Caterina addormentata nelle mani del Padre…

Caterina addormentata nelle mani del Padre… Caro direttore, la mia Caterina ha gli occhi bellissimi.
La sua giovinezza ora è distesa su un letto di luce e di dolore.
E’ come una Bella addormentata.
Ma crocifissa.
Mi trovo involontariamente “inviato” nelle regioni del dolore estremo e in questo panorama dolente – se un angelo tiene guinzaglio l’angoscia – ci sono diverse cose che mi pare di cominciare a capire.
La prima notizia è che il mio cuore batte.
Il nostro cuore continua a battere.
So bene che normalmente la cosa non fa notizia.
Neanche la si considera.
Finchè non capita che a tua figlia, nei suoi 24 anni raggianti di vita, alla vigilia della laurea in architettura per cui ha studiato cinque anni, d’improvviso una sera il cuore si ferma e senza alcuna ragione.
Si ferma di colpo (o, come dicono, va in fibrillazione).
Lì, quando ti si spalanca davanti quell’abisso improvviso che ti fa urlare uno sconfinato “noooooo!!!”, cominci a capire: è la cosa meno scontata del mondo che in questo preciso istante il cuore dei tuoi bimbi, il mio cuore o il tuo, amico lettore, batta.
Quante volte ho sentito don Giussani stupirci con questa evidenza: che nessuno fa battere volontariamente il proprio cuore.
E’ come un dono che si riceve di continuo senza accorgersi.
Istante per istante dipendiamo da Qualcun Altro che ci dà vita… Ci illudiamo di possedere mille cose, di essere chissacchì, ma così clamorosamente non possediamo noi stessi.
Un Altro ci fa.
In ogni attimo.
Vengono le vertigini a pensarci.
Allora si può solo mendicare, come poveri che non hanno nulla, neanche se stessi, un altro battito e un altro respiro ancora dal Signore della Vita (“Gesù nostro respiro”, diceva un grande santo).
Certo, si ricorre a tutti i mezzi umani e a tutte le cure mediche.
Sono eccezionali e personalmente debbo ringraziare degli ottimi medici, competenti e umani.
Ma anch’essi sanno di avere poteri limitati, non possono arrivare all’impossibile, non potrebbero nulla se non fosse concesso dall’alto e poi se non fossero “illuminati” e guidati.
Rex tremendae maiestatis… E’ Lui il padrone e la fonte della vita e di ogni cosa che è.
E i nostri bambini e le nostre figlie sono suoi.
E’ teneramente loro Padre.
Allora – con tutte le nostre pretese annichilite e l’anima straziata – ci si scopre poveri di tutto a mendicare la vita da “Colui che esaudisce le preghiere…”.
Mendico di poter avere un sorriso da mia figlia, uno sguardo, una parola… D’improvviso ciò che sembrava la cosa più ovvia e scontata del mondo, ti appare come la più preziosa e quasi un sogno impossibile… Son pronto a dare tutto, tutto quello che ho, tutto quello che so e che sono, darei la vita sessa per quel tesoro.
Ci affanniamo sempre per mille cause, obiettivi, ambizioni che ci sembrano importanti da farci trascurare i figli.
Ma oggi come appare tutto senza alcun valore al confronto dello sguardo di una figlia, alla sua giovinezza in piena fioritura… Un gran dono ha fatto Dio agli uomini rendendoli padri e madri: così tutti possono sperimentare che significhi amare un’altra creatura più di se stessi.
E così abbiamo una pallida idea del Suo amore e della Sua compassione per noi… Caterina è una Sua prediletta, come tutti coloro che soffrono.
Mi tornano in mente le parole di quella canzone spagnola cantata dalla mia principessa e dedicata alla Madonna, “Ojos de cielo”, che dice: “Occhi di cielo, occhi di cielo/non abbandonarmi in pieno volo”.
Riascolto il suo canto, con il nodo alla gola, come la sua preghiera: “Se guardo il fondo dei tuoi occhi teneri/mi si cancella il mondo con tutto il suo inferno./ Mi si cancella il mondo e scopro il cielo/quando mi tuffo nei tuoi occhi teneri./ Occhi di cielo, occhi di cielo,/non abbandonarmi in pieno volo./ Occhi di cielo, occhi di cielo,/tutta la mia vita per questo sogno…/ Se io mi dimenticassi di ciò che è sincero/ i tuoi occhi di cielo me lo ricorderebbero,/ se io mi allontanassi dal vero./ Occhi di cielo…” E infine quest’ultima strofa che oggi suona come un presagio: “Se il sole che mi illumina un giorno si spegnesse/e una notte buia vincesse sulla mia vita,/i tuoi occhi di cielo mi illuminerebbero,/ i tuoi occhi sinceri, che sono per me cammino e guida./Occhi di cielo…”.
E’ con questa speranza certa che subito ho affidato il mio tesoro e la sua guarigione nelle mani della sua tenera Madre del Cielo.
Per le parole, chiare e intramontabili di Gesù che ci incitano “chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto”, che promettono “qualunque cosa chiederete al Padre nel mio nome, egli ve la darà” e che esortano a implorare senza stancarsi mai come la vedova importuna del Vangelo (che – se non altro per la sua insistenza – verrà esaudita).
Sappiamo che la Regina del Cielo è con noi: pronta ad aprirci le porte dei forzieri delle grazie.
E’ lei infatti il rifugio degli afflitti e la nostra meravigliosa Avvocata che può ottenere tutto dal Figlio.
Già il primo miracolo, a Cana, gli fu dolcemente “rubato” da lei che ebbe pietà di quella povera gente… In questi giorni ho ricordato le parole del Montfort e quella di S.
Alfonso Maria de’ Liguori, “Le glorie di Maria”.
E’ stupefacente come duemila anni di santi e sante ci invitano a essere certi del soccorso della Madonna perché “non si è mai sentito che qualcuno sia ricorso alla tua protezione, abbia implorato il tuo aiuto, abbia cercato il tuo soccorso e sia stato abbandonato” (San Bernardo).
“Ogni bene, ogni aiuto, ogni grazia che gli uomini hanno ricevuto e riceveranno da Dio sino alla fine del mondo, tutto è venuto e verrà loro per intercessione e per mezzo di Maria” (S.
Alfonso), perché così Dio ha voluto.
Infatti “nelle afflizioni tu consoli” chi in te confida, “nei pericoli tu soccorri” chi ti chiama: tu “speranza dei disperati e soccorso degli abbandonati”.
Misero me se non la riconoscessi come Madre, convertendomi (questo significa: “Sia fatta la tua volontà”) e lasciandomi guarire nell’anima.
Per ottenere anche la guarigione del corpo.
Ma quanto è commovente accorgersi di avere una simile Madre quando si sente concretamente il suo mantello protettivo fatto dai tanti fratelli e sorelle nella fede, pronti ad aiutarti, dai giovani amici di Caterina, bei volti luminosi che condividono l’esperienza cristiana suscitata da don Giussani, dai tantissimi amici di parrocchie, comunità, dagli innumerevoli conventi di clausura e santuari – compresi radio e internet – dove in questi giorni si invoca la Madonna per Caterina.
Come non commuoversi? Ho ricevuto decine di mail anche da persone lontane dalla fede che, per la commozione della vicenda di mia figlia, sono tornate a pregare, si sono riaccostate ai sacramenti dopo anni.
E hanno compreso di avere una Madre buona che si può implorare e che non delude.
Ma è anzitutto della mia conversione che voglio parlare.
Ci è chiesto un distacco totale da tutto ciò che non vale e non dura.
Perché solo Dio non passa.
Cioè resta l’amore.
Così quando ho saputo dei 4 mila bambini malati di un lebbrosario in India che, con i missionari (uomini di Dio stupendi e immensi), hanno pregato per la guarigione di Caterina, dopo l’emozione ho capito che quei bimbi da oggi fanno parte di me, della mia vita e della mia famiglia.
E così pure i poveri moribondi curati da padre Aldo Trento in Paraguay che hanno offerto le loro sofferenze per Caterina.
Voglio aiutarli come posso.
Portando tutto il dolore del mondo sotto il mantello della Madre di Dio, affido a lei la guarigione di Caterina, perché torni a cantare “Ojos de cielo” per tutti i poveri della nostra Regina.
“Mia Signora, tu sola sei la consolazione che Dio mi ha donato, la guida del mio pellegrinaggio, la forza della mia debolezza, la ricchezza della mia miseria, la guarigione delle mie ferite, il sollievo dei miei dolori, la liberazione dalle mie catene, la speranza della mia salvezza: esaudisci le mie suppliche, abbi pietà dei miei sospiri, tu che sei la mia regina, il rifugio, l’aiuto, la vita, la speranza e la mia forza” (S.
Germano).
(su “Libero” del 6 ottobre 2009)

Quanti stereotipi tra gli studenti

Sono stati resi noti in un convegno svoltosi oggi a Roma gli esiti, abbastanza sconcertanti anche se non sorprendenti, di un’indagine sugli studenti condotta tra il 2001 e il 2007 dall’Istituto di ricerca sulle popolazioni e le politiche sociali del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR).
Sono stati coinvolti 3.200 giovani tra 12 e 13 anni e tra i 16 e 18 anni delle scuole medie e superiori di Milano, Venezia, Lucca e Salerno.
I dati sembrano indicare la notevole diffusione tra i giovani di alcuni stereotipi su integrazione, identità di genere e comportamento sessuale: quattro maschi su cinque, per esempio, sono convinti che le ragazze “vanno un po’ forzate” a letto, “altrimenti non si sbloccherebbero”.
L’infedeltà di una donna per il 62% dei giovani va posta sullo stesso piano di quella dei maschi, ma per oltre un terzo del campione è “più grave”.
Quanto al matrimonio, il 49% degli studenti propende per sperimentare prima la convivenza (si scende al 42% a Salerno).
Il 30% opta direttamente per il matrimonio, il 16% per la convivenza e basta (21% a Milano).
Sugli stranieri regna l’ignoranza: a Venezia e Lucca solo il 20% dei ragazzi ha saputo quantificare correttamente la presenza di immigrati, mentre il 50% tende a sovrastimare il fenomeno.

