Minareti: perché l´Occidente non deve averne paura

L´esito del referendum svoltosi in Svizzera la scorsa domenica circa la costruzione di nuovi minareti è il risultato eclatante della superficialità culturale con cui le nostre società stanno affrontando uno dei fenomeni più ingenti e sfidanti del nostro tempo.
Ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi – e le analisi sociologiche e i dati statistici, insieme alla cronaca quotidiana, ce ne danno evidente documentazione – è un profondo rimescolamento delle carte per quanto concerne la relazione e la coabitazione tra i popoli, le culture, le esperienze sociali, le religioni.
Un fatto che c´è sempre stato, ma che oggi assume dei connotati inediti e pervasivi, oltre che un ritmo accelerato.
Il disagio nell´affrontare questa sfida, molto concreta e oltremodo impegnativa, è comprensibile.
Ma non lo è l´assenza, a livello pubblico, di un approfondimento e di un dialogo serio e responsabile, capace di aiutarci ad andare al di là della reattività immediata e di leggere il significato profondo di quanto accade e ci interpella, al fine d´individuare strategie culturalmente attrezzate e operativamente praticabili.
L´esito e, prima ancora, la proposizione di un referendum come quello di domenica in Svizzera denuncia in modo grave e inequivocabile quest´assenza.
E c´è solo da augurarsi che provochi quello choc salutare capace d´innescare un processo ponderato di discernimento della vera questione che è in ballo.
L´esperienza di questo referendum ci dice infatti che cosa non dobbiamo e non possiamo fare, in virtù della tradizione culturale e giuridica su cui si regge la civiltà occidentale e in riferimento all ´inedito che bussa alla nostra porta e che chiede di dar nuova forma – senza rinnegare assolutamente il positivo delle acquisizioni con fatica sin qui raggiunte – alla convivenza civile e all´assetto giuridico delle nostre società.
Innanzi tutto, non è più possibile – pena il ritorno a un passato che è improponibile – legiferare impedendo la legittima espressione pubblica delle diverse fedi religiose.
Le quali non possono in nulla derogare dalle norme fondamentali e riconosciute della società in cui si esplicano, ma che altrettanto non possono esser relegate nella sfera del privato.
È questo un guadagno irrinunciabile della civiltà occidentale, cui non è estraneo l´apporto per molti versi decisivo della fede cristiana e della cultura che ad essa s´ispira.
C´è voluto tempo e si sono combattute aspre battaglie, con chiusure e resistenze su ambedue i fronti, ma alla fine il principio secondo cui occorre dare a Dio ciò che è di Dio e a Cesare ciò che è di Cesare è diventato, per lo Stato moderno e per la Chiesa, un principio almeno formalmente inderogabile.
Tanto che il Concilio Vaticano II ha emanato una dichiarazione sulla libertà civile e sociale in materia religiosa, la Dignitatis humanae.
Dichiarazione per nulla scontata, sino a quel momento, nello stesso ambito cristiano, e che proprio per questo – al dire di Paolo VI – «resterà senza dubbio uno dei più grandi documenti di questo Concilio».
Un´altra cosa che è non solo strategicamente sbagliata, ma culturalmente del tutto inadeguata oltre che controproducente, è contrapporre rozzamente Occidente e Islam, facendo loro vestire i panni di due civiltà inconciliabili.
Certo, le differenze non mancano e sono anche rilevanti: ma la contrapposizione escludente non favorisce mai l´evoluzione dei dati positivi presenti in un dato sistema culturale e sociale.
Senza dire che l´identità sana e matura non si promuove contro quella dell´altro, chiunque egli sia, ma nella fatica di stabilire con lui il giusto rapporto.
E senza sottovalutare il fatto che una presa di posizione come quella che si è espressa nel referendum sui minareti segnala un´insuperabile contraddizione: quella di chi vuol godere di tutti i benefici della globalizzazione a livello materiale, senza aprirsi al rischio ma anche al guadagno culturale che essa può produrre.
Detto questo, si può guardare con serenità e spirito costruttivo alla delicata questione di che cosa necessitino gli atteggiamenti fondanti della nostra cultura e le regole procedurali e sostanziali della nostra convivenza per farsi capaci di apparecchiare uno spazio pubblico condiviso e accogliente.
Insomma, se, per me che sono cristiano, il campanile e il suono delle campane fanno casa e nutrono il sentimento della mia identità, perché non debbo riconoscere che il minareto e l´invito alla preghiera del muezzin fanno altrettanto per gli amici musulmani? L´essenziale è che il suono della campana e l´invito del muezzin non siano assordanti e impositivi.
Del resto, non sono stati pochi né brevi i periodi della storia passata né a tutt´oggi sono del tutto spariti i luoghi ove sinagoghe, chiese e moschee convivono pacificamente e arricchiscono le rispettive identità del dono prezioso che viene dall´altro.
Dobbiamo senz´altro essere realisticamente consapevoli che tutto ciò non è scontato né facile.
Ma è questa la frontiera culturale che dobbiamo attraversare insieme.
Aiutandoci gli uni gli altri, con apertura e insieme con rigore, a disinnescare in radice ogni forma di tentazione fondamentalista e omologatrice.
Promuovendo, di concerto con coloro – e non sono pochi – che non aderiscono a nessuna tradizione religiosa, una laicità matura che si faccia spazio propizio di dialogo e incontro, nella cornice del rispetto della dignità e dei diritti/doveri inalienabili della persona.
Senza indulgere a quel falso irenismo che mettendo sullo stesso piano tutte le convinzioni, in realtà le rende indifferenti l´una verso l´altra inibendo quell´inesausta ricerca di bene, di verità e di pace che muove la coscienza e la libertà verso orizzonti sempre più ricchi e condivisibili.
Riuscire a convivere così, nei Paesi europei così come in quelli islamici, non è, per chi aderisce a una fede religiosa, abdicare alla propria identità né sognare idealisticamente un´utopia, ma testimoniare con coerenza e senza sconti la propria apertura verso Dio e la propria responsabilità verso l´altro.
in “la Repubblica” del 3 dicembre 2009

“Cari artisti, voi siete custodi della bellezza”

