Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato

Il Messaggio di Benedetto XVI per la Giornata mondiale del 1° gennaio 2010 Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato Serve “un governo responsabile” dell’ambiente per far fronte a una “crisi ecologica” che oggi “sarebbe irresponsabile non prendere in seria considerazione”.
Lo scrive il Papa nel Messaggio per la quarantatreesima Giornata mondiale della pace, che si celebra il 1° gennaio 2010 sul tema “Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato”.
Benedetto XVI evidenzia che la salvaguardia del creato è oggi “essenziale per la pacifica convivenza dell’umanità” e chiede “una revisione profonda e lungimirante” dell’attuale modello di sviluppo.
1.
In occasione dell’inizio del Nuovo Anno, desidero rivolgere i più fervidi auguri di pace a tutte le comunità cristiane, ai responsabili delle Nazioni, agli uomini e alle donne di buona volontà del mondo intero.
Per questa xliii Giornata Mondiale della Pace ho scelto il tema:  Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato.
Il rispetto del creato riveste grande rilevanza, anche perché “la creazione è l’inizio e il fondamento di tutte le opere di Dio” (1) e la sua salvaguardia diventa oggi essenziale per la pacifica convivenza dell’umanità.
Se, infatti, a causa della crudeltà dell’uomo sull’uomo, numerose sono le minacce che incombono sulla pace e sull’autentico sviluppo umano integrale – guerre, conflitti internazionali e regionali, atti terroristici e violazioni dei diritti umani -, non meno preoccupanti sono le minacce originate dalla noncuranza – se non addirittura dall’abuso – nei confronti della terra e dei beni naturali che Dio ha elargito.
Per tale motivo è indispensabile che l’umanità rinnovi e rafforzi “quell’alleanza tra essere umano e ambiente, che deve essere specchio dell’amore creatore di Dio, dal quale proveniamo e verso il quale siamo in cammino” (2).
2.
Nell’Enciclica Caritas in veritate ho posto in evidenza che lo sviluppo umano integrale è strettamente collegato ai doveri derivanti dal rapporto dell’uomo con l’ambiente naturale, considerato come un dono di Dio a tutti, il cui uso comporta una comune responsabilità verso l’umanità intera, in special modo verso i poveri e le generazioni future.
Ho notato, inoltre, che quando la natura e, in primo luogo, l’essere umano vengono considerati semplicemente frutto del caso o del determinismo evolutivo, rischia di attenuarsi nelle coscienze la consapevolezza della responsabilità (3).
Ritenere, invece, il creato come dono di Dio all’umanità ci aiuta a comprendere la vocazione e il valore dell’uomo.
Con il Salmista, pieni di stupore, possiamo infatti proclamare:  “Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che hai fissato, che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi?” (Sal 8, 4-5).
Contemplare la bellezza del creato è stimolo a riconoscere l’amore del Creatore, quell’Amore che “move il sole e l’altre stelle” (4).
3.
Vent’anni or sono, il Papa Giovanni Paolo II, dedicando il Messaggio della Giornata Mondiale della Pace al tema Pace con Dio creatore, pace con tutto il creato, richiamava l’attenzione sulla relazione che noi, in quanto creature di Dio, abbiamo con l’universo che ci circonda.
“Si avverte ai nostri giorni – scriveva – la crescente consapevolezza che la pace mondiale sia minacciata…
anche dalla mancanza del dovuto rispetto per la natura”.
E aggiungeva che la coscienza ecologica “non deve essere mortificata, ma anzi favorita, in modo che si sviluppi e maturi, trovando adeguata espressione in programmi ed iniziative concrete” (5).
Già altri miei Predecessori avevano fatto riferimento alla relazione esistente tra l’uomo e l’ambiente.
Ad esempio, nel 1971, in occasione dell’ottantesimo anniversario dell’Enciclica Rerum Novarum di Leone XIII, Paolo VI ebbe a sottolineare che “attraverso uno sfruttamento sconsiderato della natura, (l’uomo) rischia di distruggerla e di essere a sua volta vittima di siffatta degradazione”.
Ed aggiunse che in tal caso “non soltanto l’ambiente materiale diventa una minaccia permanente:  inquinamenti e rifiuti, nuove malattie, potere distruttivo totale; ma è il contesto umano, che l’uomo non padroneggia più, creandosi così per il domani un ambiente che potrà essergli intollerabile:  problema sociale di vaste dimensioni che riguarda l’intera famiglia umana” (6).
4.
Pur evitando di entrare nel merito di specifiche soluzioni tecniche, la Chiesa, “esperta in umanità”, si premura di richiamare con forza l’attenzione sulla relazione tra il Creatore, l’essere umano e il creato.
Nel 1990, Giovanni Paolo II parlava di “crisi ecologica” e, rilevando come questa avesse un carattere prevalentemente etico, indicava l'”urgente necessità morale di una nuova solidarietà” (7).
Questo appello si fa ancora più pressante oggi, di fronte alle crescenti manifestazioni di una crisi che sarebbe irresponsabile non prendere in seria considerazione.
Come rimanere indifferenti di fronte alle problematiche che derivano da fenomeni quali i cambiamenti climatici, la desertificazione, il degrado e la perdita di produttività di vaste aree agricole, l’inquinamento dei fiumi e delle falde acquifere, la perdita della biodiversità, l’aumento di eventi naturali estremi, il disboscamento delle aree equatoriali e tropicali? Come trascurare il crescente fenomeno dei cosiddetti “profughi ambientali”:  persone che, a causa del degrado dell’ambiente in cui vivono, lo devono lasciare – spesso insieme ai loro beni – per affrontare i pericoli e le incognite di uno spostamento forzato? Come non reagire di fronte ai conflitti già in atto e a quelli potenziali legati all’accesso alle risorse naturali? Sono tutte questioni che hanno un profondo impatto sull’esercizio dei diritti umani, come ad esempio il diritto alla vita, all’alimentazione, alla salute, allo sviluppo.
5.
Va, tuttavia, considerato che la crisi ecologica non può essere valutata separatamente dalle questioni ad essa collegate, essendo fortemente connessa al concetto stesso di sviluppo e alla visione dell’uomo e delle sue relazioni con i suoi simili e con il creato.
Saggio è, pertanto, operare una revisione profonda e lungimirante del modello di sviluppo, nonché riflettere sul senso dell’economia e dei suoi fini, per correggerne le disfunzioni e le distorsioni.
Lo esige lo stato di salute ecologica del pianeta; lo richiede anche e soprattutto la crisi culturale e morale dell’uomo, i cui sintomi sono da tempo evidenti in ogni parte del mondo (8).
