti, ne’ svolgere esami, ma semplicemente stilare, “in luogo” di voti ed esami, una “nota speciale”, nella quale dar conto dell’interesse con il quale ciascuno studente aveva seguito l’insegnamento ed il profitto ottenuto.
Per le parti ricorrenti, l’articolo 205, comma uno, del decreto legislativo 16 aprile 1994 n.297 con cui e’ stato approvato il testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, che attribuisce al ministero della pubblica istruzione il potere di disciplinare annualmente, con propria ordinanza, le modalita’ organizzative degli scrutini di esami, avrebbe dovuto essere interpretato alla luce dei principi complessivamente risultanti dal medesimo decreto legislativo ed in particolare dal disposto dell’articolo n.
309 in base al quale, tra l’altro, i docenti dell’insegnamento della religione cattolica: — fanno parte della componente docente degli organi scolastici con gli stessi diritti e doveri degli altri docenti, ma partecipano alle valutazioni periodiche finali solo per gli alunni che si sono avvalsi dell’insegnamento della religione cattolica (terzo comma); — stilano “una speciale nota, da consegnare unitariamente alla scheda o alla pagella scolastica, riguardante l’interesse con il quale l’alunno segue l’insegnamento di profitto che ne ritrae”.
L’insegnante di religione ha certamente pari dignita’ rispetto agli altri docenti, ma partecipa a medesimo titolo degli altri, alla determinazione complessiva della valutazione degli studenti, solo ed esclusivamente nel caso in cui il suo parere sia necessario (e quindi determinante) per la decisione circa la promozione o la bocciatura dello studente.
Per le ricorrenti se la disciplina legislativa e la costante prassi amministrativa stabiliscono che l’insegnamento della religione cattolica non deve comparire sulla scheda di valutazione bensi’ sulla speciale nota in luogo dei voti di cui non dispone degli esami che non puo’ svolgere, ed allora e’ evidente che le disposizioni qui impugnate nel prevedere che gli insegnanti di religione cattolica “partecipino a pieno titolo” alla decisione sul credito scolastico, si pongono in evidente palmare contrasto con le fonti appena richiamate.
Le ricorrenti richiamando le argomentazione poste a base di un’interrogazione scritta di alcuni senatori, lamentano ancora che l’ordinanza impugnata: — non trova giustificazione in alcuna innovazione legislativa o regolamentare, e si porrebbe in contrasto con l’orientamento costante alla Corte Costituzionale (le sentenze nn.
203/1989 e il 13/1991); — ha l’effetto di indurre gli studenti a rinunciare alle scelte dettate dalla propria coscienza garantita dalla Carta Costituzionale dell’articolo 9 del Concordato in vista di un punteggio piu’ vantaggioso nel credito scolastico.
4.2.
Con il secondo motivo di gravame si lamenta, sotto due profili di chiusura, l’eccesso di potere per disparita’ di trattamento; violazione del principio di ragionevolezza e del principio di certezza giuridica del principio dell’affidamento e del divieto di retroattivita’ degli atti amministrativi.
2.1.
In una prima prospettazione si lamenta che l’ordinanza, in palese contraddizione con le precedenti analoghe ordinanze ministeriali, nel prescrivere un diverso criterio di valutazione per l’attribuzione del credito scolastico, rispettivamente, gli studenti che si siano avvalsi dell’insegnamento alla religione cattolica o di un’attivita’ alternativa, discriminerebbe quei studenti che, nell’esercizio del diritto fondamentale riconosciuto dalla sentenza 13/1991, abbiano scelto di assentarsi all’edificio scolastico o comunque di astenersi da ogni insegnamento alternativo durante l’ora di religione cattolica.
E cio’ perche’, ai sensi dell’articolo tre, comma sei, legge 425/1997 “a conclusione dell’Esame di Stato viene assegnato a ciascun candidato un voto finale complessivo in centesimi, che e’ il risultato della somma dei punti attribuiti dalla commissione d’esame alle prove scritte dal colloquio e dei punti per il credito scolastico acquisito da ciascun candidato.
La commissione d’esame dispone di 45 punti per valutazione delle prove scritte e di 30 punti per la valutazione del colloquio.
Ciascun candidato puo’ far valere un credito scolastico massimo di 25 punti”.