Signori Cardinali, venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio, illustri Artisti, Signore e Signori! Con grande gioia vi accolgo in questo luogo solenne e ricco di arte e di memorie.
Rivolgo a tutti e a ciascuno il mio cordiale saluto, e vi ringrazio per aver accolto il mio invito.
Con questo incontro desidero esprimere e rinnovare l’amicizia della Chiesa con il mondo dell’arte, un’amicizia consolidata nel tempo, poiché il Cristianesimo, fin dalle sue origini, ha ben compreso il valore delle arti e ne ha utilizzato sapientemente i multiformi linguaggi per comunicare il suo immutabile messaggio di salvezza.
Questa amicizia va continuamente promossa e sostenuta, affinché sia autentica e feconda, adeguata ai tempi e tenga conto delle situazioni e dei cambiamenti sociali e culturali.
Ecco il motivo di questo nostro appuntamento.
Ringrazio di cuore Mons.
Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, per averlo promosso e preparato, con i suoi collaboratori, come pure per le parole che mi ha poc’anzi rivolto.
Saluto i Signori Cardinali, i Vescovi, i Sacerdoti e le distinte Personalità presenti.
Ringrazio anche la Cappella Musicale Pontificia Sistina che accompagna questo significativo momento.
Protagonisti di questo incontro siete voi, cari e illustri Artisti, appartenenti a Paesi, culture e religioni diverse, forse anche lontani da esperienze religiose, ma desiderosi di mantenere viva una comunicazione con la Chiesa cattolica e di non restringere gli orizzonti dell’esistenza alla mera materialità, ad una visione riduttiva e banalizzante.
Voi rappresentate il variegato mondo delle arti e, proprio per questo, attraverso di voi vorrei far giungere a tutti gli artisti il mio invito all’amicizia, al dialogo, alla collaborazione.
Alcune significative circostanze arricchiscono questo momento.
Ricordiamo il decennale della Lettera agli Artisti del mio venerato predecessore, il Servo di Dio Giovanni Paolo II.
Per la prima volta, alla vigilia del Grande Giubileo dell’Anno 2000, questo Pontefice, anch’egli artista, scrisse direttamente agli artisti con la solennità di un documento papale e il tono amichevole di una conversazione tra “quanti – come recita l’indirizzo –, con appassionata dedizione, cercano nuove «epifanie» della bellezza”.
Lo stesso Papa, venticinque anni or sono, aveva proclamato patrono degli artisti il Beato Angelico, indicando in lui un modello di perfetta sintonia tra fede e arte.
Il mio pensiero va, poi, al 7 maggio del 1964, quarantacinque anni fa, quando, in questo stesso luogo, si realizzava uno storico evento, fortemente voluto dal Papa Paolo VI per riaffermare l’amicizia tra la Chiesa e le arti.
Le parole che ebbe a pronunciare in quella circostanza risuonano ancor oggi sotto la volta di questa Cappella Sistina, toccando il cuore e l’intelletto.
“Noi abbiamo bisogno di voi – egli disse -.
Il Nostro ministero ha bisogno della vostra collaborazione.
Perché, come sapete, il Nostro ministero è quello di predicare e di rendere accessibile e comprensibile, anzi commovente, il mondo dello spirito, dell’invisibile, dell’ineffabile, di Dio.
E in questa operazione… voi siete maestri.
E’ il vostro mestiere, la vostra missione; e la vostra arte è quella di carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità” (Insegnamenti II, [1964], 313).
Tanta era la stima di Paolo VI per gli artisti, da spingerlo a formulare espressioni davvero ardite: “E se Noi mancassimo del vostro ausilio – proseguiva –, il ministero diventerebbe balbettante ed incerto e avrebbe bisogno di fare uno sforzo, diremmo, di diventare esso stesso artistico, anzi di diventare profetico.
Per assurgere alla forza di espressione lirica della bellezza intuitiva, avrebbe bisogno di far coincidere il sacerdozio con l’arte” (Ibid., 314).
In quella circostanza, Paolo VI assunse l’ impegno di “ristabilire l’amicizia tra la Chiesa e gli artisti”, e chiese loro di farlo proprio e di condividerlo, analizzando con serietà e obiettività i motivi che avevano turbato tale rapporto e assumendosi ciascuno con coraggio e passione la responsabilità di un rinnovato, approfondito itinerario di conoscenza e di dialogo, in vista di un’autentica “rinascita” dell’arte, nel contesto di un nuovo umanesimo.
Quello storico incontro, come dicevo, avvenne qui, in questo santuario di fede e di creatività umana.
Non è dunque casuale il nostro ritrovarci proprio in questo luogo, prezioso per la sua architettura e per le sue simboliche dimensioni, ma ancora di più per gli affreschi che lo rendono inconfondibile, ad iniziare dai capolavori di Perugino e Botticelli, Ghirlandaio e Cosimo Rosselli, Luca Signorelli ed altri, per giungere alle Storie della Genesi e al Giudizio Universale, opere eccelse di Michelangelo Buonarroti, che qui ha lasciato una delle creazioni più straordinarie di tutta la storia dell’arte.
Qui è anche risuonato spesso il linguaggio universale della musica, grazie al genio di grandi musicisti, che hanno posto la loro arte al servizio della liturgia, aiutando l’anima ad elevarsi a Dio.
Al tempo stesso, la Cappella Sistina è uno scrigno singolare di memorie, giacché costituisce lo scenario, solenne ed austero, di eventi che segnano la storia della Chiesa e dell’umanità.
Qui, come sapete, il Collegio dei Cardinali elegge il Papa; qui ho vissuto anch’io, con trepidazione e assoluta fiducia nel Signore, il momento indimenticabile della mia elezione a Successore dell’apostolo Pietro.
Cari amici, lasciamo che questi affreschi ci parlino oggi, attirandoci verso la méta ultima della storia umana.
Il Giudizio Universale, che campeggia alle mie spalle, ricorda che la storia dell’umanità è movimento ed ascensione, è inesausta tensione verso la pienezza, verso la felicità ultima, verso un orizzonte che sempre eccede il presente mentre lo attraversa.
Nella sua drammaticità, però, questo affresco pone davanti ai nostri occhi anche il pericolo della caduta definitiva dell’uomo, minaccia che incombe sull’umanità quando si lascia sedurre dalle forze del male.
L’affresco lancia perciò un forte grido profetico contro il male; contro ogni forma di ingiustizia.
Ma per i credenti il Cristo risorto è la Via, la Verità e la Vita.
Per chi fedelmente lo segue è la Porta che introduce in quel “faccia a faccia”, in quella visione di Dio da cui scaturisce senza più limitazioni la felicità piena e definitiva.
Michelangelo offre così alla nostra visione l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine della storia, e ci invita a percorrere con gioia, coraggio e speranza l’itinerario della vita.
La drammatica bellezza della pittura michelangiolesca, con i suoi colori e le sue forme, si fa dunque annuncio di speranza, invito potente ad elevare lo sguardo verso l’orizzonte ultimo.
Il legame profondo tra bellezza e speranza costituiva anche il nucleo essenziale del suggestivo Messaggio che Paolo VI indirizzò agli artisti alla chiusura del Concilio Ecumenico Vaticano II, l’8 dicembre 1965: “A voi tutti – egli proclamò solennemente – la Chiesa del Concilio dice con la nostra voce: se voi siete gli amici della vera arte, voi siete nostri amici!” (Enchiridion Vaticanum, 1, p.
305).
Ed aggiunse: “Questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione.
La bellezza, come la verità, è ciò che infonde gioia al cuore degli uomini, è quel frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione.
E questo grazie alle vostre mani… Ricordatevi che siete i custodi della bellezza nel mondo” (Ibid.).
Il momento attuale è purtroppo segnato, oltre che da fenomeni negativi a livello sociale ed economico, anche da un affievolirsi della speranza, da una certa sfiducia nelle relazioni umane, per cui crescono i segni di rassegnazione, di aggressività, di disperazione.
Il mondo in cui viviamo, poi, rischia di cambiare il suo volto a causa dell’opera non sempre saggia dell’uomo il quale, anziché coltivarne la bellezza, sfrutta senza coscienza le risorse del pianeta a vantaggio di pochi e non di rado ne sfregia le meraviglie naturali.
Che cosa può ridare entusiasmo e fiducia, che cosa può incoraggiare l’animo umano a ritrovare il cammino, ad alzare lo sguardo sull’orizzonte, a sognare una vita degna della sua vocazione se non la bellezza? Voi sapete bene, cari artisti, che l’esperienza del bello, del bello autentico, non effimero né superficiale, non è qualcosa di accessorio o di secondario nella ricerca del senso e della felicità, perché tale esperienza non allontana dalla realtà, ma, al contrario, porta ad un confronto serrato con il vissuto quotidiano, per liberarlo dall’oscurità e trasfigurarlo, per renderlo luminoso, bello.
Una funzione essenziale della vera bellezza, infatti, già evidenziata da Platone, consiste nel comunicare all’uomo una salutare “scossa”, che lo fa uscire da se stesso, lo strappa alla rassegnazione, all’accomodamento del quotidiano, lo fa anche soffrire, come un dardo che lo ferisce, ma proprio in questo modo lo “risveglia” aprendogli nuovamente gli occhi del cuore e della mente, mettendogli le ali, sospingendolo verso l’alto.
L’espressione di Dostoevskij che sto per citare è senz’altro ardita e paradossale, ma invita a riflettere: “L’umanità può vivere – egli dice – senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere, perché non ci sarebbe più nulla da fare al mondo.
Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui”.
Gli fa eco il pittore Georges Braque: “L’arte è fatta per turbare, mentre la scienza rassicura”.
La bellezza colpisce, ma proprio così richiama l’uomo al suo destino ultimo, lo rimette in marcia, lo riempie di nuova speranza, gli dona il coraggio di vivere fino in fondo il dono unico dell’esistenza.
La ricerca della bellezza di cui parlo, evidentemente, non consiste in alcuna fuga nell’irrazionale o nel mero estetismo.
Troppo spesso, però, la bellezza che viene propagandata è illusoria e mendace, superficiale e abbagliante fino allo stordimento e, invece di far uscire gli uomini da sé e aprirli ad orizzonti di vera libertà attirandoli verso l’alto, li imprigiona in se stessi e li rende ancor più schiavi, privi di speranza e di gioia.
Si tratta di una seducente ma ipocrita bellezza, che ridesta la brama, la volontà di potere, di possesso, di sopraffazione sull’altro e che si trasforma, ben presto, nel suo contrario, assumendo i volti dell’oscenità, della trasgressione o della provocazione fine a se stessa.
L’autentica bellezza, invece, schiude il cuore umano alla nostalgia, al desiderio profondo di conoscere, di amare, di andare verso l’Altro, verso l’Oltre da sé.
Se accettiamo che la bellezza ci tocchi intimamente, ci ferisca, ci apra gli occhi, allora riscopriamo la gioia della visione, della capacità di cogliere il senso profondo del nostro esistere, il Mistero di cui siamo parte e da cui possiamo attingere la pienezza, la felicità, la passione dell’impegno quotidiano.
Giovanni Paolo II, nella Lettera agli Artisti, cita, a tale proposito, questo verso di un poeta polacco, Cyprian Norwid: “La bellezza è per entusiasmare al lavoro, / il lavoro è per risorgere” (n.
3).
E più avanti aggiunge: “In quanto ricerca del bello, frutto di un’immaginazione che va al di là del quotidiano, l’arte è, per sua natura, una sorta di appello al Mistero.
Persino quando scruta le profondità più oscure dell’anima o gli aspetti più sconvolgenti del male, l’artista si fa in qualche modo voce dell’universale attesa di redenzione” (n.
10).
E nella conclusione afferma: “La bellezza è cifra del mistero e richiamo al trascendente” (n.
16).
Queste ultime espressioni ci spingono a fare un passo in avanti nella nostra riflessione.
La bellezza, da quella che si manifesta nel cosmo e nella natura a quella che si esprime attraverso le creazioni artistiche, proprio per la sua caratteristica di aprire e allargare gli orizzonti della coscienza umana, di rimandarla oltre se stessa, di affacciarla sull’abisso dell’Infinito, può diventare una via verso il Trascendente, verso il Mistero ultimo, verso Dio.
L’arte, in tutte le sue espressioni, nel momento in cui si confronta con i grandi interrogativi dell’esistenza, con i temi fondamentali da cui deriva il senso del vivere, può assumere una valenza religiosa e trasformarsi in un percorso di profonda riflessione interiore e di spiritualità.
Questa affinità, questa sintonia tra percorso di fede e itinerario artistico, l’attesta un incalcolabile numero di opere d’arte che hanno come protagonisti i personaggi, le storie, i simboli di quell’immenso deposito di “figure” – in senso lato – che è la Bibbia, la Sacra Scrittura.
Le grandi narrazioni bibliche, i temi, le immagini, le parabole hanno ispirato innumerevoli capolavori in ogni settore delle arti, come pure hanno parlato al cuore di ogni generazione di credenti mediante le opere dell’artigianato e dell’arte locale, non meno eloquenti e coinvolgenti.
Si parla, in proposito, di una “via pulchritudinis”, una via della bellezza che costituisce al tempo stesso un percorso artistico, estetico, e un itinerario di fede, di ricerca teologica.
Il teologo Hans Urs von Balthasar apre la sua grande opera intitolata “Gloria.
Un’estetica teologica” con queste suggestive espressioni: “La nostra parola iniziale si chiama bellezza.
La bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto”.
Osserva poi: “Essa è la bellezza disinteressata senza la quale il vecchio mondo era incapace di intendersi, ma che ha preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza.
Essa è la bellezza che non è più amata e custodita nemmeno dalla religione”.
E conclude: “Chi, al suo nome, increspa al sorriso le labbra, giudicandola come il ninnolo esotico di un passato borghese, di costui si può essere sicuri che – segretamente o apertamente – non è più capace di pregare e, presto, nemmeno di amare”.
La via della bellezza ci conduce, dunque, a cogliere il Tutto nel frammento, l’Infinito nel finito, Dio nella storia dell’umanità.
Simone Weil scriveva a tal proposito: “In tutto quel che suscita in noi il sentimento puro ed autentico del bello, c’è realmente la presenza di Dio.
C’è quasi una specie di incarnazione di Dio nel mondo, di cui la bellezza è il segno.
Il bello è la prova sperimentale che l’incarnazione è possibile.
Per questo ogni arte di prim’ordine è, per sua essenza, religiosa”.
Ancora più icastica l’affermazione di Hermann Hesse: “Arte significa: dentro a ogni cosa mostrare Dio”.
Facendo eco alle parole del Papa Paolo VI, il Servo di Dio Giovanni Paolo II ha riaffermato il desiderio della Chiesa di rinnovare il dialogo e la collaborazione con gli artisti: “Per trasmettere il messaggio affidatole da Cristo, la Chiesa ha bisogno dell’arte” (Lettera agli Artisti, n.
12); ma domandava subito dopo: “L’arte ha bisogno della Chiesa?”, sollecitando così gli artisti a ritrovare nella esperienza religiosa, nella rivelazione cristiana e nel “grande codice” che è la Bibbia una sorgente di rinnovata e motivata ispirazione.
Cari Artisti, avviandomi alla conclusione, vorrei rivolgervi anch’io, come già fece il mio Predecessore, un cordiale, amichevole ed appassionato appello.
Voi siete custodi della bellezza; voi avete, grazie al vostro talento, la possibilità di parlare al cuore dell’umanità, di toccare la sensibilità individuale e collettiva, di suscitare sogni e speranze, di ampliare gli orizzonti della conoscenza e dell’impegno umano.
Siate perciò grati dei doni ricevuti e pienamente consapevoli della grande responsabilità di comunicare la bellezza, di far comunicare nella bellezza e attraverso la bellezza! Siate anche voi, attraverso la vostra arte, annunciatori e testimoni di speranza per l’umanità! E non abbiate paura di confrontarvi con la sorgente prima e ultima della bellezza, di dialogare con i credenti, con chi, come voi, si sente pellegrino nel mondo e nella storia verso la Bellezza infinita! La fede non toglie nulla al vostro genio, alla vostra arte, anzi li esalta e li nutre, li incoraggia a varcare la soglia e a contemplare con occhi affascinati e commossi la méta ultima e definitiva, il sole senza tramonto che illumina e fa bello il presente.
Sant’Agostino, cantore innamorato della bellezza, riflettendo sul destino ultimo dell’uomo e quasi commentando “ante litteram” la scena del Giudizio che avete oggi davanti ai vostri occhi, così scriveva: “Godremo, dunque di una visione, o fratelli, mai contemplata dagli occhi, mai udita dalle orecchie, mai immaginata dalla fantasia: una visione che supera tutte le bellezze terrene, quella dell’oro, dell’argento, dei boschi e dei campi, del mare e del cielo, del sole e della luna, delle stelle e degli angeli; la ragione è questa: che essa è la fonte di ogni altra bellezza” (In Ep.
Jo.
Tr.
4,5: PL 35, 2008).
Auguro a tutti voi, cari Artisti, di portare nei vostri occhi, nelle vostre mani, nel vostro cuore questa visione, perché vi dia gioia e ispiri sempre le vostre opere belle.
Mentre di cuore vi benedico, vi saluto, come già fece Paolo VI, con una sola parola: arrivederci!

Nella periferia di Lione, cattolici e musulmani cercano le vie del dialogo

Da quando è stato intervistato alla TV locale per esprimere la sua passione per il calcio, Régis Charre, prete a Vaulx-en-Velin, viene regolarmente interpellato da dei giovani del quartiere.
“Dei giovani musulmani, che non avrebbero mai rivolto la parola a un prete, vengono a parlare con il tifoso!”, si rallegra questo cinquantenne convinto della necessità del dialogo tra le comunità dei quartieri popolari della periferia di Lione.
Impegnato in questi scambi nel quotidiano, questo prete energico partecipa agli incontri organizzati nel quadro della settimana cristiano-islamica.
Ha assistito, martedì 17 novembre, a Villeurbanne, ad una conferenza del cardinale Jean-Louis Tauran, responsabile del dialogo interreligioso in Vaticano, e si recherà sabato ad un incontro dove ci si aspetta la partecipazione di più di 100 preti ed imam.
A Lione, due uomini, il presidente del Consiglio regionale del culto musulmano, Azzedine Gaci e il cardinale Philippe Barbarin, hanno ridato vita al dialogo interreligioso.
“Quando si fa il prete in periferia non si può avere un atteggiamento di disprezzo nei confronti dell’islam”, dichiara Régis Charre, che vive da solo nell’imponente canonica di Vaulx-Village.
Questo ex disegnatore industriale “gestisce” quattro chiese, che riuniscono il 2% della popolazione, in un ambiente caratterizzato da una forte pratica dell’islam.
Come tutti i preti e imam militanti del dialogo interreligioso, difende l’importanza di questi momenti di scambio per la qualità del “vivere insieme” e per l’approfondimento della fede di ciascuno.
“Spiegandoci l’un l’altro come ci avviciniamo a Dio, ci arricchiamo”, testimonia come un’eco Faouzi Hamdi, il responsabile musulmano di Vaulx-en-Velin.
“Difficile coabitazione” I due uomini animano conferenze comuni su “Gesù nella Bibbia e nel Corano, l’elemosina e il digiuno nelle due religioni”, esempio meritorio di un inizio di dialogo teologico più che balbettante.
“Il lavoro sui testi permette di andare al di là del folklore attorno ad un cus-cus”, ritiene Hafid Zekhri, responsabile di una associazione multireligiosa.
“Durante il ramadan, io partecipo al termine del digiuno con una decina di parrocchiani”, si rallegra il prete di Vaulx-en-Velin.
“Per Natale, il responsabile musulmano ci ha augurato buona festa in chiesa; è stato applaudito”, testimonia anche Jacques Purpan, prete a Saint-Fons.
Convinto dell’importanza di “conoscere l’altro”, ha fatto visitare la moschea agli studenti del liceo privato…
e aspetta che quelli della scuola coranica vengano a vedere la chiesa…
“Siamo uniti anche nel sostegno agli immigrati in situazione irregolare”, aggiunge Régis Charre.
Invece, per l’azione sociale e caritativa, non c’è cooperazione.
Se le relazioni tra responsabili cattolici e musulmani sono, a parere di tutti, “buone e basate sulla fiducia”, ciascuno è ben cosciente delle reticenze che, da entrambe le parti, frenano l’incontro tra credenti.
“La concentrazione di maghrebini nei quartiei popolari non facilita gli incontri con i cattolici in generale”, dice padre Charre.
Questi ultimi non vedono di buon occhio i matrimoni misti nei quali l’islam si impone, soprattutto alla nascita dei figli.
“Negli ambienti popolari, si constata una difficile coabitazione”, riconosce il prete di Saint-Fons.
“Che non si possa più comperare del salame nelle macellerie del quartiere ha come risultato di indispettire i “Galli”, racconta l’ex prete operaio.
“È vero che i fedeli musulmani non sono dei militanti del dialogo interreligioso”, riconosce Kamel Kabtane, rettore della moschea di Lione.
“L’islam manca ancora di quadri per organizzarlo”, spiega Azzedine Gaci che ritiene che “molti musulmani, convinti di possedere la verità, non vedono l’interesse del dialogo”.
Una convinzione condivisa da certi cattolici: alla conferenza di monsignor Tauran, dei giovani integralisti hanno invitato alla “conversione” di tutti e fustigato il “relativismo” indotto secondo loro dal dialogo interreligioso.
in “Le Monde” del 20 novembre 2009 (traduzione: www.finesettimana.org)

