Le leggi razziali in Italia e il Vaticano

«Non comanderanno!» Udienza del conte Galeazzo Ciano, ministro degli esteri, a mons.
Borgongini Duca, nunzio apostolico in Italia Roma, 2 Agosto 1938 …A fianco della questione dei neri, si dovrà trattare anche quella degli ebrei, per due ragioni: 1°) perché essi sono espulsi da ogni parte, e non vogliamo che gli espulsi credano di potere venire in Italia come nella terra promessa; 2°) perché è loro dottrina, consacrata nel Talmud, che l’ebreo deve mischiarsi con le altre razze come l’olio con l’acqua, ossia rimanendo di sopra, cioè al potere.
E noi vogliamo impedire che gli Ebrei in Italia abbiano posti di comando.
Appunto della Segreteria di Stato su certificati di battesimo falsi rilasciati a ebrei 2 aprile 1941 Qualche giorno fa persona attendibile mi disse che era bene diffidare dei certificati di battesimo rilasciati a non ariani battezzati dall’ufficio parrocchiale della Basilica di S.
Pietro, perché la data del battesimo era falsificata.
È una dolorosa constatazione: non a torto le autorità civili dubitano della veridicità di attestazioni ecclesiastiche…
Credo sia opportuno richiamare chi di dovere a una scrupolosa e doverosa esattezza di registrazione.
Accordo tra la Santa Sede e Governo fascista 16 agosto 1938 Gli ebrei, in una parola, possono essere sicuri che non saranno sottoposti a trattamento peggiore di quello usato loro per secoli e secoli dai Papi che li ospitarono nella Città eterna e nelle terre del loro temporale dominio.
Ciò premesso, è vivo desiderio dell’On.
Capo del Governo che la stampa cattolica, i predicatori, i conferenzieri e via dicendo, si astengano dal trattare in pubblico di questo argomento; alla S.
Sede, allo stesso Sommo Pontefice non manca il modo d’intendersela direttamente in via privata con Mussolini e di proporgli quelle osservazioni che si credesse opportune per la migliore soluzione del delicato problema.
Il Vaticano e la frattura del 1938 di Emma Fattorini in “Il Sole 24 Ore” del 1° novembre 2009 La prossima settimana esce il nuovo libro dello storico gesuita Giovanni Sale, Le leggi razziali in Italia e il Vaticano (Jaca book, Milano, pagg.
320, € 28,00), con un’ampia raccolta di documenti inediti e un saggio introduttivo di Emma Fattorini, che qui in parte anticipiamo.
Le leggi razziali promulgate da Mussolini il 5 settembre del 1938 dividono in due il mondo cattolico.
L’antisemitismo, infatti, lungi dall’unificare i cattolici, diventa sempre di più un elemento di divisione all’interno della cattolicità.
I fedeli delle parrocchie come gli intellettuali e i sacerdoti esprimono giudizi e pratiche diverse nei confronti di quelli che solo molto tempo dopo saranno chiamati i loro “fratelli maggiori”.
I due principali quotidiani cattolici, ad esempio, «L’Italia» di Milano e «L’Avvenire d’Italia» di Bologna sono decisamente in polemica dura con le leggi razziali.
Del resto l’argomentazione “teologica” è anche alla base dell’offensiva fascista: ripetute saranno le accuse alla chiesa per non essere coerente con le sue posizioni antigiudaiche, per avere abbandonato troppo disinvoltamente la fortissima tradizione antisemita espressa da tante pagine della «Civiltà cattolica» alla quale Mussolini dirà di essersi ispirato: «C’è molto da imparare dai padri della Compagnia di Gesù.
(…) Il fascismo è inferiore, sia nei provvedimenti sia nella loro esecuzione, al rigore della Civiltà cattolica».
Alla rivista dei gesuiti sarà rimproverato, ad esempio, di non prendere sul serio il concetto di Volksgemeinschaft: essa rinnegherebbe l’importanza di tenere uniti comunità di razza, religione e nazione, non considererebbe la razza inscindibilmente legata all’italianità, di cui la religione dovrebbe farsi garante e custode.
La chiesa, insomma, viene accusata di abdicare alla sua funzione di custode delle radici spirituali della comunità nazionale, che verrebbe inquinata dal mescolamento razziale: il razzismo si presenta come «salvaguardia delle virtù tradizionali e intrinseche alla razza…
orbene questi sono principi eminentemente cattolici…
quella superiore eugenetica spirituale, che è rivolta alla salute e alla difesa delle anime umane».
Sbaglierebbe dunque in pieno la «Civiltà cattolica» quando distingue e contrappone nazione e razza.
A questo è dedicata la campagna della rivista «Difesa della razza» che, tra il novembre 1938 e il marzo del 1939, dedica ampio spazio ai rapporti tra «razza e cattolicesimo», dando voce a un liceale avanguardista che inneggia alla romanità pagana e al suo atto eroico contro la mollezza compassionevole dei cattolici.
Il cuore della polemica, come in tempi più recenti, diventa l’indispensabile contributo del cattolicesimo italiano all’identità nazionale.
L’intransigenza della chiesa cattolica a non discriminare ingiustamente chi appartiene a un’altra razza, paese, etnia ha dunque radici profonde, che sarebbe del tutto antistorico attribuire a un facile buonismo: rimanda a una fedeltà superiore a quella pur dovuta alla nazione, una idea di chiesa e di nazione, dei loro rapporti e delle reciproche responsabilità che già allora non trovava concordi tutti i cattolici italiani.
La propaganda fascista non prendeva di petto la questione, evitava le punte più odiose e cercava una complicità su temi ai quali la chiesa era particolarmente sensibile: i matrimoni misti rappresenterebbero un pericoloso «meticciato religioso» perché i figli, per quanto educati alla religione cattolica, sarebbero sempre stati degli «ebrei mascherati», dei «circoncisi dello spirito».
In più occasioni la propaganda fascista incita la chiesa a diffidare della conversione degli ebrei che farebbero professione di fede cattolica per evidente opportunismo: altro non sarebbero che degli infiltrati, in realtà «permanentemente e immutabilmente di razza ebraica».
È la antica e mai conclusa questione dei battesimi e delle conversioni fatte per convenienza.
Le risposte cattoliche sono imbarazzate riguardo alla autenticità delle crescenti conversioni e si concentrano sul dato giuridico-formale del valore probatorio del battesimo.
Ci si appella ancora una volta al Concordato, nella convinzione del tutto illusoria che quello strumento riesca a dirimere anche questioni di contenuto religioso così delicate e così intrecciate alle identità personali.
L’ultimo lavoro di Padre Sale, che arricchisce l’attuale panorama documentaristico con i materiali provenienti dall’archivio della «Civiltà cattolica», ci fa capire bene la persistente ambiguità degli ambienti curiali, in contrasto all’intransigenza di papa Ratti.
Lo storico gesuita conferma, attraverso questa nuova documentazione, le differenze tra le prudenti connivenze e la decisa contrarietà di Pio XI, dell’Azione cattolica e specialmente di Gian Battista Montini.
Il confronto con le leggi razziali diventa una cartina di tornasole che getta luce sulla difficile distinzione tra questione biologica e questione morale (quali sono – si chiedono molti cattolici – le differenze tra i concubinaggi con le popolazioni di colore e quelle con gli ebrei).
Ne risultano con chiarezza le ripetute ambiguità tra ragioni biologico-razziali e politico-religiose-morali.
Nel complesso, conclude Giovanni Sale, il piano giuridico prevalse sulla difesa del diritto naturale.
E ha ragione, il nodo reale non è tanto la percentuale di prudenza o il tasso di discrezione nel contrastare leggi odiose, ma l’avere tradito la difesa del diritto naturale.
Per questa difesa dovremo aspettare ancora molto tempo.

Un ecumenismo nutrito dalla fedeltà alla tradizione.