L’umanità ha bisogno di un profondo rinnovamento culturale; ha bisogno di riscoprire quei valori che costituiscono il solido fondamento su cui costruire un futuro migliore per tutti.
Le situazioni di crisi, che attualmente sta attraversando – siano esse di carattere economico, alimentare, ambientale o sociale -, sono, in fondo, anche crisi morali collegate tra di loro.
Esse obbligano a riprogettare il comune cammino degli uomini.
Obbligano, in particolare, a un modo di vivere improntato alla sobrietà e alla solidarietà, con nuove regole e forme di impegno, puntando con fiducia e coraggio sulle esperienze positive compiute e rigettando con decisione quelle negative.
Solo così l’attuale crisi diventa occasione di discernimento e di nuova progettualità.
6.
Non è forse vero che all’origine di quella che, in senso cosmico, chiamiamo “natura”, vi è “un disegno di amore e di verità”? Il mondo “non è il prodotto di una qualsivoglia necessità, di un destino cieco o del caso…
Il mondo trae origine dalla libera volontà di Dio, il quale ha voluto far partecipare le creature al suo essere, alla sua saggezza e alla sua bontà” (9).
Il Libro della Genesi, nelle sue pagine iniziali, ci riporta al progetto sapiente del cosmo, frutto del pensiero di Dio, al cui vertice si collocano l’uomo e la donna, creati ad immagine e somiglianza del Creatore per “riempire la terra” e “dominarla” come “amministratori” di Dio stesso (cfr.
Gen 1, 28).
L’armonia tra il Creatore, l’umanità e il creato, che la Sacra Scrittura descrive, è stata infranta dal peccato di Adamo ed Eva, dell’uomo e della donna, che hanno bramato occupare il posto di Dio, rifiutando di riconoscersi come sue creature.
La conseguenza è che si è distorto anche il compito di “dominare” la terra, di “coltivarla e custodirla” e tra loro e il resto della creazione è nato un conflitto (cfr.
Gen 3, 17-19).
L’essere umano si è lasciato dominare dall’egoismo, perdendo il senso del mandato di Dio, e nella relazione con il creato si è comportato come sfruttatore, volendo esercitare su di esso un dominio assoluto.
Ma il vero significato del comando iniziale di Dio, ben evidenziato nel Libro della Genesi, non consisteva in un semplice conferimento di autorità, bensì piuttosto in una chiamata alla responsabilità.
Del resto, la saggezza degli antichi riconosceva che la natura è a nostra disposizione non come “un mucchio di rifiuti sparsi a caso” (10), mentre la Rivelazione biblica ci ha fatto comprendere che la natura è dono del Creatore, il quale ne ha disegnato gli ordinamenti intrinseci, affinché l’uomo possa trarne gli orientamenti doverosi per “custodirla e coltivarla” (cfr.
Gen 2, 15) (11).
Tutto ciò che esiste appartiene a Dio, che lo ha affidato agli uomini, ma non perché ne dispongano arbitrariamente.
E quando l’uomo, invece di svolgere il suo ruolo di collaboratore di Dio, a Dio si sostituisce, finisce col provocare la ribellione della natura, “piuttosto tiranneggiata che governata da lui” (12).
L’uomo, quindi, ha il dovere di esercitare un governo responsabile della creazione, custodendola e coltivandola (13).
 7.
Purtroppo, si deve constatare che una moltitudine di persone, in diversi Paesi e regioni del pianeta, sperimenta crescenti difficoltà a causa della negligenza o del rifiuto, da parte di tanti, di esercitare un governo responsabile sull’ambiente.
Il Concilio Ecumenico Vaticano ii ha ricordato che “Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all’uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli” (14).
L’eredità del creato appartiene, pertanto, all’intera umanità.
Invece, l’attuale ritmo di sfruttamento mette seriamente in pericolo la disponibilità di alcune risorse naturali non solo per la generazione presente, ma soprattutto per quelle future (15).
Non è difficile allora costatare che il degrado ambientale è spesso il risultato della mancanza di progetti politici lungimiranti o del perseguimento di miopi interessi economici, che si trasformano, purtroppo, in una seria minaccia per il creato.
Per contrastare tale fenomeno, sulla base del fatto che “ogni decisione economica ha una conseguenza di carattere morale” (16), è anche necessario che l’attività economica rispetti maggiormente l’ambiente.
Quando ci si avvale delle risorse naturali, occorre preoccuparsi della loro salvaguardia, prevedendone anche i costi – in termini ambientali e sociali -, da valutare come una voce essenziale degli stessi costi dell’attività economica.
Compete alla comunità internazionale e ai governi nazionali dare i giusti segnali per contrastare in modo efficace quelle modalità d’utilizzo dell’ambiente che risultino ad esso dannose.
Per proteggere l’ambiente, per tutelare le risorse e il clima occorre, da una parte, agire nel rispetto di norme ben definite anche dal punto di vista giuridico ed economico, e, dall’altra, tenere conto della solidarietà dovuta a quanti abitano le regioni più povere della terra e alle future generazioni.
8.
Sembra infatti urgente la conquista di una leale solidarietà inter-generazionale.
I costi derivanti dall’uso delle risorse ambientali comuni non possono essere a carico delle generazioni future:  “Eredi delle generazioni passate e beneficiari del lavoro dei nostri contemporanei, noi abbiamo degli obblighi verso tutti e non possiamo disinteressarci di coloro che verranno dopo di noi ad ingrandire la cerchia della famiglia umana.
La solidarietà universale, ch’è un fatto e per noi un beneficio, è altresì un dovere.
Si tratta di una responsabilità che le generazioni presenti hanno nei confronti di quelle future, una responsabilità che appartiene anche ai singoli Stati e alla Comunità internazionale” (17).
L’uso delle risorse naturali dovrebbe essere tale che i vantaggi immediati non comportino conseguenze negative per gli esseri viventi, umani e non umani, presenti e a venire; che la tutela della proprietà privata non ostacoli la destinazione universale dei beni (18); che l’intervento dell’uomo non comprometta la fecondità della terra, per il bene di oggi e per il bene di domani.
Oltre ad una leale solidarietà inter-generazionale, va ribadita l’urgente necessità morale di una rinnovata solidarietà intra-generazionale, specialmente nei rapporti tra i Paesi in via di sviluppo e quelli altamente industrializzati:  “la comunità internazionale ha il compito imprescindibile di trovare le strade istituzionali per disciplinare lo sfruttamento delle risorse non rinnovabili, con la partecipazione anche dei Paesi poveri, in modo da pianificare insieme il futuro” (19).