In conseguenza chi non sceglie l’insegnamento della religione cattolica sarebbe esposto al rischio di presentarsi in condizione di svantaggio sul mercato del lavoro o in occasione della partecipazione a selezione per l’ammissione ai corsi universitari o borse di studio connotati come noto da un’altissima competitivita’.
Tale situazione non sarebbe comunque rimediata dalla possibilita’ degli studenti “non avvalentisi” di ottenere, in luogo del “credito scolastico”, la valutazione dell’attivita’ eventualmente svolta fuori dalla scuola quale i “crediti formativi” di cui al D.M.
49 del 24 febbraio 2000.
5.
Entrambi gli assunti sono fondati nei sensi e nei limiti che seguono.
In linea generale, il concetto di separazione tra la sfera religiosa e quella civile (cfr.
Vangelo S.
Matteo 22, 15-21) e’ stato uno dei preziosi contributi della Cristianita’ alla civilta’ occidentale.
Oggi il principio della laicita’ dello Stato, se non e’ definito in alcuna norma, e’ stato chiaramente enunciato dalla Corte costituzionale nell’ampia accezione di “garanzia dello Stato per la salvaguardia della liberta’ di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale”, e rispetto al quale lo Stato si pone in condizione di “neutralita’” (cfr.
sent.
12 aprile 1989, n.
203).
I principi della Carta costituzionale postulano dunque uno Stato che, rispetto alla religione, non si pone in termini di ostilita’, “ma si pone al servizio di concrete istanze della coscienza civile e religiosa dei cittadini” (cosi’ n.
203 cit.).
Nello specifico del problema proprio nella ricordata pronuncia, e’ stato poi affermato che l’insegnamento della religione cattolica concerne un diritto di liberta’ costituzionale “non degradabile, nella sua serieta’ e impegnativita’ di coscienza, ad opzione tra equivalenti discipline scolastiche”.
Sulla considerazione che la religione non e’ una “materia scolastica” come le altre deve essere ancorato il convincimento circa l’illegittimita’ della sua riconduzione all’ambito delle attivita’ rilevanti ai fini dei crediti formativi.
E cio’, non perché la religione cattolica non debba essere considerata un’attivita’ priva di valori storici e culturali ma anzi, al contrario, non puo’ essere considerata una normale disciplina scolastica proprio perché e’ un insegnamento di pregnante rilievo morale ed etico che, come tale, abbraccia quindi l’intimo profondo della persona che vi aderisce.
Al riguardo e’ stato autorevolmente sottolineato che, nelle societa’ contemporanee, senza i valori religiosi anche molti non credenti perdono punti di riferimento.
La sfera religiosa concerne aspetti che coinvolgono la dignita’ (riconosciuta e dichiarata inviolabile dall’art.
2 Cost.) dell’essere umano; e spetta indifferentemente tanto ai credenti quanto ai non credenti, siano essi atei o agnostici (cfr.
Corte costituzionale, 08 ottobre 1996, n.
334).
Ma proprio per questa ragione, sul piano giuridico, un insegnamento di carattere etico e religioso strettamente attinente alla fede individuale non puo’ assolutamente essere oggetto di una valutazione sul piano del profitto scolastico per il rischio di valutazioni di valore proporzionalmente ancorate alla misura della fede in essa.
Sotto tale profilo e’ dunque evidente l’irragionevolezza dell’Ordinanza che nel consentire l’attribuzione di vantaggi curriculari, inevitabilmente collega in concreto tale utilita’ alla misura della (magari solo ostentata, verbale e strumentale) adesione ai valori dell’insegnamento cattolico impartito.
Tal circostanza, del resto, concerne anche gli stessi alunni che hanno aderito all’insegnamento della religione con un consapevole convincimento, ma il cui profitto potrebbe essere condizionato da dubbi teologici sui misteri della propria Fede.
Infatti, lo Stato, dopo avere sancito il postulato costituzionale dell’assoluta, inviolabile liberta’ di coscienza nelle questioni religiose, di professione e di pratica di qualsiasi culto “noto”, non puo’ conferire ad una determinata confessione una posizione “dominante” — e quindi un’indiscriminata tutela ed un’evidentissima netta poziorita’ – violando il pluralismo ideologico e religioso che caratterizza indefettibilmente ogni ordinamento democratico moderno (Corte europea dir.
uomo , 25 maggio 1993, n.