Velo islamico

II velo è simbolo di obbedienza a Dio, di modestia e pudore.
Alle donne sarebbe consentito mostrare soltanto il viso, le mani e i piedi considerati non sessualmente provocanti.
Ma è anche vero che in alcuni paesi musulmani, come I’Afghanistan, le donne sono nascoste sot­to tuniche che le rivestono completamente dalla testa ai piedi.
Dall’altro lato c’è chi invece ritiene che lo higab non abbia rnai costituito un dogma: il Corano non ne parla e le quattro grandi scuole giuridiche dell’islam, ufficialmente riconosciute come ortodosse (hanafita, malikita, shafi’ita, hanbalita) non hanno mai sostenuto una teoria sul velo.
Lo higab sarebbe entrato in scena solo successivamen­te per una questione di necessità, quando le contaminazioni del inondo esterno (già nel XIV secolo coll’invasione mongola) e i processi di modernizzazione (della secon­da metà del Novecento) richiesero una di­fesa strenua di un’identità in crisi.
Ciò che negli elementi più estremisti si traduce in una chiusura e in un’opposizione anti-oc­cidentale.
In questo senso, il velo diventa il simbolo di un’appartenenza che può, secondo il governo francese, intaccare la laicità dello stato.
Ed è così che, nel 2004, la Francia promulga la cosiddetta legge sulla laicità per ciui «nelle scuole, nei collegi e nei licei pubblici è proibito portare segni o abiti con i quali gli alunni manifestino ostenta­tamente un’appartenenza religiosa».
Ol­tre al velo islamico, le croci di una certa di­mensione, la kippah ebraica, il turbante sikh.
Questo provoca reazioni opposte non soltanto tra i musulmani, ma anche tra i cattolici.
Giovanni Paolo II ha condanna­to la laicità che si fa laicismo.
Sarnir Khalil Samir, gesuita e autorevole islamologo, ha invece salutato con favore la legge perché mette un freno al «desiderio separatista» dell’islam.
I musulmani si sono divisi tra chi, come Dalil BuBaker, presidente del Consiglio francese del culto musulmano (Cfcm), ritiene inammissibile un’ingeren­za del mondo islamico negli affari dello stato (ospitante) e afferma «siamo cittadini francesi e applichiamo la legge france­se», e chi, come l’Unione delle organizza­zioni islamiche di Francia, i Fratelli Mu­sulmani in Giordania, o l’Iran si è opposto alla legge perché attacca «la libertà reli­giosa».
Per Al Qaeda «si tratta di un altro segno dell’odiosa crociata scatenata dagli occidentali contro i musulmani».
Non è facile indicare con certezza quanti siano i veli islamici, diversi per cultura e tra­dizioni anche all’interno dello stesso pae­se.
Questi i più comuni: burqa, chador; ha’ik, higab, jalabiya, niqab.
Il burqa, diffuso in Af­ghanistan, è un velo integrale dai colori ge­neralmente accesi (arancione, verde, az­zurro) che copre completamente la don­na, dalla testa ai piedi, lasciando aperta so­lo una finestrella a rete davanti agli occhi per consentirle di vedere il mondo esterno.
Lo chador è nero e avvolge il corpo completamente, lasciando scoperto l’ovale del viso.
È usato soprattutto in Iran, dove è obbligatorio dalla rivoluzione del 1979 gui­data dall’ayatollah Khomeini.
L’ ha’ik è una stoffa tessuta in maniera tradizionale, di la­na (in Marocco) o seta (Algeria), che av­volge il capo e il corpo.
L’ higab è composto da due pezzi: un copricapo che nasconde la testa e un velo che, appoggiato sopra, scende sulle spalle ed è legalo sotto al men­to o appuntato con una spilla.
E utilizzato in Egitto, Siria, Giordania e Marocco.
Lo jalabiya è un lungo camice di tela, usato an­che dai più antichi coltivatori del Nord Africa, i fellahin dell’Egitto (coltivatori insediati lungo la valle e il Delta del Nilo).
Il niqab è un velo che copre la testa e il viso della donna lasciando scoperti gli occhi e può essere molto raffinato ed elegante o pesante e nero.
Sull’obbligo di indossare il velo (higab, in arabo) non c’è unicità di vedute nel mon­do islamico.
La discordanza deriva dall’in­terpretazione che si dà ai precetti del Cora­no, fonte primaria della fede e del diritto musulmani, ed esprime solitamente, rna non necessariamente, una contrapposizio­ne tra islam moderato e fondamentalista.
Semplificando, da un lato c’è chi sostiene che l’uso del velo non dovrebbe essere mes­so in discussione: il Corano si esprimereb­be esplicitamente in tal senso nelle sure XXIV, 31 e XXXIII, 59.
 

Una risposta vera al desiderio di felicità dei giovani

Al termine della messa celebrata a Stará Boleslav nella mattina di lunedì 28 settembre, solennità di san Venceslao e festa nazionale della Repubblica Ceca, il Papa ha rivolto un messaggio ai numerosi giovani presenti nella spianata sulla via di Melnik.
Dopo il saluto di un ragazzo, Benedetto XVI ha pronunciato il discorso che pubblichiamo di seguito.
Cari giovani! Al termine di questa celebrazione, mi rivolgo direttamente a voi e innanzitutto vi saluto con affetto.
Siete venuti numerosi da tutto il Paese e anche dai Paesi vicini; vi siete “accampati” qui ieri sera e avete pernottato nelle tende, facendo insieme un’esperienza di fede e di fraternità.
Grazie per questa vostra presenza, che mi fa sentire l’entusiasmo e la generosità che sono propri della giovinezza.
Con voi anche il Papa si sente giovane! Un ringraziamento particolare rivolgo al vostro rappresentante per le sue parole e per il meraviglioso dono.
Cari amici, non è difficile costatare che in ogni giovane c’è un’aspirazione alla felicità, talvolta mescolata a un senso di inquietudine; un’aspirazione che spesso però l’attuale società dei consumi sfrutta in modo falso e alienante.
Occorre invece valutare seriamente l’anelito alla felicità che esige una risposta vera ed esaustiva.
Nella vostra età infatti si compiono le prime grandi scelte, capaci di orientare la vita verso il bene o verso il male.
Purtroppo non sono pochi i vostri coetanei che si lasciano attrarre da illusori miraggi di paradisi artificiali per ritrovarsi poi in una triste solitudine.
Ci sono però anche tanti ragazzi e ragazze che vogliono trasformare, come ha detto il vostro portavoce, la dottrina nell’azione per dare un senso pieno alla loro vita.
Vi invito tutti a guardare all’esperienza di sant’Agostino, il quale diceva che il cuore di ogni persona è inquieto fino a quando non trova ciò che veramente cerca.
Ed egli scoprì che solo Gesù Cristo era la risposta soddisfacente al desiderio, suo e di ogni uomo, di una vita felice, piena di significato e di valore (cfr.
Confessioni i, 1, 1).
Come ha fatto con lui, il Signore viene incontro a ciascuno di voi.
Bussa alla porta della vostra libertà e chiede di essere accolto come amico.
Vi vuole rendere felici, riempirvi di umanità e di dignità.
La fede cristiana è questo: l’incontro con Cristo, Persona viva che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva.
E quando il cuore di un giovane si apre ai suoi divini disegni, non fa troppa fatica a riconoscere e seguire la sua voce.
Il Signore infatti chiama ciascuno per nome e a ognuno vuole affidare una specifica missione nella Chiesa e nella società.
Cari giovani, prendete consapevolezza che il Battesimo vi ha resi figli di Dio e membri del suo Corpo che è la Chiesa.
Gesù vi rinnova costantemente l’invito a essere suoi discepoli e suoi testimoni.
Molti di voi li chiama al matrimonio e la preparazione a questo Sacramento costituisce un vero cammino vocazionale.
Considerate allora seriamente la chiamata divina a costituire una famiglia cristiana e la vostra giovinezza sia il tempo in cui costruire con senso di responsabilità il vostro futuro.
La società ha bisogno di famiglie cristiane, di famiglie sante! Se poi il Signore vi chiama a seguirlo nel sacerdozio ministeriale o nella vita consacrata, non esitate a rispondere al suo invito.
In particolare, in quest’Anno Sacerdotale, mi appello a voi, giovani: siate attenti e disponibili alla chiamata di Gesù a offrire la vita al servizio di Dio e del suo popolo.
La Chiesa, anche in questo Paese, ha bisogno di numerosi e santi sacerdoti e di persone totalmente consacrate al servizio di Cristo, Speranza del mondo.
La speranza! Questa parola, su cui torno spesso, si coniuga proprio con la giovinezza.
Voi, cari giovani, siete la speranza della Chiesa! Essa attende che voi vi facciate messaggeri della speranza, com’è avvenuto l’anno scorso, in Australia, per la Giornata Mondiale della Gioventù, grande manifestazione di fede giovanile, che ho potuto vivere personalmente e alla quale alcuni di voi hanno preso parte.
Molti di più potrete venire a Madrid, nell’agosto 2011.
Vi invito fin da ora a questo grande raduno dei giovani con Cristo nella Chiesa.
Cari amici, grazie ancora per la vostra presenza e grazie per il vostro dono: il libro con le foto che raccontano la vita dei giovani nelle vostre diocesi.
Grazie anche per il segno della vostra solidarietà verso i giovani dell’Africa, che mi avete voluto consegnare.
Il Papa vi chiede di vivere con gioia ed entusiasmo la vostra fede; di crescere nell’unità tra di voi e con Cristo; di pregare e di essere assidui nella pratica dei Sacramenti, in particolare dell’Eucaristia e della Confessione; di curare la vostra formazione cristiana rimanendo sempre docili agli insegnamenti dei vostri Pastori.
Vi guidi su questo cammino san Venceslao con il suo esempio e la sua intercessione, e sempre vi protegga la Vergine Maria, Madre di Gesù e Madre nostra.
Vi benedico tutti con affetto! (©L’Osservatore Romano – 28-29 settembre 2009)