La crisi ecologica mostra l’urgenza di una solidarietà che si proietti nello spazio e nel tempo.
È infatti importante riconoscere, fra le cause dell’attuale crisi ecologica, la responsabilità storica dei Paesi industrializzati.
I Paesi meno sviluppati e, in particolare, quelli emergenti, non sono tuttavia esonerati dalla propria responsabilità rispetto al creato, perché il dovere di adottare gradualmente misure e politiche ambientali efficaci appartiene a tutti.
Ciò potrebbe realizzarsi più facilmente se vi fossero calcoli meno interessati nell’assistenza, nel trasferimento delle conoscenze e delle tecnologie più pulite.
9.
È indubbio che uno dei principali nodi da affrontare, da parte della comunità internazionale, è quello delle risorse energetiche, individuando strategie condivise e sostenibili per soddisfare i bisogni di energia della presente generazione e di quelle future.
A tale scopo, è necessario che le società tecnologicamente avanzate siano disposte a favorire comportamenti improntati alla sobrietà, diminuendo il proprio fabbisogno di energia e migliorando le condizioni del suo utilizzo.
Al tempo stesso, occorre promuovere la ricerca e l’applicazione di energie di minore impatto ambientale e la “ridistribuzione planetaria delle risorse energetiche, in modo che anche i Paesi che ne sono privi possano accedervi” (20).
La crisi ecologica, dunque, offre una storica opportunità per elaborare una risposta collettiva volta a convertire il modello di sviluppo globale in una direzione più rispettosa nei confronti del creato e di uno sviluppo umano integrale, ispirato ai valori propri della carità nella verità.
Auspico, pertanto, l’adozione di un modello di sviluppo fondato sulla centralità dell’essere umano, sulla promozione e condivisione del bene comune, sulla responsabilità, sulla consapevolezza del necessario cambiamento degli stili di vita e sulla prudenza, virtù che indica gli atti da compiere oggi, in previsione di ciò che può accadere domani (21).
10.
Per guidare l’umanità verso una gestione complessivamente sostenibile dell’ambiente e delle risorse del pianeta, l’uomo è chiamato a impiegare la sua intelligenza nel campo della ricerca scientifica e tecnologica e nell’applicazione delle scoperte che da questa derivano.
La “nuova solidarietà”, che Giovanni Paolo II propose nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 1990 (22), e la “solidarietà globale”, che io stesso ho richiamato nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 2009 (23), risultano essere atteggiamenti essenziali per orientare l’impegno di tutela del creato, attraverso un sistema di gestione delle risorse della terra meglio coordinato a livello internazionale, soprattutto nel momento in cui va emergendo, in maniera sempre più evidente, la forte interrelazione che esiste tra la lotta al degrado ambientale e la promozione dello sviluppo umano integrale.
Si tratta di una dinamica imprescindibile, in quanto “lo sviluppo integrale dell’uomo non può aver luogo senza lo sviluppo solidale dell’umanità” (24).
Tante sono oggi le opportunità scientifiche e i potenziali percorsi innovativi, grazie ai quali è possibile fornire soluzioni soddisfacenti ed armoniose alla relazione tra l’uomo e l’ambiente.
Ad esempio, occorre incoraggiare le ricerche volte ad individuare le modalità più efficaci per sfruttare la grande potenzialità dell’energia solare.
Altrettanta attenzione va poi rivolta alla questione ormai planetaria dell’acqua ed al sistema idrogeologico globale, il cui ciclo riveste una primaria importanza per la vita sulla terra e la cui stabilità rischia di essere fortemente minacciata dai cambiamenti climatici.
Vanno altresì esplorate appropriate strategie di sviluppo rurale incentrate sui piccoli coltivatori e sulle loro famiglie, come pure occorre approntare idonee politiche per la gestione delle foreste, per lo smaltimento dei rifiuti, per la valorizzazione delle sinergie esistenti tra il contrasto ai cambiamenti climatici e la lotta alla povertà.
Occorrono politiche nazionali ambiziose, completate da un necessario impegno internazionale che apporterà importanti benefici soprattutto nel medio e lungo termine.
È necessario, insomma, uscire dalla logica del mero consumo per promuovere forme di produzione agricola e industriale rispettose dell’ordine della creazione e soddisfacenti per i bisogni primari di tutti.
La questione ecologica non va affrontata solo per le agghiaccianti prospettive che il degrado ambientale profila all’orizzonte; a motivarla deve essere soprattutto la ricerca di un’autentica solidarietà a dimensione mondiale, ispirata dai valori della carità, della giustizia e del bene comune.
D’altronde, come ho già avuto modo di ricordare, “la tecnica non è mai solo tecnica.
Essa manifesta l’uomo e le sue aspirazioni allo sviluppo; esprime la tensione dell’animo umano al graduale superamento di certi condizionamenti materiali.
La tecnica, pertanto, si inserisce nel mandato di “coltivare e custodire la terra” (cfr.
Gen 2, 15), che Dio ha affidato all’uomo, e va orientata a rafforzare quell’alleanza tra essere umano e ambiente che deve essere specchio dell’amore creatore di Dio” (25).
  11.
Appare sempre più chiaramente che il tema del degrado ambientale chiama in causa i comportamenti di ognuno di noi, gli stili di vita e i modelli di consumo e di produzione attualmente dominanti, spesso insostenibili dal punto di vista sociale, ambientale e finanche economico.
Si rende ormai indispensabile un effettivo cambiamento di mentalità che induca tutti ad adottare nuovi stili di vita “nei quali la ricerca del vero, del bello e del buono e la comunione con gli altri uomini per una crescita comune siano gli elementi che determinano le scelte dei consumi, dei risparmi e degli investimenti” (26).
Sempre più si deve educare a costruire la pace a partire dalle scelte di ampio raggio a livello personale, familiare, comunitario e politico.
Tutti siamo responsabili della protezione e della cura del creato.
Tale responsabilità non conosce frontiere.
Secondo il principio di sussidiarietà, è importante che ciascuno si impegni al livello che gli corrisponde, operando affinché venga superata la prevalenza degli interessi particolari.
Un ruolo di sensibilizzazione e di formazione spetta in particolare ai vari soggetti della società civile e alle Organizzazioni non-governative, che si prodigano con determinazione e generosità per la diffusione di una responsabilità ecologica, che dovrebbe essere sempre più ancorata al rispetto dell'”ecologia umana”.