1,5 miliardi di persone vivono senza energia elettrica

Quasi un quarto della popolazione mondiale – un miliardo e mezzo di persone – vive al buio, mentre tre miliardi di persone sono costrette a usare combustibili solidi per cucinare o riscaldarsi.
Combustibili che provocano gravi malattie polmonari che in moltissimi casi portano alla morte.
Secondo il rapporto Undp, l’agenzia Onu per lo sviluppo, sulla ‘Situazione dell’accesso all’energia nei Paesi in via di sviluppò (redatto in collaborazione con l’Organizzazione mondiale della Sanità e l’Agenzia internazionale per l’energia), mentre l’Occidente e i Paesi emergenti si stanno adoperando per ridurre i consumi di energia e trovare fonti rinnovabili, nel resto del Pianeta la metà della popolazione non ha accesso a servizi energetici di base, come la corrente elettrica o i moderni combustibili.
E sono, ancora una volta, i Paesi più poveri dell’Africa sub-sahariana e dell’Asia meridionale a soffrire del gap più ampio: in queste regioni vive infatti l’80% delle persone che non hanno accesso all’elettricità.
Un dato che si aggrava anche tra un Paese e l’altro: basti pensare che in Burundi, Liberia e Ciad solo il 3% della popolazione dispone di energia elettrica; il 5% in Ruanda, Repubblica centrafricana e Sierra Leone, fino al 75% del Sudafrica.
La conseguenza è che, per esempio, le persone sono costrette a trasportare pesanti carichi di acqua e cibo sulla schiena perchè non hanno energia (gas o petrolio) per far camminare i mezzi di trasporto, specialmente nelle aree rurali, le più isolate e svantaggiate.
O che dipendono da combustibili solidi inquinanti (carbone, legno, letame) per cucinare o riscaldare le loro case.
L’uso di questi combustibili negli ambienti chiusi, inoltre, causa il cancro ai polmoni, la polmonite e altre malattie respiratore che ogni anno causano 2 milioni di morti, di cui il 99% (praticamente il totale) vive nei Paesi in via di sviluppo e quasi la metà (il 44%) sono bambini.
“Estendere l’accesso all’energia è essenziale per combattere la povertà globale.
E questo deve avvenire nel modo più sostenibile, economico e pulito possibile.
Dobbiamo assicurare che i bisogni energetici di queste persone sia centrale nel nuovo accordo sul clima” alla Conferenza di dicembre a Copenaghen, ha detto Olav Kjorven, responsabile Sviluppo dell’Undp.
Il rapporto sottolinea infatti che per dimezzare il numero di coloro che vivono in povertà entro il 2015 (il primo degli Obiettivi del Millennio) oltre 1,2 miliardi di persone avranno bisogno di accedere all’elettricità e oltre due miliardi a combustibili moderni come gas naturale e propano (Gpl).
Per questo invita i governi a mettere in campo sforzi di più ampio respiro.

La Costituzione più bella è quella scritta nel cuore

Così non posso non chiedermi, quali sono le cose che concorrono davvero, nell’educazione, a fare di un bambino un essere capace del vivere civile? Sono forse la grande quantità di corsi e discorsi che invadono da anni la scuola italiana — sulla tolleranza, sul multiculturalismo, su un generico irenismo, ed ora anche sulla Costituzione? Lo dubito, anzi ho la sensazione che tutta questa marea di ossessivo buonismo rischi di produrre effetti opposti.
Per quale ragione si deve rispettare il diverso, si deve preferire sempre la pace, si deve essere buoni quando è piuttosto evidente che il mondo è dei violenti e che la corruzione paga molto più dell’onestà? Ci salverà forse la conoscenza degli articoli della Costituzione da questo degrado? Credo che tutti questi corsi non siano molto diversi delle guarnizioni di una torta di gesso esposta nella vetrina di una pasticceria.
Ci sono ciliegine, canditi, panna montata, tutto sembra molto appetitoso ma in realtà, sotto quella torta, c’è solo una vuota anima di cartone.
Forse bisogna tornare a considerare il fatto che l’educazione ha bisogno soprattutto di due qualità: di semplicità e di coerenza.
La semplicità è la Cenerentola di tutte le teorie educative partorite negli ultimi decenni dai pedagoghi; come le sorelle della fiaba, l’hanno rinchiusa in un sottoscala e da lì si guardando bene di farla uscire.
La semplicità è guardare in faccia la natura dell’uomo e capire di cosa ha bisogno, questa natura, per crescere il più possibile armoniosamente.
La semplicità è fare capire che la vita è, prima di tutto, politically incorrect e che essere uomini vuol dire sapersi rapportare con la conflittualità e la contraddittorietà dei nostri giorni nei quali non sempre sventola l’iridata bandiera della pace.
In qualsiasi campo si operi, la via semplice è sempre la più difficile perché ci lascia inermi, sforbiciando via tutto ciò che non è essenziale, tutto ciò che allontana dal cuore del problema.
La patina di buonismo, del politically correct, evita di mettere a fuoco ciò che è più importante, e cioè che il male è dentro di noi, è una della nostre possibilità e che, per crescere, dobbiamo decidere in che modo rapportarci ad esso.
Si tratta di una scelta individuale che è in stretta relazione con l’idea di coscienza.
E la coscienza conduce a quel nucleo misterioso dell’uomo che lo rende essere capace di libertà.
È questo che ci differenzia dalle scimmie antropomorfe, con le quali pur condividiamo una gran quantità di codici etologici.
Entrambi abbiamo impressi nei nostri geni i comportamenti che ci consentono di creare una comunità stabile e di mutua assistenza, con la differenza che, da loro, comanda il maschio adulto e più abile nel tenere insieme il gruppo mentre da noi, purtroppo, anzianità di anni e saggezza di governo non vanno sempre di pari passo.
Crescere vuol dire saper scegliere e sapere che, scegliendo, si rinuncia a qualcosa.
Ma sono proprio quelle rinunce a costruire l’impalcatura solida della vita.
In un mondo bulimico che sempre più prospetta l’esistere come una corsa convulsa in cui afferrare più cose e più occasioni possibili, in cui ci viene proposto di essere tutto e il contrario di tutto, e che questo sia conciliabile, il discorso della scelta diventa quanto mai necessario.
La scelta, naturalmente, richiede l’entrata in campo di un’altra grande derelitta di questi tempi, la volontà.
È la volontà che ci permette di scegliere, che ci permette di costruire e di dare un senso preciso ai nostri giorni.
Senza esercizio della volontà, la nostra vita diventa qualcosa di non molto diverso da quella degli oggetti di plastica che cadono nei fiumi e vengono trascinati dalla corrente fino ad arenarsi in un’ansa.
È vero, viviamo in tempi complessi, tempi in cui avvengono mutazioni di portata straordinaria e queste mutazioni ci intimoriscono, ci fanno temere che le vie usuali dell’educazione non siano più in grado di creare gli uomini di domani.
Ed è forse proprio questo timore a far proliferare sistemi educativi sempre più farraginosi e astrusi, sempre più omologanti, volti a inseguire il nuovo, qualunque esso sia.
Quest’ansia, però, ci fa dimenticare che la natura profonda dell’uomo è sempre la stessa e che costruire senza aver prima fissato le fondamenta dell’etica vuol dire innalzare possenti edifici sulla sabbia.
Ricordo una serata trascorsa con un bambino di sette anni.
Tra un discorso sui Gormiti e uno sugli Invincibili, non ricordo come, ci siamo trovati a parlare del bene e del male e del senso che essi avevano nelle nostre vite.
Scegliere il bene vuol dire scegliere la vita, gli ho detto, costruire un mondo in cui le persone imparano, anche sbagliando, a volersi bene, scegliere il male vuol dire invece scegliere la morte, scegliere la menzogna che si insinua nei giorni, falsificando i rapporti e trasformando l’amore nel ghigno di una maschera.
«Io voglio essere buono.
Che cosa devo fare?» mi ha chiesto a un certo punto.
Ci siamo seduti allora sul divano e abbiamo ragionato a lungo su tutto ciò che, nella sua vita di bambino, portava al male o al bene.
«C’è una voce dentro di te», gli ho detto.
«E questa voce ti dice quello che è giusto e quello che è sbagliato.
Tu devi imparare solo ad ascoltarla».
A quel punto lui, altrimenti iperattivo, si è sdraiato, ha chiuso gli occhi e, con un sorriso beato, ha detto: «Questo per me è un momento bellissimo» e si è addormentato.
Sì, è davvero un momento bellissimo per i bambini capire che il bene e il male sono in noi e che, in noi, c’è sempre la voce della coscienza ed è questa voce che ci spinge a scegliere.
in “Corriere della Sera” del 18 novembre 2009 Leggendo, nei giorni scorsi, la notizia e i commenti sull’inserimento » del nuovo corso di «Cittadinanza e Costituzione» nelle scuole di ogni ordine e grado, mi sono trovata a fare alcune riflessioni.
Nei miei anni di scuola si studiava educazione civica, materia in realtà alquanto negletta anche dagli insegnanti che il più delle volte preferivano assorbirla nelle materie più importanti — italiano, storia, latino — sempre in affanno sui tempi nel programma.
Non conosco dunque la Costituzione, e confesso di non averla mai letta neppure in seguito, malgrado ciò mi considero una persona che continua, nonostante le vicende pietose che ci circondano e ci avviliscono, a rispettare le leggi dello Stato, a credere nell’importanza del bene comune e ad amare il mio Paese, pur rattristata dalla vergogna a cui tutti i cittadini per bene — che sono, per fortuna, la maggioranza — vengono sottoposti da una classe politica il cui primo tratto, al di là delle parti, sembra essere quello dell’immaturità.