Bisogna sottrarre la cultura alle pressioni di interessi ideologici o economici

I rappresentanti accademici e delle istituzioni culturali della Repubblica Ceca hanno partecipato all’incontro con il Papa svoltosi nella serata di domenica 27 settembre, nel castello di Praga.
Dopo il saluto di uno studente e del rettore dell’Università Carlo, il Pontefice ha pronunciato in inglese il discorso che pubblichiamo di seguito.
Questa traduzione italiana del discorso del Papa è dell’Osservatore Romano.
Signor Presidente, Illustri Rettori e Professori, Cari Studenti ed Amici, L’incontro di questa sera mi offre la gradita opportunità di manifestare la mia stima per il ruolo indispensabile che svolgono nella società le università e gli istituti di studi accademici.
Ringrazio lo studente che mi ha gentilmente salutato in vostro nome, i membri del coro universitario per la loro ottima interpretazione e l’illustre Rettore dell’Università Carlo, il Professor Václav Hampl, per le sue profonde parole.
Il mondo accademico, sostenendo i valori culturali e spirituali della società e insieme offrendo a essi il proprio contributo, svolge il prezioso servizio di arricchire il patrimonio intellettuale della nazione e di fortificare le fondamenta del suo futuro sviluppo.
I grandi cambiamenti che venti anni fa trasformarono la società ceca furono causati, non da ultimo, dai movimenti di riforma che si originarono nelle università e nei circoli studenteschi.
Quella ricerca di libertà ha continuato a guidare il lavoro degli studiosi: la loro diakonia alla verità è indispensabile al benessere di qualsiasi nazione.
Chi vi parla è stato un professore, attento al diritto della libertà accademica e alla responsabilità per l’uso autentico della ragione, e ora è il Papa che, nel suo ruolo di Pastore, è riconosciuto come voce autorevole per la riflessione etica dell’umanità.
Se è vero che alcuni ritengono che le domande sollevate dalla religione, dalla fede e dall’etica non abbiano posto nell’ambito della ragione pubblica, tale visione non è per nulla evidente.
La libertà che è alla base dell’esercizio della ragione – in una università come nella Chiesa – ha uno scopo preciso: essa è diretta alla ricerca della verità, e come tale esprime una dimensione propria del Cristianesimo, che non per nulla ha portato alla nascita dell’università.
In verità, la sete di conoscenza dell’uomo spinge ogni generazione ad ampliare il concetto di ragione e ad abbeverarsi alle fonti della fede.
È stata proprio la ricca eredità della sapienza classica, assimilata e posta a servizio del Vangelo, che i primi missionari cristiani hanno portato in queste terre e stabilita come fondamento di un’unità spirituale e culturale che dura fino a oggi.
La medesima convinzione condusse il mio predecessore, Papa Clemente vi, a istituire nel 1347 questa famosa Università Carlo, che continua ad offrire un importante contributo al più vasto mondo accademico, religioso e culturale europeo.
L’autonomia propria di una università, anzi di qualsiasi istituzione scolastica, trova significato nella capacità di rendersi responsabile di fronte alla verità.
Ciononostante, quell’autonomia può essere resa vana in diversi modi.
La grande tradizione formativa, aperta al trascendente, che è all’origine delle università in tutta Europa, è stata sistematicamente sovvertita, qui in questa terra e altrove, dalla riduttiva ideologia del materialismo, dalla repressione della religione e dall’oppressione dello spirito umano.
Nel 1989, tuttavia, il mondo è stato testimone in maniera drammatica del rovesciamento di una ideologia totalitaria fallita e del trionfo dello spirito umano.
L’anelito per la libertà e la verità è parte inalienabile della nostra comune umanità.
Esso non può mai essere eliminato e, come la storia ha dimostrato, può essere negato solo mettendo in pericolo l’umanità stessa.
È a questo anelito che cercano di rispondere la fede religiosa, le varie arti, la filosofia, la teologia e le altre discipline scientifiche, ciascuna col proprio metodo, sia sul piano di un’attenta riflessione che su quello di una buona prassi.
Illustri Rettori e Professori, assieme alla vostra ricerca c’è un ulteriore essenziale aspetto della missione dell’università in cui siete impegnati, vale a dire la responsabilità di illuminare le menti e i cuori dei giovani e delle giovani di oggi.
Questo grave compito non è certamente nuovo.
Sin dai tempi di Platone, l’istruzione non consiste nel mero accumulo di conoscenze o di abilità, bensì in una paideia, una formazione umana nelle ricchezze di una tradizione intellettuale finalizzata a una vita virtuosa.
Se è vero che le grandi università, che nel medioevo nascevano in tutta Europa, tendevano con fiducia all’ideale della sintesi di ogni sapere, ciò era sempre a servizio di un’autentica humanitas, ossia di una perfezione dell’individuo all’interno dell’unità di una società bene ordinata.
Allo stesso modo oggi: una volta che la comprensione della pienezza e unità della verità viene risvegliata nei giovani, essi provano il piacere di scoprire che la domanda su ciò che essi possono conoscere dispiega loro l’orizzonte della grande avventura su come debbano essere e cosa debbano compiere.
Deve essere riguadagnata l’idea di una formazione integrale, basata sull’unità della conoscenza radicata nella verità.
Ciò può contrastare la tendenza, così evidente nella società contemporanea, verso la frammentazione del sapere.
Con la massiccia crescita dell’informazione e della tecnologia nasce la tentazione di separare la ragione dalla ricerca della verità.
La ragione però, una volta separata dal fondamentale orientamento umano verso la verità, comincia a perdere la propria direzione.
Essa finisce per inaridire o sotto la parvenza di modestia, quando si accontenta di ciò che è puramente parziale o provvisorio, oppure sotto l’apparenza di certezza, quando impone la resa alle richieste di quanti danno in maniera indiscriminata uguale valore praticamente a tutto.
Il relativismo che ne deriva genera un camuffamento, dietro cui possono nascondersi nuove minacce all’autonomia delle istituzioni accademiche.
Se per un verso è passato il periodo di ingerenza derivante dal totalitarismo politico, non è forse vero, dall’altro, che di frequente oggi nel mondo l’esercizio della ragione e la ricerca accademica sono costretti – in maniera sottile e a volte nemmeno tanto sottile – a piegarsi alle pressioni di gruppi di interesse ideologici e al richiamo di obiettivi utilitaristici a breve termine o solo pragmatici? Cosa potrà accadere se la nostra cultura dovesse costruire se stessa solamente su argomenti alla moda, con scarso riferimento a una tradizione intellettuale storica genuina o sulle convinzioni che vengono promosse facendo molto rumore e che sono fortemente finanziate? Cosa potrà accadere se, nell’ansia di mantenere una secolarizzazione radicale, finisse per separarsi dalle radici che le danno vita? Le nostre società non diventeranno più ragionevoli o tolleranti o duttili, ma saranno piuttosto più fragili e meno inclusive, e dovranno faticare sempre di più per riconoscere quello che è vero, nobile e buono.
Cari amici, desidero incoraggiarvi in tutto quello che fate per andare incontro all’idealismo e alla generosità dei giovani di oggi, non solo con programmi di studio che li aiutino a eccellere, ma anche mediante l’esperienza di ideali condivisi e di aiuto reciproco nella grande impresa dell’apprendere.
Le abilità di analisi e quelle richieste per formulare un’ipotesi scientifica, unite alla prudente arte del discernimento, offrono un antidoto efficace agli atteggiamenti di ripiegamento su se stessi, di disimpegno e persino di alienazione che talvolta si trovano nelle nostre società del benessere e che possono colpire soprattutto i giovani.
In questo contesto di una visione eminentemente umanistica della missione dell’università, vorrei accennare brevemente al superamento di quella frattura tra scienza e religione che fu una preoccupazione centrale del mio predecessore, il Papa Giovanni Paolo II.
Egli, come sapete, ha promosso una più piena comprensione della relazione tra fede e ragione, intese come le due ali con le quali lo spirito umano è innalzato alla contemplazione della verità (cfr.
Fides et ratio, Proemio) L’una sostiene l’altra e ognuna ha il suo proprio ambito di azione (cfr.
ibid., 17), nonostante vi siano ancora quelli che vorrebbero disgiungere l’una dall’altra.
Coloro che propongono questa esclusione positivistica del divino dall’universalità della ragione non solo negano quella che è una delle più profonde convinzioni dei credenti: essi finiscono per contrastare proprio quel dialogo delle culture che loro stessi propongono.
Una comprensione della ragione sorda al divino, che relega le religioni nel regno delle subculture, è incapace di entrare in quel dialogo delle culture di cui il nostro mondo ha così urgente bisogno.
Alla fine, la “fedeltà all’uomo esige la fedeltà alla verità che, sola, è garanzia di libertà” (Caritas in veritate, 9).
Questa fiducia nella capacità umana di cercare la verità, di trovare la verità e di vivere secondo la verità portò alla fondazione delle grandi università europee.
Certamente noi dobbiamo riaffermare questo oggi per donare al mondo intellettuale il coraggio necessario per lo sviluppo di un futuro di autentico benessere, un futuro veramente degno dell’uomo.
Con queste riflessioni, cari amici, formulo nella preghiera i migliori auspici per il vostro impegnativo lavoro.
Prego affinché esso sia sempre ispirato e diretto da una sapienza umana che ricerca sinceramente la verità che ci rende liberi (cfr.
8, 28).
Su di voi e sulle vostre famiglie invoco la benedizione della gioia e della pace di Dio.
(©L’Osservatore Romano – 28-29 settembre 2009)

XXVI Domenica del tempo ordinario (Anno B).