Occorre, inoltre, richiamare la responsabilità dei media in tale ambito, proponendo modelli positivi a cui ispirarsi.
Occuparsi dell’ambiente richiede, cioè, una visione larga e globale del mondo; uno sforzo comune e responsabile per passare da una logica centrata sull’egoistico interesse nazionalistico ad una visione che abbracci sempre le necessità di tutti i popoli.
Non si può rimanere indifferenti a ciò che accade intorno a noi, perché il deterioramento di qualsiasi parte del pianeta ricadrebbe su tutti.
Le relazioni tra persone, gruppi sociali e Stati, come quelle tra uomo e ambiente, sono chiamate ad assumere lo stile del rispetto e della “carità nella verità”.
In tale ampio contesto, è quanto mai auspicabile che trovino efficacia e corrispondenza gli sforzi della comunità internazionale volti ad ottenere un progressivo disarmo ed un mondo privo di armi nucleari, la cui sola presenza minaccia la vita del pianeta e il processo di sviluppo integrale dell’umanità presente e di quella futura.
12.
La Chiesa ha una responsabilità per il creato e sente di doverla esercitare, anche in ambito pubblico, per difendere la terra, l’acqua e l’aria, doni di Dio Creatore per tutti, e, anzitutto, per proteggere l’uomo contro il pericolo della distruzione di se stesso.
Il degrado della natura è, infatti, strettamente connesso alla cultura che modella la convivenza umana, per cui “quando l'”ecologia umana” è rispettata dentro la società, anche l’ecologia ambientale ne trae beneficio” (27).
Non si può domandare ai giovani di rispettare l’ambiente, se non vengono aiutati in famiglia e nella società a rispettare se stessi:  il libro della natura è unico, sia sul versante dell’ambiente come su quello dell’etica personale, familiare e sociale (28).
I doveri verso l’ambiente derivano da quelli verso la persona considerata in se stessa e in relazione agli altri.
Volentieri, pertanto, incoraggio l’educazione ad una responsabilità ecologica, che, come ho indicato nell’Enciclica Caritas in veritate, salvaguardi un’autentica “ecologia umana” e, quindi, affermi con rinnovata convinzione l’inviolabilità della vita umana in ogni sua fase e in ogni sua condizione, la dignità della persona e l’insostituibile missione della famiglia, nella quale si educa all’amore per il prossimo e al rispetto della natura (29).
Occorre salvaguardare il patrimonio umano della società.
Questo patrimonio di valori ha la sua origine ed è iscritto nella legge morale naturale, che è fondamento del rispetto della persona umana e del creato.
13.
Non va infine dimenticato il fatto, altamente indicativo, che tanti trovano tranquillità e pace, si sentono rinnovati e rinvigoriti quando sono a stretto contatto con la bellezza e l’armonia della natura.
Vi è pertanto una sorta di reciprocità:  nel prenderci cura del creato, noi constatiamo che Dio, tramite il creato, si prende cura di noi.
D’altra parte, una corretta concezione del rapporto dell’uomo con l’ambiente non porta ad assolutizzare la natura né a ritenerla più importante della stessa persona.
Se il Magistero della Chiesa esprime perplessità dinanzi ad una concezione dell’ambiente ispirata all’ecocentrismo e al biocentrismo, lo fa perché tale concezione elimina la differenza ontologica e assiologica tra la persona umana e gli altri esseri viventi.
In tal modo, si viene di fatto ad eliminare l’identità e il ruolo superiore dell’uomo, favorendo una visione egualitaristica della “dignità” di tutti gli esseri viventi.
Si dà adito, così, ad un nuovo panteismo con accenti neopagani che fanno derivare dalla sola natura, intesa in senso puramente naturalistico, la salvezza per l’uomo.
La Chiesa invita, invece, ad impostare la questione in modo equilibrato, nel rispetto della “grammatica” che il Creatore ha inscritto nella sua opera, affidando all’uomo il ruolo di custode e amministratore responsabile del creato, ruolo di cui non deve certo abusare, ma da cui non può nemmeno abdicare.
Infatti, anche la posizione contraria di assolutizzazione della tecnica e del potere umano, finisce per essere un grave attentato non solo alla natura, ma anche alla stessa dignità umana (30).
14.
Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato.
La ricerca della pace da parte di tutti gli uomini di buona volontà sarà senz’altro facilitata dal comune riconoscimento del rapporto inscindibile che esiste tra Dio, gli esseri umani e l’intero creato.
Illuminati dalla divina Rivelazione e seguendo la Tradizione della Chiesa, i cristiani offrono il proprio apporto.
Essi considerano il cosmo e le sue meraviglie alla luce dell’opera creatrice del Padre e redentrice di Cristo, che, con la sua morte e risurrezione, ha riconciliato con Dio “sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli” (Col 1, 20).
Il Cristo, crocifisso e risorto, ha fatto dono all’umanità del suo Spirito santificatore, che guida il cammino della storia, in attesa del giorno in cui, con il ritorno glorioso del Signore, verranno inaugurati “nuovi cieli e una terra nuova” (2 Pt 3, 13), in cui abiteranno per sempre la giustizia e la pace.
Proteggere l’ambiente naturale per costruire un mondo di pace è, pertanto, dovere di ogni persona.
Ecco una sfida urgente da affrontare con rinnovato e corale impegno; ecco una provvidenziale opportunità per consegnare alle nuove generazioni la prospettiva di un futuro migliore per tutti.
Ne siano consapevoli i responsabili delle nazioni e quanti, ad ogni livello, hanno a cuore le sorti dell’umanità:  la salvaguardia del creato e la realizzazione della pace sono realtà tra loro intimamente connesse! Per questo, invito tutti i credenti ad elevare la loro fervida preghiera a Dio, onnipotente Creatore e Padre misericordioso, affinché nel cuore di ogni uomo e di ogni donna risuoni, sia accolto e vissuto il pressante appello:  Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato.
Dal Vaticano, 8 dicembre 2009   Note 1) Catechismo della Chiesa Cattolica, 198.
2) Benedetto XVI, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2008, 7.
3) Cfr.
n.
48.
4) Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso, XXXIII, 145.
5) Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1990, 1.
6) Lett.
ap.
Octogesima adveniens, 21.
7) Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, 10.
8) Cfr.
Benedetto XVI, Lett.
enc.
Caritas in veritate, 32.
9) Catechismo della Chiesa Cattolica, 295.
10) Eraclito di Efeso (535 a.C.
ca.
– 475 a.C.
ca.), Frammento 22B124, in H.