“La cultura di Internet e la comunicazione della Chiesa”

“Ogni contatto della Chiesa con Internet, come con qualsiasi altro strumento di comunicazione di ultima generazione, deve essere teologicamente informato.
Non siamo lì a vendere un messaggio qualunque ma ad annunciare, spiegare, approfondire la Parola di Cristo, che può ancora toccare i cuori di tutti e che ci invita continuamente a un cammino comune di fede e di servizio”.
Lo ha detto monsignor Paul Tighe, segretario del Pontificio consiglio delle comunicazioni sociali, intervenuto questa mattina alla riunione della Commissione episcopale europea per i media (Ceem) che si sta svolgendo in Vaticano.
Monsignor Tighe ha sottolineato l’importanza per qualsiasi persona anche di Chiesa di capire a fondo le capacità, ma anche i potenziali rischi delle nuove tecnologie prima di affidare ad esse il proprio messaggio.
“La sfida per noi uomini di Chiesa – ha spiegato il segretario del Pontificio consiglio delle comunicazioni sociali – è di pensare come possiamo essere presenti in questo mondo in maniera utile e intelligente.
Non è solo un problema tecnologico.
Occorre trovare una strategia, il linguaggio giusto per esprimere i contenuti del nostro ministero, della nostra missione, un linguaggio che non sia solo testuale ma anche visuale, che attragga il visitatore anche con le immagini”.
Tighe ha detto che la sfida più grande da vincere, oggi, è quella al relativismo, atteggiamento di pensiero che rischia di trovare sul web ampio sviluppo:  “Per vincere la sfida è fondamentale dare informazioni vere, corrette, inconfutabili, fornire risposte concrete alle domande più urgenti.
Anche nel mondo dell’interattività – ha ribadito – il relativismo si batte con la certezza, con la verità”.
L’assemblea plenaria della Ceem, che ha come tema “La cultura di Internet e la comunicazione della Chiesa”, aveva questa mattina in programma una tavola rotonda dal titolo “Chi fa la comunicazione oggi? Tra social network, social agent, social news e social encyclopaedia”.
Sono intervenuti Christian Hernandez Gallardo, di Facebook, Christophe Muller, direttore delle società di YouTube in sud ed est Europa, Medio Oriente e Africa, Delphine Ménard, di Wikimedia France, ed Evan Prodromou, di Status.net-identica.ca.
Hanno spiegato la filosofia, la metodologia, il funzionamento degli strumenti che fanno capo alle loro imprese, strumenti che si rivolgono universalmente a tutti.
E tutti, indistintamente, sono gli utenti.
In particolare Hernandez Gallardo ha sottolineato come, negli ultimi tempi, molte parrocchie e alcune diocesi abbiano cominciato ad essere presenti su Facebook e come alcuni utenti inseriscano tra le immagini dei loro “amici” anche le foto di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI.
(giovanni zavatta) (©L’Osservatore Romano – 14 novembre 2009) Rafforzare la presenza cristiana su Internet: l’impegno dei vescovi europei riuniti in Vaticano sui nuovi media La Chiesa non può ignorare Internet: è quanto sta emergendo con forza alla Plenaria della Ceem, la Commissione episcopale europea per i media, in corso in Vaticano sul tema “La cultura di Internet e la comunicazione della Chiesa”.
In un messaggio indirizzato ai partecipanti all’incontro, Benedetto XVI invita i vescovi europei ad esaminare “questa nuova cultura e le sue implicazioni per la missione della Chiesa”.
Nel testo, a firma del cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone, il Papa sottolinea che la “proclamazione di Cristo richiede una profonda conoscenza della nuova cultura tecnologica”.
Stamani, la Plenaria si è incentrata sui social network.
E’ stata, inoltre, presentata l’attività del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali nel campo di Internet.
Ma torniamo ai discorsi principali della sessione d’apertura di ieri con il servizio di Alessandro Gisotti: “La Chiesa ha bisogno di Internet, perché ha una Buona Novella da comunicare”: ne è convinto il cardinale arcivescovo di Zagabria, Josip Bozanic, che nel suo intervento ha sottolineato che in Internet si sta costruendo “il modello antropologico di domani”.
Del resto, il porporato croato ha osservato che il peso crescente che la Rete sta assumendo nella vita delle persone e dei fedeli impone di annunciare il Vangelo anche nel mondo di Internet.
Ed ha sottolineato che Internet “non è solo un recipiente che raccoglie diverse culture.
Internet è cultura” e produce cultura.
Di fronte a questa realtà, ha detto il vicepresidente del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa, bisogna rammentare che la Chiesa ha sempre saputo “cogliere la bontà degli strumenti di comunicazione sociale per l’edificazione del genere umano”.
E, dunque, l’interesse per i media e per Internet nasce dalla natura stessa della Chiesa quale “comunità dialogante”.
Sulla necessità per la Chiesa di entrare nell’agorà di Internet, si è soffermato mons.
Jean-Michel di Falco Léandri, vescovo di Gap e di Embrun, presidente della Commissione episcopale europea per i media.
“Così come la croce ha il suo asse verticale e il suo asse orizzontale – ha detto il presule francese – così deve essere la nostra evangelizzazione nella Rete: orizzontale per la sua estensione, verticale per la sua profondità e la sua qualità”.
Mons.
di Falco Léandri non ha mancato di evidenziare ritardi e difficoltà che la Chiesa incontra nel relazionarsi con il fenomeno Internet.
Un sito web cristiano, ha detto il presule, “deve occuparsi del mondo e non tagliarsi fuori dal mondo.
Deve evitare il politichese, evitare di essere esso stesso un ideologo che cerca di imporre la propria verità”.
Piuttosto, ha soggiunto, “deve accontentarsi di proporre la verità di Cristo in maniera ferma” e “umile”.
Pensando in particolare ai giovani, mons.
di Falco ha quindi ribadito che non essere presenti in Internet “equivale a tagliare fuori una buona parte della vita delle persone”, auspicando quindi che la Chiesa promuova sempre più una presenza cristiana sul web.
All’evento, è intervenuto anche mons.
Claudio Maria Celli, presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, che al microfono di Philippa Hitchen si sofferma sul tema della Plenaria: “Il Santo Padre ci ha dato un grande incarico, quello della diaconia della cultura.
C’è questo servizio che la Chiesa deve prestare in questa realtà così complessa e ricca che è la cultura digitale.
I vescovi europei si stanno interrogando su questo.
Il grande rischio, alle volte, è che ci si concentri troppo sui media, quindi su questi nuovi mezzi che diventano sempre più sofisticati e che offrono sempre più ampie possibilità di comunicazione, su questo non c’è dubbio.
Tuttavia, credo che la Chiesa debba sempre interrogarsi alla radice della sua azione su cosa sia veramente comunicazione”.
Intanto, oggi pomeriggio, nella Sala Marconi della nostra emittente, il presidente della Ceem, mons.
Jean-Michel Di Falco ha tenuto una conferenza stampa sul tema della Plenaria.
La Chiesa, ha detto mons.
Jean-Michel Di Falco, non può ignorare Internet, una rivoluzione simile all’invenzione della stampa.
Il presule francese ha sottolineato che la riunione in corso in Vaticano serve proprio per mettere a fuoco punti deboli e punti di forza della comunicazione ecclesiale nel web.
Nella parola religione, ha poi osservato, c’è la radice della parola legare, ovvero connettere, che è proprio quanto realizzano i nuovi media.
Ecco perché, ha detto mons.
Di Falco, sono stati invitati alla Plenaria operatori dei social network, di Wikipedia, Google e Youtube.
C’è bisogno di una formazione all’uso responsabile della Rete, ha quindi avvertito, serve un’educazione ed un accompagnamento che la Chiesa può sviluppare in modo positivo.
Anche se ci sono ritardi nell’utilizzo di Internet da parte della Chiesa, ha infine riconosciuto, le cose stanno cambiando in meglio come testimoniano le numerose iniziative prese al riguardo dal Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali.
Radio Vaticana La Chiesa cattolica “esce dai suoi ghetti” con internet di Stéphanie Le Bars in “Le Monde” del 13 novembre 2009 (traduzione: www.finesettimana.org) Papa Benedetto XVI aveva lasciato di sasso molti cattolici attribuendo la peggior stecca del suo pontificato ad un uso insufficiente di internet.
“Mi è stato detto che seguire con attenzione le informazioni a cui si può accedere su internet avrebbe permesso di avere rapidamente conoscenza del problema”, aveva scritto nel marzo 2009 ai vescovi, facendo riferimento alla revoca della scomunica di monsignor Williamson, prelato integralista e notoriamente negazionista.
Concepiti prima di quell’errore di comunicazione, i lavori che si aprono giovedì 12 novembre a Roma, in seno alla Commissione episcopale europea per i media (CEEM), potrebbero contribuire a colmare certe lacune.
Per quattro giorni, un centinaio di persone (vescovi, incaricati stampa delle diocesi) si immergeranno nella cultura della Rete, incontrando dei responsabili della rete sociale Facebook, del motore di ricerca Google, del microblogging (scambi di messaggi brevi) Identi.ca o dell’enciclopedia sociale Wikipedia.
Un hacker svizzero ed uno specialista di Interpol verranno a completare la presentazione delle possibilità esistenti sulla Tela.
“Dobbiamo avere la preoccupazione di continuare a essere là dove è la gente”, insiste monsignor Jean-Michel Di Falco Leandri, vescovo di Gap, presidente della CEEM.
È previsto che giovedì l’ex portavoce dei vescovi francesi faccia una riflessione molto chiara sull’incapacità della Chiesa a cogliere le risorse di internet, in particolare come “strumento di evangelizzazione”.
In filigrana, la sua analisi esprime una critica per una comunicazione troppo caratterizzata dall’organizzazione verticale della Chiesa cattolica.
“Internet ci fa scendere dalla nostra cattedra magistrale, ci fa uscire dai nostri ghetti, dalle nostre sacrestie”, secondo il vescovo francese.
Confrontati con la “web-generation”, i membri della CEEM dovrebbero interrogarsi “sulle conseguenze ecclesiologiche, sugli effetti sul governo stesso della Chiesa, sul posto della religione sul mercato di internet, sui modi di proclamarvi il Vangelo”.
Monsignor Di Falco Leandri sottolinea il vantaggio acquisito dai siti protestanti “evangelisti” in termini di audience.
“I siti cattolici sono centrati su se stessi.
Parlano la lingua degli iniziati ad uso esclusivo degli iniziati.
I siti ‘evangelisti’, al contrario, vogliono raggiungere gli internauti, utilizzando internet come vettore di evangelizzazione.” Certo, ogni diocesi possiede un sito più o meno nutrito, i blog di preti si moltiplicano, le preghiere e i ritiri “on line” si diffondono.
Il Vaticano, il cui sito internet è poco conviviale, ha lanciato in gennaio il proprio canale su Youtube.
Ma questa presenza non è fine a se stessa, insiste monsignor Di Falco Leandri: i siti “cristiani devono essere suscitatori di coscienza”.

Quel che è di Cesare

ROSY BINDI – GIOVANNA CASADIO, Quel che è di Cesare, Laterza, Bari, 2009,  pp.127,  € 10.00 “Quel che è di Cesare” è una lunga intervista di Giovanna Casadio a Rosy Bindi, in cui la vicepresidente della Camera, incalzata dalle domande della giornalista, riflette sul rapporto tra fede, politica e religione nel tentativo di superare quel reciproco pregiudizio tra credenti e non credenti che ruota intorno al valore della laicità.
«Un pregiudizio – dice Rosy Bindi – che è tempo di archiviare, originato dal conflitto tra potere temporale e potere spirituale, che la storia ha già superato e la cui permanenza, tutta ideologica, rende più difficile affrontare le sfide della modernità.
La contrapposizione tra laici e credenti nasce da qui: i credenti sono sempre sospettati della loro laicità e i non credenti sono sempre sospettati della loro eticità».
Nel libro, edito da Laterza, Rosy Bindi racconta il suo impegno di cattolica che ha scelto la politica e va al cuore del principio di laicità.
In un colloquio franco e diretto affronta le questioni cruciali della nostra democrazia.
Scommette sul dialogo tra credenti e non credenti per superare reciproche scomuniche e afferma l’attualità del cattolicesimo democratico.
Rilancia la dimensione etica della politica come servizio e ricerca del bene comune.
Rosy Bindi, la sciabola laica e il vizio del compromesso di Michele Ainis Rosy Bindi non è donna che le mandi a dire.
Lei cattolica, che da giovane fu sul punto d’entrare in monastero, non ha mai parlato la lingua velata e un po’ allusiva della Curia.
Lei giurista, allieva di Vittorio Bachelet, ha sempre rifiutato gli alambicchi lessicali così familiari a chi maneggia codici e pandette.
Lei politica di lungo corso, e adesso fresca di nomina come presidente del Partito democratico, non ha mai amato il linguaggio involuto dei politici.
La schiettezza è una virtù evangelica («Sia il vostro dire: Sì sì, no no; il di più viene dal maligno»: Matteo 5, 37).
Ma in Italia è anche scarsamente praticata, vuoi per l’impero del politically correct, vuoi per opportunismo, per non farsi nemici.
Eppure se non sei franco – con gli altri e con te stesso – ti sarà impossibile mettere a profitto le tue relazioni con il mondo.
Perché chi canta in falsetto rifiuta a ben vedere il dialogo, si rende muto e sordo.
E invece il dialogo è sempre necessario, probabilmente oggi più di ieri.
Nelle guerre di religione che divampano su e giù lungo la penisola, nella rinnovata sfida tra guelfi e ghibellini, ciò vale innanzitutto sul fronte della laicità.
E alla laicità Rosy Bindi, intervistata da Giovanna Casadio, ha appena dedicato un libro (Quel che è di Cesare, Laterza, pp.
127, euro 10).
Lo sfogli, e incontri giudizi taglienti come altrettante sciabolate.
La posizione dell’Osservatore Romano contro la morte cerebrale? Oscurantista.
I divieti papali sull’uso della contraccezione? Già da ministro del governo Prodi, Bindi confezionò uno slogan: «Se non usi la testa, usa almeno il preservativo».
La battaglia sui Dico, creatura poi abortita di Rosy Bindi e Barbara Pollastrini? Davanti alla prospettiva di riscattare le coppie di fatto dalla clandestinità giuridica, i vescovi risposero: «Non possumus».
E lei disse a sua volta che un ministro della Repubblica italiana non è tenuto a conoscere il latino.
L’opposizione del Vaticano alla proposta – formulata in un consesso delle Nazioni Unite – di depenalizzare l’omosessualità? Una pagina triste.
Il ruolo del cardinal Ruini? Un panettiere al lavoro su due forni, destra e sinistra, che professava la «cultura dello scambio».
Inalberando la bandiera d’una Chiesa giudicante, che assolve nel confessionale e spara veti in piazza.
Non che Bindi sia diventata all’improvviso un’accanita mangiapreti.
Se è per questo, difende l’ortodossia cattolica su molte altre questioni, dall’eutanasia alla fecondazione assistita, e più in generale all’indisponibilità della vita per ogni essere vivente.
Arriva perfino a spalleggiare le pretese più mondane delle gerarchie ecclesiastiche, dall’8 per mille (un sistema «trasparente») al finanziamento delle scuole private (benché una norma costituzionale lo precluda).
Anche in questi casi usa parole nette, senza infingimenti.
Nel merito, potremo senz’altro dissentire.
Non però nel metodo: dopo tutto fu proprio il nitore delle rispettive posizioni – come ricorda Bindi – a permettere l’incontro fra laici e cattolici in Assemblea costituente.
Un miracolo che non si è poi ripetuto, nella storia della Repubblica italiana.
Qui c’è il punto cruciale di questo volumetto, però c’è anche il suo punto critico.
Perché vi si teorizza che ogni idea debba sempre stemperarsi nell’idea dell’altro, sino a forgiare un «meticciato», una contaminazione sistematica tra fede e ragione.
Ma davvero il compromesso su ogni singola questione è la nostra via d’uscita? E davvero per siglarlo dobbiamo rinunziare alla cultura del conflitto? Tuttavia quest’ultima costituisce il sale dei sistemi liberali; non per nulla la nostra Carta regola l’istituto del conflitto tra i poteri dello Stato, affidando alla Consulta ogni giudizio sulle ragioni e i torti.
D’altra parte non sempre è possibile raggiungere un’intesa.
Per esempio sul crocifisso nelle scuole: o lo espongo o non lo espongo, non posso appenderlo al muro e poi coprirlo con un velo.
Il compromesso, casomai, deriva dall’insieme, dal fatto che non tutte le decisioni soddisfino il medesimo uditorio.
Esattamente come avvenne all’atto di redigere la Costituzione, dove s’incontrano disposizioni di matrice liberale (per esempio quella sulla libertà d’impresa) accanto ad altre di marca socialista (il veto ai latifondi).
E quando viceversa i nostri padri fondatori misero il diavolo insieme all’acqua santa – come nell’art.
7 sui Patti lateranensi, che Rosy Bindi indica a modello – timbrarono «un errore logico e uno scandalo giuridico», per usare le parole di Benedetto Croce.
Oggi come allora, meglio un bisticcio di un pasticcio.
in “La Stampa” del 12 novembre 2009

