Cercando Poimandres

BRUNO DEL MEDICO, Cercando Poimandres. Sul viaggio di alcuni Teonauti e sulla loro iniziazione mistica al senso della vita, di: Edizioni Lampi di Stampa, 2009, pp.
356 , ISBN 978-88-488-0913-9, Prezzo: 18 euro Cercando Poimandres è un testo assolutamente particolare, non ascrivibile a nessuno dei filoni letterari classici.
Per questo l’autore ha scelto di inserirlo in un nuovo genere: la mistica fabulata.
La mistica è quella attività della mente umana, di tipo spirituale, che si occupa del mistero di Dio, quindi si supporrebbe che lo facesse in modo serioso.
Qui però l’autore tratta argomenti di alta spiritualità raccontandoli in una cornice fiabesca.
In questo modo, usando uno stile leggero ed un linguaggio fluente, rende la lettura piacevole nonostante la serietà degli argomenti.
Se all’inizio la narrazione può richiamare l’irrazionalità geniale di Calvino o anche, in alcuni tratti, l’umorismo sofisticato di Wodehouse, nel seguito acquista un tono del tutto originale: le vicende assurde di un viaggio iniziatico alla scoperta dei motivi dell’esistenza si dipanano in mondi irreali, o forse in universi altri, o forse negli spazi angusti della mente delirante del protagonista.