Dichiarazione congiunta dell’arcivescovo di Westminster e dell’arcivescovo di Canterbury L’annuncio odierno della costituzione apostolica è una risposta di papa Benedetto XVI a numerose  richieste alla Santa Sede avanzate, negli ultimi anni, da gruppi di anglicani che desiderano entrare in comunione piena e visibile con la Chiesa cattolica e desiderano dichiarare che condividono una comune fede cattolica e accettano il ministero petrino, come voluto da Cristo per la sua Chiesa.
Papa Benedetto XVI ha approvato, nella costituzione apostolica, una struttura canonica che garantisce ordinariati personali, i quali permetteranno a personegià anglicane di entrare in piena comunione con la Chiesa cattolica pur preservando elementi del peculiare patrimonio spirituale anglicano.
L’annuncio di questa costituzione apostolica pone fine a un periodo di incertezza per questi gruppi che hanno nutrito speranze di nuove modalità per ottenere l’unità con la Chiesa cattolica.
Spetterà ora a chi ha avanzato richieste alla Santa Sede rispondere alla costituzione apostolica.
La costituzione apostolica è un ulteriore riconoscimento della sostanziale coincidenza nella fede, nella dottrina e nella spiritualità della Chiesa cattolica e della tradizione anglicana.
Senza i dialoghi degli scorsi quarant’anni, questo riconoscimento non sarebbe stato possibile né si sarebbero nutrite speranze di unità piena e visibile.
In tal senso, questa costituzione apostolica è una conseguenza del dialogo ecumenico fra la Chiesa cattolica e la Comunione anglicana.
Il dialogo ufficiale in corso fra la Chiesa cattolica e la Comunione anglicana offre la base per una cooperazione permanente.
Gli accordi fra la Commissione Internazionale Anglicano-Cattolica (ARCIC) e la Commissione Internazionale Anglicano-Cattolica per l’Unità e la Missione (IARCCUM) rendono libero il cammino che percorreremo insieme.
Con la grazia di Dio e la preghiera siamo determinati a far sì che il nostro continuo impegno reciproco e le nostre consultazioni su queste e su altre materie continuino a essere rafforzati.
A livello locale, nello spirito della IARCCUM, desideriamo basarci sul modello di incontri comuni tra la conferenza episcopale cattolica dell’Inghilterra e del Galles e la House of Bishops della Church of England, concentrandoci sulla nostra missione comune.
Giornate comuni di riflessione e di preghiera sono cominciate a Leeds nel 2006, sono continuate a Lambeth nel 2008 e ulteriori incontri sono in preparazione.
Questa stretta cooperazione proseguirà man mano che cresceremo insieme nell’unità e nella missione, nella testimonianza del Vangelo nel nostro paese e nella Chiesa in generale.
Londra, 20 ottobre 2009 Vincent Gerard Nichols Arcivescovo di Westminster Dr Rowan Williams Arcivescovo di Canterbur Informazioni contestuali Sin dal secolo XVI, quando il Re Enrico VIII dichiarò l’indipendenza della Chiesa d’Inghilterra dall’autorità del Papa, la Chiesa d’Inghilterra creò le proprie confessioni dottrinali, usanze liturgiche e pratiche pastorali, incorporando spesso idee della Riforma avvenuta sul continente europeo.
L’espansione del Regno Britannico, congiunta all’apostolato missionario anglicano, comportò poi la nascita di una Comunione Anglicana a livello mondiale.
Nel corso dei 450 e più anni della sua storia, la questione della riunione tra anglicani e cattolici non è stata mai messa da parte.
Nella metà del XIX secolo, il Movimento di Oxford (in Inghilterra) mostrò un rinnovato interesse per gli aspetti cattolici dell’anglicanesimo.
All’inizio del XX secolo, il Cardinale Mercier, del Belgio, intraprese colloqui pubblici con anglicani al fine di esplorare la possibilità di una unione con la Chiesa Cattolica sotto la bandiera di un anglicanesimo “riunito ma non assorbito”.
Il Concilio Vaticano II nutrì ulteriormente la speranza per una unione, in particolare con il Decreto sull’ecumenismo (n.
13), il quale facendo riferimento alle Comunità separate dalla Chiesa Cattolica nel tempo della Riforma, ribadì: “Tra quelle [comunioni] nelle quali continuano a sussistere in parte le tradizioni e le strutture cattoliche, occupa un posto speciale la Comunione Anglicana.” Sin dal Concilio i rapporti tra anglicani e cattolici romani hanno creato un migliore clima di comprensione e mutua cooperazione.
La Anglican-Roman Catholic International Commission (ARCIC) ha prodotto una serie di dichiarazioni dottrinali nel corso degli anni, nella speranza di creare la base per una piena e visibile unione.
Per molti appartenenti alle due Comunioni, le dichiarazioni dell’ARCIC hanno messo a disposizione uno strumento nel quale la comune espressione della fede può essere riconosciuta.
È in questa cornice che si deve inquadrare il nuovo provvedimento.
Negli anni successivi al Concilio, alcuni anglicani hanno abbandonato la tradizione di conferire gli Ordini Sacri soltanto agli uomini chiamando al presbiterato e all’episcopato anche donne.
Più recentemente, alcuni segmenti della Comunione Anglicana si sono allontanati dal comune insegnamento biblico circa la sessualità umana – già chiaramente espresso nel documento dell’ARCIC “Vita in Cristo” – conferendo gli Ordini Sacri a chierici apertamente omosessuali e benedicendo le unioni tra persone dello stesso sesso.
Nondimeno, mentre la Comunione Anglicana deve affrontare queste nuove e difficili sfide, la Chiesa Cattolica rimane pienamente impegnata nel suo dialogo ecumenico con la Comunione Anglicana, in particolare attraverso l’attività del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani.
Nel frattempo molti anglicani sono entrati individualmente nella piena comunione con la Chiesa Cattolica.
Talvolta sono entrati anche gruppi di anglicani, conservando una certa struttura “corporativa”.
Ciò è avvenuto, ad esempio, per la diocesi anglicana di Amritsar in India e per alcune singole parrocchie negli Stati Uniti che, pur mantenendo un’identità anglicana, sono entrate nella Chiesa Cattolica nel quadro di un cosiddetto “provvedimento pastorale”, adottato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede e approvato da Papa Giovanni Paolo II nel 1982.
In questi casi, la Chiesa Cattolica ha frequentemente dispensato dal requisito del celibato ammettendo che quei chierici anglicani coniugati che desiderano continuare il servizio ministeriale come sacerdoti cattolici siano ordinati nella Chiesa Cattolica.
In questo contesto, gli Ordinariati Personali istituiti secondo la suddetta Costituzione Apostolica possono essere visti come un ulteriore passo verso la realizzazione dell’aspirazione per la piena e visibile unione nella unica Chiesa, che è uno dei fini principali del movimento ecumenico.
Congregazione per la Dottrina della Fede Roma, 20 ottobre 2009 Fino a ieri passavano alla Chiesa cattolica uno alla volta, i preti e vescovi della Comunione anglicana che si sentivano più d’accordo col papa di Roma che con le derive “moderniste” dell’anglicanesimo.
Negli Stati Uniti, per regolare tali passaggi, dal 1980 era in vigore una “Pastoral Provision” scritta dalla congregazione per la dottrina della fede e approvata da Giovanni Paolo II.
Grazie ad essa sono passati alla Chiesa cattolica circa ottanta preti anglicani, quasi tutti con moglie e figli.
E due anni fa anche un vescovo, Jeffrey Steenson, accolto con una cerimonia celebrata nella basilica romana di Santa Maria Maggiore.
Steenson, 57 anni, sposato con tre figli, è stato ordinato sacerdote e incardinato nella diocesi di Santa Fe, dove insegna patrologia in seminario.
A questi preti e vescovi hanno fatto seguito anche gruppi di fedeli, per loro decisione spontanea.
L’unico caso di passaggio in blocco di un’intera diocesi anglicana alla Chiesa cattolica è stato finora quello di Amritsar, nel Punjab indiano.
Si è verificato nel 1975.
Da oggi in avanti, però, le migrazioni collettive dall’anglicanesimo al cattolicesimo saranno un fatto non più eccezionale ma normale, grazie alla costituzione apostolica che Benedetto XVI si appresta a pubblicare.
La costituzione papale è ancora in fase di messa a punto.
Sarà pubblicata forse tra due settimane.
Ma il suo annuncio è già stato dato in forma solenne la mattina del 20 ottobre, in due conferenze stampa contemporanee: una a Roma, con il cardinale William Levada, prefetto della congregazione per dottrina della fede, e una a Londra, con l’arcivescovo cattolico di Westminster, Vincent G.
Nichols, e con il primate della Comunione anglicana, Rowan Williams (nella foto dell’Associated Press).
A Londra i due arcivescovi, cattolico e anglicano, hanno anche emesso una dichiarazione congiunta.
Altro elemento di indubbia novità.
Di solito, infatti, quando qualcuno abbandona una confessione cristiana e ne abbraccia un’altra, se ne va sbattendo la porta.
Questa volta, invece, è come se il passaggio sia benedetto di comune accordo dalle due parti.
Una sintonia che fa pensare a quanto sarebbe oggi vicina la riconciliazione tra la Chiesa cattolica e la Comunione anglicana se solo in quest’ultima non avesse avuto il via libera l’ordinazione al sacerdozio e all’episcopato di donne e di omosessuali conviventi, con le conseguenti drammatiche divisioni tra chi è d’accordo e chi no.
Una volta pubblicata la costituzione apostolica, le parrocchie e le diocesi anglicane che in questi ultimi anni hanno bussato a Roma per essere accolte nella Chiesa cattolica – dalla Gran Bretagna, dagli Stati Uniti, dall’Australia e da altri paesi – potranno farlo nelle modalità indicate nella stessa costituzione.
I sacerdoti e i vescovi sposati, ricevuto l’ordine sacro, potranno riprendere a esercitare il sacerdozio, come già avviene per i sacerdoti sposati dei riti orientali, anche cattolici.
Le loro comunità faranno capo a “ordinariati personali” retti da vescovi non sposati ma celibi, anche qui in linea con la prassi costante delle Chiese cattoliche e ortodosse.
Per le liturgie continuerà a valere il rituale anglicano, peraltro già molto simile a quello cattolico.
Si calcola che in lista di attesa vi siano circa trenta vescovi e un centinaio di preti, con le rispettive comunità.
Metro di misura della conversione sarà l’accettazione del primato del papa e la condivisione della dottrina espressa nel Catechismo della Chiesa Cattolica.
In ogni caso, le comunità pronte a passare alla Chiesa cattolica fanno parte dell’ala “tradizionalista” della Comunione anglicana.
Così come tradizionaliste sono le comunità scismatiche lefebvriane con le quali Benedetto XVI sta intensificando gli sforzi perché rientrino nell’obbedienza di Roma.
E così come attaccate alla grande tradizione sono le Chiese ortodosse con cui l’incontro appare più fruttuoso, con l’attuale pontefice.
Dal 16 al 23 ottobre è in corso a Cipro il secondo round – il primo è stato a Ravenna nel 2007 – del dialogo tra cattolici ed ortodossi sulla questione del primato del papa, alla luce di come fu vissuto nel primo millennio.
Oggi più che mai, con Joseph Ratzinger papa, il cammino ecumenico appare non una rincorsa alla modernità, ma un ritrovarsi sul terreno della tradizione.
Qui di seguito, la dichiarazione congiunta diffusa a Londra il 20 ottobre dai capi della Comunione anglicana e della Chiesa cattolica d’Inghilterra e del Galles, più una nota retrospettiva emessa lo stesso giorno dalla congregazione per la dottrina della fede.
Sandro Magister La Chiesa romana accoglie il dissenso.
Quello degli anglicani tradizionalisti di Ludovica Eugenio A Roma è tempo di braccia aperte.
Ma solo a destra, a quanto sembra: oltre al dialogo avviato in questi giorni con gli scismatici lefebvriani in vista di una loro reintegrazione (v.
notizia su questo stesso numero), il Vaticano ha infatti deciso di fare posto, nella Chiesa cattolica, agli anglicani tradizionalisti che hanno chiesto di esservi accolti.
Il 20 ottobre scorso è stata annunciata la creazione di Ordinariati personali guidati da un vescovo per quegli anglicani che – riuniti sotto il cartello della Anglican Traditional Communion, soprattutto in seguito agli ultimi controversi sviluppi in alcune province anglicane (sacerdozio ed episcopato alle donne e ai gay, benedizione delle unioni omosessuali) – hanno chiesto già da qualche anno di entrare nella piena comunione con la Chiesa cattolica.
Questa disposizione è contenuta in una Costituzione Apostolica che sarà pubblicata prossimamente (si parla dei primi di novembre).
Il provvedimento, presentato in conferenza stampa dal prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede card.
William Levada, insieme al segretario mons.
Augustine Di Noia, segretario della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, ha preso in contropiede tanto il mondo cattolico quanto quello anglicano: se, infatti, negli anni passati sono stati autorizzati passaggi individuali nella Chiesa cattolica, specialmente in seguito alla decisione di far accedere le donne al sacerdozio, che tanto malcontento creò in seno all’ala più conservatrice della Chiesa anglicana, in questo caso la prospettiva è quella di un passaggio di interi gruppi o diocesi.
Il provvedimento è giunto a sorpresa, mettendo in serio disagio sia l’arcivescovo cattolico di Westminster mons.
Vincent Nichols, che il primate della Chiesa anglicana Rowan Williams, che da molto tempo sta tentando di salvare la Comunione anglicana dalla minaccia di uno scisma interno (ultimo, in ordine di tempo, l’intervento di Williams del luglio scorso, v.
Adista n.
91/09), per le logoranti tensioni che allontanano ogni giorno di più le diverse anime dell’anglicanesimo.
In una lettera scritta a vescovi e clero, Williams rivela tutto il suo sconcerto: “Mi dispiace – scrive – che non vi sia stata l’opportunità di avvertirvi prima.
Io stesso sono stato informato di questo annuncio molto tardi”.
Lo stesso 20 ottobre, in un comunicato stampa congiunto – evento, questo, del tutto singolare – i due leader religiosi inglesi hanno però cercato di dissimulare la propria sorpresa, affermando che “la Costituzione apostolica è un’ulteriore riconoscimento della sovrapposizione sostanziale tra Chiesa cattolica e tradizione anglicana per quanto riguarda la fede, la dottrina, e la spiritualità” e definendo il documento vaticano “conseguenza del dialogo ecumenico” condotto tra le due confessioni nel corso degli anni.
Gli anglicani che “passano” alla Chiesa cattolica – spiegano i due arcivescovi – “desiderano dichiarare che condividono una comune fede cattolica e accettano il ministero petrino così come voluto da Cristo per la sua Chiesa”: espressione, questa, che ha fatto fare un balzo sulla sedia a più di un anglicano, che vi ha visto una “capitolazione” di Williams al papa.
Ma per Williams l’annuncio del Vaticano non cambia le carte in tavola con la Chiesa cattolica: questo sviluppo non è, ha scritto nella lettera prima citata, “tesa a minacciare le relazioni esistenti tra le nostre due comunioni e non è un atto di proselitismo o di aggressione”; sarebbe un grave errore, inoltre, considerarlo una risposta alle difficoltà all’interno della Chiesa anglicana.
È rivolto, invece, a persone che avevano già “raggiunto la convinzione, in coscienza, che l’unità visibile con la Chiesa cattolica era ciò a cui Dio li stava chiamando”.
La Nota vaticana diffusa il 20 ottobre spiega in sintesi la natura dell’Ordinariato personale: “In questa Costituzione Apostolica – vi si legge – il Santo Padre ha introdotto una struttura canonica che provvede ad una tale riunione corporativa tramite l’istituzione di Ordinariati Personali, che permetteranno ai fedeli già anglicani di entrare nella piena comunione con la Chiesa Cattolica, conservando nel contempo elementi dello specifico patrimonio spirituale e liturgico anglicano”.
Concretamente, essa prevede “la possibilità dell’ordinazione di chierici sposati già anglicani come sacerdoti cattolici”, anche se, per ragioni storiche che abbracciano tanto la Chiesa cattolica quanto quella ortodossa, l’Ordinario dovrà essere un sacerdote o un vescovo non sposato (e dunque non potrà esserlo l’attuale leader della Traditional Anglican Communion, il vescovo anglicano australiano John Hepworth, ex prete cattolico, sposato due volte).
Quanto ai seminaristi, essi potranno ricevere la loro formazione accanto a quelli cattolici oppure in istituti separati.
Gli Ordinariati, si legge nella Nota, saranno istituiti previa consultazione con le Conferenze episcopali dei singoli Paesi e avranno una struttura simile a quella degli Ordinariati militari, senza chiedere la rinuncia ad un carattere prettamente anglicano nella spiritualità e nella liturgia: essa darà ai membri, ha garantito Levada, “l’opportunità di preservare quelle tradizioni anglicane che sono preziose per loro e conformi con la fede cattolica.
In quanto esprimono in un modo distinto la fede professata comunemente, tali tradizioni sono un dono da condividere nella Chiesa universale.
L’unione con la Chiesa non richiede l’uniformità che ignora le diversità culturali, come dimostra la storia del cristianesimo”.
Intanto, anche la Chiesa ortodossa in Italia, sulla scia della decisione presa dal Vaticano, ha deciso, “a fronte delle diverse sollecitazioni pervenute da membri di comunità anglicane e vetero-cattoliche italiane ed europee”, di avviare una pastorale per quei cristiani provenienti dall’anglicanesimo e dal vetero-cattolicesimo che desiderino ritornare all’Ortodossi a.
In una nota del 22 ottobre scorso, il Metropolita Basilio, primate della Chiesa ortodossa italiana, ricorda che “le Chiese ortodosse mantengono la piena successione apostolica e da sempre ammettono gli uomini sposati al sacerdozio: molte comunità di origine anglicana e vetero-cattolica sono rette da chierici sposati, che pertanto non avrebbe difficoltà a sottostare alla disciplina seguita anche dalla Chiesa ortodossa in Italia”.
in “Adista” – Notizie – n.
108 del 31 ottobre 2009 Quel Papa che pesca nell´acqua di destra di Hans Küng È una tragedia: dopo le offese già arrecate da Papa Benedetto XVI agli ebrei e ai musulmani, ai protestanti e ai cattolici riformisti, ora è la volta della Comunione Anglicana.
Essa conta pur sempre 77milioni di aderenti ed è la terza confessione cristiana, dopo la chiesa cattolica romana e quella ortodossa.
Cosa è successo? Dopo aver reintegrato l´antiriformista Fraternità San Pio X, ora Benedetto XVI vorrebbe rimpolpare le schiere assottigliate dei cattolici romani anche con anglicani simpatizzanti di Roma.
I sacerdoti e i vescovi anglicani dovrebbero potersi convertire più facilmente alla chiesa cattolica, mantenendo il proprio status, anche di sposati.
Tradizionalisti di tutte le chiese, unitevi – sotto la cupola di San Pietro! Vedete: il pescatore di uomini pesca soprattutto sulla sponda destra del lago.
Ma lì l´acqua è torbida.
Questo atto romano rappresenta niente meno che un drastico cambio di rotta: via dalla consolidata strategia ecumenica del dialogo diretto e di una vera riconciliazione.
E verso una pirateria non ecumenica di sacerdoti, cui viene persino risparmiato il medioevale obbligo di celibato, solo per render loro possibile un ritorno a Roma sotto il primato papale.
Chiaramente l´attuale arcivescovo di Canterbury, il Dr.
Rowan Williams, non era all´altezza della scaltra diplomazia vaticana.
Nel suo voler ingraziarsi il Vaticano apparentemente non ha compreso le conseguenze della pesca papale in acque anglicane.
In caso contrario non avrebbe firmato il comunicato minimizzante dell ´arcivescovo cattolico di Westminster.
Le prede nella rete di Roma non capiscono che nella chiesa cattolica romana saranno solo preti di seconda classe, e che alle loro funzioni i cattolici non possono partecipare? Il comunicato fa sfacciatamente riferimento ai documenti realmente ecumenici della Anglican Roman Catholic International Commission (Arcic), elaborati in anni e anni di laboriosi negoziati tra il romano Segretariato per l´Unione dei Cristiani e l´anglicana Conferenza di Lambeth: sull ´Eucarestia (1971), sull´ufficio e l´ordinazione (1973) nonché sull´autorità nella Chiesa (1976/81).
Gli esperti però sanno che questi tre documenti, a suo tempo sottoscritti da entrambe le parti, non sono mirati alla pirateria, bensì alla riconciliazione.
Questi documenti di vera riconciliazione offrono infatti la base per il riconoscimento delle ordinazioni anglicane, delle quali Papa Leone XIII nel 1896 aveva negato la validità con argomentazioni poco convincenti.
Dalla validità delle ordinazioni anglicane deriva anche la validità delle celebrazioni eucaristiche anglicane.
Sarebbe così possibile una reciproca ospitalità eucaristica, una intercomunione, un lento processo di unificazione tra cattolici e anglicani.
Ma la vaticana Congregazione per la dottrina della fede fece all´epoca in modo che questi documenti di riconciliazione sparissero il più rapidamente possibile nelle segrete del vaticano.
«Chiudere nel cassetto», si dice.
«Troppa teologia küngiana», recitava all´epoca un comunicato riservato della agenzia di stampa cattolica Kna.
In effetti avevo dedicato l´edizione inglese del mio libro «La Chiesa» all´allora Arcivescovo di Canterbury, Dr.Michael Ramsey in data 11 Ottobre 1967, quinto anniversario dell´apertura del concilio Vaticano secondo: nella «umile speranza che nella pagine di questo libro si ponga una base teologica per un accordo tra le chiese di Roma e Canterbury».
Vi si trova anche la soluzione alla spinosa questione del primato del papa, che da secoli divide queste due chiese, ma anche Roma dalle chiese dell´Est e dalle chiese riformiste.
Una «Ripresa della comunità ecclesiale tra la chiesa cattolica e la chiesa anglicana sarebbe possibile», se «da un lato alla chiesa d´Inghilterra fosse garantito di poter mantenere il proprio attuale ordine ecclesiale sotto il primato di Canterbury e dall´altro la chiesa d´Inghilterra riconoscesse il primato pastorale del soglio di Pietro come istanza superiore di mediazione e conciliazione tra le Chiese».
«Così», speravo io all´epoca, «dall´impero romano nascerà un Commonwealth cattolico!» Ma papa Benedetto vuole assolutamente restaurare l´impero romano.
Alla Comunione Anglicana non fa alcuna concessione, intende piuttosto mantenere per sempre il centralismo medioevale romano, – anche se impedisce un accordo delle chiese cristiane su questioni fondamentali.
Il primato del papa – dopo Papa Paolo VI bisogna ammetterlo il «grande scoglio» sulla via verso l ´unità della chiesa – non agisce apparentemente come «Pietra dell´unità».
Torna in auge il vecchio invito al «ritorno a Roma», ora attraverso la conversione soprattutto di sacerdoti, possibilmente in massa.
A Roma si parla di mezzo milione di anglicani con venti o trenta vescovi.
E gli altri 76 milioni? Una strategia dimostratasi fallimentare nei secoli passati e che condurrà nel migliore dei casi alla nascita di una minichiesa anglicana «unita» a Roma in forma di diocesi personali (non territoriali).
Ma quali sono le conseguenze odierne di questa strategia? 1.
Ulteriore indebolimento della chiesa anglicana: In Vaticano gli antiecumenici giubilano per l ´afflusso di conservatori, nella chiesa anglicana i liberali esultano per l´esodo di disturbatori simpatizzanti cattolici.
Per la chiesa anglicana questa scissione implica un´ulteriore corrosione.
Essa soffre già in conseguenza della nomina inutilmente osteggiata di un pastore dichiaratamente omosessuale a vescovo in Usa – effettuata mettendo in conto lo scisma della sua diocesi e dell ´intera comunità anglicana.
La corrosione è stata rafforzata dall´atteggiamento discordante dei vertici ecclesiastici nei confronti delle coppie omosessuali: alcuni anglicani accetterebbero senz ´altro la registrazione civile con ampie conseguenze giuridiche (tipo diritto di successione) e con eventuale benedizione ecclesiastica, ma non un «matrimonio» (da millenni termine riservato all ´unione tra uomo e donna) con diritto di adozione e conseguenze imprevedibili per i figli.
2.
Generale disorientamento dei fedeli anglicani: L´esodo dei sacerdoti anglicani e la proposta loro nuova ordinazione nella chiesa cattolica romana solleva per molti fedeli (e pastori) anglicani un pesante interrogativo: l´ordinazione dei sacerdoti anglicani è valida? E i fedeli dovrebbero convertirsi alla chiesa cattolica assieme al loro pastore? Che ne è degli immobili ecclesiatici e degli introiti dei pastori? 3.
Sdegno del clero e del popolo cattolico.
L´indignazione per il persistere del no alle riforme si è diffusa anche tra i più fedeli membri della chiesa.
Dopo il Concilio molte conferenze episcopali, innumerevoli pastori e credenti hanno chiesto l´abrogazione del divieto medioevale di matrimonio per i sacerdoti, che sottrae parroci già quasi a metà delle nostre parrocchie.
Ma non fanno che urtare contro il rifiuto caparbio e ostinato di Ratzinger.
Ed ora i preti cattolici devono tollerare accanto a sé pastori convertiti sposati? Cosa devono fare i preti che desiderano il matrimonio, forse farsi prima anglicani, sposarsi, e poi ripresentarsi? Come già nello scisma tra Oriente e Occidente (XI sec.), ai tempi della Riforma (XVI sec.) e nel primo Concilio vaticano (XIX sec.) la fame di potere di Roma divide la cristianità e nuoce alla sua chiesa.
Una tragedia.
in “la Repubblica” del 28 ottobre 2009 Porte aperte agli anglicani di Jérôme Anciberro Chi sono questi anglicani che presto entreranno nel grembo della Chiesa cattolica, come annunciato il 20 ottobre dalla Congregazione romana per la dottrina della fede? I membri della Traditional Anglican Communion (Comunione anglicana tradizionale, TAC), sarebbero la versione anglicana dei lefebvriani cattolici, come suggeriscono certi commentatori colpiti dalla coincidenza con l’inizio delle discussioni dottrinali tra Roma e gli integralisti della Fraternità San Pio X? Certamente no.
La dissidenza, o in ogni caso, la differenza, non ha nulla di straordinario per gli anglicani.
Diverse sensibilità (anglo-cattolica, calvinista, evangelica) hanno sempre coabitato in seno alla Comunione anglicana che è diretta solo simbolicamente dall’arcivescovo di Canterbury.
Numerose correnti protestanti (metodisti, in parte i battisti…) provengono dall’anglicanesimo.
Neanche i passaggi di laici o di preti anglicani al cattolicesimo sono rari.
Il grande teologo cattolico e cardinale John Henry Newman (1801-1890) era un ex prete anglicano.
Identità Da una trentina d’anni sono i problemi di morale sessuale (omosessualità in particolare) e dei ministeri (ordinazione delle donne), più dei problemi liturgici o dogmatici ad essere al centro dei dibattiti nell’anglicanesimo e ad aver ampiamente determinato le opposizioni interne, giungendo a determinare l’uscita dalla Comunione anglicana.
La TAC, che ci tiene alla sua identità anglocattolica e raggruppa solo alcune decine di migliaia di fedeli (essa stessa ne annuncia 400 000 (1) ), è quindi uno dei molteplici raggruppamenti di Chiese che hanno rotto con la Comunione anglicana a partire dalla metà degli anni ’70 a proposito dell’ordinazione delle donne.
Ma anche buona parte delle Chiese rimaste nella Comunione anglicana, che siano di sensibilità anglo-cattolica o protestante, condividono le visioni dei secessionisti su questa stessa questione e su altre (rifiuto delle benedizioni di coppie omosessuali, per esempio).
L’incontro dei Global South Anglicans, che raggruppano in seno alla Comunione anglicana le Chiese del Sud (tra le altre…) che rifiutano le innovazioni delle Chiese del Nord, ha tuttavia esortato i fedeli in un comunicato pubblicato il 25 ottobre a “restare fermi” sull’eredità anglicana e a proseguire la loro “vocazione comune”.
Niente indica quindi per il momento che un movimento di fondo dell’anglicanesimo “conservatore” sia in cammino verso il cattolicesimo.
Altro elemento di complessità: non sembra che i tradizionalisti della TAC abbiano il minimo problema con il Vaticano II…
Resta il fatto che la risposta positiva di Roma alla richiesta della TAC di rientrare nella Chiesa cattolica e l’annuncio di soluzioni canoniche che permettano un’accoglienza più ampia degli anglicani in generale apra delle prospettive per il cattolicesimo, per esempio sulla questione dei preti sposati, una specificità anglicana alla quale i nuovi entranti non hanno alcuna ragione di rinunciare.
Ma bisognerà aspettare la pubblicazione tra qualche giorno della costituzione apostolica annunciata da Roma per saperne di più.
(1) La Comunione anglicana invece riunisce 77 milioni di fedeli.
in “Témoignage chrétien” n° 3368 del 29 ottobre (traduzione: www.finesettimana.org Lontano dalla realtà di Giovanni Maria Vian Ancora una volta una decisione di Benedetto XVI torna a essere dipinta con tinte forti, precostituite e soprattutto lontanissime dalla realtà.
A farlo è purtroppo, di nuovo, Hans Küng, il teologo svizzero suo antico collega e amico, che lo stesso Papa nel 2005, solo cinque mesi dopo la sua elezione, volle incontrare, in amicizia, per discutere delle comuni basi etiche delle religioni e del rapporto tra ragione e fede.
E questo benché nel 1979, agli inizi del pontificato di Giovanni Paolo II, Küng fosse stato sanzionato per alcune sue posizioni dalla Congregazione per la Dottrina della Fede (allora guidata dal cardinale croato Franjo Seper) che, al termine d’un procedimento iniziato negli ultimi anni di Paolo VI, dichiarò di non poterlo considerare un teologo cattolico.
Da allora, più volte, Küng, infallibilmente ripreso da influenti media, è tornato a criticare, con asprezza e senza fondamento, Benedetto XVI.
Come fa adesso – rilanciato con clamore in Inghilterra da “The Guardian” e in Italia da “la Repubblica”, che certo non resteranno le uniche testate nel mondo a pubblicare il suo articolo – a proposito dell’annuncio, davvero storico, da parte della Santa Sede della prossima costituzione di strutture canoniche che permetteranno l’entrata nella comunione con la Chiesa cattolica di molti anglicani.
Un gesto che è volto a ricostituire l’unità voluta da Cristo e riconosce il lungo e faticoso cammino ecumenico compiuto in questo senso, ma che viene distorto e rappresentato enfaticamente come se si trattasse di un’astuta operazione di potere da leggersi in chiave politica, naturalmente di estrema destra.
Non vale proprio la pena sottolineare le falsità e le inesattezze di questo ultimo scritto di Küng, i cui toni ancora una volta non fanno onore alla sua storia personale e in alcuni tratti rasentano la comicità, ignorando volutamente i fatti e arrivando persino a dileggiare il primate anglicano, che ha firmato una dichiarazione congiunta con l’arcivescovo di Westminster.
Purtroppo però l’articolo del teologo svizzero circolerà molto e contribuirà a una rappresentazione tanto fosca quanto infondata della Chiesa cattolica e di Benedetto XVI.
Per riassumere l’attuale situazione a cui sarebbe giunta con l’attuale Papa la Chiesa cattolica Küng scrive che si tratta di una tragedia.
Non occorre scomodare termini tanto iperbolici per definire il suo articolo, anche se resta molta amarezza di fronte a questo ennesimo gratuito attacco alla Chiesa di Roma e al suo indiscutibile impegno ecumenico.
in “L’Osservatore Romano” del 29 ottobre 2009 La Chiesa insorge contro il teologo Küng di Orazio La Rocca «Lontano dalla realtà».
«Critiche ingiuste, aspre e senza fondamento», ma soprattutto «false e inesatte».
Se non è una scomunica nel senso più classico del termine, poco ci manca.
Anche perché, a richiamare con uno sferzante commento il teologo svizzero Hans Küng per le accuse rivolte – ieri su Repubblica – al Papa in seguito alla decisione di accogliere nella Chiesa cattolica i tradizionalisti anglicani (compresi vescovi, pastori e seminaristi sposati), è l’Osservatore Romano, il quotidiano della Santa Sede oggi in edicola.
L’altolà arriva sotto forma di editoriale pubblicato, autorevolmente, in prima pagina e firmato dal direttore del giornale vaticano, lo storico Giovanni Maria Vian, il quale – fin dalle prima battute – lamenta che «ancora una volta una decisione di Benedetto XVI torna a essere dipinta con tinte forti, precostituite e soprattutto lontanissime dalla realtà».
Da qui il titolo dell’editoriale con un eloquente «Lontano dalla realtà» che, in un certo senso, controbatte l’altrettanto eloquente titolo del testo di Küng – «Quel Papa che pesca nell’acqua di destra» – nel quale si accusa, tra l’altro, Ratzinger di voler «rimpolpare» le file cattoliche aprendo le porte della Chiesa di Roma ai gruppi più reazionari e conservatori, come dimostra la cancellazione della scomunica ai vescovi lefebvriani ed ora col sì agli anglicani tradizionalisti.
Decisione, quest’ultima, definita da Küng «una tragedia» per l’ecumenismo «dopo le offese già arrecate da Benedetto XVI agli ebrei e ai musulmani, ai protestanti e ai cattolici riformisti».
Critiche, richiami ed accuse seccamente rispedite al mittente, anche se il giornale della Santa Sede non nasconde il timore che «l’articolo circolerà molto e contribuirà a una rappresentazione tanto fosca quanto infondata della Chiesa cattolica e di Benedetto XVI».
Un testo scritto – per di più – da un teologo, Hans Küng, «suo antico collega e amico, che lo stesso Papa nel 2005, solo cinque mesi dopo la sua elezione, volle incontrare, in amicizia, per discutere delle comuni basi etiche delle religioni e del rapporto tra ragione e fede».
Un incontro clamoroso ed inatteso «benché nel 1979, agli inizi del pontificato di Giovanni Paolo II, Küng – ricorda Vian con una malcelata vena polemica – fosse stato sanzionato per alcune sue posizioni dalla Congregazione per la Dottrina della Fede (allora guidata dal cardinale croato Franjo Seper) che, al termine d’un procedimento iniziato negli ultimi anni di Paolo VI, dichiarò di non poterlo considerare un teologo cattolico».
«Da allora – prosegue il direttore del quotidiano pontificio – più volte, Küng, infallibilmente ripreso da influenti media, è tornato a criticare, con asprezza e senza fondamento, Benedetto XVI».
«Come fa adesso, rilanciato con clamore in Inghilterra da The Guardian e in Italia da la Repubblica, che certo – teme Vian – non resteranno le uniche testate nel mondo a pubblicare il suo articolo, a proposito dell’annuncio, davvero storico, da parte della Santa Sede della prossima costituzione di strutture canoniche che permetteranno l’entrata nella comunione con la Chiesa cattolica di molti anglicani.
Un gesto che è volto a ricostituire l’unità voluta da Cristo e riconosce il lungo e faticoso cammino ecumenico compiuto in questo senso, ma che viene distorto e rappresentato enfaticamente come se si trattasse di un’astuta operazione di potere da leggersi in chiave politica, naturalmente di estrema destra».
«Non vale proprio la pena sottolineare le falsità e le inesattezze di questo ultimo scritto di Küng, i cui toni ancora una volta non fanno onore alla sua storia personale…», conclude Vian, dopo aver espresso tutta la sua «amarezza di fronte a questo ennesimo gratuito attacco alla Chiesa di Roma e al suo indiscutibile impegno ecumenico».
in “la Repubblica” del 29 ottobre 2009