260).
In una societa’ democratica, al cui interno convivono differenti credenze religiose, certamente puo’ essere considerata una violazione del principio del pluralismo il collegamento dell’insegnamento della religione con consistenti vantaggi sul piano del profitto scolastico e quindi con un’implicita promessa di vantaggi didattici, professionali ed in definitiva materiali.
Nel caso non puo’ essere infatti dimenticato che ai sensi dell’art.
3, comma sei, della L.
425/1997 il credito scolastico, che puo’ arrivare fino ad massimo di punti 25, pesa per oltre il 55,55 % dei 45 punti assegnati per le prove scritte ed e’ pari all’83,33 % dei 30 punti assegnati per la valutazione del colloquio.
Una cosi’ radicale svalutazione del valore complessivo delle prove scritte ed orali sul valore del voto finale ben puo’ giustificare le preoccupazione di chi non abbraccia tale culto, circa la rilevanza e l’incidenza dei crediti in questione sull’esito dell’esame.
Al riguardo non puo’ ignorarsi il fatto che, per comune esperienza di vita, nelle nostre scuole (metropolitane e non) le c.d.
materie alternative — concernendo comunque una minoranza della popolazione scolastica — spesso o non vengono attivate affatto per mancanza di risorse ovvero nella realta’ delle cose si riducono al semplice “parcheggio” degli alunni in qualche aula (quando non nei corridoi).
E cio’ anche quando gli alunni delle piu’ eterogenee etnie del mondo e delle altre piu’ disparate confessioni rappresentano quasi il 40% degli studenti (con punte addirittura del 90 % in alcune estreme periferie dei grandi agglomerati urbani).
Né, come esattamente ricordato con il primo profilo del secondo motivo, tale discriminazione viene meno per la possibilita’ degli studenti “non avvalentisi” di ottenere la valutazione delle attivita’ eventualmente svolte fuori dalla scuola quale “crediti formativi” di cui al D.M.
49 del 24 febbraio 2000.
Infatti, mentre ai sensi dell’articolo 11 del d.p.r.
323/1998, il “credito scolastico” costituisce la valutazione del grado di preparazione complessiva raggiunta da ciascun alunno nell’anno scolastico in corso con riguardo al profitto e dell’assiduita’ della frequenza scolastica; i “crediti formativi” debitamente documentati esprimono generiche esperienze, cui possano derivare competenze coerenti con il tipo di corso cui si riferisce all’esame di Stato (cfr.
Consiglio di Stato 22 giugno 2005 n.
3290).
Il che in concreto comporta che le famiglie laiche o degli alunni stranieri appartenenti ad altre confessioni siano di fatto costretti o, ad accettare cinicamente e subdolamente l’insegnamento di una religione cui non credono; ovvero a subire un’ulteriore discriminazione di carattere religioso, che si accompagna e si aggiunge spesso a quelle di carattere razziale, economico, linguistico e culturale.
Il sistema complessivo, in essere in concreto, ha dunque l’effetto di indurre gli studenti a rinunciare alle scelte dettate dalla propria coscienza garantita dalla Carta Costituzionale dell’articolo 9 del Concordato in vista di un punteggio piu’ vantaggioso nel credito scolastico.
In coerenza con i valori fondanti della Cedu, in una societa’ al cui interno convivono differenti credenze religiose e’ necessario conciliare gli interessi dei diversi gruppi e garantire il rispetto delle convinzioni di ciascuno (arg.
ex Corte europea dir.
uomo, 31 luglio 2001), e non puo’ manifestare una preferenza per una particolare confessione o credenza religiosa, ma deve garantire il suo ruolo di arbitro imparziale (cfr.
Corte europea dir.
uomo, 10 novembre 2005).
In tale ottica non pare che le ordinanze qui impugnate rispettino il principio di imparzialita’ e di par condicio tre la confessioni che e’ alla base della neutralizzazione dei contrasti tra le diverse confessioni nelle democrazie occidentali contemporanee.