La sentenza della Corte di Strasburgo sul crocifisso

Ancora una volta riesplode la polemica sul crocifisso.
Questa volta in seguito al pronunciamento della Corte Europea.
La redazione vuol fornire una rassegna delle diverse opinioni circolate sugli organi di stampa.
La sentenza della Corte di Strasburgo Il crocifisso, i giudici     e Natalia Ginzburg di Giuseppe Fiorentino e Francesco M.
Valiante 
Tra tutti i simboli quotidianamente percepiti dai giovani, la sentenza emessa ieri dalla Corte di Strasburgo – che proibisce l’esposizione del crocifisso dalle aule scolastiche italiane perché sarebbe contraria al diritto dei genitori di educare i figli in linea con le loro convinzioni e al diritto dei bambini alla libertà di religione – ha colpito quello che più rappresenta una grande tradizione, non solo religiosa, del Continente europeo.
“Il crocifisso non genera nessuna discriminazione.
Tace.
È l’immagine della rivoluzione cristiana che ha sparso per il mondo l’idea dell’eguaglianza tra gli uomini fino allora assente”.
A scrivere queste parole, il 22 marzo 1988, era Natalia Ginzburg sulle pagine de “l’Unità”, il quotidiano fondato da Antonio Gramsci, allora organo del Partito comunista italiano.
Le parole della scrittrice, a oltre vent’anni di distanza, esprimono un sentimento ancora ampiamente condiviso in Italia.
Ne sono dimostrazione le tante reazioni seguite al pronunciamento della Corte europea.
Mentre il Governo italiano ha annunciato di aver presentato ricorso contro la sentenza, il mondo politico ha evidenziato quasi unanimemente la mancanza di buon senso insita nel provvedimento, ribadendo come la laicità delle istituzioni sia un valore ben diverso dalla negazione del ruolo del cristianesimo.
“Stupore e rammarico” sono stati espressi in particolare dal direttore della Sala Stampa della Santa Sede, il gesuita Federico Lombardi, in una severa dichiarazione trasmessa dalla Radio Vaticana e dal Tg1.
“È grave – ha affermato – voler emarginare dal mondo educativo un segno fondamentale dell’importanza dei valori religiosi nella storia e nella cultura italiana”.
E ha continuato:  “Stupisce poi che una Corte europea intervenga pesantemente in una materia molto profondamente legata all’identità storica, culturale e spirituale del popolo italiano.
Non è per questa via che si viene attratti ad amare e condividere di più l’idea europea, che come cattolici italiani abbiamo fortemente sostenuto fin dalle sue origini”.
Di “visione parziale e ideologica” ha parlato la Conferenza episcopale italiana, sottolineando che nella decisione della Corte “risulta ignorato o trascurato il molteplice significato del crocifisso, che non è solo simbolo religioso ma anche segno culturale”.
Va ricordato che in Italia il Consiglio di Stato nel 2006 aveva già ritenuto legittime le norme che prevedono l’esposizione del crocifisso nelle scuole, affermando che questo non assume valore discriminatorio per i non credenti perché rappresenta “valori civilmente rilevanti e, segnatamente, quei valori che soggiacciono e ispirano il nostro ordine costituzionale”.
In effetti la sentenza della Corte di Strasburgo, con l’intento di voler tutelare i diritti dell’uomo, finisce per mettere in discussione le radici sulle quali quegli stessi diritti si fondano, disconoscendo l’importanza del ruolo della religione – e in particolare del cristianesimo – nella costruzione dell’identità europea e nell’affermazione della centralità dell’uomo nella società.
Sotto altro profilo, la decisione dei giudici di Strasburgo sembra ispirata a un’idea di laicità dello Stato che porta a emarginare il contributo della religione alla vita pubblica.
Si potrebbe così prefigurare un futuro non tanto lontano fatto di ambienti pubblici privi di qualunque riferimento religioso e culturale nel timore di offendere l’altrui sensibilità.
In realtà, non è nella negazione, bensì nell’accoglienza e nel rispetto delle diverse identità che si difende l’idea di laicità dello Stato e si favorisce l’integrazione tra le varie culture.
“Il crocifisso rappresenta tutti” – spiegava Natalia Ginzburg – perché “prima di Cristo nessuno aveva mai detto che gli uomini sono uguali e fratelli tutti, ricchi e poveri, credenti e non credenti,  ebrei  e  non  ebrei  e  neri  e bianchi”.
(©L’Osservatore Romano – 5 novembre 2009) Il cardinale Bertone:  una vera perdita  “Questa Europa del terzo millennio ci lascia solo le zucche delle feste recentemente ripetute e ci toglie i simboli più cari”.
Lo ha detto il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, commentando stamane la sentenza della Corte di Strasburgo sul crocifisso nelle aule scolastiche.
“Questa – ha aggiunto – è veramente una perdita.
Dobbiamo cercare con tutte le forze di conservare i segni della nostra fede per chi crede e per chi non crede”.
Dopo aver espresso “apprezzamento” per l’iniziativa del Governo italiano, che ha annunciato ricorso contro la decisione dei giudici europei, il porporato ha ricordato che il crocifisso “è simbolo di amore universale, non di esclusione ma di accoglienza”.
“Mi domando – ha concluso – se questa sentenza sia un  segno  di  ragionevolezza  oppure no”.
(©L’Osservatore Romano – 5 novembre 2009) Prova di accecata sentenziosità di Fabrizio D’Agostino in “Avvenire” del 4 novembre 2009 La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che condanna l’Italia per l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, non si basa di certo su argomentazioni nuove o approfondite, ma si limita a ribadire il principio laicista, che vede in qualunque simbolo religioso cui venga dato rilievo in un’istituzione pubblica un attentato alla libertà religiosa e per quel che concerne le scuole alla libertà di educazione.
La sentenza richiama sommariamente, ma con una certa precisione, le argomentazioni in base alle quali la magistratura italiana, dopo qualche tentennamento, era giunta a concludere che nella tradizione del nostro Paese il crocifisso non è un simbolo esclusivamente religioso, ma culturale e civile: in esso si condensa gran parte della storia italiana, in esso si riassume una sensibilità diffusa e presente non solo nei credenti, ma anche nei non credenti.
In quanto icona dell’amore, della donazione gratuita di sé e della violenza estrema cui può soccombere l’innocente, quando le forze del male lo aggrediscono, il crocifisso è un simbolo universale, non confessionale.
Gli spiriti veramente grandi l’hanno sempre compreso: se non tutti credono in Gesù come Cristo, nell’umanità sofferente dell’uomo Gesù, appeso alla croce e che accetta il supplizio, dobbiamo se non credere, almeno avere tutti un profondo rispetto, se non vogliamo ridurre la convivenza tra gli uomini a un mero gioco di forze anonime e crudeli.
Tutto questo, evidentemente, non è stato percepito dalla signora Soile Lautsi, la madre che pur di fare eliminare il crocifisso dalle aule, ha iniziato (nel 2002) una lunga, complessa (e, presumo, anche costosa) procedura giudiziaria, né è stato percepito dai giudici che alla fine hanno accolto le sue ragioni.
La vicenda giudiziaria potrà riservarci ancora sorprese.
Quello che non ci sorprende più, purtroppo, è l’accecamento ideologico che sorregge questa vicenda, la completa indifferenza per le ragioni della storia e della cultura, l’illusoria pretesa che la mera presenza di un crocifisso possa fare violenza alla sensibilità degli scolari e giunga ad impedire ai genitori di esercitare nei loro confronti quella specifica missione educativa, che è loro dovere e loro diritto.
E non ci sorprende più, purtroppo, il fatto che i giudici della Corte europea non percepiscano di agire con queste loro sentenze contro l’Europa, contro il suo spirito, contro le sue radici, rendendo così l’Europa stessa sempre meno ‘amabile’ da parte di molti che, pure, ritengono l’europeismo un valore particolarmente alto.
Ancora: è sfuggito alla ricorrente e – cosa ancor più grave – è sfuggito ai giudici che hanno redatto la sentenza che la laicità non si garantisce moltiplicando gli interdetti o marginalizzando le esigenze di visibilità della religioni, ma impegnandosi per garantire la loro compatibilità nelle complesse società multietniche tipiche del tempo in cui viviamo.
La laicità non prospera nella freddezza delle istituzioni, nella neutralizzazione degli spazi pubblici, nell’abolizione di ogni riferimento, diretto o indiretto, a Dio.
Quando è così che la laicità viene pensata, propagandata e promossa si ottiene come effetto non una promozione di quello specifico bene umano che è la convivenza, ma una sua atrofizzazione.
La sensibilità religiosa, ci ha spiegato Habermas (un grande spirito laico) non è un residuo di epoche arcaiche, che la sensibilità moderna sarebbe chiamata a superare e a dissolvere, ma appartiene piuttosto e pienamente alla modernità, come una delle sue forze costitutive: tra sensibilità religiosa e sensibilità laica non deve mai istaurarsi una conflittualità, ma una dinamica di ‘apprendimento complementare’, alla quale non può che ripugnare ogni logica di esclusione.
Quanto tempo ancora ci vorrà perché simili verità vengano finalmente percepite dai tanti ottusi laicisti, che pensano ancora che sia dovere fondamentale degli educatori quello di indurre le giovani generazioni a vivere «come se Dio non ci fosse»? La Croce che non s’impone di Marco Politi in “il Fatto quotidiano” del 4 novembre 2009 La croce non si impone.
E’ il messaggio che viene da Strasburgo, dove la Corte europea dei diritti dell’uomo ha sancito che i crocifissi nelle aule scolastiche rappresentano una doppia violazione.
Perché negano la libertà dei genitori di educare i figli secondo le proprie convinzioni religiose o filosofiche e al tempo stesso violano la libertà degli alunni.
Il governo italiano, tanto attento alla fede cristiana nei suoi proclami quanto a-religioso nei comportamenti del suo leader, ha subito deciso di presentare ricorso.
Agitazione al centro e a destra, dove il ministro Frattini paventa un “colpo mortale all’Europa”, mentre l’Udc Rocco Buttiglione parla di “sentenza aberrante da respingere”.
Prudenza nel centrosinistra: il neo-segretario Pd Bersani si limita a definire la presenza del crocifisso nella aule una “tradizione inoffensiva”.
Eppure la Corte europea dei diritti dell’uomo è solo responsabile di chiarezza.
Non è la sua una scelta antireligiosa, come si affrettano a diffondere le prefiche che lamentano continuamente la perdita delle «radici cristiane d’Europa».
Al contrario è il limpido riconoscimento che i simboli religiosi sono segni potenti, che incidono sulle coscienze.
Da tempo l’Italia pseudo-religiosa della cattiva coscienza, per sfuggire alla questione della laicità delle istituzioni, si è inventata la spiegazione che il crocifisso sia soltanto un simbolo della tradizione italiana, un’espressione del suo patrimonio storico e ideale, un incoraggiamento alla bontà e a valori di umanità condivisibili da credenti e non credenti.
Non è così.
O meglio, tutto questo insieme di richiami è certamente comprensibile ma non può cancellare il significato profondo e in ultima istanza esplicito di un crocifisso esposto in un ambiente scolastico o nell’aula di un tribunale.
Il crocifisso sulla cattedra è il richiamo preciso ad una Verità superiore a qualsiasi insegnamento umano.
Il crocifisso sovrastante le toghe dei magistrati è il monito a ispirarsi e non dimenticare mai la Giustizia superiore che promana da Dio.
È accettabile tutto ciò da parte di chi non crede in “quel” simbolo? E’ lecito imporlo a quanti sono diversamente credenti sia che seguano un’altra religione sia che abbiano fatto un’opzione etica non legata alla trascendenza? La risposta non può che essere no.
Già negli anni Novanta nel paese natale di papa Ratzinger la Corte Costituzionale tedesca sancì con parole pregnanti che nessuno può essere costretto a studiare “sotto la croce”, perché la sua esposizione obbligata è lesiva della libertà di coscienza.
Persino la cattolicissima Baviera – lo riferì a suo tempo anche l’Avvenire non disdegnando la soluzione – ha affrontato il problema.
In quel Land tedesco il crocifisso è di norma esposto nelle aule scolastiche: se però degli studenti obiettano, le autorità scolastiche aprono un confronto che può condurre alla rimozione del simbolo.
Il messaggio di Strasburgo porta in Italia una ventata di chiarezza.
Non nega affatto la vitalità di una tradizione culturale.
Non “colpisce”, come lamenta l’Osservatore Romano, una grande tradizione.
Strade, piazze, monumenti continueranno a testimoniare il vissuto secolare di un’esperienza religiosa.
Edicole, crocifissi, statue di santi, chiese e oratori continueranno a parlare di una storia straordinaria.
(Ma meglio sarebbe che gli alfieri della difesa delle «radici cristiane» si chiedessero perché tante chiese vuote, perché tanta ignoranza religiosa negli alunni che escono da più di dieci anni di insegnamento della religione a scuola, perché sono semivuoti i seminari e deserti i confessionali).
Né viene toccato il diritto fondamentale dei credenti, come di ogni altro cittadino di diverso orientamento, di agire sulla scena pubblica.
La Corte europea dei diritti dell’uomo afferma invece un principio basilare: nessuna istituzione può essere sotto il marchio di un unico segno religioso.
Laicità significa apertura e neutralità, rifiuto del monopolio.
Ci voleva la tenacia di una madre finlandese trasferita in Italia, Soile Lautsi, per intraprendere insieme al marito Massimo Albertini la lunga marcia dal consiglio di classe di una scuola di Abano al Tar, al Consiglio di Stato, alla Corte costituzionale, alla Corte di Strasburgo perché l’Italia fosse ammonita a rispettare questo elementare principio.
Se si chiede alla coppia cosa le ha dato la tenacia di non arrendersi al conformismo delle autorità, la riposta è sobria: “L’amore per i figli, il desiderio di proteggerli.
E loro, cresciuti nel frattempo, ci hanno detto di andare avanti”.
Sostiene la conferenza episcopale italiana che la sentenza di Strasburgo suscita “amarezza e perplessità”, perché risulterebbe ignorato il valore culturale del simbolo religioso e il fatto che il Concordato riformato del 1984 riconosce i principi del cattolicesimo come “parte del patrimonio storico del popolo italiano”.
È questa parola “parte” che i vescovi dovrebbero non dimenticare.
Il cattolicesimo non è più religione di Stato né esiste nella Costituzione repubblicana un attestato di religione speciale, rispetto alla quale altre fedi o orientamenti filosofici sono di seconda categoria.
«Sentenza rispettosa delle pluralità culturali» intervista a Clara Gallini a cura di Iaia Vantaggiato in “il manifesto” del 4 novembre 2009 A Clara Gallini, docente di etnologia e protagonista dell’antropologia italiana, chiediamo di commentare la sentenza di Strasburgo.
Lei è autrice di due libri, pubblicati rispettivamente da Boringhieri e dalla manifestolibri, «Croce e delizia» e «Il ritorno delle croci».
Come valuta questa sentenza? A me turba sempre constatare che la questione dei crocifissi venga dibattuta e sancita in sede legislativa o comunque giuridica.
La sentenza, comunque, mi sembra giusta ed equa, rispettosa delle diversità culturali che attraversano da sempre la storia europea.
E il suo giudizio da antropologa? Il mio punto di vista di antropologa è un po’ diverso da quello giuridico-normativo.
Si parla molto di radici cristiane dell’Europa ma mi sono interrogata e mi interrogo sul rapporto reale e concreto che i soggetti sociali hanno con i loro simboli.
Non è un rapporto definito una volta per tutte.
I simboli significano messaggi diversi a seconda dei soggetti che si rapportano a loro e persino dei luoghi, degli spazi reali o immaginari in cui i simboli si collocano.
Da antropologa mi è stato possibile constatare che i crocifissi sono quasi del tutto spariti dalle abitazioni, dove era possibile incontrarli come presenze forti, collocati a capo del letto e accompagnati dal ramo d’ulivo pasquale, segno di resurrezione.
Crocifissi collocati a capo del letto.
Ma perché proprio lì? È un etica diversa quella che si costruisce, almeno in Italia, nel secondo dopoguerra.
Un’etica che connetteva anche spazialmente e visivamente la casa con la chiesa, un’etica che trasformava il letto in luogo sacrificale in cui tutto si consumava tragicamente, dal nascere al morire.
Ora si nasce e si muore in altri luoghi.
Il letto non è più un altare e il luogo dell’amplesso si va trasformando anche con una affermazione, in positivo, dell’etica del piacere, l’esatto contrario dell’etica sacrificale che vedeva nel morto in croce il proprio centro.
A un certo punto, però, i crocifissi sono spariti dalle nostre stanze da letto.
Quando e perché? L’espulsione dalle pareti domestiche è avvenuta parallelamente al boom dei consumi e alla costruzione di altri modelli di vita familiare e domestica.
Peraltro, sono state mani concrete di persone quelle che hanno staccato questi sacri simboli dai luoghi in cui si trovavano per riporli altrove e dimenticarli in qualche ripostiglio.
Di questo ho scritto in «Croce e delizia».
Di una delle facce della medaglia, cioè, che si connette – per differenziarsi – all’altro aspetto, quello severo, drammatico, ufficiale che consiste nell’imposizione per legge del simbolo sacro cristiano all’interno degli spazi pubblici, argomento trattato ne «Il ritorno delle croci».
Sono due chiavi molto diverse, quella del privato e quella del pubblico e quella del pubblico si afferma attraverso atti che sono essenzialmente di natura politica.
In molti commentano la sentenza di Strasburgo come un «attentato» alle radici cristiane dell’Europa.
Non crede che la questione delle «radici» sia più complessa? Io credo che le radici cristiane esistano ma sono fluide, morbide, acquatiche e si sono sviluppate in direzioni molto diverse concorrendo, ciascuna a modo suo, a costruire il nostro panorama culturale.
Vorrei aggiungere una cosa che mi sembra un po’ meno dibattuta.
Forse sbaglio ma mi sembra che chi parla di radici cristiane intenda sotto sotto e in modo mascherato dire radici cattoliche.
Radici cristiane verrebbero così a significare primato intellettuale e morale della chiesa cattolica.
Parlare di Europa cristiana senza tener conto delle guerre di religione, delle secessioni che hanno portato alla formazione di nuove chiese evangeliche, tacere tutto questo mi sembra un’operazione molto pericolosa.
Può farci un esempio? In questi giorni a Roma, a palazzo Venezia, è visitabile una grandiosa mostra titolata «Il potere e la grazia» che concerne il culto dei santi.
Non entro in merito ai discutibili criteri di scelta e organizzazione delle immagini.
Mi ha colpito però notare che già la prima fase di illustrazione ai materiali esposti concernesse le radici cristiane d’Europa.
Tutta la mostra espone una certa iconografia di santi cattolici più un certo numero di icone provenienti da chiese cristiane d’Oriente.
Termina inoltre con l’esposizione di uno splendido cavaliere armato che schiaccia la testa al Moro.
Sostenendo, sempre nelle spiegazioni, che l’immagine del cavaliere risignificasse le varie culture locali unificandole nelle diversità.
Bene, non ho visto in questa mostra alcun accenno al fatto che la grande contesa che dilaniò l’Europa opponendo i cosiddetti «protestanti» alla chiesa romana, toccò assieme alla questione della cristologia generale e del potere papale anche quella del culto dei santi, bollato di idolatria.
Torniamo al crocifisso.
Nel suo «Il ritorno delle croci», lei ricostruisce la storia di due grandi azioni simboliche compiute da Mussolini.
Ce ne parla? Sì, in quel libro parlo di quella che si chiamò «la restituzione delle croci», croci che erano state tolte dai luoghi laici più significativi della città di Roma quali il Campidoglio e il Colosseo.
Queste restituzioni si accompagnarono a grandi manifestazioni di folla – naturalmente organizzata – cui parteciparono autorità politiche e religiose e che segnarono la conclusione di tutta una storia pregressa che aveva visto togliere in vari modi il simbolo dai luoghi pubblici negli anni dell’affermazione di Roma capitale, quindi poco dopo il 1870.
Ancora una volta riesplode la polemica sul crocifisso.
Questa volta in seguito al pronunciamento della Corte Europea.
La redazione vuol fornire una rassegna delle diverse opinioni circolate sugli organi di stampa.
La sentenza della Corte di Strasburgo Il crocifisso, i giudici     e Natalia Ginzburg di Giuseppe Fiorentino e Francesco M.
Valiante 
Tra tutti i simboli quotidianamente percepiti dai giovani, la sentenza emessa ieri dalla Corte di Strasburgo – che proibisce l’esposizione del crocifisso dalle aule scolastiche italiane perché sarebbe contraria al diritto dei genitori di educare i figli in linea con le loro convinzioni e al diritto dei bambini alla libertà di religione – ha colpito quello che più rappresenta una grande tradizione, non solo religiosa, del Continente europeo.
“Il crocifisso non genera nessuna discriminazione.
Tace.
È l’immagine della rivoluzione cristiana che ha sparso per il mondo l’idea dell’eguaglianza tra gli uomini fino allora assente”.
A scrivere queste parole, il 22 marzo 1988, era Natalia Ginzburg sulle pagine de “l’Unità”, il quotidiano fondato da Antonio Gramsci, allora organo del Partito comunista italiano.
Le parole della scrittrice, a oltre vent’anni di distanza, esprimono un sentimento ancora ampiamente condiviso in Italia.
Ne sono dimostrazione le tante reazioni seguite al pronunciamento della Corte europea.
Mentre il Governo italiano ha annunciato di aver presentato ricorso contro la sentenza, il mondo politico ha evidenziato quasi unanimemente la mancanza di buon senso insita nel provvedimento, ribadendo come la laicità delle istituzioni sia un valore ben diverso dalla negazione del ruolo del cristianesimo.
“Stupore e rammarico” sono stati espressi in particolare dal direttore della Sala Stampa della Santa Sede, il gesuita Federico Lombardi, in una severa dichiarazione trasmessa dalla Radio Vaticana e dal Tg1.
“È grave – ha affermato – voler emarginare dal mondo educativo un segno fondamentale dell’importanza dei valori religiosi nella storia e nella cultura italiana”.
E ha continuato:  “Stupisce poi che una Corte europea intervenga pesantemente in una materia molto profondamente legata all’identità storica, culturale e spirituale del popolo italiano.
Non è per questa via che si viene attratti ad amare e condividere di più l’idea europea, che come cattolici italiani abbiamo fortemente sostenuto fin dalle sue origini”.
Di “visione parziale e ideologica” ha parlato la Conferenza episcopale italiana, sottolineando che nella decisione della Corte “risulta ignorato o trascurato il molteplice significato del crocifisso, che non è solo simbolo religioso ma anche segno culturale”.
Va ricordato che in Italia il Consiglio di Stato nel 2006 aveva già ritenuto legittime le norme che prevedono l’esposizione del crocifisso nelle scuole, affermando che questo non assume valore discriminatorio per i non credenti perché rappresenta “valori civilmente rilevanti e, segnatamente, quei valori che soggiacciono e ispirano il nostro ordine costituzionale”.
In effetti la sentenza della Corte di Strasburgo, con l’intento di voler tutelare i diritti dell’uomo, finisce per mettere in discussione le radici sulle quali quegli stessi diritti si fondano, disconoscendo l’importanza del ruolo della religione – e in particolare del cristianesimo – nella costruzione dell’identità europea e nell’affermazione della centralità dell’uomo nella società.
Sotto altro profilo, la decisione dei giudici di Strasburgo sembra ispirata a un’idea di laicità dello Stato che porta a emarginare il contributo della religione alla vita pubblica.
Si potrebbe così prefigurare un futuro non tanto lontano fatto di ambienti pubblici privi di qualunque riferimento religioso e culturale nel timore di offendere l’altrui sensibilità.
In realtà, non è nella negazione, bensì nell’accoglienza e nel rispetto delle diverse identità che si difende l’idea di laicità dello Stato e si favorisce l’integrazione tra le varie culture.
“Il crocifisso rappresenta tutti” – spiegava Natalia Ginzburg – perché “prima di Cristo nessuno aveva mai detto che gli uomini sono uguali e fratelli tutti, ricchi e poveri, credenti e non credenti,  ebrei  e  non  ebrei  e  neri  e bianchi”.
(©L’Osservatore Romano – 5 novembre 2009) Il cardinale Bertone:  una vera perdita  “Questa Europa del terzo millennio ci lascia solo le zucche delle feste recentemente ripetute e ci toglie i simboli più cari”.
Lo ha detto il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, commentando stamane la sentenza della Corte di Strasburgo sul crocifisso nelle aule scolastiche.
“Questa – ha aggiunto – è veramente una perdita.
Dobbiamo cercare con tutte le forze di conservare i segni della nostra fede per chi crede e per chi non crede”.
Dopo aver espresso “apprezzamento” per l’iniziativa del Governo italiano, che ha annunciato ricorso contro la decisione dei giudici europei, il porporato ha ricordato che il crocifisso “è simbolo di amore universale, non di esclusione ma di accoglienza”.
“Mi domando – ha concluso – se questa sentenza sia un  segno  di  ragionevolezza  oppure no”.
(©L’Osservatore Romano – 5 novembre 2009) Prova di accecata sentenziosità di Fabrizio D’Agostino in “Avvenire” del 4 novembre 2009 La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che condanna l’Italia per l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, non si basa di certo su argomentazioni nuove o approfondite, ma si limita a ribadire il principio laicista, che vede in qualunque simbolo religioso cui venga dato rilievo in un’istituzione pubblica un attentato alla libertà religiosa e per quel che concerne le scuole alla libertà di educazione.
La sentenza richiama sommariamente, ma con una certa precisione, le argomentazioni in base alle quali la magistratura italiana, dopo qualche tentennamento, era giunta a concludere che nella tradizione del nostro Paese il crocifisso non è un simbolo esclusivamente religioso, ma culturale e civile: in esso si condensa gran parte della storia italiana, in esso si riassume una sensibilità diffusa e presente non solo nei credenti, ma anche nei non credenti.
In quanto icona dell’amore, della donazione gratuita di sé e della violenza estrema cui può soccombere l’innocente, quando le forze del male lo aggrediscono, il crocifisso è un simbolo universale, non confessionale.
Gli spiriti veramente grandi l’hanno sempre compreso: se non tutti credono in Gesù come Cristo, nell’umanità sofferente dell’uomo Gesù, appeso alla croce e che accetta il supplizio, dobbiamo se non credere, almeno avere tutti un profondo rispetto, se non vogliamo ridurre la convivenza tra gli uomini a un mero gioco di forze anonime e crudeli.
Tutto questo, evidentemente, non è stato percepito dalla signora Soile Lautsi, la madre che pur di fare eliminare il crocifisso dalle aule, ha iniziato (nel 2002) una lunga, complessa (e, presumo, anche costosa) procedura giudiziaria, né è stato percepito dai giudici che alla fine hanno accolto le sue ragioni.
La vicenda giudiziaria potrà riservarci ancora sorprese.
Quello che non ci sorprende più, purtroppo, è l’accecamento ideologico che sorregge questa vicenda, la completa indifferenza per le ragioni della storia e della cultura, l’illusoria pretesa che la mera presenza di un crocifisso possa fare violenza alla sensibilità degli scolari e giunga ad impedire ai genitori di esercitare nei loro confronti quella specifica missione educativa, che è loro dovere e loro diritto.
E non ci sorprende più, purtroppo, il fatto che i giudici della Corte europea non percepiscano di agire con queste loro sentenze contro l’Europa, contro il suo spirito, contro le sue radici, rendendo così l’Europa stessa sempre meno ‘amabile’ da parte di molti che, pure, ritengono l’europeismo un valore particolarmente alto.
Ancora: è sfuggito alla ricorrente e – cosa ancor più grave – è sfuggito ai giudici che hanno redatto la sentenza che la laicità non si garantisce moltiplicando gli interdetti o marginalizzando le esigenze di visibilità della religioni, ma impegnandosi per garantire la loro compatibilità nelle complesse società multietniche tipiche del tempo in cui viviamo.
La laicità non prospera nella freddezza delle istituzioni, nella neutralizzazione degli spazi pubblici, nell’abolizione di ogni riferimento, diretto o indiretto, a Dio.