Da internauti a “infonauti”

GUARDA LE TABELLE I giovani sono protagonisti importanti di questa dinamica.
In sette casi su dieci utilizzano quotidianamente internet per informarsi, al pari della Tv.
E molto più del giornale cartaceo (19%) o del satellite (37%).
E’ un dato interessante se consideriamo che vengono spesso rimproverati di informarsi poco.
Evidentemente bypassano i canali tradizionali ricorrendo alla rete.
Tutto questo avviene, secondo l’indagine Demos-Coop, nel quadro di un utilizzo più diffuso delle tecnologie digitali per informarsi.
Rispetto al 2007 è aumentato l’uso della Tv satellitare e, del digitale terrestre (dal 19% al 41%: +22 punti percentuali, dovuto anche al passaggio di alcune regioni a questa tecnologia) e di Internet (+13 punti percentuali, dal 25% al 38%).
Gli altri media – tv, radio, stampa quotidiana e settimanale – sembrano ormai aver raggiunto un livello di saturazione.
I più giovani sono nativi digitali, come li ha definti Marc Prensky.
Sono fruitori “impegnati” di questa tecnologia.
Il 74% di chi ha un’età compresa tra 15 e 24 anni (+19 punti percentuali rispetto al 2007) e il 63% di quelli tra 25 e 34 anni (+15 punti percentuali rispetto al 2007) dichiarano che per informarsi utilizzano internet “tutti i giorni”.
Questo stile, come prevedibile, si riduce progressivamente nelle successive coorti di età.
Fino ad arrivare al 7% tra quanti hanno superato i 64 anni.
Ciò è dovuto al fatto che le risorse individuali necessarie a fare di internet uno strumento di uso quotidiano – non solo di informazione ma anche di lavoro e svago – sono meno disponibili presso i settori più adulti della popolazione.
I quali privilegiano la Tv o i giornali.
La radio, invece, sembra essere utilizzata in particolare da chi ha un’età compresa tra 35 e 44 anni.
I giovani internauti, dunque, non utilizzano solo chat, social network, blog, e-mail.
Ascoltano la radio e guardano la tivù in streaming, leggono i giornali on-line.
La rete è diventata la chiave di accesso a diverse fonti informative.
Internet caratterizza il loro stile di informazione, per questo oltre a internauti potremmo definirli info-nauti.
Ma qual è il loro profilo? Si osserva una maggior presenza di persone di genere maschile, con un grado elevato di scolarizzazione, di studenti, dirigenti e impiegati.
Relativamente all’identità politica appare più pronunciata quella di centrosinistra.
Dall’indagine si rileva una significativa differenza generazionale nell’approccio agli strumenti di informazione.
Gli utenti più anziani tendono ad essere fruitori “passivi”, si affidano alla rigidità dei palinsesti della tv tradizionale e delle pagine stampate dei quotidiani cartacei.
Gli info-nauti invece valorizzano l’interattività e la flessibilità dei sistemi digitali di informazione.
Sono fruitori “attivi”, che costruiscono in modo individualizzato l’approccio ai new media.
Un altro punto importante che emerge dall’indagine riguarda il nesso democrazia e comunicazione; i cittadini intervistati ritengono che indipendenza e libertà di informazione oggi appartengano in primo luogo alla rete internet (35%).
Poi alla Tv (25%), quindi ai quotidiani (20%).
Generalmente nella credibilità di un media si riflette la conoscenza e l’utilizzo dello stesso.
Per questo il dato su internet appare particolarmente significativo, perché è meno utilizzato della Tv (87% vs.
38%), ma nonostante ciò viene ritenuto più democratico.
Detto in altri termini: si guarda la Tv ma non ci si fida troppo.
Come prevedibile dietro questa opinione è fondamentale il fattore età.
Indicano la Tv come canale più libero e indipendente il 18% dei giovani (15-24 anni), dato che cresce progressivamente fino a raddoppiarsi negli over 64 (34%).
Tendenza inversa, e più accentuata, per quanto riguarda internet: per il 59% dei giovani è lo strumento di informazione più democratico, idea condivisa solo dal 6% dei più anziani.
Gli info-nauti, in modo compatto e ben più della media (57% vs.
35%), valorizzano il potenziale democratico di internet.
Ma presentano anche orientamenti diversi su specifiche questioni politiche.
Gli info-nauti di sinistra esprimono un giudizio più severo sul tema della libertà di informazione in Italia: l’87% ritiene che il conflitto di interesse che riguarda il premier Berlusconi “danneggi la libertà di informazione”.
La stessa quota (87%) sostiene inoltre che questa situazione “condizioni la politica”.
Si fermano invece al 26% e al 42% gli info-nauti di destra che condividono queste due opinioni.
Inoltre, gli info-nauti di sinistra si dicono più interessati alla politica, guardano meno la televisione e, conseguentemente, si informano meno attraverso questo media (compreso il satellite e il digitale terrestre).
Seguono di più i giornali e la radio.
Da un lato, quindi, i giovani si fanno promotori di innovazione, privilegiando la rete come arena del confronto democratico.
Dall’altro, sono anche portatori di elementi tradizionali.
Le classiche fratture ideologiche si riflettono infatti nel mondo dei nuovi media.
Gli info-nauti si configurano come estensione, nel virtuale, della politica reale.
Repubblica (29 ottobre 2009) La tecnologia digitale ha rivoluzionato il modo di informarsi degli italiani.
L’utilizzo di internet e della Tv satellitare è in continuo aumento.
Ma tenersi al corrente su questioni di pubblico interesse vuol dire prendere parte alla vita di una comunità.
Significa essere cittadini, partecipare.
Oggi, dunque, il nesso tra Internet e informazione (e politica) desta, più che in passato, attenzione e interesse. 