Diels – W.
Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Weidmann, Berlin 1952.
11) Cfr.
Benedetto XVI, Lett.
enc.
Caritas in veritate, 48.
12) Giovanni Paolo II, Lett.
enc.
Centesimus annus, 37.
13) Cfr.
Benedetto XVI, Lett.
enc.
Caritas in veritate, 50.
14) Cost.
Past.
Gaudium et spes, 69.
15) Cfr.
Giovanni Paolo II, Lett.
enc.
Sollicitudo rei socialis, 34.
16) Benedetto XVI, Lett.
enc.
Caritas in veritate, 37.
17) Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 467; cfr.
Paolo VI, Lett.
enc.
Populorum progressio, 17.
18) Cfr.
Giovanni Paolo II, Lett.
enc.
Centesimus annus, 30-31.43.
19) Benedetto XVI, Lett.
enc.
Caritas in veritate, 49.
20) Ibid.
21) Cfr.
San Tommaso d’Aquino, S.
Th., ii-ii, q.
49, 5.
22) Cfr.
n.
9.
23) Cfr.
n.
8.
24) Paolo VI, Lett.
enc.
Populorum progressio, 43.
25) Lett.
enc.
Caritas in veritate, 69.
26) Giovanni Paolo II, Lett.
enc.
Centesimus annus, 36.
27) Benedetto XVI, Lett.
enc.
Caritas in veritate, 51.
28) Cfr.
ibid., 15.51.
29) Cfr.
ibid., 28.51.61; Giovanni Paolo II, Lett.
enc.
Centesimus annus, 38.39.
30) Cfr.
Benedetto XVI, Lett.
enc.
Caritas in veritate, 70

“Dio oggi: con lui o senza di lui cambia tutto”

L’incarnazione, la modernità e la grammatica dell’uomo di Angelo Scola La fede cristiana sa che l’unica possibilità di narrare Iddio si trova nell’ascolto di quanto Egli ha voluto liberamente comunicarci.
E la comunicazione diretta dell’Invisibile ha un nome proprio, è una persona vivente:  Gesù Cristo, l’Interprete di Dio.
Il Vangelo di Giovanni dice fin dall’inizio a chiare lettere:  “Dio, nessuno lo ha mai visto:  il Figlio unigenito che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Giovanni, 1, 18).  In Gesù, morto e risorto, Dio ci viene incontro in quanto Dio.
Hans Urs von  Balthasar  ricorda  che  “il  Dio che si immanentizza con Gesù Cristo nel mondo non si può, a partire da quest’ultimo, né costruire (Hegel), né postulare (Baio).
Viene esperito come pura “grazia” (Giovanni, 1, 14.16.17)”.
L’umanità singolare del Figlio di Dio ha reso escatologicamente presente Dio stesso nella storia attraverso la testimonianza dello Spirito Santo che apre a ogni uomo, in modo personale, l’accesso al rapporto fra il Figlio e il Padre.
È così che, alla luce della vita, passione, morte e risurrezione del Figlio incarnato si possono reperire, anche oggi, i “tratti inconfondibili” della presenza di Dio operante nella storia o almeno gli “indizi” per cui tutti possono avere notitia di Dio.
L’espressione di Balthasar è molto ardita:  “Dio (…) viene esperito”.
Come è possibile che Dio venga esperito? Il teologo basilese scioglie il nodo in questi termini:  “Il Verbo incarnato “è venuto nella sua proprietà” (1, 11), dunque non va semplicemente in terra straniera (come dice Karl Barth), bensì in un Paese di cui conosce la lingua:  non soltanto l’aramaico galileo, ma più a fondo la lingua della creatura in quanto tale.
La logica della creatura non è straniera alla logica di Dio (…) Gesù non è una verità immaginata, ma è la pura verità, perché egli presenta nella forma mondana la spiegazione adeguata di Dio, il Padre”.
E qui Balthasar aggiunge una notazione importante:  “Gesù non ha avuto bisogno (per questa spiegazione) delle imagines Trinitatis l’essere mondano come tale, la sua realtà quotidiana gliene offriva più che abbastanza”.
Dio parla di sé all’uomo “abbreviandosi nel Verbo incarnato” (Verbum abbreviatum, Origene d’Alessandria).
Per dire Dio occorre approfondire la grammatica di questa lingua della creatura assunta dal Verbo incarnato.
Grammatica che riesce a narrarci il Divino.
Così il fedele sarà in grado di confessarlo come il suo Signore e Dio, e ogni uomo, anche non credente, lo potrà riconoscere nei termini indicati da Paolo nella Lettera ai Romani (Romano Guardini).
La perenne grammatica dell’umano cui abbiamo fatto riferimento attesta anzitutto l’integralità e l’elementarità dell’esperienza umana, cioè la sua indistruttibile semplicità.
Come dice Karol Wojtyla in Persona e atto, “questa esperienza nella sua sostanziale semplicità supera qualunque incommensurabilità e qualunque complessità”.
In ossequio alla convinzione dogmatica della fede cattolica la creazione, pur ferita dal peccato originale, non si è mai corrotta fino a perdere i suoi tratti essenziali; e mai si potrà corrompere completamente.
Dio, dopo il peccato originale, non ha “scaricato” né il mondo né gli uomini.
Perciò l’occhio del credente sarà sempre attento a riconoscere e indagare i tratti tipici dell’esperienza umana che nella sua originaria semplicità costituisce la prima narrazione di Dio al “fratello uomo”.
Tale esperienza universale identifica la nostra condizione creaturale così come Dio l’ha voluta e conservata pur nel suo indebolimento per il peccato.
La sua permanenza è, di per se stessa, “testimonianza epistemologica” a Dio.
Qual è il contenuto sostanziale di questa testimonianza? La ragione stessa, con la sua capacità trascendentale di ospitare il reale intelligibile, in un nesso inscindibile con il dinamismo desiderante e insieme libero della volontà.
Questa è, dunque, l’esperienza umana integrale ed elementare colta nella sua radicalità.
La grammatica della lingua in cui comunicano il Verbo incarnato e la creatura ha però altre articolazioni essenziali.
Tra queste bisogna soffermarsi sulle tre polarità costitutive dell’unità duale dell’io.
Mi riferisco al dato antropologico essenziale che vede l’uomo uno nella dualità di anima-corpo, di uomo-donna e di individuo-società.
Anche attraverso questo dato antropologico Dio narra Se stesso e ancor più si lascia narrare nell’incontro con il “testimone fedele” (cfr.