Quando è così che la laicità viene pensata, propagandata e promossa si ottiene come effetto non una promozione di quello specifico bene umano che è la convivenza, ma una sua atrofizzazione.
La sensibilità religiosa, ci ha spiegato Habermas (un grande spirito laico) non è un residuo di epoche arcaiche, che la sensibilità moderna sarebbe chiamata a superare e a dissolvere, ma appartiene piuttosto e pienamente alla modernità, come una delle sue forze costitutive: tra sensibilità religiosa e sensibilità laica non deve mai istaurarsi una conflittualità, ma una dinamica di ‘apprendimento complementare’, alla quale non può che ripugnare ogni logica di esclusione.
Quanto tempo ancora ci vorrà perché simili verità vengano finalmente percepite dai tanti ottusi laicisti, che pensano ancora che sia dovere fondamentale degli educatori quello di indurre le giovani generazioni a vivere «come se Dio non ci fosse»? La Croce che non s’impone di Marco Politi in “il Fatto quotidiano” del 4 novembre 2009 La croce non si impone.
E’ il messaggio che viene da Strasburgo, dove la Corte europea dei diritti dell’uomo ha sancito che i crocifissi nelle aule scolastiche rappresentano una doppia violazione.
Perché negano la libertà dei genitori di educare i figli secondo le proprie convinzioni religiose o filosofiche e al tempo stesso violano la libertà degli alunni.
Il governo italiano, tanto attento alla fede cristiana nei suoi proclami quanto a-religioso nei comportamenti del suo leader, ha subito deciso di presentare ricorso.
Agitazione al centro e a destra, dove il ministro Frattini paventa un “colpo mortale all’Europa”, mentre l’Udc Rocco Buttiglione parla di “sentenza aberrante da respingere”.
Prudenza nel centrosinistra: il neo-segretario Pd Bersani si limita a definire la presenza del crocifisso nella aule una “tradizione inoffensiva”.
Eppure la Corte europea dei diritti dell’uomo è solo responsabile di chiarezza.
Non è la sua una scelta antireligiosa, come si affrettano a diffondere le prefiche che lamentano continuamente la perdita delle «radici cristiane d’Europa».
Al contrario è il limpido riconoscimento che i simboli religiosi sono segni potenti, che incidono sulle coscienze.
Da tempo l’Italia pseudo-religiosa della cattiva coscienza, per sfuggire alla questione della laicità delle istituzioni, si è inventata la spiegazione che il crocifisso sia soltanto un simbolo della tradizione italiana, un’espressione del suo patrimonio storico e ideale, un incoraggiamento alla bontà e a valori di umanità condivisibili da credenti e non credenti.
Non è così.
O meglio, tutto questo insieme di richiami è certamente comprensibile ma non può cancellare il significato profondo e in ultima istanza esplicito di un crocifisso esposto in un ambiente scolastico o nell’aula di un tribunale.
Il crocifisso sulla cattedra è il richiamo preciso ad una Verità superiore a qualsiasi insegnamento umano.
Il crocifisso sovrastante le toghe dei magistrati è il monito a ispirarsi e non dimenticare mai la Giustizia superiore che promana da Dio.
È accettabile tutto ciò da parte di chi non crede in “quel” simbolo? E’ lecito imporlo a quanti sono diversamente credenti sia che seguano un’altra religione sia che abbiano fatto un’opzione etica non legata alla trascendenza? La risposta non può che essere no.
Già negli anni Novanta nel paese natale di papa Ratzinger la Corte Costituzionale tedesca sancì con parole pregnanti che nessuno può essere costretto a studiare “sotto la croce”, perché la sua esposizione obbligata è lesiva della libertà di coscienza.
Persino la cattolicissima Baviera – lo riferì a suo tempo anche l’Avvenire non disdegnando la soluzione – ha affrontato il problema.
In quel Land tedesco il crocifisso è di norma esposto nelle aule scolastiche: se però degli studenti obiettano, le autorità scolastiche aprono un confronto che può condurre alla rimozione del simbolo.
Il messaggio di Strasburgo porta in Italia una ventata di chiarezza.
Non nega affatto la vitalità di una tradizione culturale.
Non “colpisce”, come lamenta l’Osservatore Romano, una grande tradizione.
Strade, piazze, monumenti continueranno a testimoniare il vissuto secolare di un’esperienza religiosa.
Edicole, crocifissi, statue di santi, chiese e oratori continueranno a parlare di una storia straordinaria.
(Ma meglio sarebbe che gli alfieri della difesa delle «radici cristiane» si chiedessero perché tante chiese vuote, perché tanta ignoranza religiosa negli alunni che escono da più di dieci anni di insegnamento della religione a scuola, perché sono semivuoti i seminari e deserti i confessionali).
Né viene toccato il diritto fondamentale dei credenti, come di ogni altro cittadino di diverso orientamento, di agire sulla scena pubblica.
La Corte europea dei diritti dell’uomo afferma invece un principio basilare: nessuna istituzione può essere sotto il marchio di un unico segno religioso.
Laicità significa apertura e neutralità, rifiuto del monopolio.
Ci voleva la tenacia di una madre finlandese trasferita in Italia, Soile Lautsi, per intraprendere insieme al marito Massimo Albertini la lunga marcia dal consiglio di classe di una scuola di Abano al Tar, al Consiglio di Stato, alla Corte costituzionale, alla Corte di Strasburgo perché l’Italia fosse ammonita a rispettare questo elementare principio.
Se si chiede alla coppia cosa le ha dato la tenacia di non arrendersi al conformismo delle autorità, la riposta è sobria: “L’amore per i figli, il desiderio di proteggerli.
E loro, cresciuti nel frattempo, ci hanno detto di andare avanti”.
Sostiene la conferenza episcopale italiana che la sentenza di Strasburgo suscita “amarezza e perplessità”, perché risulterebbe ignorato il valore culturale del simbolo religioso e il fatto che il Concordato riformato del 1984 riconosce i principi del cattolicesimo come “parte del patrimonio storico del popolo italiano”.
È questa parola “parte” che i vescovi dovrebbero non dimenticare.
Il cattolicesimo non è più religione di Stato né esiste nella Costituzione repubblicana un attestato di religione speciale, rispetto alla quale altre fedi o orientamenti filosofici sono di seconda categoria.
«Sentenza rispettosa delle pluralità culturali» intervista a Clara Gallini a cura di Iaia Vantaggiato in “il manifesto” del 4 novembre 2009 A Clara Gallini, docente di etnologia e protagonista dell’antropologia italiana, chiediamo di commentare la sentenza di Strasburgo.
Lei è autrice di due libri, pubblicati rispettivamente da Boringhieri e dalla manifestolibri, «Croce e delizia» e «Il ritorno delle croci».
Come valuta questa sentenza? A me turba sempre constatare che la questione dei crocifissi venga dibattuta e sancita in sede legislativa o comunque giuridica.
La sentenza, comunque, mi sembra giusta ed equa, rispettosa delle diversità culturali che attraversano da sempre la storia europea.
E il suo giudizio da antropologa? Il mio punto di vista di antropologa è un po’ diverso da quello giuridico-normativo.
Si parla molto di radici cristiane dell’Europa ma mi sono interrogata e mi interrogo sul rapporto reale e concreto che i soggetti sociali hanno con i loro simboli.
Non è un rapporto definito una volta per tutte.
I simboli significano messaggi diversi a seconda dei soggetti che si rapportano a loro e persino dei luoghi, degli spazi reali o immaginari in cui i simboli si collocano.
Da antropologa mi è stato possibile constatare che i crocifissi sono quasi del tutto spariti dalle abitazioni, dove era possibile incontrarli come presenze forti, collocati a capo del letto e accompagnati dal ramo d’ulivo pasquale, segno di resurrezione.
Crocifissi collocati a capo del letto.
Ma perché proprio lì? È un etica diversa quella che si costruisce, almeno in Italia, nel secondo dopoguerra.
Un’etica che connetteva anche spazialmente e visivamente la casa con la chiesa, un’etica che trasformava il letto in luogo sacrificale in cui tutto si consumava tragicamente, dal nascere al morire.
Ora si nasce e si muore in altri luoghi.
Il letto non è più un altare e il luogo dell’amplesso si va trasformando anche con una affermazione, in positivo, dell’etica del piacere, l’esatto contrario dell’etica sacrificale che vedeva nel morto in croce il proprio centro.
A un certo punto, però, i crocifissi sono spariti dalle nostre stanze da letto.
Quando e perché? L’espulsione dalle pareti domestiche è avvenuta parallelamente al boom dei consumi e alla costruzione di altri modelli di vita familiare e domestica.
Peraltro, sono state mani concrete di persone quelle che hanno staccato questi sacri simboli dai luoghi in cui si trovavano per riporli altrove e dimenticarli in qualche ripostiglio.
Di questo ho scritto in «Croce e delizia».
Di una delle facce della medaglia, cioè, che si connette – per differenziarsi – all’altro aspetto, quello severo, drammatico, ufficiale che consiste nell’imposizione per legge del simbolo sacro cristiano all’interno degli spazi pubblici, argomento trattato ne «Il ritorno delle croci».
Sono due chiavi molto diverse, quella del privato e quella del pubblico e quella del pubblico si afferma attraverso atti che sono essenzialmente di natura politica.
In molti commentano la sentenza di Strasburgo come un «attentato» alle radici cristiane dell’Europa.
Non crede che la questione delle «radici» sia più complessa? Io credo che le radici cristiane esistano ma sono fluide, morbide, acquatiche e si sono sviluppate in direzioni molto diverse concorrendo, ciascuna a modo suo, a costruire il nostro panorama culturale.
Vorrei aggiungere una cosa che mi sembra un po’ meno dibattuta.
Forse sbaglio ma mi sembra che chi parla di radici cristiane intenda sotto sotto e in modo mascherato dire radici cattoliche.
Radici cristiane verrebbero così a significare primato intellettuale e morale della chiesa cattolica.
Parlare di Europa cristiana senza tener conto delle guerre di religione, delle secessioni che hanno portato alla formazione di nuove chiese evangeliche, tacere tutto questo mi sembra un’operazione molto pericolosa.
Può farci un esempio? In questi giorni a Roma, a palazzo Venezia, è visitabile una grandiosa mostra titolata «Il potere e la grazia» che concerne il culto dei santi.
Non entro in merito ai discutibili criteri di scelta e organizzazione delle immagini.
Mi ha colpito però notare che già la prima fase di illustrazione ai materiali esposti concernesse le radici cristiane d’Europa.
Tutta la mostra espone una certa iconografia di santi cattolici più un certo numero di icone provenienti da chiese cristiane d’Oriente.
Termina inoltre con l’esposizione di uno splendido cavaliere armato che schiaccia la testa al Moro.
Sostenendo, sempre nelle spiegazioni, che l’immagine del cavaliere risignificasse le varie culture locali unificandole nelle diversità.
Bene, non ho visto in questa mostra alcun accenno al fatto che la grande contesa che dilaniò l’Europa opponendo i cosiddetti «protestanti» alla chiesa romana, toccò assieme alla questione della cristologia generale e del potere papale anche quella del culto dei santi, bollato di idolatria.
Torniamo al crocifisso.
Nel suo «Il ritorno delle croci», lei ricostruisce la storia di due grandi azioni simboliche compiute da Mussolini.
Ce ne parla? Sì, in quel libro parlo di quella che si chiamò «la restituzione delle croci», croci che erano state tolte dai luoghi laici più significativi della città di Roma quali il Campidoglio e il Colosseo.
Queste restituzioni si accompagnarono a grandi manifestazioni di folla – naturalmente organizzata – cui parteciparono autorità politiche e religiose e che segnarono la conclusione di tutta una storia pregressa che aveva visto togliere in vari modi il simbolo dai luoghi pubblici negli anni dell’affermazione di Roma capitale, quindi poco dopo il 1870.
Il cardinale Kasper ai credenti: “Non dormite, alzate la voce” intervista al cardinale Walter Kasper, a cura di Gian Guido Vecchi in “Corriere della Sera” del 4 novembre 2009 «Sa cosa penso, tutto sommato? Che noi cristiani stiamo dormendo.
Questa manifestazione di secolarismo aggressivo dovrebbe essere un segnale per svegliarci e alzare un po’ la voce».
Il cardinale Walter Kasper, 76 anni, presidente del pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani, è una persona mite, finissimo teologo che fu assistente di Leo Scheffczyk e di Hans Küng e ha guidato le facoltà di Münster e Tubinga, insegnato a Washington, pubblicato opere tradotte in tutto il mondo come Il Dio di Gesù Cristo , un uomo di dialogo (da anni tiene per la Chiesa i rapporti con le altre confessioni cristiane e con gli ebrei) aperto al mondo laico e ai non credenti.
Essere miti, però, non significa dormire, sorride: «In alcuni ambienti europei, a Strasburgo e Bruxelles, vogliono costruire una realtà che non sarebbe più Europa, perché senza cristianesimo l’Europa non è.
Tale tendenza antistorica esiste, ha potere, e questo non si può tollerare: anche i politici che si dicono cristiani dovrebbero parlare…».
Per dire cosa, eminenza? «Nel centro di tutte le antiche città d’Europa c’è una cattedrale, vogliono abolire anche le cattedrali? Sono costernato all’idea che un tribunale europeo abbia potuto prendere una decisione del genere.
È radicalmente antieuropea.
Se si viaggia dalla Spagna all’Estonia e fino a Mosca, dappertutto si trova la Croce: dice la nostra cultura, è l’eredità comune che ha unito il continente, non si possono negare così le proprie radici».
La sentenza parla di «violazione della libertà religiosa»…
«Togliere il crocifisso dalle aule, semmai, è una violazione del sentire della maggioranza: i cristiani sono e restano la gran parte, soprattutto in Italia, e la maggioranza non può essere orientata dalla minoranza.
Ma non si tratta tanto di questo.
È chiaro che per noi cristiani è essenzialmente un simbolo religioso.
Oltre a questo, però, la Croce è un simbolo culturale».
A quanto pare, però, c’è chi si sente offeso…
«Il crocifisso è un segno di carità e di benevolenza, non può essere offensivo, non minaccia nessuno.
Dice l’amore e la misericordia di Dio, una misericordia che è per tutti, anche per i non credenti».
Ma la laicità? «La laicità è legittima, viviamo in una società pluralista nella quale convivono diverse fedi e idee, dobbiamo avere tolleranza e rispetto verso gli altri.
Questa decisione, tuttavia, è molto strana, non esprime laicità ma ideologia, un laicismo che si fa intollerante: voler togliere il crocifisso è intollerante».
Non c’è anche una responsabilità di chi ha stravolto e usato la Croce come un segno «contro» gli altri? «È vero, spesso nella storia è stata usata in questo modo.
Ma non credo che oggi nessuno possa intenderla così.
No, ciò che resta dopo aver tolto i simboli è il vuoto.
Il vuoto! È questo il senso della secolarizzazione? Che non c’è più nulla? Ma che cosa vuol dire?».
Il Papa, in volo verso Praga, diceva che le «minoranze creative determinano il futuro» e la Chiesa «deve comprendersi come minoranza creativa».
È questo il destino dei cristiani in Europa? «La Repubblica Ceca è un caso straordinario, ma nel resto d’Europa i cristiani non sono una minoranza: restano una grande maggioranza con una grande eredità culturale.
La Croce dice da dove veniamo, ha unito il continente, ci sono Stati come la Svizzera o la Svezia che l’hanno nella bandiera, un simbolo religioso divenuto simbolo nazionale! Ripeto: che cosa sarebbe l’Europa se i cristiani non ci fossero più? Non sarebbe più Europa».
Diceva che i cristiani devono «svegliarsi».
In che modo? «Mostrando la loro presenza.
La tolleranza verso gli altri è doverosa, ma ci siamo anche noi e abbiamo i nostri diritti.
Del resto siamo in democrazia, no ? Abbiamo le elezioni.
Io mi sono sempre lamentato che così poche persone vadano a votare per eleggere il Parlamento europeo.
E i parlamentari devono rispondere a coloro che li hanno eletti».
La condanna del cardinal Re “Sentenza che lascia sgomenti” intervista al cardinale Giovanni Battista Re, a cura di Orazio La Rocca in “la Repubblica” del 4 novembre 2009 «Sorpreso, perplesso, deluso e profondamente addolorato».
Lo smarrimento con cui Oltretevere è stata accolta la notizia della sentenza di Strasburgo contro l’esposizione del crocifisso nelle scuole pubbliche italiane è sintetizzabile nelle parole con cui il cardinale Giovanni Battista Re, prefetto della Congregazione dei vescovi, esprime tutta la sua «delusione mista a stupore, per un pronunciamento – confessa a Repubblica pur puntualizzando di parlare a titolo personale – incomprensibile, imprevisto e che non può non lasciare sgomenti».
Inequivocabili parole di condanna che il porporato – uno dei più influenti e riservati cardinali della Curia pontificia – pronunzia con estrema fermezza, senza tuttavia nascondere la speranza che il ricorso alla sentenza subito annunciato dal governo italiano possa vanificare in un futuro più o meno prossimo il pronunciamento della Corte europea.
«E meno male – commenta infatti il porporato riferendosi alle reazioni che sono state fatte a caldo dopo il pronunciamento di Strasburgo – che almeno le autorità governative italiane hanno immediatamente fatto sapere che si opporranno a questa decisione.
Ora occorrerà vedere come, in concreto, tutta la questione evolverà».
Cardinale Giovanni Battista Re, si sarebbe mai aspettato una sentenza che impone alle autorità del nostro paese di togliere i crocifissi dalle scuole pubbliche? Senza escludere che analoghe richieste si potranno fare anche per altri luoghi pubblici «No.
In verità, non me lo aspettavo proprio, come del resto qualsiasi persona di buon senso.
Per questo dico che è una sentenza che non riesco a capire.
Quando penso, poi, che qui si parla di un simbolo, il crocifisso, immagine che non può non essere emblema di umanità condivisa universalmente, nel mio animo accanto alla delusione prendono forma anche sentimenti di tristezza e dolore».
Perché così deluso? I giudici di Strasburgo forse hanno semplicemente preso atto del carattere multietnico e multireligioso verso cui si sta evolvendo la società europea.
«E invece io non posso non ribadire il mio grande stupore per quanto è stato deciso.
Dico questo perché temo che i giudici non hanno tenuto conto che il crocifisso è un simbolo universale di valori che stanno alla base della nostra identità europea.
E’ l’emblema della tradizione cristiana su cui si fonda la nostra civiltà».
Ma – al di là degli aspetti religiosi – il crocifisso cosa può rappresentare oggi per chi cristiano non è, segue altre religioni o non professa nessuna fede? «Il crocifisso è il segno di un Dio che ama l’uomo fino a dare la sua vita per lui.
E’ un Dio che ci educa all’amore, alla attenzione per ogni uomo, specialmente il più debole ed indifeso, e al rispetto verso gli altri, anche verso coloro i quali appartengono a culture o religioni diverse.
Come non condividere un simbolo così pieno di senso e di significato che ogni uomo di buona volontà in coscienza non può non capire e accettare?».
I giudici di Strasburgo fanno, però, riferimento al fatto che negli edifici pubblici, e quindi anche nelle scuole, la laicità è un valore da tutelare per il bene di tutti, credenti e non credenti.
«I veri sostenitori della laicità non devono dimenticare che l’autore del primo messaggio di laicità è stato proprio Gesù Cristo quando ha detto: ‘Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio’.
Non va poi ulteriormente dimenticato il fatto che la sana laicità include anche il rispetto profondo della coscienza di tutti e di ciascuno, e che il difensore della coscienza umana è stato proprio Cristo, crocifisso e risorto per l’umanità intera».
La battaglia su un simbolo di Stefano Rodotà in “la Repubblica” del 4 novembre 2009 Ancora una volta una sentenza prevedibile, ben argomentata giuridicamente, non suscita le riflessioni che meritano le difficili questioni affrontate, ma induce a proteste sopra le righe, annunci di barricate, ambigue sottovalutazioni.
Dovremmo ricordare che le precedenti decisioni italiane, che avevano ritenuto legittima la presenza del crocifisso nelle aule, erano state assai criticate per la debolezza del ragionamento giuridico, per il ricorso ad argomenti che nulla avevano a che fare con la legittimità costituzionale.
E, considerando il fatto che la nostra Corte costituzionale aveva ritenuto inammissibile per ragioni formali un ricorso in materia, s’era parlato addirittura di una “fuga della Corte”, nelle cui sentenze si potevano ritrovare molte indicazioni nel senso della illegittimità della esposizione del crocifisso.
Nella decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, che ha ritenuto quella esposizione in contrasto con quanto disposto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, non v’è traccia alcuna di sottovalutazione della rilevanza della religione, della quale, al contrario, si mette in evidenza l’importanza addirittura determinante per quanto riguarda il diritto dei genitori di educare i figli secondo le loro convinzioni e la libertà religiosa degli alunni.
La sentenza, infatti, sottolinea come la scuola sia un luogo dove convivono presenze diverse, caratterizzate da molteplici credenze religiose o dal non professare alcuna religione.
Si tratta, allora, di evitare che la presenza di un “segno esteriore forte” della religione cattolica, quale certamente è il crocifisso, “possa essere perturbante dal punto di vista emozionale per gli studenti di altre religioni o che non ne professano alcuna”.
Inoltre, il rispetto delle convinzioni religiose di alcuni genitori non può prescindere dalle convinzioni degli altri genitori.
È in questo crocevia che si colloca la decisione dei giudici di Strasburgo che, in ossequio al loro mandato, devono garantire equilibri difficili, evitare ingiustificate prevaricazioni, assicurare la tutela d’ogni diritto.
Non si può ricorrere, infatti, all’argomento maggioritario, come incautamente aveva fatto il Tar del Veneto, che per primo aveva respinto la richiesta di togliere il crocifisso dalle aule, ricorrendo ai risultati di un sondaggio che sottolineava come la grande maggioranza degli interpellati fosse a favore del mantenimento di quel simbolo.
Un grande teorico del diritto, Ronald Dworkin, ha ricordato che «l’istituzione dei diritti è cruciale perché rappresenta la promessa della maggioranza alla minoranza che la sua dignità ed eguaglianza saranno rispettate.
Quando le divisioni tra i gruppi sono molto violente, allora questa promessa, se si vuole far funzionare il diritto, dev’essere ancor più sincera».
La garanzia del diritto, fosse pure quella di uno solo, è sempre un essenziale punto di riferimento per misurare proprio la tenuta di uno Stato costituzionale.
Guai a considerare la sentenza di ieri come un documento che apre un insanabile conflitto, che nega l’identità europea, che è “sintomo di una dittatura del relativismo”, addirittura “un colpo mortale all’Europa dei valori e dei diritti”.
Soprattutto da chi ha responsabilità di governo sarebbe lecito attendersi un linguaggio più sorvegliato.
Non vorrei che, abbandonandosi a queste invettive e parlando di una “corte europea ideologizzata”, si volesse trasferire in Europa lo stereotipo devastante dei giudici “rossi”, che tanti guai sta procurando al nostro paese.
Allo stesso modo sarebbe sbagliato se il fronte “laicista” cavalcasse il pronunciamento per rilanciare una battaglia anti-cristiana.
Mantenendo lucidità di giudizio, si dovrebbe piuttosto concludere che la sentenza della Corte europea vuole sottrarre il crocifisso a ogni contesa.
In questo è la sua superiore laicità.
Viviamo tempi in cui la difesa della libertà religiosa non può essere disgiunta dal rispetto del pluralismo, da una riflessione più profonda sulla convivenza tra diversi.
L’ossessione identitaria, manifestata anche in questa occasione e che percorre pericolosamente i territori dell’Unione europea, era lontanissima dai pensieri e dalla consapevolezza che ispirarono i padri fondatori dell’Europa, tra i quali i cattolici Alcide De Gasperi e Konrad Adenauer, che proprio quando si scrisse la Convenzione sui diritti dell’uomo nel 1950, quella sulla quale è fondata la sentenza di ieri, mai cedettero alla tentazione di ancorarla a “radici cristiane”, che avrebbero introdotto un elemento di divisione nel momento in cui si voleva unificare l’Europa, anche intorno all’eguale diritto di tutti e di ciascuno.
Dobbiamo rimpiangere quella lungimiranza? Questa sentenza ci porta verso un’Europa più ricca, verso un’Italia in cui si rafforzano le condizioni della convivenza tra diversi, dove acquista pienezza quel diritto all’educazione dei genitori che i cattolici rivendicano, ma che deve valere per tutti.
Libera anche il mondo cattolico da argomentazioni strumentali che, pur di salvare quella presenza sui muri delle scuole, riducevano il simbolo drammatico della morte di Cristo a una icona culturale, ad una mediocre concessione compromissoria ai partiti d’ispirazione cristiana (così è scritto nella memoria presentata a Strasburgo della nostra Avvocatura dello Stato).
L’Europa ci guarda e, con il voto unanime dei suoi giudici, ci aiuta.
Nessuna legge lo prevede di Michele Ainis in “La Stampa” del 4 novembre 2009 Doveva arrivare un giudice d’Oltralpe per liberarci da un equivoco che ci portiamo addosso da settant’anni e passa.
In una decisione che s’articola lungo 70 punti (non proprio uno scarabocchio scritto in fretta e furia) ieri la Corte di Strasburgo ha messo nero su bianco un elenco di ovvietà.
Primo: il crocifisso è un simbolo religioso, non politico o sportivo.
Secondo: questo simbolo identifica una precisa religione, una soltanto.
Terzo: dunque la sua esposizione obbligatoria nelle scuole fa violenza a chi coltiva una diversa fede, o altrimenti a chi non ne ha nessuna.
Quarto: la supremazia di una confessione religiosa sulle altre offende a propria volta la libertà di religione, nonché il principio di laicità delle istituzioni pubbliche che ne rappresenta il più immediato corollario.
Significa che fin qui ci siamo messi sotto i tacchi una libertà fondamentale, quella conservata per l’appunto nell’art.
9 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo? Non sarebbe, purtroppo, il primo caso.
Ma si può subito osservare che nessuna legge della Repubblica italiana impone il crocifisso nelle scuole.
Né, d’altronde, nei tribunali, negli ospedali, nei seggi elettorali, nei vari uffici pubblici.
Quest’obbligo si conserva viceversa in regolamenti e circolari risalenti agli Anni Venti, quando l’Italia vestiva la camicia nera.
Fu introdotto insomma dal Regime, ed è sopravvissuto al crollo del Regime.
Non è, neppure questo, un caso solitario: basta pensare ai reati di vilipendio, agli ordini professionali, alle molte scorie normative del fascismo che impreziosiscono tutt’oggi il nostro ordinamento.
Ma quantomeno in relazione al crocifisso, la scelta normativa del Regime deve considerarsi in sintonia con la Costituzione all’epoca vigente.
E infatti lo Statuto albertino, fin dal suo primo articolo, dichiarava che «la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato».
Da qui figli e figliastri, come sempre succede quando lo Stato indossa una tonaca in luogo degli abiti civili.
Ma adesso no, non è più questa la nostra divisa collettiva.
L’art.
8 della Carta stabilisce l’eguale libertà delle confessioni religiose, e stabilisce dunque la laicità del nostro Stato.
Curioso che debba ricordarcelo un giudice straniero.
Domanda: ma l’art.
7 non cita a sua volta il Concordato? Certo, e infatti la Chiesa ha diritto a un’intesa normativa con lo Stato italiano, a differenza di altre religioni (come quella musulmana) che ancora ne risultano sprovviste.
Però senza privilegi, neanche in nome del seguito maggioritario del cattolicesimo.
D’altronde il principio di maggioranza vale in politica, non negli affari religiosi.
E d’altronde la stessa Chiesa venne fondata da Cristo alla presenza di non più di 12 discepoli.
Se una religione è forte, se ha fede nella sua capacità di suscitare fede, non ha bisogno di speciali protezioni.
Il crocifisso e la caccia ai simboli che provoca soltanto danni di Alberto Melloni in “Corriere della Sera” del 4 novembre 2009 Torna per la millesima volta la querelle del crocifisso in aula.
Stavolta per una sentenza europea che arriva dopo che la Corte Costituzionale e la giustizia amministrativa avevano stroncato anni fa l’ennesimo tentativo di fare di quella scultura in stile Guido Reni l’oggetto di un c