Testimoni del nostro tempo: John Henry Newman

Quando Newman fu elevato alla dignità cardinalizia (1879), scelse come motto le parole cor ad cor loquitur, il cuore parla al cuore.
Tale motto ci presenta la figura di Newman come uomo di dialogo.
In questo contesto può essere opportuno ricordare tre caratteristiche che hanno contraddistinto l’impegno dialogico di Newman.
 La prima caratteristica è la passione per la verità.
Sin dalla sua “prima conversione” (1816) Newman cercò la luce della verità e seguì questa “luce benevola” con grande fedeltà.
Promosse il Movimento di Oxford (1833) per riportare la Chiesa d’Inghilterra alla libertà e alla verità delle origini.
Si convertì al cattolicesimo proprio perché trovò in esso la pienezza della verità (1845).
Nel suo lavoro su Lo sviluppo della dottrina cristiana scrisse:  “Vi è una verità; vi è una sola verità; l’errore religioso è per sua natura immorale; i seguaci dell’errore, a meno che non ne siano consapevoli, sono colpevoli di esserne sostenitori; si deve temere l’errore; la ricerca della verità non deve essere appagamento di curiosità; l’acquisizione della verità non assomiglia in nulla all’eccitazione per una scoperta; il nostro spirito è sottomesso alla verità, non le è, quindi, superiore ed è tenuto non tanto a dissertare su di essa, ma a venerarla (…) Questo è il principio dogmatico, che è principio di forza”.
Newman fu un appassionato ricercatore e veneratore della verità:  nell’impegno personale, nei rapporti con gli altri, nel confronto con le scienze, nella lotta contro la faziosità delle ideologie del suo tempo.
In modo lungimirante presentì il sorgere e il diffondersi di teorie relativistiche, secondo le quali si danno soltanto opinioni diverse, non verità che richiedono un assenso incondizionato.
Newman fu dominato dalla persuasione che la verità esiste, che solo dalla ricerca della verità fluisce il vero dialogo, che solo la verità ci fa autentici e liberi e ci apre la strada verso la realizzazione di noi stessi.
Tale passione per la verità spinse Newman a un costante impegno per la formazione integrale dell’uomo.
Affermò in un sermone:  “Voglio che un intellettuale laico sia religioso e un devoto ecclesiastico sia intellettuale”.
Quando gli fu affidata la responsabilità pastorale per i fedeli di Littlemore, presso Oxford, fece costruire in quel villaggio sia una scuola sia una Chiesa – segno eloquente del suo impegno per la formazione integrale delle persone.
Nel suo saggio su L’idea di Università ribadì che le molteplici dimensioni del sapere formano un tutt’uno e non possono essere separate, frammentate.
L’università ha il compito di offrire una formazione universale, non escludendo dal confronto sereno e aperto nessuna dimensione del sapere.
Per Newman fu evidente che a detta formazione universale appartiene anche quella etico-religiosa, la quale possiede una sua propria razionalità, che va rispettata, difesa e promossa.
Quanto alla formazione dei fedeli laici, che gli stava molto a cuore, Newman scrisse:  “Voglio un laicato non arrogante, non precipitoso nel parlare, non litigioso, ma fatto di uomini che conoscono la loro religione, che vi entrano dentro, che sanno benissimo dove si trovano, che sanno quello che possiedono e quello che non possiedono, che conoscono la propria fede così bene che sono in grado di spiegarla, che ne conoscono la storia tanto a fondo da poterla difendere.
Voglio un laicato intelligente e ben istruito (…) Desidero che allarghiate le vostre conoscenze, coltiviate la ragione, siate in grado di percepire il rapporto fra verità e verità, che impariate a vedere le cose come stanno, come la fede e la ragione si relazionino fra di loro, quali siano i fondamenti e i principi del cattolicesimo (…) Sono sicuro che non diventerete meno cattolici familiarizzandovi con questi argomenti, purché manteniate viva la convinzione che lassù c’è Dio, e ricordiate che avete un’anima che sarà giudicata e dovrà essere salvata”.
Newman si distinse per uno straordinario impegno formativo, valorizzando pienamente lo sviluppo di tutte le scienze e ribadendo nel contempo il ruolo insostituibile che svolgono la fede e la morale per la crescita integrale della persona e per il bene della società.
L’impegno di Newman per la formazione trovò espressione in una terza caratteristica:  la sua premura di stabilire relazioni personali.
Guidando il Movimento di Oxford, ribadì l’importanza della testimonianza personale.
In tutta la sua vita accompagnò molti nel loro cammino umano e spirituale.
Scrisse più di ventimila lettere che costituiscono una prova impressionante del suo zelo per le anime, della sua capacità di dialogare e di relazionarsi con altri.
Uno dei suoi Sermoni all’Università di Oxford si intitola Il contagio personale della verità.
In tale sermone Newman parte dalla constatazione che nessuno può essere conquistato alla causa della verità con le sole argomentazioni razionali.
La verità, così scrive, “è rimasta salda nel mondo non per virtù di un sistema, non grazie a libri o argomentazioni, non per merito del potere temporale, ma grazie all’influenza personale di uomini (…) che ne sono in pari tempo i maestri e i modelli”.
Newman invita tutti a occuparsi della verità sul piano della ricerca intellettuale, ma al tempo stesso sottolinea che influisce di più – sul permanere, sullo svilupparsi e sul comunicarsi della verità – colui che vive la verità e ne diventa un testimone.
Scrisse circa la forza persuasiva di un tale testimone:  “Mentre egli è sconosciuto al mondo, nell’ambito di quanti lo conoscono egli ispirerà ben altri sentimenti che non sia solita destare la mera superiorità intellettuale.
Gli uomini illustri agli occhi del mondo sono molto grandi alla distanza.
Avvicinati, rimpiccioliscono.
Ma l’attrattiva che si sprigiona da una santità ignara di essere tale è di una forza irresistibile; persuade i deboli, i timidi, gli incerti, chi è alla ricerca della verità”.
Non deve meravigliarci, pertanto, che, quando fu onorato con la porpora, Newman scelse, come motto, le parole cor ad cor loquitur.
Secondo lui, la verità viene trasmessa soprattutto cor ad cor:  in modo personale, tramite l’esempio, la fedeltà e l’amore di testimoni convinti e credibili.
Il processo di beatificazione di Newman, iniziato già nel 1958, era ormai prossimo a concludersi nel momento in cui si è celebrato il nostro convegno; a pochi mesi di distanza, in data 3 luglio 2009, Benedetto XVI ha autorizzato la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare il decreto riguardante un miracolo, attribuito proprio all’intercessione del venerabile servo di Dio John Henry Newman.
Fra qualche mese, quindi, verrà proclamato beato.
L’avvenimento conferma e propone alla venerazione di tutta la Chiesa ciò di cui sono da sempre ben consapevoli studiosi e amici di Newman, e quanti si accostano senza pregiudizi alla sua figura e ai suoi scritti:  il noto convertito inglese non fu soltanto un pensatore con doti eccezionali, ma un uomo nel quale la genialità del pensiero faceva tutt’uno con la santità della vita quotidiana.
 Quando egli in tarda età sentì dire che l’avrebbero chiamato santo, scrisse:  “Non sono portato a fare il santo, è brutto dirlo.
I santi non sono letterati, non amano i classici, non scrivono romanzi.
Sono forse, alla mia maniera, abbastanza buono, ma questo non è alto profilo (…) Mi basta lucidare le scarpe ai santi, se san Filippo in cielo avesse bisogno di lucido da scarpe”.
Lungo tutta la sua vita Newman pensò di essere ben lontano dalla perfezione cristiana.
Ma dalla sua “prima conversione” la sua aspirazione fu tutta rivolta a Dio, che aveva riconosciuto come il fulcro della sua vita.
Da allora in poi seguì due principi:  “La crescita è la sola dimostrazione della vita” e “la santità piuttosto che la pace”.
Il genio di Newman, sebbene sempre ammirato e venerato, fu riscoperto dal concilio Vaticano II, di cui è stato un precursore profetico.
Jean Guitton scrisse in proposito nel 1964:  “I grandi geni sono dei profeti sempre pronti a rischiarare i grandi avvenimenti, i quali, a loro volta, gettano sui grandi geni una luce retrospettiva che dona loro un carattere profetico.
E come il rapporto che intercorre tra Isaia e la passione di Cristo, reciprocamente illuminati.
Così Newman rischiara con la sua presenza il Concilio e il Concilio giustifica Newman”.
Il Vaticano II ha recepito e consacrato tante intuizioni di Newman, ad esempio sul rapporto tra fede e ragione, sul significato della coscienza, sull’educazione universitaria, sul valore dei Padri e della storia in generale, sul mistero della Chiesa, sulla missione dei laici, sull’ecumenismo, sul dialogo con il mondo contemporaneo – grandi tematiche che vengono ampiamente trattate nel presente volume.
Nei pronunciamenti del Magistero postconciliare la dottrina di Newman viene continuamente valorizzata.
Basta menzionare alcuni documenti di particolare rilevanza dottrinale in cui si trovano riferimenti espliciti al pensiero di Newman:  le Lettere encicliche Veritatis splendor e Fides et ratio come anche il Catechismo della Chiesa Cattolica, che contiene non meno di quattro testi di Newman (cfr.
nn.
157, 1723, 1778, 2144) – un fatto notevole, perché di solito il Catechismo cita solo autori già canonizzati.
Accanto al suo pensiero forte, gli ultimi Pontefici presentano come esemplare anche la vita di Newman.
Limitiamoci a citare tre testi significativi.
In un discorso del 7 aprile 1975, rivolto ai partecipanti di un simposio accademico Paolo VI disse:  Newman, “che era convinto di essere fedele tutta la sua vita e con tutto il suo cuore votato alla luce della verità, diventa oggi un faro sempre più luminoso per tutti quelli che sono alla ricerca di un preciso orientamento e di una direzione sicura attraverso le incertezze del mondo moderno – un mondo che egli stesso profeticamente aveva preveduto”.
In una lettera del 14 maggio 1979, indirizzata all’arcivescovo di Birmingham in occasione del centenario del cardinalato di Newman, Giovanni Paolo II scrisse:  “L’elevazione di Newman a cardinale, come la sua conversione alla Chiesa cattolica, è un avvenimento che trascende il semplice fatto storico e l’importanza che ciò ha avuto per il suo Paese.
I due eventi hanno inciso profondamente nella vita della Chiesa molto al di là dei confini dell’Inghilterra.
Il significato provvidenziale e l’importanza di questi eventi per la Chiesa in generale sono stati più chiaramente compresi nel corso di questo nostro secolo.
Lo stesso Newman, con visione quasi profetica, era convinto che egli stava lavorando e soffrendo per la difesa e la promozione della causa della religione e della Chiesa non solo nel periodo a lui contemporaneo ma anche per quello futuro.
La sua influenza ispiratrice di grande maestro della fede e di guida spirituale viene percepita sempre più chiaramente proprio nei nostri giorni”.
Il cardinale Joseph Ratzinger, ora Benedetto XVI, disse in una conferenza tenuta nel 1990, parlando del suo incontro con Newman nel seminario di Frisinga:  “La dottrina di Newman sulla coscienza divenne per noi il fondamento di quel personalismo teologico, che ci attrasse tutti con il suo fascino.
La nostra immagine dell’uomo, così come la nostra concezione della Chiesa, furono segnate da questo punto di partenza.
Avevamo sperimentato la pretesa di un partito totalitario, che si concepiva come la pienezza della storia e che negava la coscienza del singolo.
Goering aveva detto del suo capo:  “Io non ho nessuna coscienza.
La mia coscienza è Adolf Hitler”.
L’immensa rovina dell’uomo che ne derivò ci stava davanti agli occhi.
Perciò era un fatto per noi liberante ed essenziale da sapere, che il “noi” della Chiesa non si fondava sull’eliminazione della coscienza, ma poteva svilupparsi solo a partire dalla coscienza.
Tuttavia proprio perché Newman spiegava l’esistenza dell’uomo a partire dalla coscienza, ossia nella relazione tra Dio e l’anima, era anche chiaro che questo personalismo non rappresentava nessun cedimento all’individualismo, e che il legame alla coscienza non significava nessuna concessione all’arbitrarietà”.
Nel famoso Biglietto-Speech, pronunciato in occasione del ricevimento della bolla di nomina a cardinale, Newman, guardando alla sua vita passata, confessò:  “Nel corso di lunghi anni ho fatto molti sbagli.
Non ho nulla dell’alta perfezione che si riscontra negli scritti dei santi, nei quali non ci possono essere errori; ma credo di poter affermare che in tutto ciò che ho scritto ho sempre perseguito nobili intenti, non ho cercato fini personali, ho tenuto una condotta ubbidiente, mi sono dimostrato disponibile a essere corretto, ho temuto l’errore, ho desiderato servire la santa Chiesa e ciò che ho raggiunto lo devo alla misericordia di Dio”.
Queste parole mostrano l’umiltà propria soltanto di un vero uomo di Dio.
Tutta la vita di Newman fu dedicata al servizio della verità e alla lotta contro il liberalismo religioso e morale (da non confondersi con il liberalismo politico), che considerava il più subdolo nemico della fede.
Ebbe uno spiccato senso della vicinanza di Dio, valorizzò pienamente la ragione e le capacità naturali dell’uomo, compì il suo dovere con grande competenza e dedizione, amò la Chiesa e toccò la coscienza e il cuore di tantissime persone di ogni ceto sociale.
Nei suoi ultimi anni condusse una vita di preghiera e di raccoglimento ancora più intensa.
Per la fedeltà alla chiamata di Dio dovette sopportare innumerevoli sofferenze che resero più nobili e più carichi di attrattiva perfino i tratti del suo volto.
Il quotidiano londinese “The Times” pubblicò il giorno seguente la morte di Newman, avvenuta l’11 agosto 1890, un lungo elogio funebre che terminava con le seguenti parole:  “Di una cosa possiamo essere certi, cioè che il ricordo di questa pura e nobile vita durerà e che (…) egli sarà santificato nella memoria della gente pia di molte confessioni in Inghilterra (…) Il santo che è in lui sopravvivrà”.
(©L’Osservatore Romano – 29 ottobre 2009) Il libro Una ragionevole fede raccoglie gli atti del convegno internazionale su John Henry Newman che si è svolto a Milano presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore il 26 e il 27 marzo 2009 (Milano, Vita e Pensiero, 2009, pagine 252, euro 20).
Pubblichiamo quasi per intero la prefazione dei curatori.