LECTIO – ANNO B Prima lettura: Numeri 11,25-29 In quei giorni, il Signore scese nella nube e parlò a Mo-sè: tolse parte dello spirito che era su di lui e lo pose sopra i settanta uomini anziani; quando lo spirito si fu posato su di loro, quelli profetizzarono, ma non lo fecero più in seguito.
Ma erano rimasti due uomini nell’accampamento, uno chiamato Eldad e l’altro Medad.
E lo spirito si posò su di loro; erano fra gli iscritti, ma non erano usciti per andare alla tenda.
Si misero a profetizza-re nell’accampamento.
Un giovane corse ad annunciarlo a Mosè e disse: «Eldad e Medad profetizzano nell’accampamento».
Giosuè, figlio di Nun, servitore di Mo-sè fin dalla sua adolescenza, prese la parola e disse: «Mo-sè, mio signore, impediscili!».
Ma Mosè gli disse: «Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito!».
Il c.
10 dei Numeri ha concluso la raccolta dei testi dedicati alla rivelazione del Sinai e col c.
11 riprende il viaggio faticoso e pieno di imprevisti verso la terra promessa.
Mosè, dopo l’ennesimo lamento del popolo, scoraggiato davanti alla vastità del compito a lui affidato, si lamenta a sua volta col Signore.
«Perché hai agito così male verso il tuo servo? E perché non ho trovato grazia presso di te, così che tu mi abbia messo addosso tut-to il peso di questo popolo? Ho forse concepito io tutto questo popolo? L’ho forse generato io, perché tu mi dica: portalo in collo, come una balia un lattante…
Non posso io solo reg-gere tutto questo popolo…
Ma se tu vuoi trattarmi in tal modo, deh uccidimi» (Num 11,10-12.14-15).
È venuto il momento di non affidarsi più al solo carisma di un capo, ma di perfezionare le istituzioni per assicurare la sopravvivenza del popolo.
Dio viene incontro alla richiesta di Mosè e gli ordina di radunare settanta anziani.
Mosè allora compila la lista degli anziani e li invita intorno alla tenda del convegno.
Siamo così al brano di oggi che si snoda in tre quadri: 1.
«Il Signore scese nella nube e parlò a Mosè: tolse parte dello spirito che era su di lui e lo pose so-pra i settanta uomini anziani» (Num 11,25).
Essi ricevono lo spirito di Mosè.
Il loro carisma, diremmo con la parola moderna, è lo stesso dato alla loro guida.
Essi hanno, per così dire, un potere delegato, che vale se esercitato insieme con Mosè.
All’autore biblico, però, non interessa tanto il problema dell’istituzione di un consiglio in aiuto di Mosè, quanto quello dell’esercizio della profezia.
Egli annota che «quando lo spirito si fu posato su di loro, quelli profetizzarono, ma non lo fece-ro più in seguito» (v.
25).
Il compito di governo e quello profetico non sono legati automati-camente.
2.
«Erano rimasti due uomini nell’accampamento, uno chiamato Eldad e l’altro Medad.
E lo spirito si posò su di loro; erano fra gli iscritti, ma non erano usciti per andare alla tenda.
Si misero a profe-tizzare nell’accampamento» (cf.
v.
26).
Il redattore non dice come per gli altri che «Dio prese lo spirito di Mosè».
Eldad e Me-dad hanno direttamente da Dio senza mediazioni il dono dello spirito, che li abilita a pro-fetizzare.
Non c’è nemmeno l’annotazione, come per gli altri, che «non lo fecero più in segui-to» (v.
25): essi diventano profeti e lo rimangono, anche se non hanno accolto l’incarico di aiutare Mosè nel governo del popolo.
3.
Giosuè allora si fa in dovere di avvertire Mosè e gli consiglia di impedire loro di profeta-re.
Egli non riesce a concepire un rapporto personale e libero con Dio senza la mediazione dell’istituzione e un potere che non sia un’emanazione di quello del capo (cf.
v.
27-28).
Mosè, invece, risponde dimostrando grande umiltà e grandezza d’animo: «Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spiri-to!», (v.
29).
Mosè, potremmo dire, è aperto a una partecipazione democratica di tutto il popolo al suo governo e, soprattutto, riconosce la libertà di Dio e sa apprezzare i suoi doni in chiun-que li abbia ricevuti.
Seconda lettura: Giacomo 5,1-6 Ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che cadranno su di voi! Le vostre ricchezze sono marce, i vo-stri vestiti sono mangiati dalle tarme.
Il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggi-ne si alzerà ad accusarvi e divorerà le vostre carni come un fuoco.
Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni! Ecco, il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vo-stre terre, e che voi non avete pagato, grida, e le prote-ste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore on-nipotente.
Sulla terra avete vissuto in mezzo a piaceri e delizie, e vi siete ingrassati per il giorno della strage.
Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non vi ha oppo-sto resistenza.
I primi tre versetti del brano del c.
5 della lettera di Giacomo, che leggiamo oggi, sono un avvertimento ai ricchi fatto con immagini costruite per impressionare, risvegliare dal-l’illusione del benessere egoista e distogliere dall’ingiustizia: beni imputriditi, vestiti invasi dalle tarme, oro e argento addirittura arrugginiti! Le ricchezze si tramuteranno in «fuoco» per i proprietari, che le hanno accumulate ingiustamente e che sono insensibili ai bisogni altrui, saranno cioè causa della loro distruzione.
Il fuoco del v.
3 fa pensare non solo a un castigo terreno, ma anche a quello escatologico (cf.
ad es.
Am 1,12-14:7,4; Mt 18,8; Mc 9,43.48).
Siamo ormai entrati nel tempo del giudizio, ma i ricchi non se ne sono accorti: «Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni!» (v.
3), «vi siete ingrassati per il giorno della strage».
Le colpe gravissime dei ricchi, enunciate nei vv.
4-6 sono aggravate dall’essere commes-se con continuità, fino all’ultimo giorno di vita, senza badare che la vita è in realtà già fug-gita.
In mezzo alle gozzoviglie non si sono accorti che le grida dei mietitori defraudati «so-no giunte alle orecchie del Signore onnipotente» (v.
4) e si sono fidati, nell’uccidere il giusto, che egli non poteva opporre resistenza (v.
6) e nessuno avrebbe preso le sue difese: la con-danna di chi agisce in questo modo non può che essere definitiva.
Vangelo: Marco 9,38-43.45.47-48 In quel tempo, Giovanni disse a Gesù: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo im-pedirglielo, perché non ci seguiva».
Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un mira-colo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi.
Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cri-sto, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa.
Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare.
Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani anda-re nella Geènna, nel fuoco inestinguibile.
E se il tuo pie-de ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te en-trare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geènna.
E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue».
Esegesi L’episodio riportato nei versetti 38-39 del cap.
9 di Marco ha il suo parallelo in Lc 9,49-50, mentre non è riportato da Matteo.
Del v.
38 esistono due lezioni, questa «Maestro, ab-biamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché (oti) non ci se-guiva» assimilata a Lc 9,49 e un’altra: «abbiamo visto uno che scacciava i demoni nel tuo nome e che (os) non era dei nostri e…».
Si tratta di una sfumatura interessante per fare la storia della redazione del testo e per cogliere l’atteggiamento dei discepoli, ma che non muta la sostanza del fatto.
La proibizione da parte dei discepoli è un sopruso che Gesù stigmatizza nella sua risposta «Non glielo impedite».
I discepoli non sono padroni della potenza del nome di Gesù; essa è data da Dio e solo Dio ne dispone nei tempi e nei modi che egli ha deciso.
L’avvenuto miracolo attesta che chi l’ha operato ha agito con corretta intenzione: «non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me».
Nella chiesa primitiva, secondo il racconto degli Atti (cf.
19,13), si verificavano usi di-storti del nome di Gesù, ma il fallimento smaschera colui che ha tentato di appropriarsi della sua potenza in modo magico o superstizioso.
Il detto ripreso da Gesù: «chi non è contro di noi è per noi» sottolinea lo spirito di apertu-ra e di accoglienza della risposta di Gesù nei confronti dell’atteggiamento precedente dei discepoli.
Non dobbiamo leggere queste parole di Gesù nella forma contraria dell’altro detto: «Chi non è con me è contro di me» (Mt 12,30; Lc 11,23) e così farne una bandiera per escludere.
C’è infatti una enorme differenza fra il «noi» (Lc 9,50 ha addirittura «voi») e il «me», vale a dire fra il gruppo dei discepoli e Gesù stesso.
È da tenere presente poi che l’e-spressione di Gesù «Chi non è con me è contro di me», va letta anche con il seguito: «chi non raccoglie con me disperde», che fa capire che si tratta di una constatazione, non di un giudizio.
Senza Gesù i discepoli non possono far niente, ma la potenza di Dio manifestata in Gesù non è possesso esclusivo dei discepoli.
L’accostamento fatto dalla liturgia di oggi al brano dei Numeri accentua questa inter-pretazione: Gesù rimprovera i discepoli, come Mosè fa con Giosuè, che vuole impedire la profezia non autorizzata.
Il dono dello Spirito di Dio, la profezia, e la potenza dello Spirito che agisce vanno riconosciuti, non autorizzati dai discepoli.
Anzi, come testimonia l’episo-dio dell’incapacità dei discepoli a guarire un indemoniato (cf.
Mc 9,17s) narrato da Marco nello stesso capitolo, non è l’appartenere alla cerchia dei discepoli, che abilita a «cacciare i demoni», ma il dono di Dio e le disposizioni adatte ad accogliere questo dono.
Il detto del versetto 41 è probabilmente inserito a questo punto per la formula «nel no-me».
Luca non lo riporta e Matteo lo inserisce nell’episodio della missione (Mt 10,42).
I detti che seguono sono accumunati dall’espressione: «essere di intralcio» scandalizzo.
Essi sembrano essere stati compilati con un intento catechetico, con formule che aiutano ad essere ritenute a memoria (cf.
V.
TAYLOR, Marco.
Commento al Vangelo messianico, Assisi 1977, 474-476).
Le rinunce sono in vista di «entrare nella vita» zoê distinta da bios, che indica in genere nel Nuovo Testamento la vita in comunione con Dio.
La Geenna era originariamente il nome di una valle ad ovest di Gerusalemme, dove ve-nivano offerti bambini in sacrificio a Moloch (cf.
2Re 23,10; Ger 7,31; 19,5s), sconsacrata da Giosia venne adibita alla bruciatura dei rifiuti.
Essa divenne in seguito simbolo di luogo di pena.
«Essere gettato nella Geenna» in contrasto con «entrare nella vita» significa la rovina spiri-tuale e forse anche la distruzione.
La precisazione «nel fuoco inestinguibile» è fatta per rendere chiaro il simbolo della «Ge-enna» agli ascoltatori che non conoscevano la tradizione legata alla valle di Gerusalemme; insieme con l’aggiunta, «dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue» è un riferi-mento a Is 66,24: «E vedranno i cadaveri degli uomini a me ribelli, che il loro verme non muore e il loro fuoco non si spegne» (cf.
V.
TAYLOR, o.c., 478).