Apocalisse, 1, 5; 3, 14), Gesù Cristo, in cui queste polarità – segnate da un insopprimibile elemento di tensione drammatica perché mettono in gioco la libertà del singolo – trovano adeguata stabilizzazione.
Non si tratta, sia ben chiaro, di un annullamento della tensione propria di tali polarità, né di un suo superamento attraverso una impossibile sintesi superiore.
Cristo scioglie l’enigma uomo ma non pre-decide il dramma del singolo (Hans Urs von Balthasar).
Ancora una volta nella manifestazione della corrispondenza, per grazia, tra l’esperienza umana nella sua semplicità originaria e l’avvenimento dell’autocomunicazione salvifica del Dio Trinità in Gesù Cristo, si illumina il percorso di tutti gli uomini.
Così, per esempio, nelle strabilianti scoperte della fisica, della biologia e delle neuroscienze a proposito della corporeità e della psichicità umana sarà sempre riconoscibile la dimensione spirituale costitutiva dell’humanum.
Il valore educativo della differenza sessuale, a sua volta, permetterà di far luce sull’importanza dell’altro e sulla sua incatturabilità; mentre nella “relazione di riconoscimento” (Francesco Botturi) risulterà più evidente il valore della socialità umana accompagnata dalla comprensione che il vero essere è relazione sostanziale con l’altro e moto di allontanamento da sé (Pavel Florenskij).
All’interno di queste relazioni buone il “linguaggio mondano” in cui si è abbreviato il Verbo incarnato risuona inoltre in modo inconfondibile nel dono dell’unità e della misericordia, tracce storicamente rilevabili della caritas di Dio nei confronti degli uomini.
Il peccato, con il suo seguito di morte, sofferenza e dolore, ha l’inconfondibile marchio della divisione fino alla scomposizione.
Il male separa e distrugge, rompe, come ha mostrato la storia del XX secolo con le sue tragiche utopie che hanno portato il buio dell’eclissi di Dio al suo grado più tenebroso (Benedetto XVI).
È perciò decisivo identificare la sostanza squisitamente divina del perdono e della misericordia, fonte unica dell’unità della persona e dell’unità fra coloro che prima erano divisi.
Analogatum princeps resta sempre il gesto di Gesù Cristo che sulla Croce offre Se stesso al Padre, nell’unità dello Spirito Santo, per riconciliare il mondo con Dio.
La nuova Alleanza, nel sangue di Gesù, riconferma la prima Alleanza di Dio con i patriarchi, con Mosè, e la porta a definitivo compimento.
Dall’interno di questo infinito gesto di misericordia, di cui il Nuovo Testamento non è che la documentazione e l’annuncio, parlano i segni che la rendono presente:  dal Crocifisso fino all’azione del memoriale eucaristico (e degli altri sacramenti) e ai gesti di testimonianza vissuta nei diversi ambiti dell’umana esistenza.
Nel perdono efficace dei peccati degli uomini si può ritrovare l’unità perduta a cui tutti gli uomini in vario modo anelano, come vediamo nelle multiformi espressioni culturali e artistiche di ogni civiltà.
(©L’Osservatore Romano – 12 dicembre 2009)   Anche la bruttezza (non la bruttura) può salvare il mondo di Gianfranco Ravasi “Il Signore vi parlò dal fuoco.
Voce di parole voi ascoltavate.
Nessuna figura voi vedevate:  era solo una voce” (Deuteronomio, 4, 12).
“Se un pagano viene e ti dice:  Mostrami la tua fede! (…) tu portalo in chiesa e mostra a lui la decorazione di cui è ornata e spiegagli la serie dei sacri quadri” (Giovanni Damasceno, PG, 95, 325).
Sono questi i due estremi antitetici di uno spettro cromatico ideale.
Esso si apre col gelido precetto aniconico del Decalogo che, sia pure per evidente apologetica anti-idolatrica, aveva intimato l’arresto all’arte sacra d’Israele:  “Non ti farai idolo né immagine  alcuna  di  quanto  è lassù  nel  cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra né di quanto è nelle acque sotto la terra” (Esodo, 20, 4).
Ma si è alla fine giunti all’immenso patrimonio artistico cristiano, a cui faceva cenno il cantore delle icone, san Giovanni Damasceno.  L’arte è, allora, la narrazione visiva dell’esperienza dell’incontro con un volto, una parola, un’immagine veramente visibile perché incarnata.
San Paolo andrà anche oltre, completando cristologicamente e cristianamente la dottrina dell'”immagine-icona” di Dio sviluppata dal passo di Genesi, 1, 27.
Infatti, egli afferma che i cristiani, come figli adottivi di Dio, sono “predestinati a essere conformi all’immagine (eikòn) del Figlio suo, primogenito tra molti fratelli” (Romani, 8, 29).
Il cristiano è, di conseguenza, immagine dell’immagine di Dio e l’arte è l’icona dell’immagine dell’immagine, perché attraverso i vari volti umani essa ricompone il volto di Cristo che è impronta del volto divino.
Alla fine, come affermava Macario il Grande nella sua prima Omelia, “l’anima che è stata pienamente illuminata dalla bellezza indicibile della gloria luminosa del volto di Cristo, è ricolma dello Spirito Santo (…) è tutta occhio, tutta luce, tutta volto” (PG, 34, 451).
In conclusione vorremmo riservare solo un cenno a una domanda forse ingenua ma affascinante:  è possibile dire qualcosa di più sul volto di Dio, attraverso l’Incarnazione, così che l’arte abbia qualche canone figurativo? Il paradosso è nel fatto che i Vangeli non ci hanno lasciato neppure un rigo sul profilo fisico di Gesù di Nazaret, neppure il “pittore” (stando alla tradizione) Luca.
Le principali strade imboccate dalla cultura cristiana sono state due e antitetiche.
Eppure entrambe hanno una loro verità.
Da un lato, a partire dal III secolo i Padri della Chiesa hanno infranto quel silenzio visivo e hanno immaginato un viso sgraziato di Cristo fondandosi sulla sua sofferenza redentrice, sulla sua passione e morte e sulla rilettura cristologica del celebre passo isaiano del quarto canto del Servo del Signore:  “Non ha apparenza né bellezza per attrarre il nostro sguardo, non splendore per poterne godere” (53, 1).
Lapidario era stato Origene:  “Gesù era piccolo, sgraziato,  simile a un uomo da nulla”.
È un po’ sorprendente, ma a questo punto dovremmo dire che anche la bruttezza (non la bruttura) può salvare il mondo, capovolgendo il celebre e citatissimo asserto di Dostoevskij.