Le ordinanze impugnate si pongono dunque in radicale contrasto con la lettera c) dell’articolo 9 della legge 121 del 1985, in quanto l’attribuzione di un credito formativo ad una scelta di carattere religioso degli studenti o dei loro genitori, quale quella di avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, da’ luogo ad una precisa forma di discriminazione, dato che lo Stato Italiano non assicura identicamente la possibilita’ per tutti i cittadini di conseguire un credito formativo nelle proprie confessioni (islamica, ebrea, cristiane, di altro rito) ovvero per chi dichiara di non professare alcuna religione in Etica Morale Pubblica (come del resto avviene in Germania).
6.
In tali esclusivi assorbenti profili entrambi i ricorsi sono dunque fondati e devono essere accolti.
Per l’effetto deve essere dichiarato l’annullamento delle ordinanza di cui in epigrafe.
Le spese, in ragione della natura controversa delle questioni trattate, possono tuttavia essere compensate tra tutte le parti.
PQM il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio- Sez.III^-quater : 1.
riunisce gli epigrafati ricorsi ai sensi dell’art.52 del Regolamento di cui al R.D.
17 agosto 1907 n.642;.
2.
Accoglie i ricorsi e per l’effetto annulla i provvedimenti meglio specificati in epigrafe.
3.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorita’ Amministrativa.
Cosi’ deciso dal Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio- Sez.III^-quater, in Roma, nella Camera di Consiglio dell’11 febbraio 2009/6 maggio 2009.
IL PRESIDENTE dr.
Mario Di Giuseppe IL CONSIGLIERE-EST.
dr.
Umberto Realfonzo COMUNICATO STAMPA MIUR Dichiarazione del ministro Mariastella Gelmini Gelmini: Ricorso al Consiglio di Stato.
Ingiusto discriminare insegnamento Religione Cattolica Roma, 12 agosto 2009 “La religione cattolica esprime un patrimonio di storia, di valori e di tradizioni talmente importante che la sua unicità deve essere riconosciuta e tutelata.
Una unicità che la scuola, pur nel rispetto di tutte le altre religioni, ha il dovere di riconoscere e valorizzare.
I principi cattolici dunque, che sono patrimonio di tutti, vanno difesi da certe forme di laicità intollerante che vorrebbero addirittura impedire la libera scelta degli studenti e delle loro famiglie di seguire l’insegnamento della religione.
Per questo ho deciso di ricorrere al Consiglio di Stato contro la decisione del Tar.
Sono fiduciosa che, come è accaduto altre volte in passato, il Consiglio di Stato possa dare ragione al Ministero e all’ordinamento in vigore.
In Italia vi è piena libertà di scegliere se frequentare o meno l’insegnamento della religione.
Non si comprende perché qualcuno voglia limitare questa libertà.
L’ordinanza del Tar infatti determina un ingiusto danno nei confronti di chi sceglie liberamente di seguire il corso.
Il Tar del Lazio ha sostenuto che per chi non sceglie l’insegnamento della religione cattolica può configurarsi una situazione di svantaggio.
Tale tesi non è condivisibile in quanto l’insegnamento della religione cattolica non costituisce un credito scolastico ma un credito formativo e non incide quindi in maniera diretta sul voto finale.
E’ pertanto davvero incomprensibile che solo la religione cattolica non debba contribuire alla valutazione globale dello studente tra tutte le attività che danno luogo a crediti formativi.
L’ordinanza del Tar peraltro tende a sminuire il ruolo degli insegnanti di religione cattolica, come se esistessero docenti di serie a e di serie b.
Al contrario ritengo che il ruolo degli insegnanti di religione vada accresciuto e valorizzato.
Per questo dal prossimo anno è mia intenzione coinvolgere i docenti di religione cattolica in attività di formazione, secondo gli obiettivi della riforma del primo e del secondo ciclo d’istruzione”.
AVVENIRE – 11 Agosto 2009 SCUOLA Ora di religione: il Tar del Lazio la «retrocede» Nuovo attacco all’ora di religione.
Dopo diversi tentativi andati a vuoto, il gruppo di associazioni laiciste e di altre confessioni non cattoliche che da tempo hanno messo nel mirino questo insegnamento, hanno trovato una sponda nel Tar del Lazio.