Testimoni: Il vescovo Pinardi

“Servo fedele, prudente e buono”.
Queste fondamentali caratteristiche del ministero episcopale ricordate in un’omelia lo scorso 12 settembre da Benedetto XVI si attagliano perfettamente anche alla figura di monsignor Giovanni Battista Pinardi, vescovo ausiliare di Torino nella prima metà del Novecento.
Pinardi nasce a Castagnole Piemonte nel 1880, nel giorno dell’Assunzione di Maria, da una famiglia contadina, profondamente religiosa.
Il piccolo Giovanni Battista, quintogenito di sei fratelli, regolarmente, alle 5 del mattino, raggiunge la chiesa parrocchiale per servire la prima messa: qui nasce la sua vocazione al sacerdozio, maturata nell’ambiente salesiano di Alessandria e nei seminari diocesani di Torino.
Sarà ordinato sacerdote il 29 giugno 1903, con 51 compagni di studi, nella chiesa dell’Immacolata, annessa all’arcivescovado.
Nominato parroco di San Secondo in Torino nel 1912, accetta “per obbedienza” la nomina a vescovo titolare di Eudossiade e ausiliare del cardinale Richelmy il 24 gennaio 1916.
“Un uomo pio, d’una pietà che traspariva dal suo volto”, così lo descrive il vescovo coadiutore Tinivella nell’omelia per la traslazione delle sue spoglie dal cimitero di Castagnole Piemonte alla chiesa di San Secondo in Torino, avvenuta nel dicembre 1964.
A chiunque lo incontrava, monsignor Pinardi dava l’impressione d’essere costantemente in unione con Dio e di cercare unicamente nella Sapienza divina la soluzione di tanti gravosi problemi che gli si presentavano ogni giorno.
Per lunghe ore rimaneva in adorazione davanti al Tabernacolo, e chi l’ha visto pregare – annota un confratello parroco – ne ha certamente riportato sentimenti indelebili di edificazione.
Uomo coraggioso e intrepido, affrontò la buona battaglia della fede in tempi difficili, meritò dal suo arcivescovo Maurilio Fossati, piuttosto parco negli elogi, la lusinghiera definizione di bonus miles Christi.
Non poche furono le battaglie del Pinardi, seriamente impegnato sul versante sociale, amico fraterno di don Luigi Sturzo, che in incognito gli rese visita a San Secondo, durante il viaggio che lo portava esule nel nord d’Europa.
In tempi socialmente complessi, come lo fu il periodo tra le due guerre, monsignor Pinardi seppe attenersi rigorosamente alle indicazioni della dottrina sociale della Chiesa, che tracciava nella Rerum novarum e nei successivi documenti la via sicura da seguire.
La via della povertà e della giustizia nella misericordia.
Effettivamente, come si scrisse, monsignor Pinardi non è mai stato “anti-qualcuno”, diffondendo e difendendo l’ideale evangelico del pastore d’anime, fedele esecutore delle direttive del magistero.
Attento e sollecito nel “servizio della parola”, caratteristica propria e irrinunciabile del munus docendi, ricevuto dallo Spirito Santo, sapeva essere nella predicazione “totalmente relativo a Dio”.
Egli preparava minuziosamente le istruzioni parrocchiali – come s’usava allora durante la celebrazione pomeridiana dei vespri domenicali – le omelie e i molti discorsi d’occasione, dove tutto è riferito all’unico Assoluto: “Il Signore fa tutto bene, non chiediamogli mai perché.
La sua volontà è il nostro paradiso in terra, prima di essere la nostra beatitudine eterna”, era la frase ricorrente a ogni evento fausto o infelice che fosse.
Dopo il Vaticano II, quando stavano per entrare in vigore le nuove norme liturgiche, pur accusando la comprensibile fatica d’un aggiornamento così articolato e profondo, in una delle sue ultime istruzioni parrocchiali diceva: “Verranno indicazioni nuove e noi le metteremo in pratica”.
E aggiungeva un’espressione ricorrente nelle sue catechesi: “Lo ha detto il Papa, lo dicono i vescovi, dunque è così”.
La piena sintonia di Pinardi con il suo vescovo e con il magistero della Chiesa erano proverbiali.
Ricorrendo il suo giubileo sacerdotale, nel 1953, un noto giornalista e politico formatosi all’oratorio di San Secondo, nel discorso d’occasione ricordava: “Noi giovani ardenti uscivamo da quei colloqui con il cuore pieno di entusiasmo: era con noi un vescovo che intendeva il senso sociale del cristianesimo”.
Un vescovo che “conosceva quali doveri il mondo ha verso l’operaio e quali le strade da percorrere per redimerlo”.
L’immagine di monsignor Pinardi è inscindibilmente legata al sacerdozio, che egli non soltanto ha tenuto in grande onore, ma ha esemplarmente incarnato in tutta la sua vita.
La figura del sacerdote, nei suoi tratti essenziali, che attingono all’unico ed eterno sacerdozio di Cristo e rimangono invariati nel tempo, è caratterizzata dalla sua funzione pastorale.
Il sacerdote è anzitutto pastore e la sua spiritualità è profondamente segnata dalla carità pastorale.
Pinardi ne era profondamente consapevole.
Non si spiega altrimenti la sua quasi angosciosa resistenza ad assumere la “croce” dell’episcopato, in cui si concentra la pienezza del mandato divino.
Quanto monsignor Pinardi apprezzasse il sacerdozio risulta dalla sua profonda devozione eucaristica, ma non solo, se si pensa che dalla parrocchia di San Secondo sono sbocciate in quegli anni una quarantina di vocazioni sacerdotali e, cosa meno nota, molti sacerdoti in difficoltà hanno trovato in lui comprensione, conforto, sostegno spirituale e concreta accoglienza in spirito di vera fraternità sacerdotale.
Ripensando la bella figura del Pinardi, acquistano particolare splendore le parole di Benedetto XVI, richiamate in precedenza, a illustrare la prima caratteristica che il Signore chiede al suo servitore, la fedeltà: “Gli è stato affidato un grande bene, che non gli appartiene.
La Chiesa non è la Chiesa nostra, ma la sua Chiesa, la Chiesa di Dio…
Conduciamo gli uomini verso Gesù Cristo e così verso il Dio vivente…
La fedeltà è altruismo, e proprio così è liberatrice per il ministro stesso e per quanti gli sono affidati”.
È lo splendore della verità, vissuta nella libertà che ne deriva, che ha illuminato i passi di Pinardi, in tutti i campi della sua intensa attività pastorale, dal ministero parrocchiale in senso proprio, ai problemi sociali della prima immigrazione verso Torino, della comunicazione con una tipografia e un giornale, della tutela dei diritti dei lavoratori, per sfiorare i più vasti ambiti della politica del Paese, aprendo nuovi orizzonti sul fronte della carità vissuta, tradotta in opere ancora oggi fiorenti, come la “Casa della misericordia”.
Tutti i suoi interventi in campo sociale – dall’assistenza al sindacato e alla politica – mai miravano al consenso popolare, dal quale monsignor Pinardi era per sua natura schivo, ma anzitutto al bene dei fedeli.
Monsignor Pinardi era uomo “di poche parole, ma di saggi consigli”, che sapeva comprendere e ascoltare, accoglieva tutti con signorilità e cortesia e quanti ricorrevano a lui – ed erano molti – se ne tornavano sempre con grande sollievo, Questa dote era frutto anzitutto d’una, profonda e autentica, umiltà, virtù preclara del Pinardi, unanimemente riconosciutagli e frequentemente sottolineata da quanti hanno scritto di lui.
“La sua fu un’umiltà magnanima, che lo rendeva né timido né incerto nei suoi interventi e nelle sue decisioni quando fosse in gioco la giustizia o la verità”, scriveva, dopo la sua morte, il direttore del settimanale diocesano.
In effetti Pinardi ricoprì in diocesi incarichi molto importanti in quel momento storico, come quello di presidente della Società “Buona Stampa”, combattivo e irriducibile avversario “di coloro – come scriveva l’arcivescovo Fossati – che si fanno paladini di una falsa libertà e concorrono alla diffusione di quei fogli che sono per sistema nemici della Chiesa e avversari della buona causa”.
Monsignor Pinardi, ben conscio della sua totale consacrazione, svolse con coerente fedeltà la sua missione, dedicandovi tutte le sue energie.
Appena superati i sessant’anni la sua salute cominciò a essere malferma.
“Monsignor Pinardi – scrive un confratello – non era vecchio, ma era logoro”.
Ciononostante riuscirà a superare la soglia degli ottant’anni, traguardo ragguardevole all’epoca, conservando lo spirito dei tempi migliori fino al tramonto, con invidiabile serena lucidità e il solo rammarico di non poter più lavorare come un tempo, nel totale abbandono alla volontà del suo Signore e nel distacco dalle cose del mondo.
Ciò faceva dire all’arcivescovo Fossati, di fronte alla sua salma composta in San Secondo: “Ecce quomodo moritur vir iustus: qualis vita, finis ita!”.
La carità pastorale, virtù con la quale s’imita Gesù Buon Pastore, che dona la propria vita, si realizza anzitutto nel servizio.
Infatti l’episcopato è più un servizio che un onore, recita la Pastores dabo vobis (n.
23).
E, come ricorda Benedetto XVI nell’omelia citata sopra, Gesù venuto per servire e dare la vita in riscatto di molti “ha reso il termine “servo” il suo più alto titolo d’onore.
Con ciò ha compiuto un capovolgimento dei valori”.
Ma la carità pastorale trova il suo fondamento anche nella virtù della prudenza (Presbiterorum ordinis, 14, Ecclesiae imago, 22), virtù cardinale che rappresenta, dice Benedetto XVI, “la seconda caratteristica” del servo.
Essa indica la ricerca incessante della verità, anche la verità scomoda.
Il servo prudente è innanzitutto un uomo di verità, è un uomo dalla ragione sincera.
In tal senso Pinardi fu un uomo veramente ragionevole e saggio, capace di guardare il mondo e gli uomini e riconoscere così ciò che conta nella vita, senza lasciarsi abbagliare da pregiudizi.
Uomo di “verità e di comunione”, come sottolinea il direttorio sul ministero e la vita dei presbiteri (Tota Ecclesia, n.
30).
Spesso nelle discussioni interloquiva: “No, non voglio che prevalga chi è più tenace nelle sue idee, ma chi ha più ragione.
Riprendiamo a discutere”.
La prudenza, che suppone la saggezza, fu certamente una delle doti più in mostra e apprezzate del Pinardi, al cui consiglio molti ricorrevano proprio per la sua riservatezza e segretezza.
Anche dopo il suo “ritiro nell’ombra”, non si contavano i sacerdoti che ricorrevano a lui per un consiglio, sapendo di poter contare sulla sua prudente saggezza oltre che sulla sua riservatezza.
La sua bontà si traduceva anzitutto nell’amore ai poveri.
Ed erano centinaia quelli che gravitavano attorno alla chiesa di San Secondo.
Soleva, dire: “Anche se c’imbrogliano, amateli i poveri, Dio non ha dato loro quello che ha dato a noi”.
Messaggero di bontà – “l’unica cosa davanti alla quale il mondo è ancora capace d’inginocchiarsi”, per usare un’espressione del grande educatore salesiano don Cojazzi – monsignor Pinardi, già vescovo, saliva quattro piani di scale per raggiungere le soffitte di via San Secondo a portare conforto ai malati più poveri e abbandonati.
Tutti lo conoscevano per il suo tratto affabile e rispettoso, a ognuno rivolgeva una parola scoprendosi il capo per salutare, con ammirazione della gente più semplice.
Ma il segreto della sua bontà, da tutti riconosciuta, non può avere altra sorgente che Dio stesso, come il Signore afferma nel noto racconto evangelico: “Perché mi chiami buono, nessuno è buono se non Dio soltanto” (Marco, 10, 18).
E Benedetto XVI rammenta che “la bontà presuppone soprattutto una viva comunione con Dio…
se la nostra vita si svolge nel dialogo con Cristo…
se le sue caratteristiche penetrano in noi e ci plasmano, possiamo diventare servi veramente buoni”.
Monsignor Pinardi, sia per temperamento che per formazione, fu “un solitario” nel senso che non faceva parte di allegre combriccole di preti che dedicavano ore e ore al gioco delle carte, o a altri frivoli trattenimenti; situazione diffusa quanto mal tollerata dall’arcivescovo Richelmy, al quale il vicario generale con un certo humor replicava: “Eminenza, meglio i tarocchi (inteso come il gioco delle carte, ndr.) che passare il tempo a tagliare i panni all’arcivescovo!”.
Ma monsignor Pinardi non era certamente un prete “isolato” nella sua solitudine, che amasse non essere “disturbato”, cosa che lamentava soltanto quando stava recitando le Ore o si stava preparando alla celebrazione dell’Eucaristia.
La sua giornata scorreva continuamente a contatto con i fedeli, specialmente i più bisognosi, che prediligeva, ma anche con i confratelli, alle cui riunioni era sempre presente.
La fraternità sacerdotale, oggi tanto invocata, forse perché è diventata cosa rara, esigenza profonda della misteriosa realtà comunionale della Chiesa, era al vertice dei suoi pensieri e si manifestava nella sua cordiale accoglienza verso i confratelli, sublimandosi in una amicizia sincera, che trascende le categorie sociologiche mondane – incomprensione, solitudine, emarginazione – e supera le inevitabili difficoltà contingenti.
Lo confermano molti sacerdoti da lui aiutati e beneficati, che ospitava nella spaziosa residenza parrocchiale, fino ad averne in casa contemporaneamente una dozzina.
L’arcivescovo di Vercelli, Imberti, dava atto di questa sua disponibilità, scrivendo come “l’arcidiocesi di Torino non sarà mai abbastanza riconoscente a quest’uomo integerrimo pieno di bontà e di carità, specie con i sacerdoti”.
Scrive uno dei suoi viceparroci, oggi quasi centenario: “Per i confratelli poveri ebbe finezze squisite d’assistenza; per molti, vicini all’ultimo passo, fu l’informatore delicato e sollecito della gravità del male e del momento che suggeriva gli ultimi sacramenti; per delusi, calunniati, percossi o sviati fu l’angelo del conforto, il braccio di sostegno: sono pagine di soavità e di amore paterno e fraterno che si leggono solo nei libri dell’aldilà…”.
Indipendentemente da quale sarà il giudizio della Chiesa sulla eroicità delle virtù di monsignor Pinardi, del quale è stata introdotta la causa di canonizzazione nel 1999, l’esame delle circostanze storiche in cui visse e operò mette in risalto la grandezza dei doni che Dio gli ha fatto e la sua esemplare dedizione al ministero sacerdotale, che s’impone ancor oggi e offre in questo Anno sacerdotale un impareggiabile modello.
Con ragione hanno scritto di monsignor Pinardi: “Era sempre un vescovo: nella visione soprannaturale ed equilibrata delle cose, nella ponderatezza e decisione delle parole, nella carità e generosità delle opere”.
Nessun miglior elogio si sarebbe potuto fare di un pastore zelante, secondo il cuore di Dio, come seppe essere il Pinardi, guida dinamica e discreta nel cammino della vita, secondo la vocazione universale dei fedeli, verso la santità.
(©L’Osservatore Romano – 12 novembre 2009)