Le leggi razziali in Italia e il Vaticano

«Non comanderanno!» Udienza del conte Galeazzo Ciano, ministro degli esteri, a mons.
Borgongini Duca, nunzio apostolico in Italia Roma, 2 Agosto 1938 …A fianco della questione dei neri, si dovrà trattare anche quella degli ebrei, per due ragioni: 1°) perché essi sono espulsi da ogni parte, e non vogliamo che gli espulsi credano di potere venire in Italia come nella terra promessa; 2°) perché è loro dottrina, consacrata nel Talmud, che l’ebreo deve mischiarsi con le altre razze come l’olio con l’acqua, ossia rimanendo di sopra, cioè al potere.
E noi vogliamo impedire che gli Ebrei in Italia abbiano posti di comando.
Appunto della Segreteria di Stato su certificati di battesimo falsi rilasciati a ebrei 2 aprile 1941 Qualche giorno fa persona attendibile mi disse che era bene diffidare dei certificati di battesimo rilasciati a non ariani battezzati dall’ufficio parrocchiale della Basilica di S.
Pietro, perché la data del battesimo era falsificata.
È una dolorosa constatazione: non a torto le autorità civili dubitano della veridicità di attestazioni ecclesiastiche…
Credo sia opportuno richiamare chi di dovere a una scrupolosa e doverosa esattezza di registrazione.
Accordo tra la Santa Sede e Governo fascista 16 agosto 1938 Gli ebrei, in una parola, possono essere sicuri che non saranno sottoposti a trattamento peggiore di quello usato loro per secoli e secoli dai Papi che li ospitarono nella Città eterna e nelle terre del loro temporale dominio.
Ciò premesso, è vivo desiderio dell’On.
Capo del Governo che la stampa cattolica, i predicatori, i conferenzieri e via dicendo, si astengano dal trattare in pubblico di questo argomento; alla S.
Sede, allo stesso Sommo Pontefice non manca il modo d’intendersela direttamente in via privata con Mussolini e di proporgli quelle osservazioni che si credesse opportune per la migliore soluzione del delicato problema.
Il Vaticano e la frattura del 1938 di Emma Fattorini in “Il Sole 24 Ore” del 1° novembre 2009 La prossima settimana esce il nuovo libro dello storico gesuita Giovanni Sale, Le leggi razziali in Italia e il Vaticano (Jaca book, Milano, pagg.
320, € 28,00), con un’ampia raccolta di documenti inediti e un saggio introduttivo di Emma Fattorini, che qui in parte anticipiamo.
Le leggi razziali promulgate da Mussolini il 5 settembre del 1938 dividono in due il mondo cattolico.
L’antisemitismo, infatti, lungi dall’unificare i cattolici, diventa sempre di più un elemento di divisione all’interno della cattolicità.
I fedeli delle parrocchie come gli intellettuali e i sacerdoti esprimono giudizi e pratiche diverse nei confronti di quelli che solo molto tempo dopo saranno chiamati i loro “fratelli maggiori”.
I due principali quotidiani cattolici, ad esempio, «L’Italia» di Milano e «L’Avvenire d’Italia» di Bologna sono decisamente in polemica dura con le leggi razziali.
Del resto l’argomentazione “teologica” è anche alla base dell’offensiva fascista: ripetute saranno le accuse alla chiesa per non essere coerente con le sue posizioni antigiudaiche, per avere abbandonato troppo disinvoltamente la fortissima tradizione antisemita espressa da tante pagine della «Civiltà cattolica» alla quale Mussolini dirà di essersi ispirato: «C’è molto da imparare dai padri della Compagnia di Gesù.
(…) Il fascismo è inferiore, sia nei provvedimenti sia nella loro esecuzione, al rigore della Civiltà cattolica».
Alla rivista dei gesuiti sarà rimproverato, ad esempio, di non prendere sul serio il concetto di Volksgemeinschaft: essa rinnegherebbe l’importanza di tenere uniti comunità di razza, religione e nazione, non considererebbe la razza inscindibilmente legata all’italianità, di cui la religione dovrebbe farsi garante e custode.
La chiesa, insomma, viene accusata di abdicare alla sua funzione di custode delle radici spirituali della comunità nazionale, che verrebbe inquinata dal mescolamento razziale: il razzismo si presenta come «salvaguardia delle virtù tradizionali e intrinseche alla razza…
orbene questi sono principi eminentemente cattolici…
quella superiore eugenetica spirituale, che è rivolta alla salute e alla difesa delle anime umane».
Sbaglierebbe dunque in pieno la «Civiltà cattolica» quando distingue e contrappone nazione e razza.
A questo è dedicata la campagna della rivista «Difesa della razza» che, tra il novembre 1938 e il marzo del 1939, dedica ampio spazio ai rapporti tra «razza e cattolicesimo», dando voce a un liceale avanguardista che inneggia alla romanità pagana e al suo atto eroico contro la mollezza compassionevole dei cattolici.
Il cuore della polemica, come in tempi più recenti, diventa l’indispensabile contributo del cattolicesimo italiano all’identità nazionale.
L’intransigenza della chiesa cattolica a non discriminare ingiustamente chi appartiene a un’altra razza, paese, etnia ha dunque radici profonde, che sarebbe del tutto antistorico attribuire a un facile buonismo: rimanda a una fedeltà superiore a quella pur dovuta alla nazione, una idea di chiesa e di nazione, dei loro rapporti e delle reciproche responsabilità che già allora non trovava concordi tutti i cattolici italiani.
La propaganda fascista non prendeva di petto la questione, evitava le punte più odiose e cercava una complicità su temi ai quali la chiesa era particolarmente sensibile: i matrimoni misti rappresenterebbero un pericoloso «meticciato religioso» perché i figli, per quanto educati alla religione cattolica, sarebbero sempre stati degli «ebrei mascherati», dei «circoncisi dello spirito».
In più occasioni la propaganda fascista incita la chiesa a diffidare della conversione degli ebrei che farebbero professione di fede cattolica per evidente opportunismo: altro non sarebbero che degli infiltrati, in realtà «permanentemente e immutabilmente di razza ebraica».
È la antica e mai conclusa questione dei battesimi e delle conversioni fatte per convenienza.
Le risposte cattoliche sono imbarazzate riguardo alla autenticità delle crescenti conversioni e si concentrano sul dato giuridico-formale del valore probatorio del battesimo.
Ci si appella ancora una volta al Concordato, nella convinzione del tutto illusoria che quello strumento riesca a dirimere anche questioni di contenuto religioso così delicate e così intrecciate alle identità personali.
L’ultimo lavoro di Padre Sale, che arricchisce l’attuale panorama documentaristico con i materiali provenienti dall’archivio della «Civiltà cattolica», ci fa capire bene la persistente ambiguità degli ambienti curiali, in contrasto all’intransigenza di papa Ratti.
Lo storico gesuita conferma, attraverso questa nuova documentazione, le differenze tra le prudenti connivenze e la decisa contrarietà di Pio XI, dell’Azione cattolica e specialmente di Gian Battista Montini.
Il confronto con le leggi razziali diventa una cartina di tornasole che getta luce sulla difficile distinzione tra questione biologica e questione morale (quali sono – si chiedono molti cattolici – le differenze tra i concubinaggi con le popolazioni di colore e quelle con gli ebrei).
Ne risultano con chiarezza le ripetute ambiguità tra ragioni biologico-razziali e politico-religiose-morali.
Nel complesso, conclude Giovanni Sale, il piano giuridico prevalse sulla difesa del diritto naturale.
E ha ragione, il nodo reale non è tanto la percentuale di prudenza o il tasso di discrezione nel contrastare leggi odiose, ma l’avere tradito la difesa del diritto naturale.
Per questa difesa dovremo aspettare ancora molto tempo.

Un ecumenismo nutrito dalla fedeltà alla tradizione.