Meditazione Un brano evangelico composito, con espressioni pronunciate da Gesù in varie occasioni e qui raccolte per fornire indicazioni sulla qualità del proprio essere discepoli nella dimen-sione comunitaria.
Il tema del primo avvertimento – il tono generale del testo vuole spiccatamente mettere in guardia da alcuni ‘eccessi’ – viene trattato anche nella prima lettura, tratta dal libro dei Numeri e inerente un fatto avvenuto nel corso del cammino nel deserto, mentre il popolo usciva dall’Egitto per andare verso la terra promessa.
Quando una comunità si struttura e si organizza, manifesta ed evidenzia la propria volontà di crescere, di camminare lungo un itinerario di maturazione.
Non è un cammino facile né immediato: richiede tempo, ascolto, conoscenza e stima reciproche, capacità di valorizzazione delle caratteristiche di ogni per-sona, accoglienza e sopportazione delle inevitabili fragilità, soprattutto il ‘miracolo’ di riu-scire ad armonizzare, con un impiego notevole di energie, tutte le componenti della co-munità stessa.
La testimonianza di Paolo, riportata nei capitoli 12-14 della prima lettera ai Corinzi, è di una attualità e di una concretezza sorprendenti.
Si intuisce – e lo sperimenta immediatamente chi vive in una comunità, a partire da quella familiare – che l’auspicata armonia è sempre precaria e necessita di attenta vigilanza e premurosa cura da parte di tutti i suoi membri, nessuno escluso.
Ma con la grazia del Signore e tanta buona volontà si possono raggiungere buoni, addirittura ottimi risultati! In queste comunità si potrebbe dire che la vita funzioni tanto bene che…
tutto diviene intoccabile, è tanto perfetta che non la si può più modificare in nulla.
Ognuno ha il suo spazio, il suo incarico – che svolge con grande diligenza e professionalità, indipendente-mente che si tratti di liturgia, carità, educazione…
– e la sua azione non può essere intralcia-ta o sostituita da nessun altro.
Quello che era nato come servizio gratuito nell’ambito di una comune sequela del Signore, diviene possesso geloso e intollerante.
Se qualcuno, dal-l’esterno, tenta di entrare nella comunità, viene sottoposto ad un processo di ‘istruzione’ per fargli riconoscere tutta e sola la positività della vita comunitaria.
Figuriamoci cosa può succedere a costui se si azzarda a ipotizzare dei cambiamenti, magari a paventare delle cri-tiche…
Se giunge addirittura – non sia mai! – a fare del bene, magari dello stesso tipo di quello svolto dalla comunità, ma senza il benestare e l’autorizzazione della comunità stes-sa, si può arrivare all’interdizione pubblica…! (cfr.
v.
38).
E allora ci si accorge che non si è poi così lontani da stili e modalità sempre più spesso espressi da entità politiche, sociali, agonistiche.
È vero, queste forse non si fregiano del titolo – davvero qualificativo – di co-munità ma forse anche nelle prime si è un po’ smarrito il senso di questo termine.
C’è chi ha scritto ‘Dio è con noi’ sulle cinture dei soldati, affermando implicitamente che non era pertanto con quanti stavano dall’altra parte della barricata: auguriamoci che queste volgari e indecenti strumentalizzazioni del nome di Dio non raggiungano anche le comunità dei credenti in Cristo.
Ma se ciò avviene, non spaventiamoci: le forze egocentriche dell’uomo rialzano conti-nuamente la testa e davvero la vigilanza e la revisione si impongono a tutti i livelli.
Certo è che se l’efficienza – anche quella del bene – scalza il ruolo delle persone e diviene strumen-to per imporsi sugli altri, allora anche l’altra, severissima, parola di Gesù, riportata al v.
42 e nei versetti seguenti, «chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, sarebbe meglio per lui che gli si mettesse una mola d’asino al collo e fosse gettato nel mare», ci risulta forse meno strana e incomprensibile.
Certamente un paradosso, da non prendere alla lettera, ma, appunto, un serio avvertimento.
Non c’è ‘opera di bene’ che possa calpestare con diritto qualcuno! Quando si smarrisce l’attenzione ai più fragili, esposti, poco istruiti, umili – que-sto il senso del termine piccoli, tali quindi non solo per età – è necessario riaprirsi alla forza vivificante del vangelo per ritrovare la grazia della salvezza, per ricordare innanzi tutto che siamo dei salvati dall’amore del Signore.
Allora anche il gesto semplice e alla portata di tutti del bicchiere d’acqua offerto nel nome di Gesù (cfr.
v.
41), ovvero dato nella gratui-tà rispettosa e attenta alla singola persona, diviene epifania del Regno, speranza di un mondo migliore già qui sulla terra.
 Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica   – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le stra-de.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cu-ra di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
Il Dio-con-noi «Chiunque voglia fare all’uomo d’oggi un discorso efficace su Dio, deve muovere dai problemi umani e tenerli sempre presenti nell’esporre il messaggio.
È questa, del resto, e-sigenza intrinseca per ogni discorso cristiano su Dio.
Il Dio della Rivelazione, infatti, è il Dio-con-noi, il Dio che chiama e salva e dà senso alla nostra vita; e la sua parola è destinata ad irrompere nella storia, per rivelare a ogni uomo la sua vera vocazione e dargli modo di realizzarla» (Rdc 77).
[…] «Dio stesso, quando si rivela personalmente, lo fa servendosi delle categorie dell’uomo.
Così egli si rivela Padre, Figlio, Spirito d’amore; e si rivela supremamente nell’umanità di Gesù Cristo.
Per questo, non è ardito affermare che bisogna conoscere l’uomo per conosce-re Dio; bisogna amare l’uomo per amare Dio».
(RdC 122).
Amici e amiche di Paolo Ho sempre immaginato il volontariato – senza conoscerlo, naturalmente, solo la non- conoscenza favorisce la certezza – un punto di intersezione tra la vocazione mancata e la consolazione di sé.
Finché ho conosciuto “amici e amiche di Paolo”.
Questi giovani che lo accompagnano nelle pizzerie, nei cinema, nei negozi di dischi usati, dove acquista, a prez-zo di amatore, canzoni e canti popolari di altri tempi, sono gentili, misurati discreti.
In cambio non si aspettano nulla.
Non si aspettano doni né ringraziamenti.
E danno non solo un aiuto, ma ciò di cui gli uomini hanno più bisogno quando non la sentono mai, la simpa-tia.
Paolo passa le vacanze con noi, ma non le considera vacanze.
Non ho ancora capito co-me le consideri e non intendo approfondire.
Immagino che abbia solide ragioni.
Quando ancora gli si dice, dopo quindici anni di ingiunzioni, “Cammina dritto!”, che cosa gli si comunica? Un ordine, un richiamo, una esortazione, un alibi per continuare noi a sperare, una delusione, un rimprovero, una punizione? Spesso ho notato nel suo sguardo qualcosa di diverso dalla insofferenza, una atroce noia dissimulata dalla pazienza.
Se finalmente in vacanza si diverte con il suo gruppo di volontari, dove lo accettano con allegria, senza volerlo cambiare, dobbiamo chiederci il perché? L’imperativo occulto dell’educatore, secondo Droysen, viene compendiato da poche, silenziose, concilianti pa-role: “Tu devi essere come io ti voglio, perché solo così io posso avere un rapporto con te”.
C’è da stupirsi che Paolo sia felice quando non viene più educato? (Giuseppe PONTIGIA, Nati due volte, Mondadori, Milano, 2000, 247-248).
Dio è presente ovunque Non vi è altro sacramento di Dio se non il Cristo, nel quale devono essere vivificati quelli che sono morti in Adamo, poiché «come tutti muoiono in Adamo, così pure tutti ri-cevono la vita in Cristo» (1Cor 15,22), come abbiamo spiegato più sopra.
Perciò Dio, che è ovunque presente e ovunque nella sua totalità, non abita in tutti, ma soltanto in quelli che egli fa diventare suo tempio santissimo o come suoi templi santissimi, strappandoli dal potere delle tenebre e trasferendoli nel Regno del Figlio del suo amore (cfr.
Col 1,13), Re-gno che ha inizio con la rigenerazione.
Da una parte si parla di tempio di Dio in senso sim-bolico, a proposito di quello che viene costruito dalle mani degli uomini servendosi di ma-teriale inanimato, come era il tabernacolo fatto con legno, veli, pelli e altri simili arredi o come anche lo stesso tempio costruito dal re Salomone con pietre, legno e metalli; ma si parla di tempio di Dio anche a proposito della vera realtà figurata da quei templi.
Perciò si dice: «E voi come pietre vive, siete edificati come dimora spirituale» (1Pt 2,5); per lo stesso motivo sta scritto: «Noi infatti siamo templi del Dio vivente, come dice Dio: “Abiterò in lo-ro e camminerò con loro, e sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo”» (cfr.
2Cor 6,16; Lv 26,12).
Non ci deve stupire che Dio compia qualche miracolo attraverso alcuni che non appartengono o non appartengono ancora al tempio [del Signore], cioè in quelli in cui non abita o non abita ancora Dio, come li compiva per mezzo di quel tale che in nome di Cristo scacciava i demoni sebbene non fosse suo discepolo; il Signore ordinò che gli si permettes-se di farlo a lode del suo nome, cosa utile a molti (cfr.
Mc 9,37-39).
Egli afferma che molti nell’ultimo giorno gli diranno: «Abbiamo fatto molti miracoli nel tuo nome» e a costoro non risponderà: «Non vi conosco» (cfr.
Mt 7,22-23) se apparterranno al tempio di Dio che egli santifica abitando in essi.
Anche il centurione Cornelio, prima di essere incorporato in questo tempio mediante la rigenerazione, vide un angelo che gli era stato inviato da Dio e lo sentì dire che le sue preghiere erano state esaudite e le sue elemosine gradite (cfr.
At 10,4).
Dio opera queste cose o da sé, poiché è ovunque presente, o per mezzo dei suoi an-geli.
(AGOSTINO DI IPPONA, Lettere 187,12,34-36, NBA XXIII, pp.
166-168).
«Io appartengo ad altri» Questi occhi, che non sono più miei, non debbono più vedere il mio proprio interesse.
Queste mani, che sono ora di altri, non debbono più fare il mio proprio interesse…
Io appartengo ad altri! Questa dev’essere la tua convinzione, o mio cuore! Tu non devi avere ormai altro pensiero se non il bene di tutte le creature.
(Santideva, buddista).
Essere profeti Il profeta, Signore, non è un depositario di verità, ma un testimone di bene.
Non sa dire cose sublimi, ma le compie.
Annuncia la speranza nella disperazione, la misericordia nel peccato, l’intervento di Dio dove tutto sembra morto.
Il profeta è consapevole dei suoli limiti, delle sue debolezza, dei suoi dubbi, delle sue incapacità, della sua inesperienza, ma è anche sereno e coraggioso, perché Dio lo ha scelto e amato.
Il profeta fa la scelta di Dio, vive la comunione intima con lui.
Essere profeti oggi, significa passare da una pastorale di conversazione ad una pastorale missionaria, significa essere presenti là dove la gente vive, lavora, soffre, gioisce.
Tu, Signore, sei il profeta per eccellenza che dobbiamo ascoltare e accogliere.
Tua chiesa erano le piazze, le rive dei fiumi, i monti, le strade.
Ogni cristiano è profeta, è la tua bocca che evangelizza, che parla davanti agli uomini, al mondo, alla storia.
Signore, aiutaci ad essere profeti di frontiera là dove scorre la vita della gente.
(A.
Merico)