Anglicanorum cœtibus

Il testo integrale della costituzione apostolica “Anglicanorum cœtibus” che regola l’ingresso nella Chiesa cattolica di gruppi provenienti dalla Comunione anglicana di Benedetto XVI   In questi ultimi tempi lo Spirito Santo ha spinto gruppi anglicani a chiedere più volte e insistentemente di essere ricevuti, anche corporativamente, nella piena comunione cattolica e questa Sede Apostolica ha benevolmente accolto la loro richiesta.
Il Successore di Pietro infatti, che dal Signore Gesù ha il mandato di garantire l’unità dell’episcopato e di presiedere e tutelare la comunione universale di tutte le Chiese, (1) non può non predisporre i mezzi perché tale santo desiderio possa essere realizzato.
La Chiesa, popolo adunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, (2) è stata infatti istituita da Nostro Signore Gesù Cristo come “il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano.” (3) Ogni divisione fra i battezzati in Gesù Cristo è una ferita a ciò che la Chiesa è e a ciò per cui la Chiesa esiste; infatti “non solo si oppone apertamente alla volontà di Cristo, ma è anche di scandalo al mondo e danneggia la più santa delle cause: la predicazione del Vangelo ad ogni creatura”.
(4) Proprio per questo, prima di spargere il suo sangue per la salvezza del mondo, il Signore Gesù ha pregato il Padre per l’unità dei suoi discepoli.
(5) È lo Spirito Santo, principio di unità, che costituisce la Chiesa come comunione.
(6) Egli è il principio dell’unità dei fedeli nell’insegnamento degli Apostoli, nella frazione del pane e nella preghiera.
(7) Tuttavia la Chiesa, per analogia al mistero del Verbo incarnato, non è solo una comunione invisibile, spirituale, ma anche visibile; (8) infatti, “la società costituita di organi gerarchici e il corpo mistico di Cristo, l’assemblea visibile e la comunità spirituale, la Chiesa terrestre e la Chiesa arricchita di beni celesti, non si devono considerare come due cose diverse; esse formano piuttosto una sola complessa realtà risultante di un duplice elemento, umano e divino.” (9) La comunione dei battezzati nell’insegnamento degli Apostoli e nella frazione del pane eucaristico si manifesta visibilmente nei vincoli della professione dell’integrità della fede, della celebrazione di tutti i sacramenti istituiti da Cristo e del governo del Collegio dei Vescovi uniti con il proprio capo, il Romano Pontefice.
(10) L’unica Chiesa di Cristo infatti, che nel Simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica, “sussiste nella Chiesa Cattolica governata dal successore di Pietro, e dai Vescovi in comunione con lui, ancorché al di fuori del suo organismo si trovino parecchi elementi di santificazione e di verità, che, quali doni propri della Chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica.” (11) Alla luce di tali principi ecclesiologici, con questa Costituzione Apostolica si provvede ad una normativa generale che regoli l’istituzione e la vita di Ordinariati Personali per quei fedeli anglicani che desiderano entrare corporativamente in piena comunione con la Chiesa Cattolica.
Tale normativa è integrata da Norme Complementari emanate dalla Sede Apostolica.
I.
§ 1.
Gli Ordinariati Personali per Anglicani che entrano nella piena comunione con la Chiesa Cattolica vengono eretti dalla Congregazione per la Dottrina della Fede all’interno dei confini territoriali di una determinata Conferenza Episcopale, dopo aver consultato la Conferenza stessa.
§ 2.
Nel territorio di una Conferenza dei Vescovi, uno o più Ordinariati possono essere eretti, a seconda delle necessità.
§ 3.
Ciascun Ordinariato “ipso iure” gode di personalità giuridica pubblica; è giuridicamente assimilato ad una diocesi.
(12) § 4.
L’Ordinariato è formato da fedeli laici, chierici e membri d’Istituti di Vita Consacrata o di Società di Vita Apostolica, originariamente appartenenti alla Comunione Anglicana e ora in piena comunione con la Chiesa Cattolica, oppure che ricevono i Sacramenti dell’Iniziazione nella giurisdizione dell’Ordinariato stesso.
§ 5.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica è l’espressione autentica della fede cattolica professata dai membri dell’Ordinariato.
II.
L’Ordinariato Personale è retto dalle norme del diritto universale e dalla presente Costituzione Apostolica ed è soggetto alla Congregazione per la Dottrina della Fede e agli altri Dicasteri della Curia Romana secondo le loro competenze.
Per esso valgono anche le suddette Norme Complementari ed altre eventuali Norme specifiche date per ciascun Ordinariato.
III.
Senza escludere le celebrazioni liturgiche secondo il Rito Romano, l’Ordinariato ha la facoltà di celebrare l’Eucaristia e gli altri Sacramenti, la Liturgia delle Ore e le altre azioni liturgiche secondo i libri liturgici propri della tradizione anglicana approvati dalla Santa Sede, in modo da mantenere vive all’interno della Chiesa Cattolica le tradizioni spirituali, liturgiche e pastorali della Comunione Anglicana, quale dono prezioso per alimentare la fede dei suoi membri e ricchezza da condividere.
IV.
Un Ordinariato Personale è affidato alla cura pastorale di un Ordinario nominato dal Romano Pontefice.
V.
La potestà (potestas) dell’Ordinario è: a.
ordinaria: annessa per il diritto stesso all’ufficio conferitogli dal Romano Pontefice, per il foro interno e per il foro esterno; b.
vicaria: esercitata in nome del Romano Pontefice; c.
personale: esercitata su tutti coloro che appartengono all’Ordinariato.
Essa è esercitata in modo congiunto con quella del Vescovo diocesano locale nei casi previsti dalle Norme Complementari.
VI.
§ 1.
Coloro che hanno esercitato il ministero di diaconi, presbiteri o vescovi anglicani, che rispondono ai requisiti stabiliti dal diritto canonico (13) e non sono impediti da irregolarità o altri impedimenti, (14) possono essere accettati dall’Ordinario come candidati ai Sacri Ordini nella Chiesa Cattolica.
Per i ministri coniugati devono essere osservate le norme dell’Enciclica di Paolo VI “Sacerdotalis coelibatus”, n.
42 (15) e della Dichiarazione “In June”.
(16) I ministri non coniugati debbono sottostare alla norma del celibato clericale secondo il can.
277, §1.
§ 2.
L’Ordinario, in piena osservanza della disciplina sul celibato clericale nella Chiesa Latina, “pro regula” ammetterà all’ordine del presbiterato solo uomini celibi.
Potrà rivolgere petizione al Romano Pontefice, in deroga al can.
277, § 1, di ammettere caso per caso all’Ordine Sacro del presbiterato anche uomini coniugati, secondo i criteri oggettivi approvati dalla Santa Sede.
§ 3.
L’incardinazione dei chierici sarà regolata secondo le norme del diritto canonico.
§ 4.
I presbiteri incardinati in un Ordinariato, che costituiscono il suo presbiterio, debbono anche coltivare un vincolo di unità con il presbiterio della Diocesi nel cui territorio svolgono il loro ministero; essi dovranno favorire iniziative e attività pastorali e caritative congiunte, che potranno essere oggetto di convenzioni stipulate tra l’Ordinario e il Vescovo diocesano locale.
§ 5.
I candidati agli Ordini Sacri in un Ordinariato saranno formati insieme agli altri seminaristi, specialmente negli ambiti dottrinale e pastorale.
Per tener conto delle particolari necessità dei seminaristi dell’Ordinariato e della loro formazione nel patrimonio anglicano, l’Ordinario può stabilire programmi da svolgere nel seminario o anche erigere case di formazione, connesse con già esistenti facoltà di teologia cattoliche.
VII.
L’Ordinario, con l’approvazione della Santa Sede, può erigere nuovi Istituti di Vita Consacrata e Società di Vita Apostolica e promuoverne i membri agli Ordini Sacri, secondo le norme del diritto canonico.
Istituti di Vita Consacrata provenienti dall’Anglicanesimo e ora in piena comunione con la Chiesa Cattolica per mutuo consenso possono essere sottoposti alla giurisdizione dell’Ordinario.
VIII.
§ 1.
L’Ordinario, a norma del diritto, dopo aver sentito il parere del Vescovo diocesano del luogo, può, con il consenso della Santa Sede, erigere parrocchie personali, per la cura pastorale dei fedeli appartenenti all’Ordinariato.
§ 2.
I parroci dell’Ordinariato godono di tutti i diritti e sono tenuti a tutti gli obblighi previsti nel Codice di Diritto Canonico, che, nei casi stabiliti nelle Norme Complementari, sono esercitati in mutuo aiuto pastorale con i parroci della Diocesi nel cui territorio si trova la parrocchia personale dell’Ordinariato.
IX.
Sia i fedeli laici che gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, che provengono dall’Anglicanesimo e desiderano far parte dell’Ordinariato Personale, devono manifestare questa volontà per iscritto.
X.
§ 1.
L’Ordinario nel suo governo è assistito da un Consiglio di governo regolato da Statuti approvati dall’Ordinario e confermati dalla Santa Sede.
(17) § 2.
Il Consiglio di governo, presieduto dall’Ordinario, è composto di almeno sei sacerdoti ed esercita le funzioni stabilite nel Codice di Diritto Canonico per il Consiglio Presbiterale e il Collegio dei Consultori e quelle specificate nelle Norme Complementari.
§ 3.
L’Ordinario deve costituire un Consiglio per gli affari economici a norma del Codice di Diritto Canonico e con i compiti da questo stabiliti.
(18) § 4.
Per favorire la consultazione dei fedeli nell’Ordinariato deve essere costituito un Consiglio Pastorale.
(19) XI.
L’Ordinario ogni cinque anni si deve recare a Roma per la visita “ad limina Apostolorum” e tramite la Congregazione per la Dottrina della Fede, in rapporto anche con la Congregazione per i Vescovi e la Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, deve presentare al Romano Pontefice una relazione sullo stato dell’Ordinariato.
XII.
Per le cause giudiziali il tribunale competente è quello della Diocesi in cui una delle parti ha il domicilio, a meno che l’Ordinariato non abbia costituito un suo tribunale, nel qual caso il tribunale d’appello sarà quello designato dall’Ordinariato e approvato dalla Santa Sede.
XIII.
Il Decreto che erigerà un Ordinariato determinerà il luogo della sede dell’Ordinariato stesso e, se lo si ritiene opportuno, anche quale sarà la sua chiesa principale.
Vogliamo che queste nostre disposizioni e norme siano valide ed efficaci ora e in futuro, nonostante, se fosse necessario, le Costituzioni e le Ordinanze apostoliche emanate dai nostri predecessori, e ogni altra prescrizione anche degna di particolare menzione o deroga.
Dato a Roma, presso San Pietro, il 4 novembre 2009, Memoria di San Carlo Borromeo.
BENEDICTUS PP XVI __________ (1) Cf.
Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost.
dogm.
“Lumen gentium”, 23; Congregazione per la Dottrina della Fede, Lett.
“Communionis notio”, 12; 13.
(2) Cf.
Cost.
dogm.
“Lumen gentium”, 4; Decr.
“Unitatis redintegratio”, 2.
(3) Cost.
dogm.
“Lumen gentium” 1.
(4) Decr.
“Unitatis redintegratio”, 1.
(5) Cf.
Gv 17,20-21; Decr.
“Unitatis redintegratio”, 2.
(6) Cf.
Cost.
dogm.
“Lumen gentium”, 13.
(7) Cf.
Ibidem; At 2,42.
(8) Cf.
Cost.
dogm.
“Lumen gentium”, 8; Lett.
“Communionis notio”, 4.
(9) Cost.
dogm.
“Lumen gentium”, 8.
(10) Cf.
CIC, can.
205; Cost.
dogm.
“Lumen gentium”, 13; 14; 21; 22; Decr.
“Unitatis redintegratio”, 2; 3; 4; 15; 20; Decr.