Dichiarazione congiunta dell’arcivescovo di Westminster e dell’arcivescovo di Canterbury L’annuncio odierno della costituzione apostolica è una risposta di papa Benedetto XVI a numerose  richieste alla Santa Sede avanzate, negli ultimi anni, da gruppi di anglicani che desiderano entrare in comunione piena e visibile con la Chiesa cattolica e desiderano dichiarare che condividono una comune fede cattolica e accettano il ministero petrino, come voluto da Cristo per la sua Chiesa.
Papa Benedetto XVI ha approvato, nella costituzione apostolica, una struttura canonica che garantisce ordinariati personali, i quali permetteranno a personegià anglicane di entrare in piena comunione con la Chiesa cattolica pur preservando elementi del peculiare patrimonio spirituale anglicano.
L’annuncio di questa costituzione apostolica pone fine a un periodo di incertezza per questi gruppi che hanno nutrito speranze di nuove modalità per ottenere l’unità con la Chiesa cattolica.
Spetterà ora a chi ha avanzato richieste alla Santa Sede rispondere alla costituzione apostolica.
La costituzione apostolica è un ulteriore riconoscimento della sostanziale coincidenza nella fede, nella dottrina e nella spiritualità della Chiesa cattolica e della tradizione anglicana.
Senza i dialoghi degli scorsi quarant’anni, questo riconoscimento non sarebbe stato possibile né si sarebbero nutrite speranze di unità piena e visibile.
In tal senso, questa costituzione apostolica è una conseguenza del dialogo ecumenico fra la Chiesa cattolica e la Comunione anglicana.
Il dialogo ufficiale in corso fra la Chiesa cattolica e la Comunione anglicana offre la base per una cooperazione permanente.
Gli accordi fra la Commissione Internazionale Anglicano-Cattolica (ARCIC) e la Commissione Internazionale Anglicano-Cattolica per l’Unità e la Missione (IARCCUM) rendono libero il cammino che percorreremo insieme.
Con la grazia di Dio e la preghiera siamo determinati a far sì che il nostro continuo impegno reciproco e le nostre consultazioni su queste e su altre materie continuino a essere rafforzati.
A livello locale, nello spirito della IARCCUM, desideriamo basarci sul modello di incontri comuni tra la conferenza episcopale cattolica dell’Inghilterra e del Galles e la House of Bishops della Church of England, concentrandoci sulla nostra missione comune.
Giornate comuni di riflessione e di preghiera sono cominciate a Leeds nel 2006, sono continuate a Lambeth nel 2008 e ulteriori incontri sono in preparazione.
Questa stretta cooperazione proseguirà man mano che cresceremo insieme nell’unità e nella missione, nella testimonianza del Vangelo nel nostro paese e nella Chiesa in generale.
Londra, 20 ottobre 2009 Vincent Gerard Nichols Arcivescovo di Westminster Dr Rowan Williams Arcivescovo di Canterbur Informazioni contestuali Sin dal secolo XVI, quando il Re Enrico VIII dichiarò l’indipendenza della Chiesa d’Inghilterra dall’autorità del Papa, la Chiesa d’Inghilterra creò le proprie confessioni dottrinali, usanze liturgiche e pratiche pastorali, incorporando spesso idee della Riforma avvenuta sul continente europeo.
L’espansione del Regno Britannico, congiunta all’apostolato missionario anglicano, comportò poi la nascita di una Comunione Anglicana a livello mondiale.
Nel corso dei 450 e più anni della sua storia, la questione della riunione tra anglicani e cattolici non è stata mai messa da parte.
Nella metà del XIX secolo, il Movimento di Oxford (in Inghilterra) mostrò un rinnovato interesse per gli aspetti cattolici dell’anglicanesimo.
All’inizio del XX secolo, il Cardinale Mercier, del Belgio, intraprese colloqui pubblici con anglicani al fine di esplorare la possibilità di una unione con la Chiesa Cattolica sotto la bandiera di un anglicanesimo “riunito ma non assorbito”.
Il Concilio Vaticano II nutrì ulteriormente la speranza per una unione, in particolare con il Decreto sull’ecumenismo (n.
13), il quale facendo riferimento alle Comunità separate dalla Chiesa Cattolica nel tempo della Riforma, ribadì: “Tra quelle [comunioni] nelle quali continuano a sussistere in parte le tradizioni e le strutture cattoliche, occupa un posto speciale la Comunione Anglicana.” Sin dal Concilio i rapporti tra anglicani e cattolici romani hanno creato un migliore clima di comprensione e mutua cooperazione.
La Anglican-Roman Catholic International Commission (ARCIC) ha prodotto una serie di dichiarazioni dottrinali nel corso degli anni, nella speranza di creare la base per una piena e visibile unione.
Per molti appartenenti alle due Comunioni, le dichiarazioni dell’ARCIC hanno messo a disposizione uno strumento nel quale la comune espressione della fede può essere riconosciuta.
È in questa cornice che si deve inquadrare il nuovo provvedimento.
Negli anni successivi al Concilio, alcuni anglicani hanno abbandonato la tradizione di conferire gli Ordini Sacri soltanto agli uomini chiamando al presbiterato e all’episcopato anche donne.
Più recentemente, alcuni segmenti della Comunione Anglicana si sono allontanati dal comune insegnamento biblico circa la sessualità umana – già chiaramente espresso nel documento dell’ARCIC “Vita in Cristo” – conferendo gli Ordini Sacri a chierici apertamente omosessuali e benedicendo le unioni tra persone dello stesso sesso.
Nondimeno, mentre la Comunione Anglicana deve affrontare queste nuove e difficili sfide, la Chiesa Cattolica rimane pienamente impegnata nel suo dialogo ecumenico con la Comunione Anglicana, in particolare attraverso l’attività del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani.
Nel frattempo molti anglicani sono entrati individualmente nella piena comunione con la Chiesa Cattolica.
Talvolta sono entrati anche gruppi di anglicani, conservando una certa struttura “corporativa”.
Ciò è avvenuto, ad esempio, per la diocesi anglicana di Amritsar in India e per alcune singole parrocchie negli Stati Uniti che, pur mantenendo un’identità anglicana, sono entrate nella Chiesa Cattolica nel quadro di un cosiddetto “provvedimento pastorale”, adottato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede e approvato da Papa Giovanni Paolo II nel 1982.
In questi casi, la Chiesa Cattolica ha frequentemente dispensato dal requisito del celibato ammettendo che quei chierici anglicani coniugati che desiderano continuare il servizio ministeriale come sacerdoti cattolici siano ordinati nella Chiesa Cattolica.
In questo contesto, gli Ordinariati Personali istituiti secondo la suddetta Costituzione Apostolica possono essere visti come un ulteriore passo verso la realizzazione dell’aspirazione per la piena e visibile unione nella unica Chiesa, che è uno dei fini principali del movimento ecumenico.
Congregazione per la Dottrina della Fede Roma, 20 ottobre 2009 Fino a ieri passavano alla Chiesa cattolica uno alla volta, i preti e vescovi della Comunione anglicana che si sentivano più d’accordo col papa di Roma che con le derive “moderniste” dell’anglicanesimo.
Negli Stati Uniti, per regolare tali passaggi, dal 1980 era in vigore una “Pastoral Provision” scritta dalla congregazione per la dottrina della fede e approvata da Giovanni Paolo II.
Grazie ad essa sono passati alla Chiesa cattolica circa ottanta preti anglicani, quasi tutti con moglie e figli.
E due anni fa anche un vescovo, Jeffrey Steenson, accolto con una cerimonia celebrata nella basilica romana di Santa Maria Maggiore.
Steenson, 57 anni, sposato con tre figli, è stato ordinato sacerdote e incardinato nella diocesi di Santa Fe, dove insegna patrologia in seminario.
A questi preti e vescovi hanno fatto seguito anche gruppi di fedeli, per loro decisione spontanea.
L’unico caso di passaggio in blocco di un’intera diocesi anglicana alla Chiesa cattolica è stato finora quello di Amritsar, nel Punjab indiano.
Si è verificato nel 1975.
Da oggi in avanti, però, le migrazioni collettive dall’anglicanesimo al cattolicesimo saranno un fatto non più eccezionale ma normale, grazie alla costituzione apostolica che Benedetto XVI si appresta a pubblicare.
La costituzione papale è ancora in fase di messa a punto.
Sarà pubblicata forse tra due settimane.
Ma il suo annuncio è già stato dato in forma solenne la mattina del 20 ottobre, in due conferenze stampa contemporanee: una a Roma, con il cardinale William Levada, prefetto della congregazione per dottrina della fede, e una a Londra, con l’arcivescovo cattolico di Westminster, Vincent G.
Nichols, e con il primate della Comunione anglicana, Rowan Williams (nella foto dell’Associated Press).
A Londra i due arcivescovi, cattolico e anglicano, hanno anche emesso una dichiarazione congiunta.
Altro elemento di indubbia novità.
Di solito, infatti, quando qualcuno abbandona una confessione cristiana e ne abbraccia un’altra, se ne va sbattendo la porta.
Questa volta, invece, è come se il passaggio sia benedetto di comune accordo dalle due parti.
Una sintonia che fa pensare a quanto sarebbe oggi vicina la riconciliazione tra la Chiesa cattolica e la Comunione anglicana se solo in quest’ultima non avesse avuto il via libera l’ordinazione al sacerdozio e all’episcopato di donne e di omosessuali conviventi, con le conseguenti drammatiche divisioni tra chi è d’accordo e chi no.
Una volta pubblicata la costituzione apostolica, le parrocchie e le diocesi anglicane che in questi ultimi anni hanno bussato a Roma per essere accolte nella Chiesa cattolica – dalla Gran Bretagna, dagli Stati Uniti, dall’Australia e da altri paesi – potranno farlo nelle modalità indicate nella stessa costituzione.
I sacerdoti e i vescovi sposati, ricevuto l’ordine sacro, potranno riprendere a esercitare il sacerdozio, come già avviene per i sacerdoti sposati dei riti orientali, anche cattolici.
Le loro comunità faranno capo a “ordinariati personali” retti da vescovi non sposati ma celibi, anche qui in linea con la prassi costante delle Chiese cattoliche e ortodosse.
Per le liturgie continuerà a valere il rituale anglicano, peraltro già molto simile a quello cattolico.
Si calcola che in lista di attesa vi siano circa trenta vescovi e un centinaio di preti, con le rispettive comunità.
Metro di misura della conversione sarà l’accettazione del primato del papa e la condivisione della dottrina espressa nel Catechismo della Chiesa Cattolica.
In ogni caso, le comunità pronte a passare alla Chiesa cattolica fanno parte dell’ala “tradizionalista” della Comunione anglicana.
Così come tradizionaliste sono le comunità scismatiche lefebvriane con le quali Benedetto XVI sta intensificando gli sforzi perché rientrino nell’obbedienza di Roma.
E così come attaccate alla grande tradizione sono le Chiese ortodosse con cui l’incontro appare più fruttuoso, con l’attuale pontefice.
Dal 16 al 23 ottobre è in corso a Cipro il secondo round – il primo è stato a Ravenna nel 2007 – del dialogo tra cattolici ed ortodossi sulla questione del primato del papa, alla luce di come fu vissuto nel primo millennio.
Oggi più che mai, con Joseph Ratzinger papa, il cammino ecumenico appare non una rincorsa alla modernità, ma un ritrovarsi sul terreno della tradizione.
Qui di seguito, la dichiarazione congiunta diffusa a Londra il 20 ottobre dai capi della Comunione anglicana e della Chiesa cattolica d’Inghilterra e del Galles, più una nota retrospettiva emessa lo stesso giorno dalla congregazione per la dottrina della fede.
Sandro Magister La Chiesa romana accoglie il dissenso.
Quello degli anglicani tradizionalisti di Ludovica Eugenio A Roma è tempo di braccia aperte.
Ma solo a destra, a quanto sembra: oltre al dialogo avviato in questi giorni con gli scismatici lefebvriani in vista di una loro reintegrazione (v.
notizia su questo stesso numero), il Vaticano ha infatti deciso di fare posto, nella Chiesa cattolica, agli anglicani tradizionalisti che hanno chiesto di esservi accolti.
Il 20 ottobre scorso è stata annunciata la creazione di Ordinariati personali guidati da un vescovo per quegli anglicani che – riuniti sotto il cartello della Anglican Traditional Communion, soprattutto in seguito agli ultimi controversi sviluppi in alcune province anglicane (sacerdozio ed episcopato alle donne e ai gay, benedizione delle unioni omosessuali) – hanno chiesto già da qualche anno di entrare nella piena comunione con la Chiesa cattolica.
Questa disposizione è contenuta in una Costituzione Apostolica che sarà pubblicata prossimamente (si parla dei primi di novembre).
Il provvedimento, presentato in conferenza stampa dal prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede card.
William Levada, insieme al segretario mons.
Augustine Di Noia, segretario della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, ha preso in contropiede tanto il mondo cattolico quanto quello anglicano: se, infatti, negli anni passati sono stati autorizzati passaggi individuali nella Chiesa cattolica, specialmente in seguito alla decisione di far accedere le donne al sacerdozio, che tanto malcontento creò in seno all’ala più conservatrice della Chiesa anglicana, in questo caso la prospettiva è quella di un passaggio di interi gruppi o diocesi.
Il provvedimento è giunto a sorpresa, mettendo in serio disagio sia l’arcivescovo cattolico di Westminster mons.
Vincent Nichols, che il primate della Chiesa anglicana Rowan Williams, che da molto tempo sta tentando di salvare la Comunione anglicana dalla minaccia di uno scisma interno (ultimo, in ordine di tempo, l’intervento di Williams del luglio scorso, v.
Adista n.
91/09), per le logoranti tensioni che allontanano ogni giorno di più le diverse anime dell’anglicanesimo.
In una lettera scritta a vescovi e clero, Williams rivela tutto il suo sconcerto: “Mi dispiace – scrive – che non vi sia stata l’opportunità di avvertirvi prima.
Io stesso sono stato informato di questo annuncio molto tardi”.
Lo stesso 20 ottobre, in un comunicato stampa congiunto – evento, questo, del tutto singolare – i due leader religiosi inglesi hanno però cercato di dissimulare la propria sorpresa, affermando che “la Costituzione apostolica è un’ulteriore riconoscimento della sovrapposizione sostanziale tra Chiesa cattolica e tradizione anglicana per quanto riguarda la fede, la dottrina, e la spiritualità” e definendo il documento vaticano “conseguenza del dialogo ecumenico” condotto tra le due confessioni nel corso degli anni.
Gli anglicani che “passano” alla Chiesa cattolica – spiegano i due arcivescovi – “desiderano dichiarare che condividono una comune fede cattolica e accettano il ministero petrino così come voluto da Cristo per la sua Chiesa”: espressione, questa, che ha fatto fare un balzo sulla sedia a più di un anglicano, che vi ha visto una “capitolazione” di Williams al papa.
Ma per Williams l’annuncio del Vaticano non cambia le carte in tavola con la Chiesa cattolica: questo sviluppo non è, ha scritto nella lettera prima citata, “tesa a minacciare le relazioni esistenti tra le nostre due comunioni e non è un atto di proselitismo o di aggressione”; sarebbe un grave errore, inoltre, considerarlo una risposta alle difficoltà all’interno della Chiesa anglicana.
È rivolto, invece, a persone che avevano già “raggiunto la convinzione, in coscienza, che l’unità visibile con la Chiesa cattolica era ciò a cui Dio li stava chiamando”.
La Nota vaticana diffusa il 20 ottobre spiega in sintesi la natura dell’Ordinariato personale: “In questa Costituzione Apostolica – vi si legge – il Santo Padre ha introdotto una struttura canonica che provvede ad una tale riunione corporativa tramite l’istituzione di Ordinariati Personali, che permetteranno ai fedeli già anglicani di entrare nella piena comunione con la Chiesa Cattolica, conservando nel contempo elementi dello specifico patrimonio spirituale e liturgico anglicano”.
Concretamente, essa prevede “la possibilità dell’ordinazione di chierici sposati già anglicani come sacerdoti cattolici”, anche se, per ragioni storiche che abbracciano tanto la Chiesa cattolica quanto quella ortodossa, l’Ordinario dovrà essere un sacerdote o un vescovo non sposato (e dunque non potrà esserlo l’attuale leader della Traditional Anglican Communion, il vescovo anglicano australiano John Hepworth, ex prete cattolico, sposato due volte).
Quanto ai seminaristi, essi potranno ricevere la loro formazione accanto a quelli cattolici oppure in istituti separati.
Gli Ordinariati, si legge nella Nota, saranno istituiti previa consultazione con le Conferenze episcopali dei singoli Paesi e avranno una struttura simile a quella degli Ordinariati militari, senza chiedere la rinuncia ad un carattere prettamente anglicano nella spiritualità e nella liturgia: essa darà ai membri, ha garantito Levada, “l’opportunità di preservare quelle tradizioni anglicane che sono preziose per loro e conformi con la fede cattolica.
In quanto esprimono in un modo distinto la fede professata comunemente, tali tradizioni sono un dono da condividere nella Chiesa universale.
L’unione con la Chiesa non richiede l’uniformità che ignora le diversità culturali, come dimostra la storia del cristianesimo”.
Intanto, anche la Chiesa ortodossa in Italia, sulla scia della decisione presa dal Vaticano, ha deciso, “a fronte delle diverse sollecitazioni pervenute da membri di comunità anglicane e vetero-cattoliche italiane ed europee”, di avviare una pastorale per quei cristiani provenienti dall’anglicanesimo e dal vetero-cattolicesimo che desiderino ritornare all’Ortodossi a.
In una nota del 22 ottobre scorso, il Metropolita Basilio, primate della Chiesa ortodossa italiana, ricorda che “le Chiese ortodosse mantengono la piena successione apostolica e da sempre ammettono gli uomini sposati al sacerdozio: molte comunità di origine anglicana e vetero-cattolica sono rette da chierici sposati, che pertanto non avrebbe difficoltà a sottostare alla disciplina seguita anche dalla Chiesa ortodossa in Italia”.
in “Adista” – Notizie – n.
108 del 31 ottobre 2009 Quel Papa che pesca nell´acqua di destra di Hans Küng È una tragedia: dopo le offese già arrecate da Papa Benedetto XVI agli ebrei e ai musulmani, ai protestanti e ai cattolici riformisti, ora è la volta della Comunione Anglicana.
Essa conta pur sempre 77milioni di aderenti ed è la terza confessione cristiana, dopo la chiesa cattolica romana e quella ortodossa.
Cosa è successo? Dopo aver reintegrato l´antiriformista Fraternità San Pio X, ora Benedetto XVI vorrebbe rimpolpare le schiere assottigliate dei cattolici romani anche con anglicani simpatizzanti di Roma.
I sacerdoti e i vescovi anglicani dovrebbero potersi convertire più facilmente alla chiesa cattolica, mantenendo il proprio status, anche di sposati.
Tradizionalisti di tutte le chiese, unitevi – sotto la cupola di San Pietro! Vedete: il pescatore di uomini pesca soprattutto sulla sponda destra del lago.
Ma lì l´acqua è torbida.
Questo atto romano rappresenta niente meno che un drastico cambio di rotta: via dalla consolidata strategia ecumenica del dialogo diretto e di una vera riconciliazione.
E verso una pirateria non ecumenica di sacerdoti, cui viene persino risparmiato il medioevale obbligo di celibato, solo per render loro possibile un ritorno a Roma sotto il primato papale.
Chiaramente l´attuale arcivescovo di Canterbury, il Dr.
Rowan Williams, non era all´altezza della scaltra diplomazia vaticana.
Nel suo voler ingraziarsi il Vaticano apparentemente non ha compreso le conseguenze della pesca papale in acque anglicane.
In caso contrario non avrebbe firmato il comunicato minimizzante dell ´arcivescovo cattolico di Westminster.
Le prede nella rete di Roma non capiscono che nella chiesa cattolica romana saranno solo preti di seconda classe, e che alle loro funzioni i cattolici non possono partecipare? Il comunicato fa sfacciatamente riferimento ai documenti realmente ecumenici della Anglican Roman Catholic International Commission (Arcic), elaborati in anni e anni di laboriosi negoziati tra il romano Segretariato per l´Unione dei Cristiani e l´anglicana Conferenza di Lambeth: sull ´Eucarestia (1971), sull´ufficio e l´ordinazione (1973) nonché sull´autorità nella Chiesa (1976/81).
Gli esperti però sanno che questi tre documenti, a suo tempo sottoscritti da entrambe le parti, non sono mirati alla pirateria, bensì alla riconciliazione.
Questi documenti di vera riconciliazione offrono infatti la base per il riconoscimento delle ordinazioni anglicane, delle quali Papa Leone XIII nel 1896 aveva negato la validità con argomentazioni poco convincenti.
Dalla validità delle ordinazioni anglicane deriva anche la validità delle celebrazioni eucaristiche anglicane.
Sarebbe così possibile una reciproca ospitalità eucaristica, una intercomunione, un lento processo di unificazione tra cattolici e anglicani.
Ma la vaticana Congregazione per la dottrina della fede fece all´epoca in modo che questi documenti di riconciliazione sparissero il più rapidamente possibile nelle segrete del vaticano.
«Chiudere nel cassetto», si dice.
«Troppa teologia küngiana», recitava all´epoca un comunicato riservato della agenzia di stampa cattolica Kna.
In effetti avevo dedicato l´edizione inglese del mio libro «La Chiesa» all´allora Arcivescovo di Canterbury, Dr.Michael Ramsey in data 11 Ottobre 1967, quinto anniversario dell´apertura del concilio Vaticano secondo: nella «umile speranza che nella pagine di questo libro si ponga una base teologica per un accordo tra le chiese di Roma e Canterbury».
Vi si trova anche la soluzione alla spinosa questione del primato del papa, che da secoli divide queste due chiese, ma anche Roma dalle chiese dell´Est e dalle chiese riformiste.
Una «Ripresa della comunità ecclesiale tra la chiesa cattolica e la chiesa anglicana sarebbe possibile», se «da un lato alla chiesa d´Inghilterra fosse garantito di poter mantenere il proprio attuale ordine ecclesiale sotto il primato di Canterbury e dall´altro la chiesa d´Inghilterra riconoscesse il primato pastorale del soglio di Pietro come istanza superiore di mediazione e conciliazione tra le Chiese».
«Così», speravo io all´epoca, «dall´impero romano nascerà un Commonwealth cattolico!» Ma papa Benedetto vuole assolutamente restaurare l´impero romano.
Alla Comunione Anglicana non fa alcuna concessione, intende piuttosto mantenere per sempre il centralismo medioevale romano, – anche se impedisce un accordo delle chiese cristiane su questioni fondamentali.
Il primato del papa – dopo Papa Paolo VI bisogna ammetterlo il «grande scoglio» sulla via verso l ´unità della chiesa – non agisce apparentemente come «Pietra dell´unità».
Torna in auge il vecchio invito al «ritorno a Roma», ora attraverso la conversione soprattutto di sacerdoti, possibilmente in massa.
A Roma si parla di mezzo milione di anglicani con venti o trenta vescovi.
E gli altri 76 milioni? Una strategia dimostratasi fallimentare nei secoli passati e che condurrà nel migliore dei casi alla nascita di una minichiesa anglicana «unita» a Roma in forma di diocesi personali (non territoriali).
Ma quali sono le conseguenze odierne di questa strategia? 1.
Ulteriore indebolimento della chiesa anglicana: In Vaticano gli antiecumenici giubilano per l ´afflusso di conservatori, nella chiesa anglicana i liberali esultano per l´esodo di disturbatori simpatizzanti cattolici.
Per la chiesa anglicana questa scissione implica un´ulteriore corrosione.
Essa soffre già in conseguenza della nomina inutilmente osteggiata di un pastore dichiaratamente omosessuale a vescovo in Usa – effettuata mettendo in conto lo scisma della sua diocesi e dell ´intera comunità anglicana.
La corrosione è stata rafforzata dall´atteggiamento discordante dei vertici ecclesiastici nei confronti delle coppie omosessuali: alcuni anglicani accetterebbero senz ´altro la registrazione civile con ampie conseguenze giuridiche (tipo diritto di successione) e con eventuale benedizione ecclesiastica, ma non un «matrimonio» (da millenni termine riservato all ´unione tra uomo e donna) con diritto di adozione e conseguenze imprevedibili per i figli.
2.
Generale disorientamento dei fedeli anglicani: L´esodo dei sacerdoti anglicani e la proposta loro nuova ordinazione nella chiesa cattolica romana solleva per molti fedeli (e pastori) anglicani un pesante interrogativo: l´ordinazione dei sacerdoti anglicani è valida? E i fedeli dovrebbero convertirsi alla chiesa cattolica assieme al loro pastore? Che ne è degli immobili ecclesiatici e degli introiti dei pastori? 3.
Sdegno del clero e del popolo cattolico.
L´indignazione per il persistere del no alle riforme si è diffusa anche tra i più fedeli membri della chiesa.
Dopo il Concilio molte conferenze episcopali, innumerevoli pastori e credenti hanno chiesto l´abrogazione del divieto medioevale di matrimonio per i sacerdoti, che sottrae parroci già quasi a metà delle nostre parrocchie.
Ma non fanno che urtare contro il rifiuto caparbio e ostinato di Ratzinger.
Ed ora i preti cattolici devono tollerare accanto a sé pastori convertiti sposati? Cosa devono fare i preti che desiderano il matrimonio, forse farsi prima anglicani, sposarsi, e poi ripresentarsi? Come già nello scisma tra Oriente e Occidente (XI sec.), ai tempi della Riforma (XVI sec.) e nel primo Concilio vaticano (XIX sec.) la fame di potere di Roma divide la cristianità e nuoce alla sua chiesa.
Una tragedia.
in “la Repubblica” del 28 ottobre 2009 Porte aperte agli anglicani di Jérôme Anciberro Chi sono questi anglicani che presto entreranno nel grembo della Chiesa cattolica, come annunciato il 20 ottobre dalla Congregazione romana per la dottrina della fede? I membri della Traditional Anglican Communion (Comunione anglicana tradizionale, TAC), sarebbero la versione anglicana dei lefebvriani cattolici, come suggeriscono certi commentatori colpiti dalla coincidenza con l’inizio delle discussioni dottrinali tra Roma e gli integralisti della Fraternità San Pio X? Certamente no.
La dissidenza, o in ogni caso, la differenza, non ha nulla di straordinario per gli anglicani.
Diverse sensibilità (anglo-cattolica, calvinista, evangelica) hanno sempre coabitato in seno alla Comunione anglicana che è diretta solo simbolicamente dall’arcivescovo di Canterbury.
Numerose correnti protestanti (metodisti, in parte i battisti…) provengono dall’anglicanesimo.
Neanche i passaggi di laici o di preti anglicani al cattolicesimo sono rari.
Il grande teologo cattolico e cardinale John Henry Newman (1801-1890) era un ex prete anglicano.
Identità Da una trentina d’anni sono i problemi di morale sessuale (omosessualità in particolare) e dei ministeri (ordinazione delle donne), più dei problemi liturgici o dogmatici ad essere al centro dei dibattiti nell’anglicanesimo e ad aver ampiamente determinato le opposizioni interne, giungendo a determinare l’uscita dalla Comunione anglicana.
La TAC, che ci tiene alla sua identità anglocattolica e raggruppa solo alcune decine di migliaia di fedeli (essa stessa ne annuncia 400 000 (1) ), è quindi uno dei molteplici raggruppamenti di Chiese che hanno rotto con la Comunione anglicana a partire dalla metà degli anni ’70 a proposito dell’ordinazione delle donne.
Ma anche buona parte delle Chiese rimaste nella Comunione anglicana, che siano di sensibilità anglo-cattolica o protestante, condividono le visioni dei secessionisti su questa stessa questione e su altre (rifiuto delle benedizioni di coppie omosessuali, per esempio).
L’incontro dei Global South Anglicans, che raggruppano in seno alla Comunione anglicana le Chiese del Sud (tra le altre…) che rifiutano le innovazioni delle Chiese del Nord, ha tuttavia esortato i fedeli in un comunicato pubblicato il 25 ottobre a “restare fermi” sull’eredità anglicana e a proseguire la loro “vocazione comune”.
Niente indica quindi per il momento che un movimento di fondo dell’anglicanesimo “conservatore” sia in cammino verso il cattolicesimo.
Altro elemento di complessità: non sembra che i tradizionalisti della TAC abbiano il minimo problema con il Vaticano II…
Resta il fatto che la risposta positiva di Roma alla richiesta della TAC di rientrare nella Chiesa cattolica e l’annuncio di soluzioni canoniche che permettano un’accoglienza più ampia degli anglicani in generale apra delle prospettive per il cattolicesimo, per esempio sulla questione dei preti sposati, una specificità anglicana alla quale i nuovi entranti non hanno alcuna ragione di rinunciare.
Ma bisognerà aspettare la pubblicazione tra qualche giorno della costituzione apostolica annunciata da Roma per saperne di più.
(1) La Comunione anglicana invece riunisce 77 milioni di fedeli.
in “Témoignage chrétien” n° 3368 del 29 ottobre (traduzione: www.finesettimana.org Lontano dalla realtà di Giovanni Maria Vian Ancora una volta una decisione di Benedetto XVI torna a essere dipinta con tinte forti, precostituite e soprattutto lontanissime dalla realtà.
A farlo è purtroppo, di nuovo, Hans Küng, il teologo svizzero suo antico collega e amico, che lo stesso Papa nel 2005, solo cinque mesi dopo la sua elezione, volle incontrare, in amicizia, per discutere delle comuni basi etiche delle religioni e del rapporto tra ragione e fede.
E questo benché nel 1979, agli inizi del pontificato di Giovanni Paolo II, Küng fosse stato sanzionato per alcune sue posizioni dalla Congregazione per la Dottrina della Fede (allora guidata dal cardinale croato Franjo Seper) che, al termine d’un procedimento iniziato negli ultimi anni di Paolo VI, dichiarò di non poterlo considerare un teologo cattolico.
Da allora, più volte, Küng, infallibilmente ripreso da influenti media, è tornato a criticare, con asprezza e senza fondamento, Benedetto XVI.
Come fa adesso – rilanciato con clamore in Inghilterra da “The Guardian” e in Italia da “la Repubblica”, che certo non resteranno le uniche testate nel mondo a pubblicare il suo articolo – a proposito dell’annuncio, davvero storico, da parte della Santa Sede della prossima costituzione di strutture canoniche che permetteranno l’entrata nella comunione con la Chiesa cattolica di molti anglicani.
Un gesto che è volto a ricostituire l’unità voluta da Cristo e riconosce il lungo e faticoso cammino ecumenico compiuto in questo senso, ma che viene distorto e rappresentato enfaticamente come se si trattasse di un’astuta operazione di potere da leggersi in chiave politica, naturalmente di estrema destra.
Non vale proprio la pena sottolineare le falsità e le inesattezze di questo ultimo scritto di Küng, i cui toni ancora una volta non fanno onore alla sua storia personale e in alcuni tratti rasentano la comicità, ignorando volutamente i fatti e arrivando persino a dileggiare il primate anglicano, che ha firmato una dichiarazione congiunta con l’arcivescovo di Westminster.
Purtroppo però l’articolo del teologo svizzero circolerà molto e contribuirà a una rappresentazione tanto fosca quanto infondata della Chiesa cattolica e di Benedetto XVI.
Per riassumere l’attuale situazione a cui sarebbe giunta con l’attuale Papa la Chiesa cattolica Küng scrive che si tratta di una tragedia.
Non occorre scomodare termini tanto iperbolici per definire il suo articolo, anche se resta molta amarezza di fronte a questo ennesimo gratuito attacco alla Chiesa di Roma e al suo indiscutibile impegno ecumenico.
in “L’Osservatore Romano” del 29 ottobre 2009 La Chiesa insorge contro il teologo Küng di Orazio La Rocca «Lontano dalla realtà».
«Critiche ingiuste, aspre e senza fondamento», ma soprattutto «false e inesatte».
Se non è una scomunica nel senso più classico del termine, poco ci manca.
Anche perché, a richiamare con uno sferzante commento il teologo svizzero Hans Küng per le accuse rivolte – ieri su Repubblica – al Papa in seguito alla decisione di accogliere nella Chiesa cattolica i tradizionalisti anglicani (compresi vescovi, pastori e seminaristi sposati), è l’Osservatore Romano, il quotidiano della Santa Sede oggi in edicola.
L’altolà arriva sotto forma di editoriale pubblicato, autorevolmente, in prima pagina e firmato dal direttore del giornale vaticano, lo storico Giovanni Maria Vian, il quale – fin dalle prima battute – lamenta che «ancora una volta una decisione di Benedetto XVI torna a essere dipinta con tinte forti, precostituite e soprattutto lontanissime dalla realtà».
Da qui il titolo dell’editoriale con un eloquente «Lontano dalla realtà» che, in un certo senso, controbatte l’altrettanto eloquente titolo del testo di Küng – «Quel Papa che pesca nell’acqua di destra» – nel quale si accusa, tra l’altro, Ratzinger di voler «rimpolpare» le file cattoliche aprendo le porte della Chiesa di Roma ai gruppi più reazionari e conservatori, come dimostra la cancellazione della scomunica ai vescovi lefebvriani ed ora col sì agli anglicani tradizionalisti.
Decisione, quest’ultima, definita da Küng «una tragedia» per l’ecumenismo «dopo le offese già arrecate da Benedetto XVI agli ebrei e ai musulmani, ai protestanti e ai cattolici riformisti».
Critiche, richiami ed accuse seccamente rispedite al mittente, anche se il giornale della Santa Sede non nasconde il timore che «l’articolo circolerà molto e contribuirà a una rappresentazione tanto fosca quanto infondata della Chiesa cattolica e di Benedetto XVI».
Un testo scritto – per di più – da un teologo, Hans Küng, «suo antico collega e amico, che lo stesso Papa nel 2005, solo cinque mesi dopo la sua elezione, volle incontrare, in amicizia, per discutere delle comuni basi etiche delle religioni e del rapporto tra ragione e fede».
Un incontro clamoroso ed inatteso «benché nel 1979, agli inizi del pontificato di Giovanni Paolo II, Küng – ricorda Vian con una malcelata vena polemica – fosse stato sanzionato per alcune sue posizioni dalla Congregazione per la Dottrina della Fede (allora guidata dal cardinale croato Franjo Seper) che, al termine d’un procedimento iniziato negli ultimi anni di Paolo VI, dichiarò di non poterlo considerare un teologo cattolico».
«Da allora – prosegue il direttore del quotidiano pontificio – più volte, Küng, infallibilmente ripreso da influenti media, è tornato a criticare, con asprezza e senza fondamento, Benedetto XVI».
«Come fa adesso, rilanciato con clamore in Inghilterra da The Guardian e in Italia da la Repubblica, che certo – teme Vian – non resteranno le uniche testate nel mondo a pubblicare il suo articolo, a proposito dell’annuncio, davvero storico, da parte della Santa Sede della prossima costituzione di strutture canoniche che permetteranno l’entrata nella comunione con la Chiesa cattolica di molti anglicani.
Un gesto che è volto a ricostituire l’unità voluta da Cristo e riconosce il lungo e faticoso cammino ecumenico compiuto in questo senso, ma che viene distorto e rappresentato enfaticamente come se si trattasse di un’astuta operazione di potere da leggersi in chiave politica, naturalmente di estrema destra».
«Non vale proprio la pena sottolineare le falsità e le inesattezze di questo ultimo scritto di Küng, i cui toni ancora una volta non fanno onore alla sua storia personale…», conclude Vian, dopo aver espresso tutta la sua «amarezza di fronte a questo ennesimo gratuito attacco alla Chiesa di Roma e al suo indiscutibile impegno ecumenico».
in “la Repubblica” del 29 ottobre 2009