La logica dell’Incarnazione comprende anche la sofferenza di Dio, il corpo martoriato, i posteriora Dei, come Lutero osava definire il profilo del Cristo crocifisso.
Un volto, quindi, che riflette i visi rigati di lacrime dei fratelli e delle sorelle del “primogenito tra molti fratelli”.
In questo senso c’è un “brutto” nobile che parla di Dio e che impedisce ogni kitsch devozionale, ogni estetismo trionfalistico, ogni ottimismo di maniera.
Tuttavia, bisogna riconoscere che l’approdo ultimo della vita di Cristo non ha come data il Venerdì Santo, bensì “la domenica della vita”, per usare liberamente una locuzione hegeliana, ossia l’alba di Pasqua che è per eccellenza il definitivo “giorno del  Signore” (Apocalisse, 1, 10).
Non per nulla la Prima Lettera di Giovanni definisce Dio come Luce (1, 5).
Si è, così, aperta un’altra strada figurativa che i Padri della Chiesa, a partire dal IV secolo, hanno esaltato fino a farla prevalere nella tradizione artistica successiva.
Sulla base dell’estetismo greco-romano classico, attingendo spesso alla stessa tipologia figurativa delle divinità pagane o dei filosofi dell’antichità, si è proposto un Dio bello e radioso, un Cristo apollineo, irraggiante luce come il sole, incarnazione di un altro passo sottoposto a rilettura allegorico-messianica, il Salmo 45, 3:  “Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo”.
E nonostante sant’Agostino ripetesse che “noi ignoriamo totalmente quale fosse il volto” reale di Cristo, fu questa l’immagine divina vincente, ribadita in mille e mille ritratti stupendi dei tanti secoli dell’arte cristiana, ma anche nella pletora delle stucchevoli oleografie.
In realtà, entrambi questi itinerari iconografici hanno un loro valore per raffigurare il Dio biblico che è, sì, trascendente e luce, ma è anche Emmanuele, pronto a incamminarsi sui percorsi della storia e a giungere nel cuore dell’umanità col Figlio suo fatto uomo.
In questa prospettiva diventa emblematica la sintesi operata dalle varie raffigurazioni del Pantokràtor poste nelle absidi delle grandi basiliche antiche:  il Cristo trionfante e glorioso appare in tutto lo splendore della sua bellezza, ma reca ben visibili in sé ancora tutte le stimmate sanguinanti della sua passione.
Dio invisibile e visibile, trascendente e vicino, glorioso e sofferente.
Ecco, l’arte, che non ha come compito solo di presentare il fenomenico ma il mistero sotteso (l’Inconnu, come diceva il poeta francese Laforgue), quando si fa religiosa, deve sempre cercare di unire in un modo armonico l’Infinito e la carne, l’Eterno e la storia, il Figlio di Dio che è Gesù di Nazaret.
(©L’Osservatore Romano – 12 dicembre 2009)

La filosofia si allea con Dio e salva l’uomo dalla violenza

Stando al significato assunto storicamente dalla parola «Dio», esiste qualcosa di infinitamente più «alto» di «Dio».
Può il cristianesimo portarsi a questa «altezza»? Il «Dio» storico, infatti, è una delle forme più radicali della violenza, e la vicinanza tra Satana, che «è omicida sin dall’inizio», e Dio diventa inevitabile.
Ma in quello stare infinitamente più «in alto» appare che la violenza e la morte sono già da sempre vinte anche se la fede nella loro esistenza domina il mondo.
La violenza domina il mondo.
Rende nemici stati, etnie, famiglie, individui e l’individuo stesso rispetto a sé stesso.
Il cristianesimo è una delle forme più alte che l’uomo abbia evocato contro di essa.
Tutte le grandi religioni hanno l’intento di tenerla lontana.
Parlano un linguaggio che i popoli possono capire.
Ma soprattutto il cristianesimo si è confrontato per due millenni con la filosofia.
E infatti quale altro alleato le religioni hanno trovato, contro la violenza, oltre alla filosofia? La quale non parla certo il linguaggio che la «gente» capisce, ma è entrata nel sangue delle religioni, e poi di tutti i grandi eventi della storia europea: rinascimento e arti, scienza moderna e diritto, rivoluzione francese, capitalismo e comunismo.
La filosofia si fa sentire come il vento a chi se ne sta in casa: attraverso le porte, le finestre, i muri delle religioni.
Stare all’aperto è difficile, perfino pericoloso.
L’aperto mette in discussione tutte le certezze di chi sta al chiuso.
Mette in discussione anche il senso della violenza.
Non certo per rimetterla in circolazione.
La filosofia stende la mano alla coscienza religiosa, a quella cristiana in particolare, per portarla più in alto.
Si distingue la violenza dalla volontà.
Esiste la volontà buona, si dice: combatte quella cattiva che, essa sì, è violenza.
La volontà non può esser messa in discussione! E quand’anche lo fosse , dovremmo stenderci per terra e non fare più nulla? Ma anche per far questo occorre volerlo! E allora? Allora si potrebbe incominciare a pensare che altro è volere sapendo che volere è peccare, è violenza, altro è volere non sapendolo.
Volere è peccato e violenza? Sì, è strano; ma si provi a prestare ascolto a cosa dice quel vento di cui si parlava qui sopra.
Molte parole sfuggiranno, altre resteranno incomprensibili, anche perché in casa, a volte, si fa molto rumore.
Il vento dice: «La violenza può esistere solo perché si crede che il mondo sia disponibile alla volontà (umana o divina) di trasformarlo.
Nel paradiso cristiano non c’è violenza, soprattutto perché l’Ordinamento divino che vi regna è un sole immutabile, inviolabile, immodificabile.
E nessuno dei beati vuole trasformarlo.
Ma si pensa a che significa la trasformazione delle cose e la conseguente decisione di trasformarle? Significa che diventano altro da quello che sono.
Il vivente diventa un morto, e quando è diventato un morto, lì non c’è soltanto un morto, ma un vivente che è un morto.
Perché sia un morto, è necessario che esso sia, appunto, un vivente che ora è un morto, ossia che il morto sia il risultato di un morire e che il risultato sia, appunto, un vivente che è un morto, cioè un non vivente.
Che strano! Si diventa sospettosi quando si sente parlare di una casa che non è una casa, di una stella che non è una stella, di un albero che non è un albero; ma non si prova nessun imbarazzo e si sta tranquilli (o meglio, si crede di esserlo) quando si sente dire che un vivente è un morto! Eppure la stessa follia è presente nel dire che una stella non è una stella e nel dire che un vivente è un morto.