Il papa e gli amici ebrei.

1.
Kippur, il Giorno dell’Espiazione di Riccardo Di Segni Nel calendario liturgico ebraico il giorno dell’Espiazione – Kippùr o Yom Kippùr o Yom ha Kippurìm – è il più importante dell’anno; in aramaico è yomà, “il giorno” per eccellenza, che dà il titolo al trattato della Mishnà che ne espone le regole.
“Il giorno” cade il 10 di Tishri, primo mese autunnale.
Di questo giorno parla in più occasioni la Bibbia e la fonte principale è il capitolo 16 del Levitico.
Qui si descrive un complesso ordine cerimoniale affidato al Gran Sacerdote, che deve scegliere estraendo a sorte tra due capretti; uno, dedicato al Signore, viene offerto in sacrificio; l’altro riceve con un gesto simbolico il carico delle colpe di tutta la collettività e viene quindi inviato a morire nel deserto.
Di qui l’espressione e il concetto di “capro espiatorio”.
Lo stesso brano biblico si conclude spiegando che in quel giorno è d’obbligo affliggere la propria persona e non lavorare, perché “in questo giorno espierà per voi purificandovi da tutte le vostre colpe, vi purificherete davanti al Signore” (versetto 30).
Dai tempi della sua istituzione biblica Kippùr è il giorno dell’anno in cui le colpe vengono cancellate e il destino futuro di ogni uomo viene stabilito, dopo il giudizio cui è stato sottoposto nei giorni precedenti del Capodanno.
La tradizione rabbinica si è dilungata a spiegare quali colpe possano essere cancellate del tutto o in parte, o sospese, in base alla loro gravità.
La forza espiatrice del Kippùr si misura con l’obbligo principale dell’uomo nei giorni che lo precedono: la tesciuvà.
Letteralmente è il “ritorno” ed è il termine con il quale si indica il pentimento, nel senso di ritorno alla retta via.
Questo ritorno comporta la consapevolezza di avere sbagliato, l’intenzione di non commettere nuovamente l’errore, la confessione pubblica e collettiva.
Tutto questo si basa necessariamente sulla fede in un Dio misericordioso e clemente che viene incontro a chi ha sbagliato.
In ogni caso la cancellazione delle colpe si riferisce a quelle commesse nei rapporti dell’uomo con il Signore; le colpe tra uomini vengono cancellate solo dagli uomini.
Per questi motivi la vigilia del Kippùr è dovere per ognuno andare a chiedere scusa alle persone che sono state da lui offese.
Per tutto il periodo di esistenza del Tempio di Gerusalemme le cerimonie del giorno di Kippùr rappresentavano il complesso liturgico più complesso e solenne.
Solo in quel giorno era consentito al Gran Sacerdote accedere al Santo dei Santi.
Il rispetto dei dettagli prescritti era essenziale, richiedeva una preparazione prolungata e minuziosa, e un’esecuzione attenta su cui vigilava con ansia l’intera collettività raccolta nel Tempio.
Di tutto questo dopo la distruzione del Tempio è rimasto solo il ricordo nostalgico, che nella liturgia del Kippùr avviene con la lettura, al mattino, del brano del Levitico e nel primo pomeriggio con una lunga evocazione poetica del cerimoniale.
La liturgia sinagogale tocca in questo giorno il vertice dell’impegno; lunghe e solenni preghiere la sera d’inizio, e una seduta praticamente ininterrotta dal mattino successivo fino al comparire delle stelle.
Sono momenti speciali quelli della lettura di brani di suppliche, la lettura al mattino di Isaia 57, che descrive come vero digiuno la pratica della giustizia, e al pomeriggio il libro di Giona, che è una grandiosa rappresentazione della misericordia divina.
La presenza del pubblico nelle sinagoghe raggiunge il massimo annuale in questo giorno, specialmente nei momenti più solenni di apertura e chiusura.
Essenziale nel Kippùr è il coinvolgimento personale, soprattutto con un digiuno totale senza bere né mangiare per circa 25 ore – dal quale sono esenti i malati – insieme ad altre forme di astensione (lavarsi, usare creme profumate, indossare scarpe di cuoio, evitare i rapporti sessuali).
Poi c’è la dimensione familiare e sociale, nei pasti che precedono e seguono il digiuno e nelle riunioni delle famiglie in Sinagoga per ricevere la benedizione sacerdotale, impartita dai Cohanim, i discendenti di Aharon.
Malgrado l’austerità, la solennità e le forme imposte di afflizione fisica il Kippùr è vissuto collettivamente con serenità e gioia nella consapevolezza che comunque non verrà meno la misericordia divina.
A conclusione di queste brevi note esplicative, considerando la sede autorevole e certamente non abituale dove vengono pubblicate [“L’Osservatore Romano”], può essere interessante proporre una riflessione sul senso che il Kippùr ha avuto, e può avere oggi, nel confronto ebraico-cristiano.
Questo perché nella formazione del calendario liturgico cristiano le origini ebraiche hanno avuto un ruolo decisivo, come modello da riprendere e trasformare con nuovi significati: il giorno di riposo settimanale passato dal sabato alla domenica, la Pasqua e la Pentecoste.
In alcuni casi la Chiesa ha persino festeggiato il ricordo dell’osservanza di precetti biblici tipicamente ebraici (la festa della Purificazione del 2 febbraio; un tempo il 1 gennaio quella della Circoncisione).
Ma l’intero ciclo autunnale, di cui Kippùr è il giorno più importante, è come se fosse stato cancellato.
Probabilmente ciò è dovuto al fatto che i simboli del Kippùr riguardano alcune differenze inconciliabili tra i due mondi.
I temi del gran sacerdozio, del Tempio, del sacrificio, del capro espiatorio, della cancellazione delle colpe che nella tradizione ebraica si unificano nel Kippùr sono stati rielaborati dalla Chiesa, ma fuori dall’unità originaria.
Semplificando le posizioni contrapposte: un cristiano, in base ai principi della sua fede, non ha più bisogno del Kippùr, così come un ebreo che ha il Kippùr non ha bisogno della salvezza dal peccato proposta dalla fede cristiana.
(Da “L’Osservatore Romano” dell’8 ottobre 2008).
Alla vigilia del Capodanno ebraico che quest’anno si è celebrato il 19 settembre, Benedetto XVI ha inviato al rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, un telegramma d’augurio e d’amicizia.
Nel quale ha confermato che visiterà presto la sinagoga di Roma, “animato dal vivo desiderio di manifestare la personale vicinanza mia e quella di tutta la Chiesa cattolica” alla comunità ebraica.
Quella di Roma è la terza sinagoga che Benedetto XVI visiterà, dopo quelle di Colonia nell’agosto 2005 e di Park East a New York nell’aprile del 2008.
Prima di lui, Giovanni Paolo II aveva visitato la sinagoga di Roma il 13 aprile 1986.
In questi stessi giorni un rinnovato gesto di amicizia si è avuto anche tra gli ebrei e la Chiesa cattolica italiana.
Il 22 settembre il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della conferenza episcopale, ha incontrato i rabbini Di Segni e Giuseppe Laras, quest’ultimo presidente dell’assemblea rabbinica d’Italia.
E insieme hanno deciso di riprendere la celebrazione comune della giornata di riflessione ebraico-cristiana del 17 gennaio, alla quale la volta scorsa gli ebrei avevano rifiutato di partecipare per le incomprensioni seguite al caso Williamson.
Il tema della prossima giornata di riflessione comune sarà il quarto comandamento nella numerazione ebraica: “Ricordati del giorno di Sabato per santificarlo”.
Il Capodanno, Rosh Ha Shanah, apre il ciclo delle feste ebraiche d’autunno.
Ad esso seguono lo Yom Kippur e la festa di Sukkot.
Lo Yom Kippur, o Giorno dell’Espiazione, è la più importante festa dell’intero anno liturgico ebraico.
Cadrà quest’anno il 28 settembre, terzo e ultimo giorno della visita che Benedetto XVI comincerà domani nella Repubblica Ceca.
A giudizio del rabbino Di Segni, la festa del Kippur non solo esprime il cuore della fede ebraica, ma anche riflette le “differenze inconciliabili” tra questa e la fede cristiana.
I simboli del Kippur, infatti – il sommo sacerdote, il tempio, il sacrificio, il capro espiatorio, la cancellazione delle colpe – hanno assunto nel cristianesimo un significato del tutto nuovo.
Di Segni ha spiegato il significato ebraico della festa e la sua inconciliabilità con la fede cristiana in un articolo pubblicato lo scorso anno sulla prima pagina de “L’Osservatore Romano”, in occasione dalla precedente festa del Kippur.
Ma successivamente “L’Osservatore Romano” ha dedicato spazio anche all’altra faccia della questione.
Cioè a come il Nuovo Testamento rivoluziona i simboli del Kippur.
Il testo neotestamentario chiave è la Lettera agli Ebrei.
In essa il nuovo e definitivo Giorno dell’Espiazione è il sacrificio di Cristo sulla croce.
L’autore dell’analisi pubblicata da “L’Osservatore Romano” è un sacerdote e biblista africano, Christopher Robert Abeynaike, monaco cistercense, che sullo stesso tema ha scritto la sua tesi di dottorato in Sacra Scrittura al Pontificio Istituto Biblico, nel 2008.
La sua analisi è molto dotta ma anche di rara chiarezza.
E mette in luce il legame essenziale che la Lettera agli Ebrei stabilisce tra il sacrificio di Cristo, l’ultima cena e la liturgia eucaristica.
Ecco qui di seguito i due testi sul Giorno dell’Espiazione ebraico e cristiano, quello del rabbino Di Segni e quello di padre Abeynaike.
Un esempio di dialogo che va al cuore delle due fedi e proprio per questo non teme di illuminarne le differenze.
2.
L’essenza della celebrazione eucaristica secondo il Nuovo Testamento.
Ultima cena e sacrificio di Christopher Robert Abeynaike Nella Lettera agli Ebrei si trova quello che potrebbe essere considerato un vero e proprio commentario alle azioni e parole di Cristo nell’ultima cena.
Quest’affermazione potrebbe a prima vista, sorprendere, dato che l’autore della Lettera agli Ebrei non sembra fare riferimento esplicito e diretto all’ultima cena.
L’autore della Lettera agli Ebrei è l’unico scrittore del Nuovo Testamento che attribuisce a Cristo i titoli di “sacerdote” – o piuttosto, “sommo sacerdote” – e di “mediatore della Nuova Alleanza”.
L’autore, come ebreo imbevuto del pensiero dell’Antico Testamento, rilegge infatti l’azione salvifica di Cristo nel contesto di due importanti avvenimenti o cerimonie del passato: l’inaugurazione della prima alleanza da parte di Mosè sul monte Sinai e la cerimonia della purificazione dei peccati del popolo compiuta ogni anno dal sommo sacerdote levitico nel gran Giorno dell’Espiazione, il Kippur.
Entrambe le cerimonie erano basate sui sacrifici di animali.
Nella prima, Mosè ratificava l’alleanza di Dio con il popolo d’Israele aspergendo il popolo con il sangue delle vittime sacrificali e pronunciando le parole “Ecco il sangue dell’alleanza” (Esodo 24, 8; Ebrei 9, 18-22).
Nella seconda cerimonia invece, il sommo sacerdote, dopo aver sacrificato le vittime, prendeva del loro sangue ed entrava lui solo nel santuario – il “Santo dei Santi” dove aspergeva il sangue, compiendo così l’espiazione dei peccati del popolo (Levitico 16; Ebrei 9, 6-10).
Ma secondo quanto dice il nostro autore: “è impossibile eliminare i peccati con il sangue di tori e di capri” (Ebrei 10, 4) e quindi, questi sacrifici restavano inefficaci, non potendo dare al popolo il desiderato accesso a Dio, impedito dalla coscienza del peccato (Ebrei 9, 6-10).
L’autore della Lettera agli Ebrei a ogni modo trovava nelle Scritture il preannuncio di: – un nuovo sacerdote – “Il Signore ha giurato e non si pente: Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchisedek” (Salmo 110, 4); – un nuovo sacrificio – “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato.
Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato.