Da internauti a “infonauti”

GUARDA LE TABELLE I giovani sono protagonisti importanti di questa dinamica.
In sette casi su dieci utilizzano quotidianamente internet per informarsi, al pari della Tv.
E molto più del giornale cartaceo (19%) o del satellite (37%).
E’ un dato interessante se consideriamo che vengono spesso rimproverati di informarsi poco.
Evidentemente bypassano i canali tradizionali ricorrendo alla rete.
Tutto questo avviene, secondo l’indagine Demos-Coop, nel quadro di un utilizzo più diffuso delle tecnologie digitali per informarsi.
Rispetto al 2007 è aumentato l’uso della Tv satellitare e, del digitale terrestre (dal 19% al 41%: +22 punti percentuali, dovuto anche al passaggio di alcune regioni a questa tecnologia) e di Internet (+13 punti percentuali, dal 25% al 38%).
Gli altri media – tv, radio, stampa quotidiana e settimanale – sembrano ormai aver raggiunto un livello di saturazione.
I più giovani sono nativi digitali, come li ha definti Marc Prensky.
Sono fruitori “impegnati” di questa tecnologia.
Il 74% di chi ha un’età compresa tra 15 e 24 anni (+19 punti percentuali rispetto al 2007) e il 63% di quelli tra 25 e 34 anni (+15 punti percentuali rispetto al 2007) dichiarano che per informarsi utilizzano internet “tutti i giorni”.
Questo stile, come prevedibile, si riduce progressivamente nelle successive coorti di età.
Fino ad arrivare al 7% tra quanti hanno superato i 64 anni.
Ciò è dovuto al fatto che le risorse individuali necessarie a fare di internet uno strumento di uso quotidiano – non solo di informazione ma anche di lavoro e svago – sono meno disponibili presso i settori più adulti della popolazione.
I quali privilegiano la Tv o i giornali.
La radio, invece, sembra essere utilizzata in particolare da chi ha un’età compresa tra 35 e 44 anni.
I giovani internauti, dunque, non utilizzano solo chat, social network, blog, e-mail.
Ascoltano la radio e guardano la tivù in streaming, leggono i giornali on-line.
La rete è diventata la chiave di accesso a diverse fonti informative.
Internet caratterizza il loro stile di informazione, per questo oltre a internauti potremmo definirli info-nauti.
Ma qual è il loro profilo? Si osserva una maggior presenza di persone di genere maschile, con un grado elevato di scolarizzazione, di studenti, dirigenti e impiegati.
Relativamente all’identità politica appare più pronunciata quella di centrosinistra.
Dall’indagine si rileva una significativa differenza generazionale nell’approccio agli strumenti di informazione.
Gli utenti più anziani tendono ad essere fruitori “passivi”, si affidano alla rigidità dei palinsesti della tv tradizionale e delle pagine stampate dei quotidiani cartacei.
Gli info-nauti invece valorizzano l’interattività e la flessibilità dei sistemi digitali di informazione.
Sono fruitori “attivi”, che costruiscono in modo individualizzato l’approccio ai new media.
Un altro punto importante che emerge dall’indagine riguarda il nesso democrazia e comunicazione; i cittadini intervistati ritengono che indipendenza e libertà di informazione oggi appartengano in primo luogo alla rete internet (35%).
Poi alla Tv (25%), quindi ai quotidiani (20%).
Generalmente nella credibilità di un media si riflette la conoscenza e l’utilizzo dello stesso.
Per questo il dato su internet appare particolarmente significativo, perché è meno utilizzato della Tv (87% vs.
38%), ma nonostante ciò viene ritenuto più democratico.
Detto in altri termini: si guarda la Tv ma non ci si fida troppo.
Come prevedibile dietro questa opinione è fondamentale il fattore età.
Indicano la Tv come canale più libero e indipendente il 18% dei giovani (15-24 anni), dato che cresce progressivamente fino a raddoppiarsi negli over 64 (34%).
Tendenza inversa, e più accentuata, per quanto riguarda internet: per il 59% dei giovani è lo strumento di informazione più democratico, idea condivisa solo dal 6% dei più anziani.
Gli info-nauti, in modo compatto e ben più della media (57% vs.
35%), valorizzano il potenziale democratico di internet.
Ma presentano anche orientamenti diversi su specifiche questioni politiche.
Gli info-nauti di sinistra esprimono un giudizio più severo sul tema della libertà di informazione in Italia: l’87% ritiene che il conflitto di interesse che riguarda il premier Berlusconi “danneggi la libertà di informazione”.
La stessa quota (87%) sostiene inoltre che questa situazione “condizioni la politica”.
Si fermano invece al 26% e al 42% gli info-nauti di destra che condividono queste due opinioni.
Inoltre, gli info-nauti di sinistra si dicono più interessati alla politica, guardano meno la televisione e, conseguentemente, si informano meno attraverso questo media (compreso il satellite e il digitale terrestre).
Seguono di più i giornali e la radio.
Da un lato, quindi, i giovani si fanno promotori di innovazione, privilegiando la rete come arena del confronto democratico.
Dall’altro, sono anche portatori di elementi tradizionali.
Le classiche fratture ideologiche si riflettono infatti nel mondo dei nuovi media.
Gli info-nauti si configurano come estensione, nel virtuale, della politica reale.
Repubblica (29 ottobre 2009) La tecnologia digitale ha rivoluzionato il modo di informarsi degli italiani.
L’utilizzo di internet e della Tv satellitare è in continuo aumento.
Ma tenersi al corrente su questioni di pubblico interesse vuol dire prendere parte alla vita di una comunità.
Significa essere cittadini, partecipare.
Oggi, dunque, il nesso tra Internet e informazione (e politica) desta, più che in passato, attenzione e interesse. 