“Christus Dominus”, 4; Decr.
“Ad gentes”, 22.
(11) Cost.
dogm.
“Lumen gentium”, 8; Decr.
“Unitatis redintegratio”, 1; 3; 4; Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich.
“Dominus Iesus”, 16.
(12) Cf.
Giovanni Paolo II, Cost.
Ap.
“Spirituali militum curae”, 21 aprile 1986, I § 1.
(13) Cf.
CIC, cann.
1026-1032.
(14) Cf.
CIC, cann.
1040-1049.
(15) Cf.
AAS 59 (1967) 674.
(16) Cf.
Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione del 1° aprile 1981, in Enchiridion Vaticanum 7, 1213.
(17) Cf.
CIC, cann.
495-502.
(18) Cf.
CIC, cann.
492-494.
(19) Cf.
CIC, can.
511.
__________ NORME COMPLEMENTARI Dipendenza dalla Santa Sede I.
Ciascun Ordinariato dipende dalla Congregazione per la Dottrina della Fede e mantiene stretti rapporti con gli altri Dicasteri Romani a seconda della loro competenza.
Rapporti con le Conferenze Episcopali e i Vescovi diocesani II.
§ 1.
L’Ordinario segue le direttive della Conferenza Episcopale nazionale in quanto compatibili con le norme contenute nella Costituzione Apostolica “Anglicanorum coetibus”.
§ 2.
L’Ordinario è membro della rispettiva Conferenza Episcopale.
III.
L’Ordinario, nell’esercizio del suo ufficio, deve mantenere stretti legami di comunione con il Vescovo della Diocesi in cui l’Ordinariato è presente per coordinare la sua azione pastorale con il piano pastorale della Diocesi.
L’Ordinario IV.
§ 1.
L’Ordinario può essere un vescovo o un presbitero nominato dal Romano Pontefice “ad nutum Sanctae Sedis”, in base ad una terna presentata dal Consiglio di governo.
Per lui si applicano i cann.
383-388, 392-394 e 396-398 del Codice di Diritto Canonico.
§ 2.
L’Ordinario ha la facoltà di incardinare nell’Ordinariato i ministri anglicani entrati nella piena comunione con la Chiesa Cattolica e i candidati appartenenti all’Ordinariato da lui promossi agli Ordini Sacri.
§ 3.
Sentita la Conferenza Episcopale e ottenuto il consenso del Consiglio di governo e l’approvazione della Santa Sede, l’Ordinario, se ne vede la necessità, può erigere decanati territoriali, sotto la guida di un delegato dell’Ordinario e comprendenti i fedeli di più parrocchie personali.
I fedeli dell’Ordinariato V.
§ 1.
I fedeli laici provenienti dall’Anglicanesimo che desiderano appartenere all’Ordinariato, dopo aver fatto la Professione di fede e, tenuto conto del can.
845, aver ricevuto i Sacramenti dell’Iniziazione, debbono essere iscritti in un apposito registro dell’Ordinariato.
Coloro che sono stati battezzati nel passato come cattolici fuori dall’Ordinariato non possono ordinariamente essere ammessi come membri, a meno che siano congiunti di una famiglia appartenente all’Ordinariato.
§ 2.
I fedeli laici e i membri di Istituti di Vita Consacrata e di Società di Vita Apostolica, quando collaborano in attività pastorali o caritative, diocesane o parrocchiali, dipendono dal Vescovo diocesano o dal parroco del luogo, per cui in questo caso la potestà di questi ultimi è esercitata in modo congiunto con quella dell’Ordinario e del parroco dell’Ordinariato.
Il clero VI.
§ 1.
L’Ordinario, per ammettere candidati agli Ordini Sacri deve ottenere il consenso del Consiglio di governo.
In considerazione della tradizione ed esperienza ecclesiale anglicana, l’Ordinario può presentare al Santo Padre la richiesta di ammissione di uomini sposati all’ordinazione presbiterale nell’Ordinariato, dopo un processo di discernimento basato su criteri oggettivi e le necessità dell’Ordinariato.
Tali criteri oggettivi sono determinati dall’Ordinario, dopo aver consultato la Conferenza Episcopale locale, e debbono essere approvati dalla Santa Sede.
§ 2.
Coloro che erano stati ordinati nella Chiesa Cattolica e in seguito hanno aderito alla Comunione Anglicana, non possono essere ammessi all’esercizio del ministero sacro nell’Ordinariato.
I chierici anglicani che si trovano in situazioni matrimoniali irregolari non possono essere ammessi agli Ordini Sacri nell’Ordinariato.
§ 3.
I presbiteri incardinati nell’Ordinariato ricevono le necessarie facoltà dall’Ordinario.
VII.
§ 1.
L’Ordinario deve assicurare un’adeguata remunerazione ai chierici incardinati nell’Ordinariato e provvedere alla previdenza sociale per sovvenire alle loro necessità in caso di malattia, di invalidità o vecchiaia.
§ 2.
L’Ordinario potrà convenire con la Conferenza Episcopale eventuali risorse o fondi disponibili per il sostentamento del clero dell’Ordinariato.
§ 3.
In caso di necessità, i presbiteri, con il permesso dell’Ordinario, potranno esercitare una professione secolare, compatibile con l’esercizio del ministero sacerdotale (cf.
CIC, can.
286).
VIII.
§ 1.
I presbiteri, pur costituendo il presbiterio dell’Ordinariato, possono essere eletti membri del Consiglio Presbiterale della Diocesi nel cui territorio esercitano la cura pastorale dei fedeli dell’Ordinariato (cf.
CIC, can.
498, § 2).
§ 2.
I presbiteri e i diaconi incardinati nell’Ordinariato possono essere, secondo il modo determinato dal Vescovo diocesano, membri del Consiglio Pastorale della Diocesi nel cui territorio esercitano il loro ministero (cf.
CIC, can.
512, § 1).
IX.
§ 1.
I chierici incardinati nell’Ordinariato devono essere disponibili a prestare aiuto alla Diocesi in cui hanno il domicilio o il quasi-domicilio, dovunque sia ritenuto opportuno per la cura pastorale dei fedeli.
In questo caso dipendono dal Vescovo diocesano per quello che riguarda l’incarico pastorale o l’ufficio che ricevono.
§ 2.
Dove e quando sia ritenuto opportuno, i chierici incardinati in una Diocesi o in un Istituto di Vita Consacrata o in una Società di Vita Apostolica, col consenso scritto rispettivamente del loro Vescovo diocesano o del loro Superiore, possono collaborare alla cura pastorale dell’Ordinariato.
In questo caso dipendono dall’Ordinario per quello che riguarda l’incarico pastorale o l’ufficio che ricevono.
§ 3.
Nei casi previsti nei paragrafi precedenti deve intervenire una convenzione scritta tra l’Ordinario e il Vescovo diocesano o il Superiore dell’Istituto di Vita Consacrata o il Moderatore della Società di Vita Apostolica, in cui siano chiaramente stabiliti i termini della collaborazione e tutto ciò che riguarda il sostentamento.
X.
§ 1.
La formazione del clero dell’Ordinariato deve raggiungere due obiettivi: 1) una formazione congiunta con i seminaristi diocesani secondo le circostanze locali; 2) una formazione, in piena armonia con la tradizione cattolica, in quegli aspetti del patrimonio anglicano di particolare valore.
§ 2.
I candidati al sacerdozio riceveranno la loro formazione teologica con gli altri seminaristi in un seminario o in una facoltà teologica, sulla base di un accordo intervenuto tra l’Ordinario e il Vescovo diocesano o i Vescovi interessati.
I candidati possono ricevere una particolare formazione sacerdotale secondo un programma specifico nello stesso seminario o in una casa di formazione appositamente eretta, col consenso del Consiglio di governo, per la trasmissione del patrimonio anglicano.
§ 3.
L’Ordinariato deve avere una sua “Ratio institutionis sacerdotalis”, approvata dalla Santa Sede; ogni casa di formazione dovrà redigere un proprio Regolamento, approvato dall’Ordinario (cf.
CIC, can.
242, §1).
§ 4.
L’Ordinario può accettare come seminaristi solo i fedeli che fanno parte di una parrocchia personale dell’Ordinariato o coloro che provengono dall’Anglicanesimo e hanno ristabilito la piena comunione con la Chiesa Cattolica.
§ 5.
L’Ordinariato cura la formazione permanente dei suoi chierici, partecipando anche a quanto predispongono a questo scopo a livello locale la Conferenza Episcopale e il Vescovo diocesano.
I Vescovi già anglicani XI.
§ 1.
Un Vescovo già anglicano e coniugato è eleggibile per essere nominato Ordinario.
In tal caso è ordinato presbitero nella Chiesa cattolica ed esercita nell’Ordinariato il ministero pastorale e sacramentale con piena autorità giurisdizionale.
§ 2.
Un Vescovo già anglicano che appartiene all’Ordinariato può essere chiamato ad assistere l’Ordinario nell’amministrazione dell’Ordinariato.
§ 3.
Un Vescovo già anglicano che appartiene all’Ordinariato può essere invitato a partecipare agli incontri della Conferenza dei Vescovi del rispettivo territorio, nello stesso modo di un vescovo emerito.
§ 4.
Un Vescovo già anglicano che appartiene all’Ordinariato e che non è stato ordinato vescovo nella Chiesa Cattolica, può chiedere alla Santa Sede il permesso di usare le insegne episcopali.
Il Consiglio di governo XII.
§ 1.
Il Consiglio di governo, in accordo con gli Statuti approvati dall’Ordinario, ha i diritti e le competenze che secondo il Codice di Diritto Canonico sono propri del Consiglio Presbiterale e del Collegio dei Consultori.
§ 2.
Oltre tali competenze, l’Ordinario ha bisogno del consenso del Consiglio di governo per: a.
ammettere un candidato agli Ordini Sacri; b.
erigere o sopprimere una parrocchia personale; c.
erigere o sopprimere una casa di formazione; d.
approvare un programma formativo.
§ 3.
L’Ordinario deve inoltre sentire il parere del Consiglio di governo circa gli indirizzi pastorali dell’Ordinariato e i principi ispiratori della formazione dei chierici.
§ 4.
Il Consiglio di governo ha voto deliberativo: a.
per formare la terna di nomi da inviare alla Santa Sede per la nomina dell’Ordinario; b.
nell’elaborare le proposte di cambiamento delle Norme Complementari dell’Ordinariato da presentare alla Santa Sede; c.
nella redazione degli Statuti del Consiglio di governo, degli Statuti del Consiglio Pastorale e del Regolamento delle case di formazione.
§ 5.
Il Consiglio di governo è composto secondo gli Statuti del Consiglio.
La metà dei membri è eletta dai presbiteri dell’Ordinariato.
Il Consiglio Pastorale XIII.
§ 1.
Il Consiglio Pastorale, istituito dall’Ordinario, esprime il suo parere circa l’attività pastorale dell’Ordinariato.
§ 2.
Il Consiglio Pastorale, presieduto dall’Ordinario, è retto dagli Statuti approvati dall’Ordinario.
Le parrocchie personali XIV.
§ 1.
Il parroco può essere assistito nella cura pastorale della parrocchia da un vicario parrocchiale, nominato dall’Ordinario; nella parrocchia dev’essere costituito un Consiglio pastorale e un Consiglio per gli affari economici.
§ 2.
Se non c’è un vicario, in caso di assenza, d’impedimento o di morte del parroco, il parroco del territorio in cui si trova la chiesa della parrocchia personale, può esercitare, se necessario, le sue facoltà di parroco in modo suppletivo.
§ 3.
Per la cura pastorale dei fedeli che si trovano nel territorio di Diocesi in cui non è stata eretta una parrocchia personale, sentito il parere del Vescovo diocesano, l’Ordinario può provvedere con una quasi-parrocchia (cf.
CIC, can.
516, § 1).
Il Sommo Pontefice Benedetto XVI, nell’Udienza concessa al sottoscritto Cardinale Prefetto, ha approvato le presenti Norme Complementari alla Costituzione Apostolica “Anglicanorum coetibus”, decise dalla Sessione Ordinaria di questa Congregazione, e ne ha ordinato le pubblicazione.
Roma, dalla Sede della Congregazione per la Dottrina della Fede, il 4 novembre 2009, Memoria di San Carlo Borromeo.
William Card.
Levada Prefetto Luis.
F.
Ladaria, S.I.
Arcivescovo tit.
di Thibica Segretario __________