Paideia e università

Pubblichiamo parte della prolusione tenuta dal cardinale patriarca di Venezia per il “Dies Academicus 2009-2010” della Pontificia Università Salesiana celebrato a Roma il 27 ottobre.
Sul sito www.angeloscola.it si può leggere il testo integrale.
Dall’inizio della sua esistenza e poi per tutta la vita, l’uomo si trova “gettato” in una trama di rapporti decisivi – a partire da quelli con i genitori, coi fratelli, coi nonni e oggi sempre più spesso coi bisnonni.
Il suo impatto con la realtà avviene all’interno di queste relazioni buone attraverso le quali è la stessa struttura intelligibile del reale a suggerire il metodo più adeguato per ogni avventura educativa.
Se è il reale a offrirsi al soggetto, compito dell’educatore sarà quello di introdurre l’educando a una esperienza integrale della realtà che lo guidi a decifrarne il significato.
Nel suo regalarsi alla mia libertà, la realtà mostra dunque di possedere già un lògos, è intelligibile, come già affermava il realismo classico.
Ciò domanda che l’io eviti di elaborare, in modo astratto (ab-[s]tractus/separato), una conoscenza da cui debbano poi scaturire delle applicazioni pratiche.
La realtà, offrendosi per farsi conoscere, domanda invece un atto di decisione del soggetto.
E così mette in luce la natura di persona del soggetto stesso.
Infatti è proprio l’atto “il particolare momento in cui la persona si rivela”.
Ci troviamo al cuore di quella che Giovanni Paolo II e von Balthasar definiscono un'”antropologia adeguata”.
Un’antropologia consapevole del fatto che quando l’uomo inizia a riflettere su di sé e sul reale può farlo solo dall’interno del suo “esserci”:  “Possiamo interrogarci sull’essenza dell’uomo soltanto nel vivo atto della sua esistenza.
Non esiste antropologia al di fuori di quella drammatica”.
Questo stesso fatto ha un’ulteriore conseguenza.
Uno dei tratti propri dell'”esserci” del soggetto nel mondo è la sua obiettiva impossibilità di fare completa astrazione dalla tradizione nella quale egli si trova inserito, e che gli si manifesta, innanzitutto, nella forma del suo essere parte di una catena di generazioni.
Lungi dal costituire un ostacolo ad una effettiva educazione e ad un pieno sviluppo della ragione – come il pensiero illuministico ci ha per troppo tempo spinto a pensare -, la tradizione offre all’educando un imprescindibile termine di paragone da spendere nel suo confronto con il reale.
Essa è il terreno fertile da cui germoglia l’ipotesi vitale di significato da verificare nel corso della vita e senza la quale una vera e propria conoscenza non è tecnicamente possibile.
In quanto “luogo di pratica e di esperienza”, secondo la felice definizione di M.
Blondel, la tradizione favorisce, come diceva Giovanni Paolo II, la scoperta della “genealogia” della persona che non è mai riducibile alla sua pura “biologia”.
Garantisce quell’esperienza compiuta di paternità-figliolanza senza la quale non si dà la persona con la sua capacità di esperienza e di cultura.
Avendo così indirettamente individuato l’insostituibile apporto della libertà umana, sempre storicamente situata, alla paideia, possiamo legittimamente accennare al fattore “critico” insito in ogni proposta educativa.
Mi riferisco alla categoria di rischio.
Il rischio non è irrazionalità, ma affiora nella sempre possibile scissione tra il giudizio della ragione e l’atto di volontà.
Nell’incontro del suo io tutto intero con tutta la realtà l’educando fa l’esperienza del rischio perché, pur percependo l’intrinseca positività della realtà stessa, può rimanere bloccato nell’adesione ad essa fino ad abbandonarsi alla tentazione dello scetticismo.
In questa prospettiva il rischio non è risparmiato neanche all’educatore che, nel comunicare all’educando l’ipotesi interpretativa che egli ritiene più appropriata per spiegare il reale, è chiamato ad auto-esporsi e quindi a rischiarsi.
Per questa ragione l’educazione ha una natura eminentemente dialogica.
Domanda sempre uno scambio tra l'”io” – l’educatore che propone e si propone – e il “tu” – l’educando che viene introdotto alla realtà totale.
E questo scambio avviene, costitutivamente, all’interno della trama di relazioni in cui educatore ed educando sono sempre inseriti.
Questo dialogo si realizza solo a condizione che, nel continuo e serrato paragone con il reale, venga messa in gioco la libertà di entrambi.
Esso mostra inoltre la natura “drammatica” del compito dell’educatore, il quale, spesso tentato di risparmiare all’educando il negativo, può, anche senza volerlo, giungere fino ad impedirgli di essere irriducibilmente “altro”  e  quindi integralmente  “li- bero”.
Il rischio (educativo) del possesso può essere battuto in breccia solo da quella che, insieme alla libertà, rappresenta un’altra dimensione costitutiva di ogni impresa educativa:  l’amore.
L’amore offerto all’educando, e che a sua volta muove l’educando a un appassionato confronto con il mondo che lo circonda, ha due volti.
Quello dell’educatore, che offre e comunica tutto se stesso nel testimoniare la verità come quell’ipotesi vitale di interpretazione della realtà che egli ha fatto propria; quello della realtà stessa, che, attestandosi come dono, è ultimamente segno del Mistero che si rivela a tutti gli uomini.
E la dinamica con cui la realtà si racconta non si esaurisce mai perché, alla fine, esprime l’amore con cui l’amato (l’uomo) e l’amante (il Mistero) incessantemente si interrogano.
Quando l’ipotesi unitaria e vitale di interpretazione della realtà è l’evento di Gesù Cristo che si comunica nella traditio eucaristica della Chiesa, allora essa appare inscindibilmente connessa con la virtù cristiana della carità.
San Giovanni Bosco ha ben descritto quale sia il caposaldo dell’educazione:  “Se perciò sarete veri padri dei vostri allievi, bisogna che voi ne abbiate anche il cuore(…) Ricordatevi che l’educazione è cosa del cuore, e che Dio solo ne è il padrone, e noi non potremo riuscire a cosa alcuna, se Dio non ce ne insegna l’arte, e non ce ne mette in mano la chiave”.
Queste parole sono nutrite ultimamente dalle relazioni intratrinitarie tra Padre e Figlio e Spirito che, per le missioni del Figlio e dello Spirito, assumono il volto della singolare esperienza del rapporto di Gesù col Padre (cfr.
Vangelo di Giovanni) e con lo Spirito.
Esse dicono dell’impossibilità di essere padri ed educatori se prima non ci si riconosce figli.
Non dico:  se non si riconosce di “essere stati figli”, bensì proprio di “essere figli”, qui e ora, di quel Padre che è fonte di ogni paternità e che in Cristo “ci ha scelti prima della creazione del mondo (…), predestinandoci a essere suoi figli adottivi”.
Indicati i tratti di una paideia come introduzione di tutta la persona alla realtà totale, possiamo ora domandarci in che misura l’università sia in grado di rispondere a questo compito.
A partire dall’epoca moderna l’università in ambito euroatlantico pratica di fatto l’esclusione dei saperi connessi con tutte le questioni ultime, specie se lette nella prospettiva della rivelazione, perché sono ritenute estranee a una rigorosa conoscenza scientifica.
“L’umanità preferirà rinunciare ad ogni domanda filosofica piuttosto che accettare una filosofia che trova la sua ultima risposta nella rivelazione di Cristo”.
Questa pesante emarginazione non si perita più, come un tempo, di mettere in discussione la legittimità delle questioni e delle domande circa le cose ultime (Comte).
Piuttosto nega la possibilità che la teologia, e anche la filosofia intesa in senso pieno, possano rispondervi adeguatamente.
Oggi sarebbe deputata a farlo, al loro posto, la tecnoscienza, la quale viene da più parti considerata l’unica depositaria della verità, sempre falsificabile (Popper), circa l’uomo e i fattori fondamentali della sua esistenza:  l’amore, la nascita, la morte.
È evidente come entrino qui in gioco radicali cambiamenti che hanno una stretta connessione con la questione educativa.
In questo quadro di rapida e affannosa transizione, come può la formazione universitaria essere pedagogicamente appropriata e non venir meno alla vocazione stessa della uni-versitas, cioè di luogo in cui i saperi vengono ricondotti a un unico principio sintetico di spiegazione della realtà? In passato questo ruolo di sintesi era toccato alla teologia, il cui metodo e i cui risultati facevano da orizzonte per le altre scienze.
Nell’epoca moderna, declinato il ruolo della teologia, ridotta al rango di una disciplina fra le altre e in molte parti espulsa dall’università, non decade tuttavia l’istanza di unificazione del reale.
Ma oggi il principio che assicuri l’universitas come comunità di ricerca non è più ricavato dall’accordo su un nucleo centrale di questioni ultime – sempre allo stesso tempo filosofiche e religiose – ma poggia sul consenso prodottosi intorno alle procedure di ricerca.
La scientificità che accomuna le discipline universitarie non attiene più direttamente all’oggetto della conoscenza, cioè alla verità, ma solo alla metodologia di formulazione del discorso scientifico stesso.
Inevitabile conseguenza di questo approccio è che l’università cessa di essere luogo di ricerca e verifica di un’ipotesi veritativa ultima, e perciò di reale paideia, per ridursi unicamente a luogo di trasmissione di competenze che, pur non rinunciando a dire “qualcosa” di sempre provvisorio circa la verità – pensiamo al bìos, o alla “formazione dell’universo” – possiede solo un’utilità strumentale.
Ci troviamo qui di fronte ad un concetto di ragione estremamente limitato, che non tiene conto delle articolate modalità in cui si esercita il lògos umano.
Possiamo infatti individuare, sulla scorta di quanto già diceva Aristotele, almeno cinque forme, differenziate e irriducibili, di razionalità:  teorica-scientifica (scienza), teorica-speculativa (filosofia/teologia), pratica tecnica (tecnologia), pratica-morale (etica) e teorico-pratica espressiva (poetica).
Tutte queste dimensioni dovrebbero essere armonicamente e unitariamente coltivate dall’università.
Certo, nell’attuale panorama educativo non si può non tenere nella dovuta considerazione il fatto che il sistema universitario è per sua natura basato su una complessa articolazione di specifici programmi curriculari e di discipline differenziate.
Può pertanto apparire irrealistico perseguire in tempi ragionevoli l’individuazione di nuove basi per l’unità dell’oggetto del sapere, tanto più che va mantenuto il legittimo, e anzi necessario, rispetto per lo statuto particolare delle singole discipline secondo il principio popperiano di demarcazione.
Tuttavia quella del superamento della frammentarietà dell’oggetto del sapere è un’istanza oggi più sentita che sta conducendo cultori di molte materie a non limitarsi alla pura interdisciplinarietà.
A maggior ragione però, di fronte a una tale situazione, una adeguata educazione universitaria non potrà rinunciare da subito alla cura dell’unità del soggetto del sapere.
Ma su cosa fondare oggi l’unità del soggetto? Saggezza chiede che, senza confondere il nuovo con l’inedito, anche nel tempo presente si riconosca che essa si realizza a partire dall’assunzione di un’ipotesi esplicativa vitale del reale, che consenta di percepirlo nella sua totalità e di goderne.
Non si tratta di un puro esercizio intellettualistico, ma di un’esigenza che si impone ad ogni ricercatore e ad ogni docente e studente che sia lealmente impegnato con la sua materia di ricerca, di insegnamento e di studio.
Ogni disciplina, infatti, contiene al fondo una domanda di senso e di significato e perciò prima o poi suscita le irrinunciabili questioni che da sempre agitano il cuore dell’uomo:  Chi sono io? Da dove vengo? Quale destino mi aspetta? Chi alla fine mi assicura amandomi definitivamente – oltre la morte stessa? Le possibilità che uno sguardo unitario sul reale è in grado di dischiudere a un intelletto commosso sono ben descritte dalle parole assai attuali del cardinale J.H.Newman:  “Non c’è vero allargamento dello spirito se non quando vi è la possibilità di considerare una molteplicità di oggetti da un solo punto di vista e come un tutto; di accordare a ciascuno il suo vero posto in un sistema universale, di comprendere il valore rispettivo di ciascuno e di stabilire i suoi rapporti di differenza nei confronti degli altri(…) L’intelletto che possiede questa illuminazione autentica non considera mai una porzione dell’immenso oggetto del sapere, senza tener presente che essa ne è solo una piccola parte e senza fare i raccordi e stabilire le relazioni che sono necessarie.
Esso fa in modo che ogni dato certo conduca a tutti gli altri.
Cerca di comunicare ad ogni parte un riflesso del tutto, a tal punto che questo tutto diviene nel pensiero come una forma che si insinua e si inserisce all’interno delle parti che lo costituiscono e dona a ciascuna il suo significato ben definito”.
Tale punto di vista unitario è offerto secondo il cristianesimo dall’evento di Gesù Cristo, Verbo incarnato e immagine del Dio invisibile, e dalla Sua “pretesa” di svelare, con la sua passione, morte e risurrezione, l’enigma che l’uomo rappresenta per se stesso senza per questo pre-decidere il dramma costitutivo di ogni singolo.
Questa “ipotesi” non soffoca il libero esercizio della ragione, anzi ne esalta le facoltà critiche urgendole ad un confronto a 360 con la realtà.
La proposta cristiana, infatti, presa nella sua oggettiva integralità, non è un salto nel buio.
L’uomo può, al contrario, verificarne tutto lo spessore veritativo nel paragone con le dimensioni della sua esperienza elementare – lavoro, affetti, riposo – e con le irriducibili polarità che attraversano l’unità del proprio io – unità duale propria di ogni essere creato, contingente:  anima-corpo, uomo-donna, individuo-comunità.
(©L’Osservatore Romano – 28 ottobre 2009)