I giudici amministrativi, con la sentenza 7076 hanno infatti disposto l’annullamento delle ordinanze del ministro Fioroni, emanate per gli esami di Stato del 2007 e del 2008.
In pratica, il Tar ha stabilito che frequentare l’ora di religione non può portare crediti aggiuntivi e che gli insegnanti di religione non possono partecipare «a pieno titolo» agli scrutini.
In particolare, nella sentenza i giudici scrivono che «lo Stato, dopo aver sancito il postulato costituzionale dell’assoluta, inviolabile libertà di coscienza nelle questioni religiose, di professione e di pratica di qualsiasi culto “noto”, non può conferire ad una determinata confessione una posizione “dominante” – e quindi una indiscriminata tutela ed un’evidentissima netta priorità – violando il pluralismo ideologico e religioso che caratterizza indefettibilmente ogni ordinamento democratico moderno».
La decisione del Tar laziale ha già suscitato la legittima protesta dei docenti, per l’evidente tentativo, già per altro portato avanti anche nel recente passato, di emarginare l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche italiane.
«Questa sentenza è semplicemente assurda», tuona Nicola Incampo, docente e membro della commissione paritetica Ministero-Cei per la valutazione dell’insegnamento della religione cattolica.
«Già nel 2006 – prosegue l’insegnante – una sentenza del presidente del Consiglio di Stato, organo giudicante di grado superiore rispetto al Tar, aveva già dichiarato la legittimità delle ordinanze del ministro Fioroni.
Non si capisce, quindi, come adesso i giudici amministrativi possano tornare indietro pronunciandosi su una questione già definita a livello superiore».
Un’altra incongruità del dispositivo del Tar riguarda la presunta “discriminazione” contenuta nell’ordinanza Fioroni.
Per i giudici, infatti, frequentare l’ora di religione non può essere considerato meritevole di crediti scolastici aggiuntivi, rispetto a chi, invece, ha deciso di non avvalersi dell’insegnamento.
«Ma non è così – protesta Incampo –.
Mentre la precedente ordinanza Berlinguer prevedeva, questa sì, i crediti soltanto per chi aveva deciso di frequentare l’ora di religione, il ministro Fioroni ha dato la possibilità di accumulare crediti a tutti, anche a chi frequenta attività sostitutive.
Mi sembra evidente, in definitiva, il tentativo di estromettere, a colpi di sentenze, l’insegnamento della religione dai programmi scolastici».
Un tentativo alquanto maldestro.
La sentenza del Tar, infatti, arriva dopo la conclusione dei lavori della commissione paritetica Ministero dell’Istruzione-Cei, che ha deciso all’unanimità di passare dalla votazione con gli “aggettivi” (sufficiente, buono…) ai voti numerici.
Quando la decisione sarà avallata dal Consiglio di Stato, anche il voto di religione farà media e il problema dei crediti sarà quindi superato una volta per tutte.
Di «decisione estemporanea, bizzarra e discriminatoria, che sarà sicuramente cancellata da ulteriori gradi di giudizio» ha parlato anche il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri, mentre l’ex-ministro Giuseppe Fioroni, chiamato direttamente in causa, ha ricordato di aver soltanto «applicato la legge».
«Offro un ulteriore spunto di riflessione – ha proseguito l’ex-titolare dell’Istruzione –: visto che al conseguimento dei crediti formativi concorrono una serie molto ampia e varia di discipline, non ultimi anche corsi di danza caraibica, ritengo quindi che possa contribuirvi anche l’ora di religione o della materia sostitutiva, come previsto per legge».
Contro la sentenza del Tar si è espressa la parlamentare del Pd, Paola Binetti, che si è detta contraria a creare «professori di serie A e altri di serie B».
Non ammettere i docenti di religione agli scrutini, inoltre, secondo Binetti sarebbe «massimamente scorretto» e avrebbe ripercussioni negative «anche sugli studenti, in particolare su quelli che hanno scelto di avvalersi dell’insegnamento della religione e si aspettano che, una volta scelto, non sia un optional ma entri a pieno titolo nella valutazione».
Infine, per la parlamentare dell’Udc, Luisa Santolini, la sentenza del Tar del Lazio è «ideologica» e ha come fine quello di «distruggere le tradizioni italiane ed il sentire della gente».