Testimoni del nostro tempo: John Henry Newman

Quando Newman fu elevato alla dignità cardinalizia (1879), scelse come motto le parole cor ad cor loquitur, il cuore parla al cuore.
Tale motto ci presenta la figura di Newman come uomo di dialogo.
In questo contesto può essere opportuno ricordare tre caratteristiche che hanno contraddistinto l’impegno dialogico di Newman.
 La prima caratteristica è la passione per la verità.
Sin dalla sua “prima conversione” (1816) Newman cercò la luce della verità e seguì questa “luce benevola” con grande fedeltà.
Promosse il Movimento di Oxford (1833) per riportare la Chiesa d’Inghilterra alla libertà e alla verità delle origini.
Si convertì al cattolicesimo proprio perché trovò in esso la pienezza della verità (1845).
Nel suo lavoro su Lo sviluppo della dottrina cristiana scrisse:  “Vi è una verità; vi è una sola verità; l’errore religioso è per sua natura immorale; i seguaci dell’errore, a meno che non ne siano consapevoli, sono colpevoli di esserne sostenitori; si deve temere l’errore; la ricerca della verità non deve essere appagamento di curiosità; l’acquisizione della verità non assomiglia in nulla all’eccitazione per una scoperta; il nostro spirito è sottomesso alla verità, non le è, quindi, superiore ed è tenuto non tanto a dissertare su di essa, ma a venerarla (…) Questo è il principio dogmatico, che è principio di forza”.
Newman fu un appassionato ricercatore e veneratore della verità:  nell’impegno personale, nei rapporti con gli altri, nel confronto con le scienze, nella lotta contro la faziosità delle ideologie del suo tempo.
In modo lungimirante presentì il sorgere e il diffondersi di teorie relativistiche, secondo le quali si danno soltanto opinioni diverse, non verità che richiedono un assenso incondizionato.
Newman fu dominato dalla persuasione che la verità esiste, che solo dalla ricerca della verità fluisce il vero dialogo, che solo la verità ci fa autentici e liberi e ci apre la strada verso la realizzazione di noi stessi.
Tale passione per la verità spinse Newman a un costante impegno per la formazione integrale dell’uomo.
Affermò in un sermone:  “Voglio che un intellettuale laico sia religioso e un devoto ecclesiastico sia intellettuale”.
Quando gli fu affidata la responsabilità pastorale per i fedeli di Littlemore, presso Oxford, fece costruire in quel villaggio sia una scuola sia una Chiesa – segno eloquente del suo impegno per la formazione integrale delle persone.
Nel suo saggio su L’idea di Università ribadì che le molteplici dimensioni del sapere formano un tutt’uno e non possono essere separate, frammentate.
L’università ha il compito di offrire una formazione universale, non escludendo dal confronto sereno e aperto nessuna dimensione del sapere.
Per Newman fu evidente che a detta formazione universale appartiene anche quella etico-religiosa, la quale possiede una sua propria razionalità, che va rispettata, difesa e promossa.
Quanto alla formazione dei fedeli laici, che gli stava molto a cuore, Newman scrisse:  “Voglio un laicato non arrogante, non precipitoso nel parlare, non litigioso, ma fatto di uomini che conoscono la loro religione, che vi entrano dentro, che sanno benissimo dove si trovano, che sanno quello che possiedono e quello che non possiedono, che conoscono la propria fede così bene che sono in grado di spiegarla, che ne conoscono la storia tanto a fondo da poterla difendere.
Voglio un laicato intelligente e ben istruito (…) Desidero che allarghiate le vostre conoscenze, coltiviate la ragione, siate in grado di percepire il rapporto fra verità e verità, che impariate a vedere le cose come stanno, come la fede e la ragione si relazionino fra di loro, quali siano i fondamenti e i principi del cattolicesimo (…) Sono sicuro che non diventerete meno cattolici familiarizzandovi con questi argomenti, purché manteniate viva la convinzione che lassù c’è Dio, e ricordiate che avete un’anima che sarà giudicata e dovrà essere salvata”.
Newman si distinse per uno straordinario impegno formativo, valorizzando pienamente lo sviluppo di tutte le scienze e ribadendo nel contempo il ruolo insostituibile che svolgono la fede e la morale per la crescita integrale della persona e per il bene della società.
L’impegno di Newman per la formazione trovò espressione in una terza caratteristica:  la sua premura di stabilire relazioni personali.
Guidando il Movimento di Oxford, ribadì l’importanza della testimonianza personale.
In tutta la sua vita accompagnò molti nel loro cammino umano e spirituale.
Scrisse più di ventimila lettere che costituiscono una prova impressionante del suo zelo per le anime, della sua capacità di dialogare e di relazionarsi con altri.
Uno dei suoi Sermoni all’Università di Oxford si intitola Il contagio personale della verità.
In tale sermone Newman parte dalla constatazione che nessuno può essere conquistato alla causa della verità con le sole argomentazioni razionali.
La verità, così scrive, “è rimasta salda nel mondo non per virtù di un sistema, non grazie a libri o argomentazioni, non per merito del potere temporale, ma grazie all’influenza personale di uomini (…) che ne sono in pari tempo i maestri e i modelli”.
Newman invita tutti a occuparsi della verità sul piano della ricerca intellettuale, ma al tempo stesso sottolinea che influisce di più – sul permanere, sullo svilupparsi e sul comunicarsi della verità – colui che vive la verità e ne diventa un testimone.
Scrisse circa la forza persuasiva di un tale testimone:  “Mentre egli è sconosciuto al mondo, nell’ambito di quanti lo conoscono egli ispirerà ben altri sentimenti che non sia solita destare la mera superiorità intellettuale.
Gli uomini illustri agli occhi del mondo sono molto grandi alla distanza.
Avvicinati, rimpiccioliscono.
Ma l’attrattiva che si sprigiona da una santità ignara di essere tale è di una forza irresistibile; persuade i deboli, i timidi, gli incerti, chi è alla ricerca della verità”.
Non deve meravigliarci, pertanto, che, quando fu onorato con la porpora, Newman scelse, come motto, le parole cor ad cor loquitur.
Secondo lui, la verità viene trasmessa soprattutto cor ad cor:  in modo personale, tramite l’esempio, la fedeltà e l’amore di testimoni convinti e credibili.
Il processo di beatificazione di Newman, iniziato già nel 1958, era ormai prossimo a concludersi nel momento in cui si è celebrato il nostro convegno; a pochi mesi di distanza, in data 3 luglio 2009, Benedetto XVI ha autorizzato la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare il decreto riguardante un miracolo, attribuito proprio all’intercessione del venerabile servo di Dio John Henry Newman.
Fra qualche mese, quindi, verrà proclamato beato.
L’avvenimento conferma e propone alla venerazione di tutta la Chiesa ciò di cui sono da sempre ben consapevoli studiosi e amici di Newman, e quanti si accostano senza pregiudizi alla sua figura e ai suoi scritti:  il noto convertito inglese non fu soltanto un pensatore con doti eccezionali, ma un uomo nel quale la genialità del pensiero faceva tutt’uno con la santità della vita quotidiana.
 Quando egli in tarda età sentì dire che l’avrebbero chiamato santo, scrisse:  “Non sono portato a fare il santo, è brutto dirlo.
I santi non sono letterati, non amano i classici, non scrivono romanzi.
Sono forse, alla mia maniera, abbastanza buono, ma questo non è alto profilo (…) Mi basta lucidare le scarpe ai santi, se san Filippo in cielo avesse bisogno di lucido da scarpe”.
Lungo tutta la sua vita Newman pensò di essere ben lontano dalla perfezione cristiana.
Ma dalla sua “prima conversione” la sua aspirazione fu tutta rivolta a Dio, che aveva riconosciuto come il fulcro della sua vita.
Da allora in poi seguì due principi:  “La crescita è la sola dimostrazione della vita” e “la santità piuttosto che la pace”.
Il genio di Newman, sebbene sempre ammirato e venerato, fu riscoperto dal concilio Vaticano II, di cui è stato un precursore profetico.
Jean Guitton scrisse in proposito nel 1964:  “I grandi geni sono dei profeti sempre pronti a rischiarare i grandi avvenimenti, i quali, a loro volta, gettano sui grandi geni una luce retrospettiva che dona loro un carattere profetico.
E come il rapporto che intercorre tra Isaia e la passione di Cristo, reciprocamente illuminati.
Così Newman rischiara con la sua presenza il Concilio e il Concilio giustifica Newman”.
Il Vaticano II ha recepito e consacrato tante intuizioni di Newman, ad esempio sul rapporto tra fede e ragione, sul significato della coscienza, sull’educazione universitaria, sul valore dei Padri e della storia in generale, sul mistero della Chiesa, sulla missione dei laici, sull’ecumenismo, sul dialogo con il mondo contemporaneo – grandi tematiche che vengono ampiamente trattate nel presente volume.
Nei pronunciamenti del Magistero postconciliare la dottrina di Newman viene continuamente valorizzata.
Basta menzionare alcuni documenti di particolare rilevanza dottrinale in cui si trovano riferimenti espliciti al pensiero di Newman:  le Lettere encicliche Veritatis splendor e Fides et ratio come anche il Catechismo della Chiesa Cattolica, che contiene non meno di quattro testi di Newman (cfr.
nn.
157, 1723, 1778, 2144) – un fatto notevole, perché di solito il Catechismo cita solo autori già canonizzati.
Accanto al suo pensiero forte, gli ultimi Pontefici presentano come esemplare anche la vita di Newman.
Limitiamoci a citare tre testi significativi.
In un discorso del 7 aprile 1975, rivolto ai partecipanti di un simposio accademico Paolo VI disse:  Newman, “che era convinto di essere fedele tutta la sua vita e con tutto il suo cuore votato alla luce della verità, diventa oggi un faro sempre più luminoso per tutti quelli che sono alla ricerca di un preciso orientamento e di una direzione sicura attraverso le incertezze del mondo moderno – un mondo che egli stesso profeticamente aveva preveduto”.
In una lettera del 14 maggio 1979, indirizzata all’arcivescovo di Birmingham in occasione del centenario del cardinalato di Newman, Giovanni Paolo II scrisse:  “L’elevazione di Newman a cardinale, come la sua conversione alla Chiesa cattolica, è un avvenimento che trascende il semplice fatto storico e l’importanza che ciò ha avuto per il suo Paese.
I due eventi hanno inciso profondamente nella vita della Chiesa molto al di là dei confini dell’Inghilterra.
Il significato provvidenziale e l’importanza di questi eventi per la Chiesa in generale sono stati più chiaramente compresi nel corso di questo nostro secolo.
Lo stesso Newman, con visione quasi profetica, era convinto che egli stava lavorando e soffrendo per la difesa e la promozione della causa della religione e della Chiesa non solo nel periodo a lui contemporaneo ma anche per quello futuro.
La sua influenza ispiratrice di grande maestro della fede e di guida spirituale viene percepita sempre più chiaramente proprio nei nostri giorni”.
Il cardinale Joseph Ratzinger, ora Benedetto XVI, disse in una conferenza tenuta nel 1990, parlando del suo incontro con Newman nel seminario di Frisinga:  “La dottrina di Newman sulla coscienza divenne per noi il fondamento di quel personalismo teologico, che ci attrasse tutti con il suo fascino.
La nostra immagine dell’uomo, così come la nostra concezione della Chiesa, furono segnate da questo punto di partenza.
Avevamo sperimentato la pretesa di un partito totalitario, che si concepiva come la pienezza della storia e che negava la coscienza del singolo.
Goering aveva detto del suo capo:  “Io non ho nessuna coscienza.
La mia coscienza è Adolf Hitler”.
L’immensa rovina dell’uomo che ne derivò ci stava davanti agli occhi.
Perciò era un fatto per noi liberante ed essenziale da sapere, che il “noi” della Chiesa non si fondava sull’eliminazione della coscienza, ma poteva svilupparsi solo a partire dalla coscienza.
Tuttavia proprio perché Newman spiegava l’esistenza dell’uomo a partire dalla coscienza, ossia nella relazione tra Dio e l’anima, era anche chiaro che questo personalismo non rappresentava nessun cedimento all’individualismo, e che il legame alla coscienza non significava nessuna concessione all’arbitrarietà”.
Nel famoso Biglietto-Speech, pronunciato in occasione del ricevimento della bolla di nomina a cardinale, Newman, guardando alla sua vita passata, confessò:  “Nel corso di lunghi anni ho fatto molti sbagli.
Non ho nulla dell’alta perfezione che si riscontra negli scritti dei santi, nei quali non ci possono essere errori; ma credo di poter affermare che in tutto ciò che ho scritto ho sempre perseguito nobili intenti, non ho cercato fini personali, ho tenuto una condotta ubbidiente, mi sono dimostrato disponibile a essere corretto, ho temuto l’errore, ho desiderato servire la santa Chiesa e ciò che ho raggiunto lo devo alla misericordia di Dio”.
Queste parole mostrano l’umiltà propria soltanto di un vero uomo di Dio.
Tutta la vita di Newman fu dedicata al servizio della verità e alla lotta contro il liberalismo religioso e morale (da non confondersi con il liberalismo politico), che considerava il più subdolo nemico della fede.
Ebbe uno spiccato senso della vicinanza di Dio, valorizzò pienamente la ragione e le capacità naturali dell’uomo, compì il suo dovere con grande competenza e dedizione, amò la Chiesa e toccò la coscienza e il cuore di tantissime persone di ogni ceto sociale.
Nei suoi ultimi anni condusse una vita di preghiera e di raccoglimento ancora più intensa.
Per la fedeltà alla chiamata di Dio dovette sopportare innumerevoli sofferenze che resero più nobili e più carichi di attrattiva perfino i tratti del suo volto.
Il quotidiano londinese “The Times” pubblicò il giorno seguente la morte di Newman, avvenuta l’11 agosto 1890, un lungo elogio funebre che terminava con le seguenti parole:  “Di una cosa possiamo essere certi, cioè che il ricordo di questa pura e nobile vita durerà e che (…) egli sarà santificato nella memoria della gente pia di molte confessioni in Inghilterra (…) Il santo che è in lui sopravvivrà”.
(©L’Osservatore Romano – 29 ottobre 2009) Il libro Una ragionevole fede raccoglie gli atti del convegno internazionale su John Henry Newman che si è svolto a Milano presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore il 26 e il 27 marzo 2009 (Milano, Vita e Pensiero, 2009, pagine 252, euro 20).
Pubblichiamo quasi per intero la prefazione dei curatori.

Paideia e università

Pubblichiamo parte della prolusione tenuta dal cardinale patriarca di Venezia per il “Dies Academicus 2009-2010” della Pontificia Università Salesiana celebrato a Roma il 27 ottobre.
Sul sito www.angeloscola.it si può leggere il testo integrale.
Dall’inizio della sua esistenza e poi per tutta la vita, l’uomo si trova “gettato” in una trama di rapporti decisivi – a partire da quelli con i genitori, coi fratelli, coi nonni e oggi sempre più spesso coi bisnonni.
Il suo impatto con la realtà avviene all’interno di queste relazioni buone attraverso le quali è la stessa struttura intelligibile del reale a suggerire il metodo più adeguato per ogni avventura educativa.
Se è il reale a offrirsi al soggetto, compito dell’educatore sarà quello di introdurre l’educando a una esperienza integrale della realtà che lo guidi a decifrarne il significato.
Nel suo regalarsi alla mia libertà, la realtà mostra dunque di possedere già un lògos, è intelligibile, come già affermava il realismo classico.
Ciò domanda che l’io eviti di elaborare, in modo astratto (ab-[s]tractus/separato), una conoscenza da cui debbano poi scaturire delle applicazioni pratiche.
La realtà, offrendosi per farsi conoscere, domanda invece un atto di decisione del soggetto.
E così mette in luce la natura di persona del soggetto stesso.
Infatti è proprio l’atto “il particolare momento in cui la persona si rivela”.
Ci troviamo al cuore di quella che Giovanni Paolo II e von Balthasar definiscono un'”antropologia adeguata”.
Un’antropologia consapevole del fatto che quando l’uomo inizia a riflettere su di sé e sul reale può farlo solo dall’interno del suo “esserci”:  “Possiamo interrogarci sull’essenza dell’uomo soltanto nel vivo atto della sua esistenza.
Non esiste antropologia al di fuori di quella drammatica”.
Questo stesso fatto ha un’ulteriore conseguenza.
Uno dei tratti propri dell'”esserci” del soggetto nel mondo è la sua obiettiva impossibilità di fare completa astrazione dalla tradizione nella quale egli si trova inserito, e che gli si manifesta, innanzitutto, nella forma del suo essere parte di una catena di generazioni.
Lungi dal costituire un ostacolo ad una effettiva educazione e ad un pieno sviluppo della ragione – come il pensiero illuministico ci ha per troppo tempo spinto a pensare -, la tradizione offre all’educando un imprescindibile termine di paragone da spendere nel suo confronto con il reale.
Essa è il terreno fertile da cui germoglia l’ipotesi vitale di significato da verificare nel corso della vita e senza la quale una vera e propria conoscenza non è tecnicamente possibile.
In quanto “luogo di pratica e di esperienza”, secondo la felice definizione di M.
Blondel, la tradizione favorisce, come diceva Giovanni Paolo II, la scoperta della “genealogia” della persona che non è mai riducibile alla sua pura “biologia”.
Garantisce quell’esperienza compiuta di paternità-figliolanza senza la quale non si dà la persona con la sua capacità di esperienza e di cultura.
Avendo così indirettamente individuato l’insostituibile apporto della libertà umana, sempre storicamente situata, alla paideia, possiamo legittimamente accennare al fattore “critico” insito in ogni proposta educativa.
Mi riferisco alla categoria di rischio.
Il rischio non è irrazionalità, ma affiora nella sempre possibile scissione tra il giudizio della ragione e l’atto di volontà.
Nell’incontro del suo io tutto intero con tutta la realtà l’educando fa l’esperienza del rischio perché, pur percependo l’intrinseca positività della realtà stessa, può rimanere bloccato nell’adesione ad essa fino ad abbandonarsi alla tentazione dello scetticismo.
In questa prospettiva il rischio non è risparmiato neanche all’educatore che, nel comunicare all’educando l’ipotesi interpretativa che egli ritiene più appropriata per spiegare il reale, è chiamato ad auto-esporsi e quindi a rischiarsi.
Per questa ragione l’educazione ha una natura eminentemente dialogica.
Domanda sempre uno scambio tra l'”io” – l’educatore che propone e si propone – e il “tu” – l’educando che viene introdotto alla realtà totale.
E questo scambio avviene, costitutivamente, all’interno della trama di relazioni in cui educatore ed educando sono sempre inseriti.
Questo dialogo si realizza solo a condizione che, nel continuo e serrato paragone con il reale, venga messa in gioco la libertà di entrambi.
Esso mostra inoltre la natura “drammatica” del compito dell’educatore, il quale, spesso tentato di risparmiare all’educando il negativo, può, anche senza volerlo, giungere fino ad impedirgli di essere irriducibilmente “altro”  e  quindi integralmente  “li- bero”.
Il rischio (educativo) del possesso può essere battuto in breccia solo da quella che, insieme alla libertà, rappresenta un’altra dimensione costitutiva di ogni impresa educativa:  l’amore.
L’amore offerto all’educando, e che a sua volta muove l’educando a un appassionato confronto con il mondo che lo circonda, ha due volti.
Quello dell’educatore, che offre e comunica tutto se stesso nel testimoniare la verità come quell’ipotesi vitale di interpretazione della realtà che egli ha fatto propria; quello della realtà stessa, che, attestandosi come dono, è ultimamente segno del Mistero che si rivela a tutti gli uomini.
E la dinamica con cui la realtà si racconta non si esaurisce mai perché, alla fine, esprime l’amore con cui l’amato (l’uomo) e l’amante (il Mistero) incessantemente si interrogano.
Quando l’ipotesi unitaria e vitale di interpretazione della realtà è l’evento di Gesù Cristo che si comunica nella traditio eucaristica della Chiesa, allora essa appare inscindibilmente connessa con la virtù cristiana della carità.
San Giovanni Bosco ha ben descritto quale sia il caposaldo dell’educazione:  “Se perciò sarete veri padri dei vostri allievi, bisogna che voi ne abbiate anche il cuore(…) Ricordatevi che l’educazione è cosa del cuore, e che Dio solo ne è il padrone, e noi non potremo riuscire a cosa alcuna, se Dio non ce ne insegna l’arte, e non ce ne mette in mano la chiave”.
Queste parole sono nutrite ultimamente dalle relazioni intratrinitarie tra Padre e Figlio e Spirito che, per le missioni del Figlio e dello Spirito, assumono il volto della singolare esperienza del rapporto di Gesù col Padre (cfr.
Vangelo di Giovanni) e con lo Spirito.
Esse dicono dell’impossibilità di essere padri ed educatori se prima non ci si riconosce figli.
Non dico:  se non si riconosce di “essere stati figli”, bensì proprio di “essere figli”, qui e ora, di quel Padre che è fonte di ogni paternità e che in Cristo “ci ha scelti prima della creazione del mondo (…), predestinandoci a essere suoi figli adottivi”.
Indicati i tratti di una paideia come introduzione di tutta la persona alla realtà totale, possiamo ora domandarci in che misura l’università sia in grado di rispondere a questo compito.
A partire dall’epoca moderna l’università in ambito euroatlantico pratica di fatto l’esclusione dei saperi connessi con tutte le questioni ultime, specie se lette nella prospettiva della rivelazione, perché sono ritenute estranee a una rigorosa conoscenza scientifica.
“L’umanità preferirà rinunciare ad ogni domanda filosofica piuttosto che accettare una filosofia che trova la sua ultima risposta nella rivelazione di Cristo”.
Questa pesante emarginazione non si perita più, come un tempo, di mettere in discussione la legittimità delle questioni e delle domande circa le cose ultime (Comte).
Piuttosto nega la possibilità che la teologia, e anche la filosofia intesa in senso pieno, possano rispondervi adeguatamente.
Oggi sarebbe deputata a farlo, al loro posto, la tecnoscienza, la quale viene da più parti considerata l’unica depositaria della verità, sempre falsificabile (Popper), circa l’uomo e i fattori fondamentali della sua esistenza:  l’amore, la nascita, la morte.
È evidente come entrino qui in gioco radicali cambiamenti che hanno una stretta connessione con la questione educativa.
In questo quadro di rapida e affannosa transizione, come può la formazione universitaria essere pedagogicamente appropriata e non venir meno alla vocazione stessa della uni-versitas, cioè di luogo in cui i saperi vengono ricondotti a un unico principio sintetico di spiegazione della realtà? In passato questo ruolo di sintesi era toccato alla teologia, il cui metodo e i cui risultati facevano da orizzonte per le altre scienze.
Nell’epoca moderna, declinato il ruolo della teologia, ridotta al rango di una disciplina fra le altre e in molte parti espulsa dall’università, non decade tuttavia l’istanza di unificazione del reale.
Ma oggi il principio che assicuri l’universitas come comunità di ricerca non è più ricavato dall’accordo su un nucleo centrale di questioni ultime – sempre allo stesso tempo filosofiche e religiose – ma poggia sul consenso prodottosi intorno alle procedure di ricerca.
La scientificità che accomuna le discipline universitarie non attiene più direttamente all’oggetto della conoscenza, cioè alla verità, ma solo alla metodologia di formulazione del discorso scientifico stesso.
Inevitabile conseguenza di questo approccio è che l’università cessa di essere luogo di ricerca e verifica di un’ipotesi veritativa ultima, e perciò di reale paideia, per ridursi unicamente a luogo di trasmissione di competenze che, pur non rinunciando a dire “qualcosa” di sempre provvisorio circa la verità – pensiamo al bìos, o alla “formazione dell’universo” – possiede solo un’utilità strumentale.
Ci troviamo qui di fronte ad un concetto di ragione estremamente limitato, che non tiene conto delle articolate modalità in cui si esercita il lògos umano.
Possiamo infatti individuare, sulla scorta di quanto già diceva Aristotele, almeno cinque forme, differenziate e irriducibili, di razionalità:  teorica-scientifica (scienza), teorica-speculativa (filosofia/teologia), pratica tecnica (tecnologia), pratica-morale (etica) e teorico-pratica espressiva (poetica).
Tutte queste dimensioni dovrebbero essere armonicamente e unitariamente coltivate dall’università.
Certo, nell’attuale panorama educativo non si può non tenere nella dovuta considerazione il fatto che il sistema universitario è per sua natura basato su una complessa articolazione di specifici programmi curriculari e di discipline differenziate.
Può pertanto apparire irrealistico perseguire in tempi ragionevoli l’individuazione di nuove basi per l’unità dell’oggetto del sapere, tanto più che va mantenuto il legittimo, e anzi necessario, rispetto per lo statuto particolare delle singole discipline secondo il principio popperiano di demarcazione.
Tuttavia quella del superamento della frammentarietà dell’oggetto del sapere è un’istanza oggi più sentita che sta conducendo cultori di molte materie a non limitarsi alla pura interdisciplinarietà.
A maggior ragione però, di fronte a una tale situazione, una adeguata educazione universitaria non potrà rinunciare da subito alla cura dell’unità del soggetto del sapere.
Ma su cosa fondare oggi l’unità del soggetto? Saggezza chiede che, senza confondere il nuovo con l’inedito, anche nel tempo presente si riconosca che essa si realizza a partire dall’assunzione di un’ipotesi esplicativa vitale del reale, che consenta di percepirlo nella sua totalità e di goderne.
Non si tratta di un puro esercizio intellettualistico, ma di un’esigenza che si impone ad ogni ricercatore e ad ogni docente e studente che sia lealmente impegnato con la sua materia di ricerca, di insegnamento e di studio.
Ogni disciplina, infatti, contiene al fondo una domanda di senso e di significato e perciò prima o poi suscita le irrinunciabili questioni che da sempre agitano il cuore dell’uomo:  Chi sono io? Da dove vengo? Quale destino mi aspetta? Chi alla fine mi assicura amandomi definitivamente – oltre la morte stessa? Le possibilità che uno sguardo unitario sul reale è in grado di dischiudere a un intelletto commosso sono ben descritte dalle parole assai attuali del cardinale J.H.Newman:  “Non c’è vero allargamento dello spirito se non quando vi è la possibilità di considerare una molteplicità di oggetti da un solo punto di vista e come un tutto; di accordare a ciascuno il suo vero posto in un sistema universale, di comprendere il valore rispettivo di ciascuno e di stabilire i suoi rapporti di differenza nei confronti degli altri(…) L’intelletto che possiede questa illuminazione autentica non considera mai una porzione dell’immenso oggetto del sapere, senza tener presente che essa ne è solo una piccola parte e senza fare i raccordi e stabilire le relazioni che sono necessarie.
Esso fa in modo che ogni dato certo conduca a tutti gli altri.
Cerca di comunicare ad ogni parte un riflesso del tutto, a tal punto che questo tutto diviene nel pensiero come una forma che si insinua e si inserisce all’interno delle parti che lo costituiscono e dona a ciascuna il suo significato ben definito”.
Tale punto di vista unitario è offerto secondo il cristianesimo dall’evento di Gesù Cristo, Verbo incarnato e immagine del Dio invisibile, e dalla Sua “pretesa” di svelare, con la sua passione, morte e risurrezione, l’enigma che l’uomo rappresenta per se stesso senza per questo pre-decidere il dramma costitutivo di ogni singolo.
Questa “ipotesi” non soffoca il libero esercizio della ragione, anzi ne esalta le facoltà critiche urgendole ad un confronto a 360 con la realtà.
La proposta cristiana, infatti, presa nella sua oggettiva integralità, non è un salto nel buio.
L’uomo può, al contrario, verificarne tutto lo spessore veritativo nel paragone con le dimensioni della sua esperienza elementare – lavoro, affetti, riposo – e con le irriducibili polarità che attraversano l’unità del proprio io – unità duale propria di ogni essere creato, contingente:  anima-corpo, uomo-donna, individuo-comunità.
(©L’Osservatore Romano – 28 ottobre 2009)