La beatificazione di don Carlo Gnocchi

Carlo Gnocchi, terzogenito di Enrico Gnocchi, marmista, e Clementina Pasta, sarta, nasce a San Colombano al Lambro, vicino Lodi, il 25 ottobre 1902.
Rimasto orfano del padre all’età di cinque anni Carlo si trasferisce a Milano con la madre e i due fratelli Mario e Andrea.
Non molto tempo dopo entrambe i fratelli moriranno di tubercolosi.
fratelli moriranno di tubercolosi.
Carlo, di salute cagionevole, trascorre sovente lunghi periodi di convalescenza a Montesiro, paesino della Brianza, presso una zia.
Carlo Gnocchi entra in seminario alla scuola del cardinale Andrea Ferrari e nel 1925 viene ordinato sacerdote dall’Arcivescovo di Milano, Eugenio Tosi.
Don Gnocchi celebra la sua prima messa il 6 giugno a Montesiro.
Il primo impegno del giovane Don Carlo Gnocchi è quello di assistente d’oratorio: prima a Cernusco Sul Naviglio, vicino Milano, poi dopo solo un anno nella popolosa parrocchia di San Pietro in Sala, a Milano.
Grazie al suo operato raccoglie stima, consensi e affetto tra la gente tanto che la fama delle sue doti di ottimo educatore giunge fino in Arcivescovado.
Nel 1936 il Cardinale Ildefonso Schuster lo nomina direttore spirituale di una delle scuole più prestigiose di Milano: l’Istituto Gonzaga dei Fratelli delle Scuole Cristiane.
In questo periodo Don Gnocchi studia intensamente e scrive brevi saggi di pedagogia.
Sul finire degli anni ’30 il Cardinale Schuster gli affida l’incarico dell’assistenza spirituale degli universitari della Seconda Legione di Milano, che comprende in buona parte studenti dell’Università Cattolica oltre che molti ex allievi del Gonzaga.
Nel 1940 l’Italia entra in guerra e molti giovani studenti vengono chiamati al fronte.
Don Carlo, coerente alla tensione educativa che lo vuole sempre presente con i suoi giovani anche nel pericolo, si arruola come cappellano volontario nel battaglione “Val Tagliamento” degli alpini: la sua destinazione è il fronte greco albanese.
Terminata la campagna nei Balcani, dopo un breve intervallo a Milano, nel 1942 Don Carlo Gnocchi riparte per il fronte.
Questa volta la meta è la Russia, con gli alpini della Tridentina.
Nel gennaio del 1943 inizia la drammatica ritirata del contingente italiano: Don Gnocchi, caduto stremato ai margini della pista dove passava la fiumana dei soldati, viene miracolosamente soccorso, raccolto da una slitta e salvato.
È proprio in questa tragica esperienza che, assistendo gli alpini feriti e morenti e raccogliendone le ultime volontà, matura in lui l’idea di realizzare una grande opera di carità che troverà compimento, dopo la guerra, nella “Fondazione Pro Juventute”.
Ritornato in Italia nel 1943, Don Gnocchi inizia il suo pellegrinaggio attraverso le vallate alpine, alla ricerca dei familiari dei caduti, per dare loro un conforto morale e materiale.
In questo stesso periodo aiuta molti partigiani e politici a fuggire in Svizzera, rischiando in prima persona la vita: viene arrestato dalle SS con la grave accusa di spionaggio e di attività contro il regime.
A partire dal 1945 comincia a prendere forma concreta quel progetto di aiuto ai sofferenti pensato negli anni della guerra: Don Gnocchi viene nominato direttore dell’Istituto Grandi Invalidi di Arosio (Como), e accoglie i primi orfani di guerra e i bambini mutilati.
Inizia così l’opera che porterà Don Carlo Gnocchi a guadagnare sul campo il titolo più meritorio di “padre dei mutilatini”.
Le richieste di ammissione arrivano da tutta Italia e ben presto la struttura di Arosio si rivela insufficiente ad accogliere i piccoli ospiti.
Nel 1947 viene concessa in affitto – ad una cifra del tutto simbolica – una grande casa a Cassano Magnano, nel varesotto.
Nel 1949 l’Opera di Don Gnocchi ottiene un primo riconoscimento ufficiale: la “Federazione Pro Infanzia Mutilata”, da lui fondata l’anno precedente per meglio coordinare gli interventi assistenziali nei confronti delle piccole vittime della guerra, viene riconosciuta ufficialmente con Decreto del Presidente della Repubblica.
Nello stesso anno il Capo del Governo, Alcide De Gasperi, promuove Don Carlo Gnocchi consulente della Presidenza del Consiglio dei Ministri per il problema dei mutilatini di guerra.
Da questo moment, uno dopo l’altro, vengono aperti nuovi collegi: Parma (1949), Pessano (1949), Torino (1950), Inverigo (1950), Roma (1950), Salerno (1950) e Pozzolatico (1951).
Nel 1951 la “Federazione Pro Infanzia Mutilata” viene sciolta e tutti i beni e le attività vengono attribuiti al nuovo soggetto giuridico creato da Don Gnocchi: la “Fondazione Pro Juventute”, riconosciuta con Decreto del Presidente della Repubblica l’11 febbraio 1952.
Nel 1955 Don Carlo lancia la sua ultima grande sfida: si tratta di costruire un moderno centro che costituisca la sintesi della sua metodologia riabilitativa.
Nel settembre dello stesso anno, alla presenza del Capo dello Stato, Giovanni Gronchi, viene posata la prima pietra della nuova struttura nei pressi dello stadio Meazza (San Siro) a Milano.
Vittima di una malattia incurabile Don Gnocchi non riuscirà a vedere completata l’opera nella quale aveva investito le maggiori energie: il 28 febbraio 1956, la morte lo raggiunge prematuramente presso la Columbus, clinica di Milano dove è da tempo ricoverato per una grave forma di tumore.
I funerali, celebrati il giorno 1 marzo dall’arcivescovo Montini (poi Papa Paolo VI), furono grandiosi per partecipazione e commozione.
La sensazione generale era che la scomparsa di Don Carlo Gnocchi avesse privato la comunità di un vero santo.
Durante il rito venne portato al microfono un bambino.
Un’ovazione seguì le parole del fanciullo: “Prima ti dicevo: ciao don Carlo.
Adesso ti dico: ciao, san Carlo”.
A sorreggere la bara c’erano quattro alpini; altri portavano sulle spalle i piccoli mutilatini in lacrime.
Tra amici, conoscenti e semplici cittadini erano in centomila a gremire il Duomo di Milano e la sua piazza.
L’intera città listata a lutto.
Proprio il giorno del funerale esce un piccolo libro da lui scritto con le sue ultime forze, come una sorta di testamento, che condensa tutta la sua vita e il suo sacerdozio, la sua opera in mezzo alla gioventù delle parrocchie, dell’Istituto Gonzaga, di cappellano militare, ma soprattutto in mezzo al dolore dei piccoli e dei più giovani, per dare ad ogni lacrima, a ogni goccia di sangue sparsa, il significato e il valore più alto.
L’ultimo gesto apostolico di Don Gnocchi è stato la donazione delle cornee a due ragazzi non vedenti – Silvio Colagrande e Amabile Battistello – quando in Italia il trapianto di organi non era ancora disciplinato da apposite leggi.
Il doppio intervento, eseguito dal prof.
Cesare Galeazzi, riuscì perfettamente.
La generosità di Don Carlo che ebbe anche in punto di morte e l’enorme impatto che il trapianto e i risultati dell’operazioni ebbero sull’opinione pubblica impressero un’accelerazione decisiva al dibattito.
Nel giro di poche settimane venne varata una legge sul tema.
Trent’anni dopo la mortedi Don Carlo Gnocchi il cardinale Carlo Maria Martini istituirà il Processo di Beatificazione.
La fase diocesana avviata nel 1987 si è conclusa nel 1991.
Il 20 dicembre 2002 Papa Giovanni Paolo II lo ha dichiarato venerabile.
Nel 2009 il cardinale Dionigi Tettamanzi annuncia che la beatificazione avverrà il 25 ottobre dello stesso anno.
Don Carlo Gnocchi:  un nome legato indissolubilmente alle opere di carità.
Un prete autentico che ha messo in pratica gli insegnamenti evangelici offrendo aiuto e sostegno ai fratelli che erano nel bisogno.
La sua figura “resta di grande attualità ancora oggi.
Come profeta di speranza e come eroe della carità, egli continua a ispirare impegno e imitazione”.
Così ha tratteggiato la vita e l’opera di don Gnocchi l’arcivescovo Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, nel presiedere il rito della sua beatificazione.
La cerimonia si è svolta in piazza del Duomo a Milano, domenica mattina 25 ottobre, alla presenza del cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo della diocesi ambrosiana, che ha presieduto l’Eucaristia.
“Don Carlo fu un eroe e un santo – ha proseguito il prefetto Amato – e il segreto dell’eroismo della sua santità fu il suo amore per Cristo:  “Solo Cristo – egli diceva – può essere principio di vita divina per l’uomo.
Cristo fu per il nostro beato l’unica avventura della sua vita sacerdotale.
Fu un prete tutto di Cristo, tutto della Chiesa, tutto del prossimo bisognoso e sofferente”.
Il presule lo ha definito “prete fino in fondo” e il suo ministero sacerdotale “fu il servizio ai giovani come educatore sapiente, come cappellano eroico, come benefattore generoso dei mutilatini.
Il suo incontenibile entusiasmo apostolico era ancorato alla Provvidenza divina, da lui vista, come don Bosco, incarnata concretamente nelle persone buone e generose”.
Don Gnocchi ebbe, infatti, ha aggiunto il prefetto, “un’energia creativa, una imprenditorialità tutta milanese nel trovare mezzi e persone per far crescere e prosperare quella che lui chiamava “la mia baracca”.
Era un vero imprenditore della carità”.
Nell’omelia il cardinale Tettamanzi ha detto che è “nella ricerca del volto di Cristo impresso nel volto d’ogni uomo che don Carlo ha consumato la sua vita.
Lo ha cercato in ogni soldato, in ogni alpino – ferito o morente -, in ogni bimbo violato dalla ferocia della guerra, in ogni mutilatino vittima innocente dell’odio, in ogni mulattino frutto della violenza perpetrata sull’innocenza della donna, in ogni poliomielitico piegato nel corpo dal mistero stesso del dolore”.
È proprio qui il segreto dell’amore di don Carlo per l’uomo:  “La vivissima coscienza che nel cuore di ogni essere umano abita lo splendore del volto di Dio.
Ma ogni cristiano è chiamato ad amare sino alla fine e senza paura ogni essere umano, sapendo che in tutti è l’impronta incancellabile del volto di Dio, di tutti Creatore e Padre”.
“La seconda lettura – ha aggiunto il porporato – tratta dalla lettera di Paolo a Timoteo (1 Timoteo, 2, 1-5), ci rimanda ad un tratto caratteristico della carità di don Gnocchi.
L’Apostolo raccomanda, in particolare, “che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio”.
Don Carlo ha saputo coinvolgersi con dedizione entusiasta e disinteressata non solo nella vita della Chiesa, ma anche in quella della società.
E lo ha fatto coltivando con grande intelligenza e vigore l’intimo legame tra la carità e la giustizia:  una carità che “tende le mani alla giustizia”, egli diceva”.
“Noi – ha affermato il cardinale – possiamo continuare la sua opera chiedendo oggi alla giustizia di tendere le mani alla carità.
Don Carlo è stato mirabile nell’operare una sintesi concreta di pensiero e di impresa, appellando alle diverse istituzioni pubbliche e insieme alle molteplici forme di volontariato, ponendo come criterio necessario e insuperabile la centralità della persona umana sempre onorata nell’inviolabilità della sua dignità e nella globalità unitaria delle sue dimensioni – fisiche, psichiche e spirituali -, insistendo sull’opera educativa e culturale come decisamente prioritaria per lo sviluppo autentico della società.
Mai egli ha dimenticato il privilegio e comandamento evangelico del servizio agli “ultimi””.
Una menzione poi alla vocazione sacerdotale del nuovo beato:  “Ha vissuto la sua vocazione come impegno leale nel mondo – ha detto il porporato – senza sminuire, anzi arricchendo, il suo essere di sacerdote.
Impegno nel mondo così come si presentava al suo tempo:  lontano dalle nostalgie del passato, calato cordialmente nel presente, aperto, profetico e anticipatore del futuro, mai nel segno del pessimismo o della paura.
Egli era convinto che il tempo nel quale Dio lo aveva chiamato a vivere era il migliore possibile.
Nell’opera Educazione del cuore scrisse:  “Amiamo di un amore geloso il nostro tempo, così grande e così avvilito, così ricco e così disperato, così dinamico e così dolorante, ma in ogni caso sempre sincero e appassionato.
Se avessimo potuto scegliere il tempo della nostra vita e il campo della nostra lotta, avremmo scelto…
il Novecento senza un istante di esitazione””.
Infine, il cardinale ha concluso ricordando le parole di don Gnocchi rivolte al mondo moderno, con le quali “augurava un tempo nuovo, un nuovo tipo di umanità; augurava la personalità cristiana, cioè “cristianesimo e cristiani attivi, ottimisti, sereni, concreti e profondamente umani; che guardano al mondo, non più come a un nemico da abbattere o da fuggire, ma come a un (figlio) prodigo da conquistare e redimere con l’amore”.
Sono parole preziose anche per noi:  amiamo il nostro tempo; impegniamoci nel nostro mondo; portiamo in tutti gli ambienti della nostra vita le speranze umane e la “speranza grande” che ci viene da Cristo, il vincitore della morte e di ogni male”.
(©L’Osservatore Romano – 26-27 ottobre 2009)