ALTRI COMMENTI Secondo Monsignor Diego Coletti, vescovo di Como e presidente della Commissione episcopale per l’educazione cattolica, la sentenza non tutela, bensì danneggia la laicità dello Stato.
Escluso, però, che la Cei faccia ricorso.
Ai microfoni di Radio Vaticana Coletti ha detto che «se per laicità si intende l’esclusione dall’orizzonte culturale, formativo, civile di ogni identità, vuol dire che si è proprio nel più bieco e negativo risvolto dell’Illuminismo, che prevede che la pace sociale sia garantita dalla cancellazione delle diversità delle identità.
Mentre io credo che uno Stato sanamente laico debba preoccuparsi di far emergere e di rispettare, di mettere in rete casomai e di far crescere tutte le identità, soprattutto quelle di alto profilo etico e culturale».
«Ci sarà da chiedersi – afferma Coletti – come mai su una questione così delicata, la competenza venga data ad un Tribunale amministrativo regionale».
Ma un eventuale ricorso, ha concluso, non spetta alla Cei, bensì ai cittadini italiani e allo stesso ministero dell’Istruzione.
Come ricuperare la gioia della fede e della preghiera?
di fronte alla domanda più generale: come ricuperare la gioia della fede e della preghiera? Non do consigli astratti, ma porto quattro immagini.
La prima è quella di una cascata di montagna: se l’acqua non si butta coraggiosamente, imputridisce.
La seconda è quella dell’alpinista di fronte una parete ripida.
Ha bisogno almeno di tre appigli: nel nostro caso sono un uomo di consiglio, il buon umore e qualche buon libro.
La terza immagine è quella del mormorio di un vento leggero (1 Re 19,12).
Questa è la preghiera fatta a partire da qualche Salmo, meditata nel profondo del cuore.
La quarta immagine è quella di chi sale in elicottero e vede un più vasto panorama, che gli dà orientamento e chiarezza.
Ho sperimentato in me stesso che le difficoltà contro la fede crescono a misura che si rimpicciolisce il quadro di riferimento.
Carlo Maria Martini da Lettere al Cardinal Martini Corriere della Sera 26 luglio 2009
Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano scrive al Papa sulla “Caritas in Veritate”
Il Presidente Giorgio Napolitano ha inviato una lettera a S.S.
Benedetto XVI in merito all’enciclica “Caritas in Veritate”, di seguito il testo.
Ho letto con grande interesse la Sua terza enciclica Caritas in veritate che, rivolta anche “a tutti gli uomini di buona volontà”, porta il Suo messaggio all’interno di società in cui vi è in questi anni apprensione ed incertezza non solo per le prospettive e per il futuro dell’economia mondiale e dello sviluppo, ma anche per i cambiamenti che si vanno delineando nei rapporti umani, nel mondo del lavoro e dell’impresa, nelle relazioni tra gli abitanti del pianeta e l’ambiente e le risorse naturali che per molto tempo sono state considerate inesauribili.
Sono certo che i temi centrali che riguardano la vita dell’uomo in rapporto ai suoi simili e le grandi questioni che toccano le nostre società, così come delineati nell’enciclica e collegati da quel filo rosso che Ella ha saputo così chiaramente rendere visibile nel testo, costituiranno uno stimolo ad una riflessione che potrà risultare benefica per tutti.
L’affermazione di Vostra Santità che oggi la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica costituisce in effetti un invito ad un ripensamento approfondito e sereno di molti aspetti della vita e del funzionamento degli aggregati umani, con particolare riferimento “al senso dell’economia e dei suoi fini” e alla necessità di una “revisione profonda e lungimirante del modello di sviluppo, per correggerne le disfunzioni e le distorsioni”.
Mi è gradita l’occasione, Santità, per ribadirLe le espressioni della mia più alta considerazione e della mia attenta partecipazione nel seguire lo svolgimento della Sua quotidiana ed estremamente impegnativa missione”.
Roma, 16 luglio 2009
«Gloria a Dio e onore a voi uomini artefici della grande impresa»
Si è tanto parlato in questi giorni, e in tutto il mondo, e con tutte le voci possibili, dell’impresa lunare; Noi stessi vi abbiamo dedicato qualche esclamazione ammiratrice, così che sembrerebbe ora cosa migliore per Noi tacerne che parlarne.