Sessantesima assemblea generale della Conferenza episcopale italiana

Il messaggio del Papa alla sessantesima assemblea generale della Conferenza episcopale italiana Nel suo impegno per portare il “lievito del Vangelo nella cultura e nel tessuto della società” la Chiesa italiana è chiamata a farsi “voce e carico delle esigenze di un Paese che non crescerà se non insieme”.
È quanto scrive Benedetto XVI nel messaggio ai partecipanti alla sessantesima assemblea generale della Cei, in corso ad Assisi.
Al Venerato Fratello Il Signor Cardinale Angelo Bagnasco Presidente della Conferenza Episcopale Italiana In occasione dei lavori della 60 Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana, mi è particolarmente gradito inviare il mio affettuoso saluto a Lei, al Segretario della cei e a tutti i Pastori della Chiesa che è in Italia, riuniti in Assisi, città simbolo di quella vita cristiana condotta “secondo la forma” del Vangelo, incarnata nell’esistenza di san Francesco e santa Chiara, che continuano ad esercitare in Italia e nel mondo un irresistibile fascino spirituale.
Idealmente presente esprimo a tutti la mia vicinanza spirituale, ben conoscendo lo zelo con cui voi, venerati e cari Fratelli, operate quotidianamente al servizio delle comunità affidate alle vostre cure pastorali.
Nei viaggi apostolici che vado compiendo nelle diocesi italiane, come pure in altre occasioni che mi portano a contatto con l’amata Chiesa che è in Italia, incontro comunità vive, salde nel loro legame col Successore di Pietro e nella comunione reciproca.
Per questo, “continuamente rendo grazie per voi ricordandovi nelle mie preghiere” (Ef 1, 16), insieme ai presbiteri, vostri primi collaboratori nelle fatiche apostoliche, insieme ai diaconi, ai religiosi e alle religiose e ai fedeli laici che condividono la vostra gioia e la vostra responsabilità di testimoni di Cristo in ogni ambito della società italiana.
Questi periodici incontri – ne sono certo – alimentano la vostra reciproca cooperazione indispensabile per realizzare il mandato, che contraddistingue la vostra azione apostolica, di incrementare nel popolo cristiano la fede, la speranza e la carità, di alimentare i rapporti con le altre comunità religiose e le autorità civili, di operare per la presenza del lievito del Vangelo nella cultura e nel tessuto della società italiana, per la tutela della vita umana, per la promozione della pace e della giustizia e per la difesa del creato.
Lo scambio e la fraternità che caratterizzano i vostri lavori assembleari danno forza e vivacità all’impegno comune per l’unica Chiesa di Cristo e per la crescita del tessuto umano della società.
Sono trascorsi pochi mesi dal nostro incontro in occasione dell’Assemblea Generale svoltasi a maggio, nel corso della quale è stata individuata nell’educazione la prospettiva di fondo degli orientamenti pastorali per il prossimo decennio.
L’emergere dell’istanza educativa è un segno dei tempi che provoca l’Italia intera a porre la formazione delle nuove generazioni al centro dell’attenzione e dell’impegno di ciascuno, secondo le rispettive responsabilità e nel quadro di un’ampia convergenza di intenti.
Come ricordavo nel mio intervento del 28 maggio scorso, l’educazione è “una esigenza costitutiva e permanente della vita della Chiesa” e si colloca nel cuore della sua missione, volta a far sì che ogni persona possa incontrare e seguire il Signore Gesù, Via che conduce all’autenticità dell’amore, Verità che ci viene incontro e Vita del mondo.
La sfida educativa attraversa tutti i settori della Chiesa ed esige che siano affrontate con decisione le grandi questioni del tempo contemporaneo: quella relativa alla natura dell’uomo e alla sua dignità – elemento decisivo per una formazione completa della persona – e la “questione di Dio”, che sembra quanto mai urgente nella nostra epoca.
Vorrei richiamare, in proposito, ciò che ebbi a dire, il 24 luglio scorso, durante la celebrazione dei Vespri nella Cattedrale di Aosta: “Se la relazione fondamentale – la relazione con Dio – non è viva, non è vissuta, anche tutte le altre relazioni non possono trovare la loro forma giusta.
Ma questo vale anche per la società, per l’umanità come tale.
Anche qui, se Dio manca, se si prescinde da Dio, se Dio è assente, manca la bussola per mostrare l’insieme di tutte le relazioni per trovare la strada, l’orientamento dove andare.
Dio! Dobbiamo di nuovo portare in questo nostro mondo la realtà di Dio, farlo conoscere e farlo presente” (L’Osservatore Romano, 26 luglio 2009, p.
8) Perché ciò si realizzi occorre che noi per primi, cari Fratelli Vescovi, con tutto il nostro essere, diventiamo adorazione vivente, dono che trasforma il mondo e lo restituisce a Dio.
È questo il messaggio profondo dell’Anno Sacerdotale, che costituisce una straordinaria occasione per andare al cuore del ministero ordinato, riconducendo a unità, in ciascun sacerdote, l’identità e la missione.
Sono contento di vedere come, nelle vostre Diocesi, questa speciale proposta stia generando non poche iniziative soprattutto di carattere spirituale e vocazionale, e contribuisca a mettere in luce il cammino di santità tracciato nel tempo da tanti Vescovi e presbiteri italiani.
La storia d’Italia, infatti, è anche la storia di un’innumerevole schiera di sacerdoti che si sono chinati sulle ferite di un’umanità smarrita e sofferente, facendo di se stessi un’offerta di salvezza.
Mi auguro che possiate raccogliere abbondanti frutti da questa corale preghiera e meditazione sul dono del sacerdozio, scaturito dal cuore di Cristo per la salvezza del mondo.
Un altro tema al quale sarà dedicato ampio spazio nei lavori della vostra Assemblea, è la “questione meridionale”.
A vent’anni dalla pubblicazione del documento “Sviluppo nella solidarietà.
Chiesa italiana e Mezzogiorno”, avvertite il bisogno di farvi voce e carico delle esigenze di un Paese che non crescerà se non insieme.
Nelle terre del Sud la presenza della Chiesa è germe di rinnovamento, personale e sociale, e di sviluppo integrale.
Possa il Signore benedire gli sforzi di coloro che operano, con la tenace forza del bene, per la trasformazione delle coscienze e la difesa della verità dell’uomo e della società.
Nel corso della vostra Assemblea, inoltre, verrà esaminata la nuova edizione italiana del Rito delle esequie.
Essa risponde alla necessità di coniugare la fedeltà all’originale latino con gli opportuni adattamenti alla situazione nazionale, facendo tesoro dell’esperienza maturata dopo il Concilio Vaticano II, con sguardo attento al mutato contesto socio-culturale e alle esigenze della nuova evangelizzazione.
Il momento delle esequie costituisce un’importante occasione per annunciare il Vangelo della speranza e manifestare la maternità della Chiesa.
Il Dio che “verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti”, è Colui che “asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno” (Ap 21, 4).
In una cultura che tende a rimuovere il pensiero della morte, quando addirittura non cerca di esorcizzarla riducendola a spettacolo o trasformandola in un diritto, è compito dei credenti gettare su tale mistero la luce della rivelazione cristiana, certi “che l’amore possa giungere fin nell’aldilà, che sia possibile un vicendevole dare e ricevere, nel quale rimaniamo legati gli uni agli altri con vincoli di affetto” (Spe salvi, 48).
Signor Cardinale e venerati Fratelli nell’Episcopato, cinquant’anni fa, al termine del XVI Congresso Eucaristico Nazionale e dopo una straordinaria Peregrinatio Mariae, i Vescovi italiani vollero consacrare l’Italia al Cuore Immacolato di Maria.
Di tale atto così significativo e fecondo, voi rinnoverete la memoria, confermando il particolarissimo legame di affetto e devozione che unisce il popolo italiano alla celeste Madre del Signore.
Volentieri mi unisco a questo ricordo, affidando i lavori della vostra Assemblea, la Chiesa che è in Italia e l’intera Nazione alla materna protezione della Vergine Maria, Regina degli Angeli e immagine purissima della Chiesa.
Invoco la sua intercessione, con quella dei santi Francesco e Chiara d’Assisi e di tutti i santi e le sante della terra italiana.
Con tali sentimenti imparto di cuore a Lei, ai Vescovi, ai loro collaboratori e a tutti i presenti la Benedizione Apostolica.
Dal Vaticano, 4 novembre 2009 (©L’Osservatore Romano – 11 novembre 2009) La 60ª Assemblea Generale della CEI si aprirà nel pomeriggio del 9 novembre 2009, ad Assisi, con la prolusione del Card.
Angelo Bagnasco, Presidente della CEI.
Il giorno seguente, dopo la Celebrazione Eucaristica nella Basilica di Santa Maria degli Angeli, il Nunzio Apostolico in Italia, S.E.
Mons.
Giuseppe Bertello, saluterà i Vescovi Italiani.
Sono quattro i principali argomenti che saranno al centro dei lavori dell’Assemblea dopo l’elezione del Vice Presidente della CEI (Italia centrale): l’approvazione della nuova edizione italiana del Rito delle Esequie; l’approvazione della Nota su Chiesa e Mezzogiorno; la riflessione sulla questione antropologica alla luce del nesso fra etica della vita ed etica sociale, secondo la Caritas in veritate; l’approfondimento del rapporto fra l’immagine della Chiesa e la comunicazione dei media.
Nel contesto dei lavori assembleari particolare rilievo avranno le iniziative di carattere nazionale in occasione dell’Anno Sacerdotale.
Sono inoltre previste la comunicazione sulla rilevazione delle opere sanitarie e sociali ecclesiali in Italia e alcune informazioni sull’Ostensione della Sindone (Torino, 10 aprile -23 maggio 2010) e sul Convegno “Testimoni digitali” (Roma, 22-24 aprile 2010).
Documenti allegati:Prolusione card.
Bagnasco Prolusione card.
Bagnasco