La Chiesa deve parlare forte

La Chiesa deve parlare forte intervista a Mons.
Giancarlo Maria Bregantini a cura di Ida Nucera Viviamo un tempo difficile, caratterizzato da un progressivo sfi lacciamento della morale, scalzata da narcisismo, corruzione e arroganza, in totale sprezzo del bene comune.
Anche la politica ha perduto l’anima, cioè l’etica.
I cattolici cercano con difficoltà alternative possibili.
Per il credente diventa sempre più faticoso “stare sulla stessa barca”, come più volte evidenziato dal dibattito aperto su queste stesse colonne.
Il momento sollecita un confronto franco con pastori aperti al dialogo.
Abbiamo dunque incontrato monsignor Giancarlo Maria Bregantini, trentino di Denno, dal 1994 vescovo di Locri, profondo conoscitore del Sud, con tutte le problematiche legate all’arretratezza e alla ‘ndrangheta, ma anche con le sue grandi potenzialità, per le quali si è sempre battuto affi nché potessero esprimersi in pienezza.
Dal 2007 è arcivescovo metropolita di Campobasso Bojano.
Monsignore, molti cristiani sono indignati perché ritengono la Chiesa poco profetica su temi cruciali.
Attendono una condanna chiara di certi atteggiamenti immorali, invocano parole certe su quanto lontana dal Vangelo sia la classe dirigente.
Possiamo continuare a far finta di nulla? Possiamo chiuderci in sacrestia e attendere che tutto passi? Riguardo alla situazione generale della Chiesa, oggi, mi piace rivisitare tre verbi che spesso ripeto ai preti della nostra diocesi.
Frutto di anni di fatica interiore e pastorale, di lacrime ma anche di tante speranze e di tante gioie, vissute con la gente.
Perché la Chiesa non è solo la gerarchia: è soprattutto quella parte del popolo di Dio che vive, spera e lotta tutti i giorni.
Compio ogni sforzo perché il mio cuore sia sempre più attaccato ad essa.
E la “gerarchia” stessa non è mai fi nalizzata a sé stessa, ma opera sempre per la gente, nel vissuto quotidiano e sofferto della storia, così come la disegna il Signore per noi, di pietra in pietra.
Dicevo che ho imparato tre verbi: mai vincere, ma sempre convincere; mai imporre, ma sempre proporre; mai giudicare, ma analizzare.
Un giorno un Provinciale di una Famiglia religiosa di consacrati mi disse, quasi scusandosi: «Ma la santità non si può imporre!».
È vero, risposi di getto, ma si deve proporre, sempre più.
La Chiesa oggi sente la sua pesantezza, ma guai se smette di proporre la santità come meta.
Se si lascia infiacchire dalla propria stanchezza.
Don Milani, con chiarezza, nel suo fiorito linguaggio fiorentino, amava dire: «Sfottere crudelmente non chi cammina in basso, ma chi mira in basso!».
Tutti siamo fragili, tutti peccatori.
Ma questo non ci deve per nulla esimere dal puntare in alto.
Anzi, proprio perché la fragilità è evidente, ancor più limpida deve essere la proposta e alta la meta.
Ecco allora la necessità di rifl ettere sul comportamento della Chiesa nel nostro tempo.
Ma siano analisi, e non giudizi.
Perché c’è una differenza grande.
E dove sta la differenza? Nel tono della voce.
In famiglia, in ufficio, in politica: tutto sta nel tono della voce.
Se esprimi un giudizio, il tuo tono sarà duro, aspro, diretto.
Se invece analizzi, vedi e individui subito ciò che non va, perché il tuo occhio è limpido, come il catino dell’acqua con cui Gesù lavò i piedi ai suoi discepoli.
Il tono della tua voce si fa testimonianza, coinvolgimento, passo sofferto e condiviso.
Anche il male lo porti con te e non te ne tiri fuori, perché non sei diverso da loro.
Occorre sfuggire al soffuso ma comodo manicheismo che talvolta avvinghia certi preti bravi o certi cristiani impegnati.
La fatica di un vescovo è la fatica del pastore, che non ritma i suoi passi sul passo delle sue forze, ma sul passo fragile delle «pecore madri, che egli conduce pian piano e porta sul petto gli agnellini» (Isaia 40,11), cercando sempre la pecorella che si è smarrita.
E se la pone sulle spalle, condividendo la gioia con i suoi amici, in una comunità dove soprattutto il lontano si fa vicino, per il sangue di Gesù sulla croce.
Quella croce che ha fatto dei due un solo popolo nuovo.
Ripeto: solo chi non mira in alto va crudelmente sfottuto.
Ed è ciò che oggi si deve fare di fronte alla perdita del bene comune, alla mancanza di etica.
Solo con la chiarezza del profeta si può dire di «no», ad esempio, a un personaggio politico locale, che pretenda di fare da padrino nella cresima di un amico.
Con amarezza ma con chiarezza, perché egli non regola la sua vita politica con coerenza.
Non sarà giudizio, ma analisi lucida, poiché hai orientato la tua vita, prima di ogni altra, secondo ideali evangelici che cerchi di vivere con coerenza.
La Chiesa oggi deve parlare di più con voce profetica.
Troppo tace, troppo lascia correre.
Su certe questioni si dimostra inflessibile, mentre su altre è acquiescente.
Ma questa difficoltà nasce dalla carenza di proposta evangelica.
Questo è il problema.
E il nostro dolore diffuso.
A quali principi dovrebbero essere improntati i rapporti tra la gerarchia ecclesiastica e la politica? C’è sempre attenzione all’ultimo, al povero, alla giustizia? Noi vescovi della regione ecclesiastica Abruzzo-Molise abbiamo emesso un decalogo, evangelicamente ben inquadrato, che indica i sentieri del bene comune, con precisione e passione pastorale.
In sintesi richiama il potere al servizio orientato verso le categorie più deboli.
Vede la politica come crescita di responsabilità e democrazia, nel rispetto delle altrui posizioni e nella coerenza delle scelte.
Ribadisce il rifiuto e la denuncia di comportamenti immorali e disonesti e auspica l’impegno per favorire la cultura della legalità, la preparazione degli amministratori e una selezione della classe dirigente che premi il merito, la competenza e rifugga da simpatie, legami personali o familistici, ripicche o vendette.
Tutto questo si fonda sul Vangelo e sulla Bibbia.
Eppure, quando l’ho presentato, c’è stato chi mi ha accusato di fare politica.
Ciò accade spesso quando la Chiesa diviene chiara, profetica e incisiva.
Molti la vorrebbero invece muta e silenziosa, quasi complice di uno stile di vita che favorisce i ricchi e penalizza i poveri.
Ma che direbbe quel Gesù che afferma che ogni cosa fatta al più piccolo dei fratelli è fatta a lui stesso? Che rimprovera Erode per essere come una volpe? Che paga le tasse? Che contesta, con il suo silenzio, anche Pilato? È sempre lui la misura.
Oggi uno dei punti più dolenti è il respingimento degli stranieri, condannati a sevizie certe nei lager della Libia.
Molte persone, laici e cattolici impegnati nell’apostolato sociale, si sono dichiarate pronti alla disobbedienza civile di fronte a leggi che permettono tutto ciò.
Ritiene sia una scelta coerente con il Vangelo? Il respingimento degli stranieri è un peccato grave.
È uno dei più tristi segni della nostra acquiescente debolezza come cristiani.
E dico grazie alle voci ecclesiastiche (non molte, per la verità) che li hanno condannati con chiarezza.
Memori di un Gesù che disse: «Ero straniero e mi avete accolto» (Matteo 25,35).
È triste sentire certi politici che, ogni volta che la Chiesa dice la sua, la deridono con sciocchi pretesti.
Credo che chi matura forme di disobbedienza civile non faccia altro che seguire gli esempi dei grandi santi.
Come Tommaso Moro, patrono dei politici, che morendo, sul palco della sua decapitazione, affermò con luminosa chiarezza evangelica: «Ho sempre servito Dio e il re.
Ma ho servito Dio prima del re».
La testimonianza riguarda non solo il clero, ma anche il laicato cattolico.
La fedeltà a una scelta costa la fatica di una strada in salita, soprattutto in alcuni luoghi che lei ben conosce, e può presentare un conto salato se si disturbano i potenti e i prepotenti… La testimonianza è indispensabile.
Nasce da un modo di leggere la Parola e la storia.
Fedeli a Dio e alla gente.
Ai laici, chiedo un forte amore per la propria terra, dettato da un cuore materno.
È infatti soprattutto con un cuore femminile, anche nella vita consacrata, che si coltiva questo amore.
Solo così la terra diviene un giardino.
La devi amare, curare, e servire, con rispetto e dedizione, fino in fondo.
In fedeltà da sposo e non da amante.
«I piccoli “sì” preparano il cuore ai grandi “sì” cioè al bene; come i piccoli “no” al male allenano ai grandi “no” al male», diceva san Tommaso Moro.
È fondamentale la coerenza nelle piccole cose, la chiarezza interiore coltivata giorno per giorno, che fa leggere la vita con occhi trasparenti.
Altro elemento importante nella testimonianza è la gratuità.
Siamo amati gratuitamente da un Padre che ci dona il suo sole; e lo dona sia a chi è giusto sia agli ingiusti.
Lo stile gratuito rovescia il concetto meritocratico che diventa, sottilmente, la più falsa giustifi cazione della scala sociale iniqua.
Solo nella gratuità si diviene fratelli.
L’allontanamento di tanti dalla pratica religiosa, tra cui la confessione, dipende da molte cause.
Lei ha detto che la testimonianza è la prima forma di identità.
Testimoniare Cristo morto e risorto è come spandere un profumo, ma, a volte, questo si è come dissolto e non attrae più… La testimonianza resta il vero profumo, che la Chiesa nel giovedì santo immette nell’olio del Crisma, segno stesso del Cristo.
Crisma, Cristo, cristiano: stessa radice, stesso itinerario di speranza e di coerenza.
Ma qui tutti sentiamo di essere fragili.
Abbiamo bisogno di mete alte, di testimoni credibili.
E qui si gioca la fatica educativa con i nostri ragazzi, che restano il banco di prova della nostra coerenza.
Perché sono i primi ad accorgersi se in noi, preti o educatori, c’è realmente quel profumo di santità e di bellezza.
È dunque necessario che questa testimonianza sia resa ben visibile, con gesti credibili e alternativi.
Perché la Chiesa non deve essere né succube a questo sistema di potere né anarchica, ma alternativa.
Deve cioè avanzare proposte alte, con passo più avanzato, con presenze forti presso chi è escluso o è vittima della crisi che ci travolge.
Ma questa via alternativa non è praticabile, se non attuiamo prima una serie di strumenti di sostegno.
Mi riferisco in particolare a due: un gruppo biblico in ogni parrocchia e un circolo culturale in ogni quartiere.
Occorre costruire una fede che sa leggere dentro i fatti, che si avvalga del discernimento maturo dei laici e parroci che usano la Parola come luce che illumina i nostri passi.
Da soli non si può essere profeti.
E se è vero (come dicevo ai ragazzi della Locride) che tu solo puoi farcela, devi ricordarti però che non puoi farcela da solo.
Sempre più spesso al Sud il territorio diventa discarica di veleni, che incrementano l’incidenza tra la popolazione locale di alcuni tumori e alterazioni genetiche.
È possibile fermare questo obbrobrio? Su questo punto si gioca la verifica del nuovo rapporto con la terragiardino.
Ai ragazzi traduco così questo concetto: senza il cielo, la terra si fa fango; con il cielo, diviene giardino.
Come dicevo prima, tocca a noi far amare questa terra in forza della bellezza del cielo.
«Novissima considera, ut videas bona», dicevano i medioevali, cioè guarda lontano, per poter vedere bene qui, già da ora.
Questo è il compito attuale della Chiesa: additare questo cielo, che brilla già dentro di noi; farlo rilucere, intessendolo d’amore, in un intreccio sereno tra intelligenza e cuore.
Allora il Signore ci porrà alla sua destra, perché quel cielo ci avrà portato a servire con umiltà e gratuità i piccoli, i poveri, i soli, i disoccupati, gli stranieri, in un profumo di testimonianza luminosa e coinvolgente.
in “il nostro tempo” del 2 agosto 2009