Ma, oltre il fatto che proprio domani la straordinaria escursione planetaria deve concludersi con il ritorno, che auguriamo felicissimo, degli astronauti sulla terra, questo avvenimento penetra talmente nella psicologia della pubblica opinione da costituire una sorgente di pensieri, di questioni, di spiritualità, che commetteremmo un peccato di omissione, se non Ci fermassimo, anche in questo familiare incontro, a meditarlo un po’.
È purtroppo vero che la superficialità è una abitudine di moda.
Anche le più forti impressioni, che a noi vengono dall’esperienza della vita moderna, si cancellano subito; o subito sono soverchiate da altre successive, così che spesso manca il tempo, manca la voglia di approfondirle, e di coglierne il significato, la verità, la realtà.
Ma in questo caso il trauma della novità e della meraviglia è così forte, che sarebbe stoltezza non riflettere su questa, possiamo dire, sovrumana e storica avventura, alla quale tutti abbiamo, come spettatori esterrefatti, in qualche modo – anche questo meraviglioso – assistito.
Ciascuno vi pensi a suo modo, purché vi pensi! L’importanza degli studi scientifici può essere di per sé oggetto di interminabili considerazioni.
Ad esempio, quella circa lo sviluppo e il progresso, che questi studi hanno avuto nel tempo nostro, fino a modificare la mentalità umanistica tradizionale della nostra cultura e della nostra scuola; il che vuol poi dire della nostra vita.
Il bilancio di questi studi positivi e scientifici è così attivo, che una grande attrattiva vi polarizza molta parte delle nuove generazioni, e un ottimismo sognatore sulle loro future conquiste ne fa quasi un’iniziazione profetica.
E sia pure.
Il campo scientifico merita ogni interesse. Ma intanto potremmo, di passaggio, osservare come sia fuori luogo, almeno a questo riguardo, il disfattismo oggi di moda contro la società e la sua compagine, e in genere contro la vita moderna.
Questo disfattismo seduce oggi perfino qualche parte della gioventù, e altri uomini di pensiero e d’azione; li gratifica di audace progressismo, e sembra loro conferire una personalità superiore, quando li riempie di istinti ribelli e di spregiudicato disprezzo verso la nostra età e verso il suo sforzo creativo.
La vita invece è seria; e ce lo insegna la somma immensa di studi, di spese, di fatiche, di ordinamenti, di tentativi, di rischi, di sacrifici, che una impresa colossale, come quella spaziale, ha reclamati.
Criticare, contestare è facile; non così costruire, in questa iniziativa si comprende; ma parimente in altre moltissime da cui risulta la nostra presente civiltà.
Perciò Ci sembra che un dovere di ripensamento e di apprezzamento dei valori della vita moderna ci sia intimato dall’avvenimento che stiamo celebrando.
Noi non neghiamo alla critica i suoi diritti, né rimproveriamo al genio dei giovani il suo istinto di emancipazione e di novità.
Ma riteniamo non degno di giovani il decadentismo iconoclasta e privo di amore dei contestatori di mestiere.
I giovani devono sentire l’impulso ideale e positivo che loro è offerto dalla magnifica avventura spaziale.
Ed allora ecco un’altra considerazione.
Questo nostro aperto suffragio per la progressiva conquista del mondo naturale, per via di studi scientifici, di sviluppi tecnici e industriali, non è in contrasto con la nostra fede e con la concezione della vita e dell’universo, ch’essa comporta.
Basta ricordare quanto insegna a questo riguardo il recente Concilio (Gaudium et spes, nn.
37, 58, 59, ecc.).
Qui tocchiamo uno dei punti più delicati della mentalità moderna rispetto alla nostra religione cattolica, una religione cioè positiva, con sue dottrine ben determinate, e ordinate a sistema unitario, incentrato in Gesù Cristo, nel suo Vangelo, nella sua Chiesa.
Ora è facile riscontrare nella mentalità dell’uomo odierno, specialmente di quello dedicato agli studi scientifici, una duplice serie di difficoltà: una di ordine essenziale, l’altra di ordine storico.