Allora ho detto: Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà” (Salmo 40, 7-9); – una nuova alleanza – “Ecco vengono giorni, dice il Signore, quando io stipulerò con la casa d’Israele un’alleanza nuova; non come l’alleanza che feci con i loro padri.
Perché io perdonerò le loro iniquità e non mi ricorderò più dei loro peccati” (Geremia 31, 31-34).
Egli vedeva appunto in Cristo questo nuovo sacerdote, che avrebbe offerto un nuovo sacrificio consistente nel suo proprio corpo, inaugurando così una nuova alleanza.
Quindi, riassumendo la sostanza della sua dottrina, dice: “Cristo invece, venuto come sommo sacerdote di beni futuri […] non con sangue di capri e vitelli, ma con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario [del cielo], procurandoci così una redenzione eterna.
[…] Il sangue di Cristo, che con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire il Dio vivente.
Per questo egli è mediatore di una nuova alleanza” (Ebrei 9, 11-15).
A questo punto dobbiamo porre una domanda.
Dove, nella vita di Cristo avrebbe potuto, il nostro autore, vederlo nel ruolo di sommo sacerdote nell’atto di offrire un sacrificio per l’espiazione dei peccati e, contemporaneamente, nel ruolo di mediatore di una Nuova Alleanza nell’atto di inaugurare tale alleanza? Con tutta probabilità nell’ultima cena, dove Cristo aveva pronunciato le parole: “Questo, è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati” (Matteo 26, 28).
Dicendo infatti le parole “Questo è il mio sangue dell’alleanza”, Cristo, si manifestava come il mediatore di un’alleanza fondata nel suo proprio sangue e quindi contrapposta a quella inaugurata da Mosè con le parole: “Ecco il sangue dell’alleanza” (Esodo 24, 8).
Aggiungendo le parole “versato per molti in remissione dei peccati”, egli faceva intendere che l’alleanza che stava inaugurando fosse appunto la Nuova Alleanza annunciata da Geremia in cui la remissione dei peccati sarebbe stata assicurata: “Perché io perdonerò le loro iniquità e non mi ricorderò più dei loro peccati” (31, 34).
Inoltre, le parole: “il mio sangue versato per molti in remissione dei peccati” – dove l’idea di un sacrificio per l’espiazione dei peccati del popolo è chiarissima – non avrebbero potuto non fare ricordare al nostro autore il sacrificio offerto dal sommo sacerdote levitico nel gran Giorno dell’Espiazione.
Con la successiva morte di Gesù e la sua ascensione nell’invisibilità del cielo – “Entrò una volta per sempre nel santuario” (Ebrei, 9, 12) – si sarebbe stagliato davanti agli occhi dell’autore il parallelo con l’azione del sommo sacerdote levitico, il quale dopo aver immolato le vittime entrava nell’invisibilità del santuario terrestre per compiere l’espiazione dei peccati aspergendovi il sangue sacrificale.
Potremmo, dunque, affermare che l’ultima cena fosse appunto il momento della vita di Cristo in cui l’autore della Lettera agli Ebrei avrebbe potuto riconoscerlo come nuovo sommo sacerdote e, contemporaneamente, come mediatore della Nuova Alleanza.
Le parole di Gesù sul solo calice sarebbero state sufficienti per questo.
Le parole, invece, sul pane – “Questo è il mio corpo” – avrebbero dovuto far tornare in mente all’autore la profezia dei salmi, di un nuovo tipo di sacrificio in contrasto con i sacrifici dell’Antica Alleanza: “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato.
Ecco io vengo per fare, o Dio, la tua volontà” (Salmo 40, 7-9).
L’autore della Lettera infatti commenta al riguardo: “Ed è appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre” (Ebrei, 10, 10).
Infine, il pane e il vino dell’ultima cena, gli stessi doni offerti da Melchisedek (Genesi 14, 18), avrebbero solo confermato al nostro autore che il nuovo sacerdote, manifestandosi nell’offerta del suo corpo alla cena, fosse appunto – in adempimento del vaticinio del salmo 110, 4 – il sacerdote “al modo di Melchisedek”.
In conclusione, possiamo dire che quando l’autore della Lettera agli Ebrei – nel cuore della sua epistola, ai versetti 9, 11-15 – parla della manifestazione di Cristo come nuovo sommo sacerdote, mediante l’offerta di se stesso a Dio per la purificazione dei peccati del popolo e, contemporaneamente, come mediatore della Nuova Alleanza, egli si riferisce alle parole e alle azioni di Gesù nell’ultima cena.
I versetti immediatamente seguenti lo confermano: “Per questo egli è mediatore di una nuova alleanza (diathéke) di modo che, quando la sua morte fosse intervenuta per la redenzione delle colpe commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che è stata promessa.
Dove, infatti, c’è un testamento (diathéke), è necessario che sia accertata la morte del testatore, perché un testamento (diathéke) ha valore solo dopo la morte e rimane senza effetto finché il testatore vive.
Per questo neanche la prima alleanza (diathéke) fu inaugurata senza sangue” (Ebrei, 9, 15-18).
In questi versetti l’autore effettivamente sta giocando sul duplice senso della parola greca “diathéke”, usata nella versione dei Settanta per tradurre la parola ebraica “berith”, alleanza, mentre nel greco contemporaneo significava testamento.
Egli infatti usa un esempio preso dalla vita d’ogni giorno.
Come una “diathéke”, un testamento, diventa valida solo alla morte del testatore, così pure la “diathéke”, l’alleanza proclamata da Gesù richiedeva di essere seguita dalla sua morte per la sua ratificazione, così come anche la prima alleanza era stata dedicata con lo spargimento del sangue delle vittime.
Ma oltre ad avere in comune la stessa parola greca “diathéke”, un’alleanza e un testamento hanno qualcos’altro in comune: il concetto di un’eredità.
L’eredità sotto la prima alleanza coincideva con il possesso della terra di Canaan.
L’eredità invece sotto la Nuova Alleanza diventa il possesso del regno di Dio.
Quindi, noi troviamo Cristo che nell’ultima cena si manifesta non solo nei ruoli di sacerdote e di mediatore di una Nuova Alleanza, ma anche in quello di testatore che dà ai suoi apostoli la promessa del possesso del regno di Dio: “Io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno di mio Padre (Matteo 26, 29; Luca 22, 29-30).
Quindi, il nostro autore poteva dire con ragione: “Per questo egli è mediatore di una nuova alleanza (diathéke) di modo che, quando la sua morte fosse intervenuta, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che è stata promessa (Ebrei 9, 15).
Come esito della nostra indagine possiamo affermare che l’ultima cena fu: – un sacrificio in cui Cristo “offrì se stesso a Dio” (Ebrei 9, 14) per la remissione dei peccati; – la promulgazione della Nuova Alleanza da parte di Cristo; – la disposizione di un testamento, in cui Gesù lasciava in “eredità eterna” (Ebrei 9, 15) ai suoi discepoli, il regno del suo Padre (Matteo 26, 29; Luca 22, 29-30).
Per tutti e tre i motivi la sua morte in croce doveva seguire ineluttabilmente.
Le parole e le azioni di Cristo all’ultima cena erano, infatti, tutte indirizzate verso il loro adempimento nella sua morte, senza la quale non avrebbero avuto nessun senso o valore.
Ma la morte di Gesù non doveva essere la fine della sua opera redentrice.
Come, infatti, il punto culminante della cerimonia del Giorno d’Espiazione era l’ingresso del sommo sacerdote levitico con il sangue sacrificale nel santuario terrestre per portare a compimento l’espiazione dei peccati, così anche Cristo nella sua ascensione è entrato nel santuario celeste “per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore” (Ebrei 9, 24), “procurandoci così una redenzione eterna” (Ebrei 9, 12).
Proprio perché Cristo “offrì se stesso con uno Spirito eterno” (Ebrei 9, 14), il suo sacrificio ha una eterna efficacia, ed Egli rimane “sommo sacerdote per sempre alla maniera di Melchisedek” (Ebrei 6, 20).
Abbiamo dunque, potremmo dire, un “Giorno di Espiazione” che dura per sempre, cui l’autore si riferisce quando dice: “Il sangue di Cristo purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire il Dio vivente” (Ebrei 9, 14).
E ancora: “Avendo dunque, fratelli, piena libertà di entrare nel santuario [celeste] per mezzo del sangue di Gesù e un sacerdote grande sopra la casa di Dio, accostiamoci…” (Ebrei, 10 19-22).
In un altra occasione l’autore parla di cristiani come di un popolo che si è accostato “al monte Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste, al Dio giudice di tutti e a Gesù, mediatore della nuova alleanza e al sangue dell’aspersione” (Ebrei 12, 22-24).
Il “sangue di Gesù” è per il nostro autore un simbolo plastico per indicare i frutti della redenzione, ossia quei beni a cui i cristiani hanno accesso, un accesso che dal contesto di questi passaggi si può intravedere appunto nella Celebrazione eucaristica.
Quel perdurare dell’opera redentrice di Cristo, che l’autore della Lettera agli Ebrei esprime con il simbolo della continua aspersione con il suo sangue, lo troviamo espresso in un altro modo nella preghiera liturgica in cui si afferma che ogni volta che la messa è celebrata “si effettua l’opera della nostra redenzione” (cfr.
“Presbyterorum ordinis” 13).
Nei suddetti passaggi notiamo inoltre che, durante la celebrazione eucaristica, i cristiani in un certo qual modo sembrano trascendere i confini di questo mondo e accostarsi, per mezzo di Cristo, a Dio e al mondo celeste.
Infine, l’eucaristia è anche un banchetto sacrificale, cui il nostro autore si riferisce dicendo: “Noi abbiamo un altare del quale abbiamo diritto di mangiare” (Ebrei 13, 10).
San Paolo chiarisce il senso di queste parole quando nella prima lettera ai Corinzi (10, 14-22) paragona l’eucaristia sia ai pasti sacrificali dell’Antico Testamento (Levitico 7), sia a quelli dei pagani, affermando che il mangiare della carne sacrificale implica necessariamente un entrare in comunione (koinonía) con la divinità cui il sacrificio è stato offerto.
Egli quindi, vieta ai cristiani di partecipare al corpo e sangue di Cristo alla mensa eucaristica e, allo stesso tempo, di continuare a partecipare ai pasti sacrificali dei pagani.
Giovanni, nel suo Vangelo, approfondisce il concetto paolino della comunione con il corpo e sangue di Cristo dicendo: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui.
Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me” (6, 56-57).
Mangiando del corpo e bevendo del sangue di Gesù, il cristiano è assunto nella comunione di vita del Padre e Figlio, già adesso, su questa terra.
Pare che questo sia lo stesso concetto che l’autore della Lettera agli Ebrei cerca di esprimere quando dice – nel contesto della celebrazione eucaristica, usando il linguaggio dell’Antico Testamento – che i cristiani si accostano per mezzo di Cristo al santuario celeste e alla presenza di Dio.
Questa indagine sull’insegnamento del Nuovo Testamento riguardo alla celebrazione eucaristica ci fa capire quanto è grande e profondo il mistero che essa comprende.
Giustamente i padri orientali l’avevano chiamata “sacrificium tremendum”.
È chiaro che la maniera in cui l’eucaristia viene celebrata – la “ars celebrandi” – deve essere sempre in consonanza con il suo vero contenuto e deve rispecchiarlo integralmente ai partecipanti.
È questa, infatti, la suprema preoccupazione di Benedetto XVI, che deve essere anche la preoccupazione di tutti i pastori della Chiesa, vescovi e presbiteri, in modo particolare durante l’anno sacerdotale in corso, dato che, come ci ricorda il concilio Vaticano II: “I presbiteri esercitano il loro sacro ministero soprattutto nel culto eucaristico” (Lumen gentium 28).
(Da “L’Osservatore Romano” del 24 luglio 2009).