Sugli approcci musulmano e cattolico alle ermeneutiche sacre

Sugli approcci musulmano e cattolico alle ermeneutiche sacre di Aref Ali Nayed Nel nome di Dio, il Compassionevole.
Sotto il titolo “Anche l’islam ha i suoi Lutero.
Ma una riforma è lontana” Sandro Magister scrive: “Al cuore della crisi attuale del mondo musulmano vi sono le differenti concezioni della tradizione e il rifiuto di leggere il Corano con metodi scientifici, oltre che teologici.
[…] La questione della tradizione […] appare ancor più bruciante per l’islam.
Essa è strettamente intrecciata con quella dell’interpretazione del Corano.
Le correnti fondamentaliste ispirate dai Fratelli Musulmani, ad esempio, idealizzano l’islam delle origini, lo assumono come unico modello e rifiutano di applicare al Corano criteri di lettura scientifici, oltre che teologici.
Sono rari e isolati i musulmani che leggono il Corano con metodi analoghi a quelli applicati alla Bibbia dall’esegesi cristiana.
I grandi centri della teologia islamica, come l’università al-Azhar del Cairo, sono molto diffidenti nei confronti delle metodologie moderne di analisi del testo sacro.
I frutti di una lettura critica del Corano provengono quasi esclusivamente da studiosi non musulmani”.
Magister offre quindi “la lezione di un grande islamologo, Michel Cuypers” presentando un suo testo sotto il titolo: “La tradizione vista dalla fede musulmana, ieri e oggi”.
Un testo che Magister vede in questa luce: “Nel finale, Cuypers mostra quanto sia importante che il mondo islamico si apra a una lettura critica del Corano”.
Lo spirito dell’introduzione di Magister e il modo in cui egli legge la parte conclusiva del testo di Cuypers riflettono la stessa attitudine che alcuni studiosi e dirigenti cattolici hanno manifestato in più occasioni, negli ultimi anni, riguardo al Corano e alle sue interpretazioni.
Essi parlano dallo stesso punto di vista, per loro indiscutibile, che nel recente passato ha prodotto la tesi infondata secondo cui il dialogo cattolico-musulmano è ostacolato dalla convinzione musulmana che il Corano è l’autentica parola di Dio (che esaltato Egli sia).
È importante sottolineare, ancora una volta, che tale tesi chiaramente soffre di un doppio blocco: primo, il fraintendimento e l’errata esposizione dell’insegnanento islamico riguardo al Corano; secondo, l’errata esposizione della dottrina cattolica sulle Sacre Scritture, falsamente messa in contrasto col primo.
Ora spiego come questo doppio blocco opera.
Il Corano è l’autentico parlare (kalam) del nostro supremo unico Dio (Allah), rivelato al profeta Maometto (che la pace sia su di lui) e fedelmente conservato attraverso un’ininterrotta trasmissione comunitaria (tawatur).
Il Corano è eterno (qadim) in essenza, in origine, e come essenziale prerogativa divina a parlare (kalamullh as kalam nafsi).
Ma esso è anche storico nel suo svelarsi, come atto di rivelazione (kalamullah as kalam lafzi), ed è stato rivelato al Profeta (che la pace sia su di lui) in profondo intreccio con le viventi circostanze e gli eventi storici della comunità musulmana (tanzil, tanjim).
Per saperne di più su questo si veda “Al-Insaf” dell’Imam Abu Bakr Al-Baqillani, morto nel 1013 dell’era cristiana.
Gli studiosi musulmani hanno sempre fondato le loro interpretazioni ed esegesi del Corano sulla base di varie scienze incluse le scienze delle “circostanze della rivelazione” (asbabulnuzul), sulle scienze della storia del Corano (tarkhulqur’an) e su un accurato studio delle forme linguistiche familiari agli arabi del tempo della rivelazione (ulumulugha).
Gli studiosi musulmani hanno sviluppato un apparato comprensivo delle metodologie storico-critico-linguistiche per la comprensione del Corano (ulumulqur’an).
Per saperne di più su questo si veda “Al-Itqan” dell’Imam Jalaloddin Al-Suyuti, 1445-1505 dell’era cristiana.
Gli studiosi musulmani sono stati sempre consapevoli del fatto che l’interpretazione, la comprensione e l’esegesi dell’eterno parlare di Dio sono forme dell’umano, strenuo sforzo (ijtihad) che deve essere obbligatoriamente rinnovato in ogni generazione credente.
La solenne fede nell’eternità e nella divina autorità del Corano non ha mai trattenuto gli studiosi musulmani dal trattare con esso storicamente e linguisticamente.
Al contrario, la fede nella verità rivelante del Corano è stata la vera motivazione di vite spese nel diretto studio professionale del parlare di Dio.
Per saperne di più su questo si veda “Kitab Al-Ilm” dell’Imam Ibn Abd Al-Barr.
Imponenti biblioteche di opere interpretative ed esegetiche, teologiche, giuridiche, etiche e spirituali sono state prodotte da successive generazioni di studiosi, dai tempi iniziali fino ad oggi.
È precisamente sulla base della loro fede solenne che il Corano è l’autentica parola di Dio che studiosi musulmani, nel corso dei secoli, hanno impegnato in un dialogo ebrei, cristiani, zoroastriani, indù, buddisti ed anche scettici e naturalisti.
Tutti i principali manuali di teologia musulmana, siano essi maturidi, ashariti, mutaziliti, jafariti, ismailiti o ibaditi, mostrano una notevole larghezza di vedute e chiamano a confronto attivamente le credenze di filosofi, ebrei, cristiani, zoroastriani, indù e buddisti.
In modo interessante, l’apparato storico-critico-linguistico dell’esegesi musulmana, in sintesi con le antiche metodologie ermeneutiche talmudiche di un Rabbi Hillel e di un Rabbi Ishmael, è stato trasmesso attraverso studiosi ebrei sefarditi come Hasdai ben Abrahan Crescas (1340-1410/1411) e Baruch Spinoza (1632-1677) fino ai primi maestri dell’ermeneutica protestante, come Johann August Ernesti (1707-1781).
Il “criticismo alto” e il “metodo storico-critico” che discendono dall’ermeneutica della riforma protestante sono stati direttamente influenzati dall’ermeneutica talmudica andalusa che risale a Spinoza, a sua volta imbevuta dell’ermeneutica coranica degli studiosi musulmani andalusi.
È anche interessante notare che le metodologie e le conclusioni del criticismo protestante sono state, per secoli, rifiutate dalla Chiesa cattolica.
Questo rifiuto è stato particolarmente sistematico ed esplicito nell’enciclica “Providentissimus Deus” di Leone XIII, del 1893, e nell’enciclica antimodernista “Pascendi dominico gregis” di Pio X, del 1907.
Sotto la forte pressione della scuola biblica protestante, alla fine la Chiesa cattolica, ma solo malvolentieri, parzialmente e a determinate condizioni, ha accettato alcuni aspetti del metodo storico-critico.
Papa Benedetto XV diede inizio a questo processo di accettazione condizionata nella “Spiritus Paraclitus” del 1920, ma  fu solo con la “Divino afflante Spiritus” di papa Pio XII, del 1943, che gli studiosi cattolici sono stati finalmente autorizzati a mettersi al passo con gli stadi avanzati degli studi biblici protestanti.
Per questo è abbastanza ironico che alcuni studiosi cattolici ora accusino i musulmani di un’immaginaria chiusura, che descrive invece molto meglio la chiusura pre-1943 del Vaticano alle metodologie storico-critiche.
Ciò che è ancor più ironico è il fatto che alcuni cattolici non solo inventano una simile chiusura musulmana, ma arrivano ad attribuirla alla fede musulmana nella divina autorità del Corano, cioè al fatto che il Corano è l’autentica parola di Dio.
Ciò è davvero strano, perché induce a pensare che chi crede nella divina autorità di un testo sacro non può essere un interlocutore di dialogo in materie teologiche! Nel sostenere questa strana tesi sul credo musulmano riguardo al Corano, alcuni cattolici sembrano dimenticare le posizioni dogmatiche cattoliche romane riguardo alle Sacre Scritture.
Almeno dal Concilio di Trento, il magistero della Chiesa cattolica romana ha ripetutamente affermato una dottrina molto netta, quasi impositiva, riguardo alla divina rivelazione, e ha sempre tenuto fermo che “la santa madre Chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e canonici tutti interi i libri sia del Vecchio che del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti, perché scritti per ispirazione dello Spirito Santo (cfr.
Gv 20,31; 2 Tm 3,16); hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati alla Chiesa” (Concilio Vaticano II, “Dei Verbum”, III).
La “Providentissimus Deus” di papa Leone XIII del 1893 mette in chiaro che una forte fede nella divina ispirazione delle Scritture cristiane è stata “sempre ritenuta e apertamente professata” dalla Chiesa: “Questa rivelazione soprannaturale, secondo la fede universale della Chiesa, è contenuta sia nelle tradizioni non scritte, sia anche nei libri scritti che vengono chiamati sacri e canonici, perché, essendo stati scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per autore e come tali sono stati affidati alla Chiesa.
Questo certamente, riguardo ai libri dell’uno e dell’altro Testamento sempre ha ritenuto e apertamente professato la Chiesa: ben noti sono gli importantissimi documenti antichi, nei quali si afferma che Dio, il quale parlò prima per mezzo dei profeti, poi egli stesso e quindi per bocca degli apostoli, è anche autore delle Scritture che sono chiamate canoniche, e che sono oracoli e locuzioni divine, una lettera inviata dal Padre celeste trasmessa per mezzo degli autori sacri al genere umano, peregrinante lontano dalla patria”.
È vero che la Chiesa cattolica dal 1943 e specialmente dal Vaticano II, alla luce delle acquisizioni dell’esegesi storico-critica, ha cominciato a dare rilievo al coinvolgimento degli autori umani delle Scritture.
Tuttavia, anche nella “Dei Verbum” l’ispirazione inerrante di Dio continua a essere affermata dalla Chiesa, come sempre.
Anche la “Divino afflante Spiritus” di papa Pio XII del 1943 riafferma lo stesso credo, ed espande invece che restringere le posizioni sulla Scrittura della “Providentissimus Deus” di papa Leone XIII del 1893.
Pertanto, posti i dogmi della Chiesa cattolica riguardo alla Scritture cristiane, è strano e davvero ironico che alcuni studiosi cattolici continuino a sostenere che affermare la divina ispirazione di un testo sacro sia un ostacolo al dialogo teologico! Se una simile fede nella divina ispirazione trattiene i suoi aderenti dal dialogo teologico, allora gli studiosi cattolici dovrebbero avere la stessa inibizione che alcuni di loro immaginano abbiano gli studiosi musulmani.
Inoltre, la tradizionale posizione sunnita su come accostarsi rispettosamente al Corano e alla tradizione non è così distante dalla posizione cattolica su come accostarsi rispettosamente alle Sacre Scritture e alla tradizione.
Lo stesso papa Benedetto XVI ha recentemente raccomandato la tipica cautela cattolica riguardo a un eccessivo entusiasmo per le metodologie storico-critiche: “Lo studio scientifico dei testi sacri è importante, ma non è da solo sufficiente perché rispetterebbe solo la dimensione umana.
Per rispettare la coerenza della fede della Chiesa l’esegeta cattolico deve essere attento a percepire la Parola di Dio in questi testi, all’interno della stessa fede della Chiesa.
In mancanza di questo imprescindibile punto di riferimento la ricerca esegetica resterebbe incompleta, perdendo di vista la sua finalità principale, con il pericolo di essere ridotta ad una lettura puramente letteraria, nella quale il vero Autore – Dio – non appare più” (Discorso alla pontificia commissione biblica, 23 aprile 2009).
È davvero ironico che alcuni cattolici consiglino ai musulmani di produrre dei “Lutero” e degli approcci di “stile luterano” al Corano.
Tali consiglieri dovrebbero ricordare piuttosto gli strenui sforzi fatti dalla Chiesa cattolica per arginare le conseguenze dell’affermazione del principio protestante della “Sola Scriptura”.
Sfortunatamente, alcune posizioni cattoliche riguardo agli approcci musulmani al Corano sembrano basate sull’infondata tavola dei contrasti “islam contro cristianesimo” sviluppata e sostenuta da taluni “esperti dell’islam”.
È essenziale, per amore di una mutua comprensione e per amore di Dio, fermare la costruzione di queste nocive false distinzioni, e smetterla di fare prediche all’islam circa la saggezza nell’uso del metodo storico-critico per studiare il Corano.
Dio sa cos’è il meglio! Il testo di fr.
Michel Cuypers al quale Nayed ha qui replicato: > Anche l’islam ha i suoi Lutero.
Ma una riforma è lontana
(7.9.2009) E un precedente servizio di www.chiesa con un’intervista di Cuypers a “Il Regno”, sull’applicazione al libro sacro dell’islam dei metodi di analisi letteraria già applicati alla Bibbia: > Per una rinnovata lettura del Corano: la lezione di un grande islamologo (4.6.2007) __________ La nota con cui Aref Ali Nayed criticò su www.chiesa la lezione di Benedetto XVI a Ratisbona: > Due studiosi musulmani commentano la lezione papale di Ratisbona (4.10.2006) E il successivo botta e risposta tra Nayed e il professor Alessandro Martinetti, che gli aveva replicato: > Chiesa e islam.
A Ratisbona è spuntato un virgulto di dialogo
(30.10.2006) La critica di Nayed a Benedetto XVI che aveva battezzato il convertito Magdi Allam, “un infelice episodio che riafferma la famigerata lezione di Ratisbona”: > Storia di un convertito dall’islam.
Battezzato dal papa in San Pietro
(28.3.2008) E la replica a Nayed del professor Pietro De Marco: > Per il Vaticano re Abdullah pesa più di 138 dotti musulmani (31.3.2008) __________ Il libro dell’islamologo Massimo Campanini citato in apertura del servizio: Massimo Campanini, “L’esegesi musulmana del Corano nel secolo ventesimo”, Morcelliana, Brescia, 2008.
__________ Il documento più aggiornato e più autorevole sull’esegesi cattolica delle Sacre Scritture, pubblicato nel 1993 dalla Pontificia Commissione Biblica per ordine di Giovanni Paolo II e con la prefazione dell’allora cardinale Joseph Ratzinger: > L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa __________ Sulla corrente teologica asharita, alla quale Aref Ali Nayed dichiara di appartenere, sono uscite interessanti valutazioni sul numero 35-36 del 2008 di “Nuntium”, la rivista della Pontificia Università Lateranense, dedicato a “Le sfide di Ratisbona.
Fede, ragione, ricerca e dialogo”.
In particolare, tracciano profili differenziati della teologia asharita lo studioso musulmano Mustafa Abu Sway e gli islamologi François Zabbal, Adel Theodor Khoury (citato da Benedetto XVI nella lezione di Ratisbona) e Miguel Ángel Ayuso Guixot, preside del Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica di Roma.
Sandro Magister Nella sua udienza generale di mercoledì 14 ottobre Benedetto XVI ha portato ad esempio Pietro il Venerabile, il grande abate di Cluny che nel secolo XII, per “favorire la conoscenza” dell’islam, “provvide a far tradurre il Corano”.
Oggi, all’inizio del secolo XXI, accade qualcosa di più.
Un numero crescente di studiosi cristiani applica al Corano, per approfondirne la comprensione, i metodi di lettura già applicati alla Bibbia: fondati non solo sulla tradizione e sulla teologia, ma anche sull’analisi storico-critica e letteraria.
Questi ultimi metodi hanno faticato ad essere approvati dalla Chiesa cattolica, ma da molti decenni sono divenuti di uso comune.
Fanno parte di quelle “conquiste dell’illuminismo” accolte dalla Chiesa che Benedetto XVI – in un importante discorso del 22 dicembre 2006 – ha auspicato vengano accolte anche dal mondo islamico.
In effetti, l’esegesi musulmana del Corano ha conosciuto nell’ultimo secolo “un’intensa attività interpretativa non inferiore a quella medievale”, come ha documentato tra altri l’islamologo Massimo Campanini in un saggio pubblicato nel 2008 dalla Morcelliana col titolo: “L’esegesi musulmana del Corano nel secolo ventesimo”.
Ma l’esegesi musulmana contemporanea – mostra Campanini – si esplica soprattutto nell’applicare il Corano all’agire umano, ai comportamenti pratici; è eminentemente “un’ermeneutica della prassi”.
Per il resto, essa non innova in nulla rispetto ai metodi di esegesi tradizionali dell’islam.
*** Uno degli studiosi cattolici che applica al Corano gli strumenti della moderna esegesi, specie letteraria, è fr.
Michel Cuypers, che vive al Cairo.
Il suo ultimo libro, uscito due anni fa in Francia, è di grande suggestione.
È dedicato all’analisi di un capitolo del Corano: “Le festin: une lecture de la sourate al-Mâ’ida [Il banchetto: una lettura della sura al-Mâ’ida]”, e reca la prefazione dell’eminente studioso musulmano Mohamed-Ali Amir-Moezzi.
Di Cuypers www.chiesa ha rilanciato tempo fa un’ampia intervista e, più di recente, un articolo sul ruolo della tradizione nell’interpretazione islamica del Corano, pubblicato anche da “L’Osservatore Romano”.
In quest’ultimo articolo, nel descrivere gli ultimi sviluppi dell’interpretazione del Corano in campo musulmano, Cuypers ha mostrato come vi siano oggi dei “modernisti” che tendono a escludere il ricorso alla tradizione, con questa conseguenza: “Il Corano diventa dunque la sola fonte realmente normativa dell’islam.
Una ‘sola Scriptura’ che non è priva d’influssi da parte del modello protestante (alcuni modernisti sono volentieri chiamati i ‘Lutero dell’islam’).
Questa liberazione dalle maglie della tradizione permette d’ipotizzare una nuova esegesi del Corano, oggi richiesta da alcuni intellettuali musulmani.
Le ‘occasioni della rivelazione’, attinte agli hadîth, non sono più il metodo privilegiato d’esegesi, come nel passato.
Un’esegesi critica è ormai possibile.
“Questa posizione aperta ha tuttavia come contropartita il fatto di situare gli intellettuali musulmani modernisti ai margini della corrente generale dell’islam, che resta massicciamente legata alla sunna come norma di fede e legge, organicamente connessa al Corano.
Si comprende così che le differenti concezioni dei musulmani rispetto alla tradizione sono al cuore della crisi attuale dell’islam”.
*** Ebbene, a questo passaggio dell’articolo di Cuypers reagisce con veemenza – nella nota riprodotta più sotto – uno studioso musulmano che appartiene invece a una corrente dell’islam sunnita molto ortodossa e legata alla tradizione: la corrente asharita, il cui fondatore fu il teologo Abu ‘l-Hasan Al-Ashari (873-935) e il cui massimo esponente fu Abu Hamid Al-Ghazali (1058-1111), molto critico del suo contemporaneo Averroè, da lui accusato di razionalismo.
L’autore della nota è Aref Ali Nayed (nella foto), un nome familiare ai lettori di www.chiesa.
In questo sito egli pubblicò nel 2006 una doppia replica al memorabile discorso di Benedetto XVI a Ratisbona, e due anni dopo un commento polemico alla conversione dall’islam al cristianesimo di Magdi Allam, battezzato da papa Joseph Ratzinger nella notte di Pasqua del 2008.
Nayed è una personalità di rilievo nel dialogo tra la Chiesa cattolica e l’islam.
Nato in Libia, ha studiato filosofia della scienza ed ermeneutica negli Stati Uniti e in Canada, ha seguito corsi alla Pontificia Università Gregoriana di Roma e ha tenuto lezioni al Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica.
È consulente all’Interfaith Program dell’università di Cambridge.
Ha diretto il Royal Islamic Strategic Studies Center di Amman, in Giordania.
Ha fondato quest’anno a Dubai un centro di studi islamici chiamato Kalam Reseasrch & Media.
Ma, soprattutto, Nayed è uno dei 138 saggi musulmani che hanno indirizzato a Benedetto XVI nel 2007 la celebre lettera “Una Parola comune”.
Anzi, ne è stato il principale estensore.
Ha fatto parte della delegazione di cinque rappresentanti musulmani che il 4 e 5 marzo 2008 hanno concordato col Vaticano i successivi forum interreligiosi di dialogo, al primo dei quali ha partecipato in posizione eminente.
Insomma, con queste credenziali viene naturale classificare Nayed tra le personalità musulmane più impegnate ed “aperte” nel dialogo con la Chiesa di Roma.
Ma a leggere i suoi interventi si ricava anche che nel suo dialogare Nayed non attenua affatto gli elementi di contrasto.
Anzi, sembra quasi che li esasperi.
La lezione di Ratisbona è per lui “infamous”.
Battezzando Magdi Allam il papa ha compiuto un atto “infelice”.
E così via.
Anche nel replicare a Cuypers, Nayed adotta toni battaglieri.
Ne elude completamente le ampie e fini argomentazioni, per appuntarsi su una sola frase.
E da questa prende spunto per rovesciare sulla Chiesa cattolica, in materia di esegesi biblica, le stesse accuse di oscurantismo tipiche della polemica laicista.
E, viceversa, per rivendicare all’islam la primogenitura di quei metodi storico-critici e di analisi letteraria divenuti poi appannaggio dell’esegesi ebraica, protestante, illuminista e infine cattolica.
La lettura di questo testo inviato da Nayed a www.chiesa è istruttiva, perché fotografa il reale livello a cui si trova oggi il dialogo intellettuale tra la Chiesa cattolica e l’islam.
Gli abbracci e le dichiarazioni di pace che si producono in tante cerimonie interreligiose non devono illudere.
Nayed è persona coltissima ed amabile.
Così come lo è Cuypers, piccolo fratello di Gesù.
Ma tra i due mondi culturali c’è un abisso.
Il servizio di www.chiesa col quale Nayed polemizza è il seguente: > Anche l’islam ha i suoi Lutero.
Ma una riforma è lontana
(7.9.2009)