Come può, dice oggi lo studioso, entrare nello schema dogmatico e rituale della vita cattolica l’immenso patrimonio delle scoperte scientifiche, con l’impiego libero e totale della ragione, e con la concezione che ne risulta sul mondo e sull’umana esistenza? E come può, insiste lo studioso osservando i mutamenti continui, rapidi e macroscopici, che avvengono col volgere del tempo nel pensiero e nel costume dell’uomo moderno, rimanere intatta la religione tradizionale, racchiusa in una mentalità statica e d’altri tempi? Occorrerebbero libri interi, sia per formulare queste obiezioni capitali, sia per rispondervi.
Non è certo qui, né in questo momento che lo faremo.
Ma ora Ci basti rassicurarvi.
La fede cattolica, non solo non teme questo poderoso confronto della sua umile dottrina con le meravigliose ricchezze del pensiero scientifico moderno, ma lo desidera.
Lo desidera, perché la verità, anche se si diversifica in ordini differenti e se si appoggia a titoli diversi, è concorde con se stessa, è unica; e perché è reciproco il vantaggio che da tale confronto può risultare alla fede (cfr.
Gaudium et Spes, n.
44) e alla ricerca e allo studio d’ogni campo conoscibile.
È stata questa una delle affermazioni caratteristiche e più documentate del pensiero cattolico apologetico del secolo scorso e della prima metà del nostro secolo, con risultati magnifici, dei quali le nostre Università sono documenti gloriosi. Adesso si profilano altre tendenze, che suppongono, non smentiscono la precedente: quella, che si rifà alla famosa parola di sant’Agostino, e che possiamo dire psicologica: “Tu, (o Signore), ci hai fatti per Te ed è inquieto il nostro cuore, finché non si riposi in Te” (Confess.
i, 1).
Il bisogno di Dio è insito nella natura umana, e quanto più essa progredisce tanto più essa avverte, fino al tormento, fino a certa drammatica esperienza, il bisogno di Dio.
Ovvero quella che, tanto per intenderci, potremmo dire la tendenza cosmica: chi studia, chi cerca, chi pensa non può sottrarsi ad una obiettiva onnipresenza di Dio, antica verità, che il Libro sacro sempre ci ripete: “Dove andrò io lungi dal Tuo spirito (o Signore), e dove fuggirò io dalla Tua faccia?” (Ps 138, 7).
Impossibile sottrarsi da questa presenza, di cui la materia, la natura è, per chi lo sa comprendere, un libro di lettura spirituale: “In Lui (cioè in Dio, dice san Paolo) noi viviamo, ci muoviamo, ed esistiamo” (Act 17, 28).
Il Dio ignoto è sempre lì; ogni studio delle cose è come un contatto con un velo dietro il quale si avverte un’infinita palpitante Presenza.
Ora qui è l’attimo sublime, l’attimo della rivelazione, l’attimo in cui Cristo apre il velo e appare nella storica e semplice scena del Vangelo.
Chi è Cristo? Ecco la questione decisiva.
Risponde san Giovanni, al primo capitolo del suo Vangelo: è il Verbo, è Dio, è Colui per virtù del Quale tutte le cose furono fatte.
E san Paolo confermerà: è Colui che “è avanti a tutte le cose; e tutte le cose sussistono per lui” (Col 1, 17); ed è Colui che un giorno, il giorno finale “della restaurazione di tutte le cose” (della “apocatastasi”: Atti degli apostoli, 3, 21) nel quale Egli con la sua potenza “assoggetterà a sé tutte le cose” (Phil 3, 21).
Cioè Cristo è l’alfa e l’omega, il principio e il fine (cfr.
Apoc 1, 8; 21, 6; 22, 13), non solo per i destini dell’uomo, ma per il cosmo intero, che in Lui ha il suo punto focale, donde ogni senso, ogni luce, ogni ordine, ogni pienezza.
Non temiamo, Figli carissimi, che la nostra fede non sappia comprendere le esplorazioni e le conquiste, che l’uomo va facendo del creato, e che noi, seguaci di Cristo, siamo esclusi dalla contemplazione della terra e del cielo, e dalla gioia della loro progressiva e meravigliosa scoperta.
Se saremo con Cristo saremo nella via, saremo nella verità, saremo nella vita.
(©L’Osservatore Romano – 20-21 luglio 2009)