Scuola: Gli ebook?

Un fenomeno ancora marginale, per il quale si attendono pero’ sviluppi interessanti nel medio termine.
Questo il mercato dell’e-book visto dagli esperti, in Italia ma anche nei Paesi piu’ all’avanguardia nella produzione e lettura di e-libri, Stati Uniti e Gran Bretagna in testa.
Gli e-book possono essere sia libri di narrativa sia testi per l’editoria professionale e educativa, visualizzabili sugli appositi device come il Kindle di Amazon oppure scaricabili da Internet e fruibili su computer, telefonino o palmare.
Enormi le potenzialita’ del mercato per i libri scolastici o conservati nelle biblioteche tanto che anche l’Italia ha deciso di aprire le porte, come altri Paesi europei, al controverso progetto di digitalizzazione dei libri capitanato da Google.
Al momento in Italia, secondo i dati dell’Ufficio studi dell’Aie, il mercato degli audiolibri e dell’ebook congiunti non pesano oltre lo 0,03% del mercato complessivo del libro.
”Quello che ci manca e’ l’hardware”, sottolinea Cristina Mussinelli, responsabile del settore tecnologie dell’Aie.
”Sul mercato italiano non sono ancora in vendita i lettori di e-book che hanno conquistato l’America, come Kindle della Amazon, che conta gia’ su 300mila titoli, e Reader della Sony che ne vanta 100mila.
Anche se ci fossero questi device, occorrerebbe poi creare un ricco catalogo come e’ stato fatto all’estero”.
Un forte impulso potrebbe arrivare dal settore education: l’art 15 del decreto 112 del 2008 prevede che siano disponibili entro l’anno scolastico 2011-12 ”libri scaricabili da Internet”.
Ma la Mussinelli frena: ”Le caratteristiche tecnologiche non sono state definite.
Si tratta non esattamente di ebook, ma probabilmente di libri misti (carta piu’ file digitale) oppure di integrazioni interattive su Internet o di materiale per lavagne interattive multimediali, pero’ diffuse a macchia di leopardo.
Certo, se per ebook a scuola si intende leggere i libri digitali su Kindle, si profila un problema, visto il costo sui 300-350 dollari”.
Gli editori lo sanno ma ancora molti restano alla finestra, in attesa di vedere come evolvera’ il mercato e se il governo concedera’ un contributo di start-up, temendo di dover ”pagare di tasca propria l’innovazione”, secondo le parole di Ulisse Jacomuzzi, amministratore delegato della Sei.
”Alcune case editrici si stanno apprestando a mettere su pdf i loro testi in modo che si possano scaricare dal computer.
Anche la Sei sta aumentando la quantita’ di materiale online e gia’ dal prossimo anno tutte le nostre novita’ editoriali per la scuola saranno nella forma di libro misto.
Tuttavia cio’ comporta un enorme investimento e ci chiediamo se ci sia un mercato pronto ad assorbire le nostre proposte.
Occorrerebbe che tutte le scuole fossero dotate di banda larga e che i docenti fossero preparati”.
”Nel settore scolastico gli e-book non costituiscono ancora un vero mercato.
Possiamo prevedere uno sviluppo nei prossimi anni se gli studenti avranno strumenti adeguati per fruirne”, concorda Sergio Saviori, direttore editoriale di Mondadori Education.
”Ad ogni modo, tutti i nuovi libri del 2009 di Mondadori Education hanno contenuti online (esercizi per il ripasso, test di verifica, interrogazioni simulate, riassunti, karaoke) aggiuntivi rispetto ai volumi cartacei”.
Ma per pensare davvero all’avvento dell’ebook nella scuola, ”sarebbe necessario disporre di dispositivi a basso costo”, conclude Saviori, ”a colori e con sufficiente autonomia nella carica elettrica.
Questa soluzione al momento non e’ disponibile”.
Insomma, l’ebook a scuola non e’ per l’immediato futuro.
Anche gli studenti della nuova generazione non hanno scampo: tocca studiare sui libri, quelli veri.
red/rf/ss

Il sogno di Nabucodonosor o la fine della Chiesa medievale

ROGER LENAERS, Il sogno di Nabucodonosor o la fine della Chiesa medievale, Massari Editore, 2009, pp.
367, euro 15: Un catechismo, sì, nel senso di un’esposizione completa della dottrina cristiana.
Ma la definizione potrebbe essere fuorviante, perché Il sogno di Nabucodonosor o la fine della Chiesa medievale (Massari Editore, 2009, pp.
367, euro 15: il libro è acquistabile anche presso la nostra agenzia, telefonando allo 06/6868692, inviando una mail ad abbonamenti@adista.it o collegandosi a www.adistaonline.it/index.php?op=adistalibri) è un testo scritto con un linguaggio diverso dall’“ecclesialese” di cui sono infarciti tanti documenti del magistero cattolico e tante prediche, accessibili solo ad un pubblico di “iniziati”; un libro lontano da una visione della Chiesa e della società che l’autore stesso definisce “medievale” e “irrimediabilmente passata”; un libro, soprattutto, che non proclama verità immutabili attraverso decreti autoritari, ma scardina alla radice dogmi secolari riformulando l’intera fede cattolica attraverso parole “viventi” ed in una prospettiva radicalmente nuova (Adista aveva già pubblicato ampi stralci del testo in una nostra traduzione dallo spagnolo, v.
n.
44/09).
L’autore, l’85enne gesuita belga Roger Lenaers, si pone infatti l’obiettivo di esprimere “la fede unica ed eterna in Gesù Cristo e nel suo Dio nel linguaggio della modernità”, nella consapevolezza che il “monumento grandioso” della vecchia Chiesa istituzionale finirà come l’imponente statua dai piedi d’argilla sognata da Nabucodonosor: “Una statua, una statua enorme, di straordinario splendore”, racconta la Bibbia (Dn 2,31-35), con “la testa d’oro puro, il petto e le braccia d’argento, il ventre e le cosce di bronzo, le gambe di ferro e i piedi in parte di ferro e in parte di creta”.
Una grande pietra si staccò dal monte dove si trovava, “ma non per mano di uomo, e andò a battere contro i piedi della statua, che erano di ferro e di argilla, e li frantumò.
Allora si frantumarono anche il ferro, l’argilla, il bronzo, l’argento e l’oro e divennero come la pula sulle aie d’estate; il vento li portò via senza lasciar traccia, mentre la pietra, che aveva colpito la statua, divenne una grande montagna che riempì tutta quella regione”.
Ecco: secondo Lenaers le “verità” tradizionali fanno la fine di quella statua quando vengono a contatto con la luce dirompente del messaggio evangelico.
Nella presentazione del suo libro, il gesuita belga – che dal 1995 (dopo il pensionamento) ha scelto di fare il parroco a Vorderhornbach, sulle montagne tirolesi – spiega che se “per l’uomo occidentale del terzo millennio il linguaggio della tradizione cristiana è diventato un idioma estraneo”, diventa improrogabile il compito di tradurre il messaggio cristiano in un linguaggio in cui l’uomo e la donna moderni possano riconoscersi.
E spiega: “Non abbiamo ricevuto la nostra fede per tenerla sepolta nel campo del passato, ma per spargerla e seminarla”.
E per farlo Lenaers opera una revisione totale del catechismo cattolico, rileggendo ad uno ad uno tutti i temi della dottrina nella chiave del passaggio dall’“eteronomia” alla “teonomia”, una operazione che intende operare una “riconciliazione tra l’autonomia dell’essere umano e la fede in Dio”.
Eteronomo, secondo l’autore, è l’universo mentale delle rappresentazioni cristiane tradizionali, secondo cui il nostro mondo sarebbe completamente dipendente dall’altro mondo e dalle sue prescrizioni.
Un universo mentale che attraversa l’Antico e il Nuovo Testamento, l’eredità dei Padri della Chiesa, la scolastica, i concili, la liturgia, i dogmi e alla loro elaborazione teologica, tutti basati sull’“assioma dei due mondi paralleli”.
La teonomia, invece, “riconosce in Dio la dimensione più profonda di ogni cosa e pertanto anche la legge (dal greco: nomos) interna del cosmo e dell’umanità”.
In questo pensiero “esiste un solo mondo: il nostro.
Ma questo mondo è sacro poiché è la costante autorivelazione di quel mistero santo che intendiamo con la parola Dio”, un Dio che “non è mai fuori ma che è stato sempre al centro”, come la più profonda essenza di tutte le cose, la legge interna del cosmo e dell’umanità.
È nella prospettiva della teonomia, quindi, che Lenaers rilegge le formulazioni eteronome della dottrina relativamente alle Sacre Scritture, alla Tradizione, alla gerarchia, alla cristologia, alla Trinità, a Maria madre di Dio, alla resurrezione, alla vita dopo la morte, ai sacramenti.
Anche perché “molte delle rappresentazioni tradizionali non sono così antiche come per lo più si afferma pertanto non appartengono alla ‘buona novella’ originaria”: “La confessione della divinità di Gesù ricorda ad esempio Lenaers – ha impiegato vari secoli per entrare a far parte del deposito della fede; tre secoli sono trascorsi prima che lo spirito di Dio venisse visto come una persona divina; ce ne sono voluti quattro per la dottrina del peccato originale ereditario; mille per riconoscere il matrimonio come sacramento; e molti di più per l’infallibilità papale e i dogmi mariani.
Era forse impossibile essere veramente cristiani nei tempi precedenti a queste formulazioni?” di Valerio Gigante in “Adista” – Notizie – n.
94 del 26 settembre 2009