La beatificazione di don Carlo Gnocchi

Carlo Gnocchi, terzogenito di Enrico Gnocchi, marmista, e Clementina Pasta, sarta, nasce a San Colombano al Lambro, vicino Lodi, il 25 ottobre 1902.
Rimasto orfano del padre all’età di cinque anni Carlo si trasferisce a Milano con la madre e i due fratelli Mario e Andrea.
Non molto tempo dopo entrambe i fratelli moriranno di tubercolosi.
fratelli moriranno di tubercolosi.
Carlo, di salute cagionevole, trascorre sovente lunghi periodi di convalescenza a Montesiro, paesino della Brianza, presso una zia.
Carlo Gnocchi entra in seminario alla scuola del cardinale Andrea Ferrari e nel 1925 viene ordinato sacerdote dall’Arcivescovo di Milano, Eugenio Tosi.
Don Gnocchi celebra la sua prima messa il 6 giugno a Montesiro.
Il primo impegno del giovane Don Carlo Gnocchi è quello di assistente d’oratorio: prima a Cernusco Sul Naviglio, vicino Milano, poi dopo solo un anno nella popolosa parrocchia di San Pietro in Sala, a Milano.
Grazie al suo operato raccoglie stima, consensi e affetto tra la gente tanto che la fama delle sue doti di ottimo educatore giunge fino in Arcivescovado.
Nel 1936 il Cardinale Ildefonso Schuster lo nomina direttore spirituale di una delle scuole più prestigiose di Milano: l’Istituto Gonzaga dei Fratelli delle Scuole Cristiane.
In questo periodo Don Gnocchi studia intensamente e scrive brevi saggi di pedagogia.
Sul finire degli anni ’30 il Cardinale Schuster gli affida l’incarico dell’assistenza spirituale degli universitari della Seconda Legione di Milano, che comprende in buona parte studenti dell’Università Cattolica oltre che molti ex allievi del Gonzaga.
Nel 1940 l’Italia entra in guerra e molti giovani studenti vengono chiamati al fronte.
Don Carlo, coerente alla tensione educativa che lo vuole sempre presente con i suoi giovani anche nel pericolo, si arruola come cappellano volontario nel battaglione “Val Tagliamento” degli alpini: la sua destinazione è il fronte greco albanese.
Terminata la campagna nei Balcani, dopo un breve intervallo a Milano, nel 1942 Don Carlo Gnocchi riparte per il fronte.
Questa volta la meta è la Russia, con gli alpini della Tridentina.
Nel gennaio del 1943 inizia la drammatica ritirata del contingente italiano: Don Gnocchi, caduto stremato ai margini della pista dove passava la fiumana dei soldati, viene miracolosamente soccorso, raccolto da una slitta e salvato.
È proprio in questa tragica esperienza che, assistendo gli alpini feriti e morenti e raccogliendone le ultime volontà, matura in lui l’idea di realizzare una grande opera di carità che troverà compimento, dopo la guerra, nella “Fondazione Pro Juventute”.
Ritornato in Italia nel 1943, Don Gnocchi inizia il suo pellegrinaggio attraverso le vallate alpine, alla ricerca dei familiari dei caduti, per dare loro un conforto morale e materiale.
In questo stesso periodo aiuta molti partigiani e politici a fuggire in Svizzera, rischiando in prima persona la vita: viene arrestato dalle SS con la grave accusa di spionaggio e di attività contro il regime.
A partire dal 1945 comincia a prendere forma concreta quel progetto di aiuto ai sofferenti pensato negli anni della guerra: Don Gnocchi viene nominato direttore dell’Istituto Grandi Invalidi di Arosio (Como), e accoglie i primi orfani di guerra e i bambini mutilati.
Inizia così l’opera che porterà Don Carlo Gnocchi a guadagnare sul campo il titolo più meritorio di “padre dei mutilatini”.
Le richieste di ammissione arrivano da tutta Italia e ben presto la struttura di Arosio si rivela insufficiente ad accogliere i piccoli ospiti.
Nel 1947 viene concessa in affitto – ad una cifra del tutto simbolica – una grande casa a Cassano Magnano, nel varesotto.
Nel 1949 l’Opera di Don Gnocchi ottiene un primo riconoscimento ufficiale: la “Federazione Pro Infanzia Mutilata”, da lui fondata l’anno precedente per meglio coordinare gli interventi assistenziali nei confronti delle piccole vittime della guerra, viene riconosciuta ufficialmente con Decreto del Presidente della Repubblica.
Nello stesso anno il Capo del Governo, Alcide De Gasperi, promuove Don Carlo Gnocchi consulente della Presidenza del Consiglio dei Ministri per il problema dei mutilatini di guerra.
Da questo moment, uno dopo l’altro, vengono aperti nuovi collegi: Parma (1949), Pessano (1949), Torino (1950), Inverigo (1950), Roma (1950), Salerno (1950) e Pozzolatico (1951).
Nel 1951 la “Federazione Pro Infanzia Mutilata” viene sciolta e tutti i beni e le attività vengono attribuiti al nuovo soggetto giuridico creato da Don Gnocchi: la “Fondazione Pro Juventute”, riconosciuta con Decreto del Presidente della Repubblica l’11 febbraio 1952.
Nel 1955 Don Carlo lancia la sua ultima grande sfida: si tratta di costruire un moderno centro che costituisca la sintesi della sua metodologia riabilitativa.
Nel settembre dello stesso anno, alla presenza del Capo dello Stato, Giovanni Gronchi, viene posata la prima pietra della nuova struttura nei pressi dello stadio Meazza (San Siro) a Milano.
Vittima di una malattia incurabile Don Gnocchi non riuscirà a vedere completata l’opera nella quale aveva investito le maggiori energie: il 28 febbraio 1956, la morte lo raggiunge prematuramente presso la Columbus, clinica di Milano dove è da tempo ricoverato per una grave forma di tumore.
I funerali, celebrati il giorno 1 marzo dall’arcivescovo Montini (poi Papa Paolo VI), furono grandiosi per partecipazione e commozione.
La sensazione generale era che la scomparsa di Don Carlo Gnocchi avesse privato la comunità di un vero santo.
Durante il rito venne portato al microfono un bambino.
Un’ovazione seguì le parole del fanciullo: “Prima ti dicevo: ciao don Carlo.
Adesso ti dico: ciao, san Carlo”.
A sorreggere la bara c’erano quattro alpini; altri portavano sulle spalle i piccoli mutilatini in lacrime.
Tra amici, conoscenti e semplici cittadini erano in centomila a gremire il Duomo di Milano e la sua piazza.
L’intera città listata a lutto.
Proprio il giorno del funerale esce un piccolo libro da lui scritto con le sue ultime forze, come una sorta di testamento, che condensa tutta la sua vita e il suo sacerdozio, la sua opera in mezzo alla gioventù delle parrocchie, dell’Istituto Gonzaga, di cappellano militare, ma soprattutto in mezzo al dolore dei piccoli e dei più giovani, per dare ad ogni lacrima, a ogni goccia di sangue sparsa, il significato e il valore più alto.
L’ultimo gesto apostolico di Don Gnocchi è stato la donazione delle cornee a due ragazzi non vedenti – Silvio Colagrande e Amabile Battistello – quando in Italia il trapianto di organi non era ancora disciplinato da apposite leggi.
Il doppio intervento, eseguito dal prof.
Cesare Galeazzi, riuscì perfettamente.
La generosità di Don Carlo che ebbe anche in punto di morte e l’enorme impatto che il trapianto e i risultati dell’operazioni ebbero sull’opinione pubblica impressero un’accelerazione decisiva al dibattito.
Nel giro di poche settimane venne varata una legge sul tema.
Trent’anni dopo la mortedi Don Carlo Gnocchi il cardinale Carlo Maria Martini istituirà il Processo di Beatificazione.
La fase diocesana avviata nel 1987 si è conclusa nel 1991.
Il 20 dicembre 2002 Papa Giovanni Paolo II lo ha dichiarato venerabile.
Nel 2009 il cardinale Dionigi Tettamanzi annuncia che la beatificazione avverrà il 25 ottobre dello stesso anno.
Don Carlo Gnocchi:  un nome legato indissolubilmente alle opere di carità.
Un prete autentico che ha messo in pratica gli insegnamenti evangelici offrendo aiuto e sostegno ai fratelli che erano nel bisogno.
La sua figura “resta di grande attualità ancora oggi.
Come profeta di speranza e come eroe della carità, egli continua a ispirare impegno e imitazione”.
Così ha tratteggiato la vita e l’opera di don Gnocchi l’arcivescovo Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, nel presiedere il rito della sua beatificazione.
La cerimonia si è svolta in piazza del Duomo a Milano, domenica mattina 25 ottobre, alla presenza del cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo della diocesi ambrosiana, che ha presieduto l’Eucaristia.
“Don Carlo fu un eroe e un santo – ha proseguito il prefetto Amato – e il segreto dell’eroismo della sua santità fu il suo amore per Cristo:  “Solo Cristo – egli diceva – può essere principio di vita divina per l’uomo.
Cristo fu per il nostro beato l’unica avventura della sua vita sacerdotale.
Fu un prete tutto di Cristo, tutto della Chiesa, tutto del prossimo bisognoso e sofferente”.
Il presule lo ha definito “prete fino in fondo” e il suo ministero sacerdotale “fu il servizio ai giovani come educatore sapiente, come cappellano eroico, come benefattore generoso dei mutilatini.
Il suo incontenibile entusiasmo apostolico era ancorato alla Provvidenza divina, da lui vista, come don Bosco, incarnata concretamente nelle persone buone e generose”.
Don Gnocchi ebbe, infatti, ha aggiunto il prefetto, “un’energia creativa, una imprenditorialità tutta milanese nel trovare mezzi e persone per far crescere e prosperare quella che lui chiamava “la mia baracca”.
Era un vero imprenditore della carità”.
Nell’omelia il cardinale Tettamanzi ha detto che è “nella ricerca del volto di Cristo impresso nel volto d’ogni uomo che don Carlo ha consumato la sua vita.
Lo ha cercato in ogni soldato, in ogni alpino – ferito o morente -, in ogni bimbo violato dalla ferocia della guerra, in ogni mutilatino vittima innocente dell’odio, in ogni mulattino frutto della violenza perpetrata sull’innocenza della donna, in ogni poliomielitico piegato nel corpo dal mistero stesso del dolore”.
È proprio qui il segreto dell’amore di don Carlo per l’uomo:  “La vivissima coscienza che nel cuore di ogni essere umano abita lo splendore del volto di Dio.
Ma ogni cristiano è chiamato ad amare sino alla fine e senza paura ogni essere umano, sapendo che in tutti è l’impronta incancellabile del volto di Dio, di tutti Creatore e Padre”.
“La seconda lettura – ha aggiunto il porporato – tratta dalla lettera di Paolo a Timoteo (1 Timoteo, 2, 1-5), ci rimanda ad un tratto caratteristico della carità di don Gnocchi.
L’Apostolo raccomanda, in particolare, “che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio”.
Don Carlo ha saputo coinvolgersi con dedizione entusiasta e disinteressata non solo nella vita della Chiesa, ma anche in quella della società.
E lo ha fatto coltivando con grande intelligenza e vigore l’intimo legame tra la carità e la giustizia:  una carità che “tende le mani alla giustizia”, egli diceva”.
“Noi – ha affermato il cardinale – possiamo continuare la sua opera chiedendo oggi alla giustizia di tendere le mani alla carità.
Don Carlo è stato mirabile nell’operare una sintesi concreta di pensiero e di impresa, appellando alle diverse istituzioni pubbliche e insieme alle molteplici forme di volontariato, ponendo come criterio necessario e insuperabile la centralità della persona umana sempre onorata nell’inviolabilità della sua dignità e nella globalità unitaria delle sue dimensioni – fisiche, psichiche e spirituali -, insistendo sull’opera educativa e culturale come decisamente prioritaria per lo sviluppo autentico della società.
Mai egli ha dimenticato il privilegio e comandamento evangelico del servizio agli “ultimi””.
Una menzione poi alla vocazione sacerdotale del nuovo beato:  “Ha vissuto la sua vocazione come impegno leale nel mondo – ha detto il porporato – senza sminuire, anzi arricchendo, il suo essere di sacerdote.
Impegno nel mondo così come si presentava al suo tempo:  lontano dalle nostalgie del passato, calato cordialmente nel presente, aperto, profetico e anticipatore del futuro, mai nel segno del pessimismo o della paura.
Egli era convinto che il tempo nel quale Dio lo aveva chiamato a vivere era il migliore possibile.
Nell’opera Educazione del cuore scrisse:  “Amiamo di un amore geloso il nostro tempo, così grande e così avvilito, così ricco e così disperato, così dinamico e così dolorante, ma in ogni caso sempre sincero e appassionato.
Se avessimo potuto scegliere il tempo della nostra vita e il campo della nostra lotta, avremmo scelto…
il Novecento senza un istante di esitazione””.
Infine, il cardinale ha concluso ricordando le parole di don Gnocchi rivolte al mondo moderno, con le quali “augurava un tempo nuovo, un nuovo tipo di umanità; augurava la personalità cristiana, cioè “cristianesimo e cristiani attivi, ottimisti, sereni, concreti e profondamente umani; che guardano al mondo, non più come a un nemico da abbattere o da fuggire, ma come a un (figlio) prodigo da conquistare e redimere con l’amore”.
Sono parole preziose anche per noi:  amiamo il nostro tempo; impegniamoci nel nostro mondo; portiamo in tutti gli ambienti della nostra vita le speranze umane e la “speranza grande” che ci viene da Cristo, il vincitore della morte e di ogni male”.
(©L’Osservatore Romano – 26-27 ottobre 2009)