La stessa follia, lo stesso errore, la stessa violenza per cui qualcosa è reso altro da ciò che esso è, è separato da sé, squartato, e un pezzo del proprio cadavere (la stella) è reso identico all’altro pezzo (la non stella)».
A questo punto, in casa qualcuno dirà infastidito di chiudere meglio porte e finestre, per non sentire questi discorsi, qualche altro dirà che essi son proprio parole al vento.
Che però, anche se non gli si bada più, continua a parlare.
Così: «Gesù dice ai Farisei, che vogliono ucciderlo, che il loro padre è il diavolo, ‘che sin dall’inizio è stato omicida e non è rimasto nella verità’ ( ille homicida erat ab inizio et in veritate non stetit , Gv.,8,40).
Infatti ha indotto i nostri progenitori al peccato, cioè ad essere ‘come Dio’ ( eritis sicut dii ), e Dio ha punito l’uomo consegnandolo alla morte.
‘Ad opera di un uomo — dice Paolo ( ad Romanos, 5, 12) — entrò nel mondo il peccato, e ad opera del peccato la morte’.
Ma ecco il centro di quanto va soprattutto pensato, all’aperto: che non è che la morte sia entrata nel mondo ad opera del peccato, ma, all’opposto, che il peccato è entrato nel mondo ad opera della morte; e cioè che il vero peccato è la morte.
Vediamo».
«Nei Vangeli, la parola più usata per nominare il peccato è hamartìa , che innanzitutto significa ‘errore’.
Ma prima abbiamo sentito l’errore più radicale, cioè la convinzione che le cose divengano altro da ciò che esse sono, e che, diventate altro, sono altro da sé.
Diventando un morto, il vivo è un morto.
E ogni diventar altro è un morire.
Credere nell’esistenza della morte è credere che un vivo sia un morto, cioè un non vivo; che la stella sia non stella, e così via per tutte le cose che la volontà vuole far diventar altro da quello che sono, e che così vuole perché, appunto, crede che possano diventar altro.
Credere nell’esistenza della morte è l’errore estremo, il peccato più profondo, più originale.
Con la morte il peccato entra nel mondo perché il vero peccato è la morte stessa, cioè la fede nella sua esistenza.
È sul fondamento di questa fede si può decidere di uccidere».
Ma la filosofia ha un duplice volto.
Uno guarda la notte, l’altro il giorno.
Il vento che sta parlando è il vento del giorno.
«L’altro volto, mostrato dal popolo greco — dice ancora il vento, se qualcuno è rimasto a sentirlo —, rende estremo l’errore più radicale: crede di vedere che le cose diventando altro da sé, diventano nulla e da nulla che erano, diventano esseri.
A ciò provvede la volontà di Dio e dell’uomo.
L’errore estremo è credere che il nulla, diventato essere, sia essere, e che l’essere diventato nulla, sia nulla.
Quando l’uomo vuole che l’uomo vada nel nulla è ‘omicida’.
Quando Adamo pecca è deicida.
Ed omicida è il diavolo che spinge l’uomo nella morte.
E Dio? Ma anche Dio non vuol forse creare il mondo dal nulla, e annientarlo quando creerà ‘un nuovo cielo e una terra nuova?’ ( Apocalisse ,21).
Non crede forse anche Dio nell’esistenza della morte? E non è forse questo il senso originario dell’omicidio e della violenza? » .
«Se la follia estrema è credere che uomini e cose divengano nulla e ne escano, e questa fede è il vero peccato, l’essere è ucciso proprio dalla fede che esso divenga nulla.
Sul fondamento di questa fede, che è la violenza dell’enticidio, viene perpetrato l’omicidio autentico: si mette l’uomo (e le cose tutte) nel sepolcro del nulla, lo si fa diventare un nulla — lui, che è uomo e non un nulla —, lo si considera qualcosa che di per sé è un nulla.
Poi si solleva il coperchio del sepolcro, e, trovando un cadavere, lo si ‘salva’, prima creandolo dal nulla e poi liberandolo dalla morte, che però è la ‘morte eterna’, non questa nostra morte, nella quale si continua a credere.
Il cristianesimo vuole ridurre il suo Dio a un omicida? O non c’è forse qualcosa di infinitamente più alto di ogni Dio, più alto della volontà e della violenza?».
Il vento che si è fatto sentire viene dall’aperto, si diceva prima.
Solleva miriadi di problemi, ma prima di giudicarlo vanità delle vanità, non ci si possono tappare le orecchie.
Anche perché viene dall’aperto nel senso che sale dal più profondo di noi stessi, dal profondo con cui crediamo di non aver nulla a che fare, dal sottosuolo della casa in cui ci chiudiamo e a cui riduciamo la nostra esistenza.
in “Corriere della Sera” del 10 dicembre 2009

La libertà di pensare Dio sfidando la Chiesa

Alcune riflessioni sul convegno dedicato a “Dio oggi”: è necessario cambiare, non si possono più sostenere così come sono i dogmi e la morale sessuale Il cristianesimo continua a perdere di fascino e nel migliore dei casi consola.
L´attuale gerarchia ecclesiastica è in grado di aprirsi al rischio della libera intelligenza? Si apre oggi a Roma e durerà fino a sabato un convegno internazionale promosso dal Progetto Culturale della Cei con il patrocinio del Comune di Roma: “Dio oggi.
Con lui o senza di lui cambia tutto”.
Il programma prevede la partecipazione di scienziati, storici, filosofi, scrittori, giornalisti, teologi.
Condividendo l´urgenza  dell´argomento, presento alcune considerazioni in forma necessariamente schematica che consegno alla pubblica riflessione.
Presento alcune considerazioni in forma necessariamente schematica che consegno alla pubblica riflessione.
1.
La sfida della postmodernità alla fede in Dio non è più l´ateismo materialista.
Tale era l´impresa della modernità, caratterizzata dal porre l´assoluto nello stato-partito o nel positivismo scientista, ma questi ideali sono crollati e oggi gli uomini sono sempre più lontani dall´ateismo teoreticamente impegnato.
Gli odierni alfieri dell´ateismo vogliono distruggere la religione proprio mentre si connota il presente come “rivincita di Dio”, anzi la vogliono distruggere proprio perché ne percepiscono il ritorno, ma i loro stessi libri anti-religiosi, trattando a piene mani di religione, finiscono per alimentare la rivincita di Dio.
2.
La questione epocale è piuttosto un´altra, cioè che tale rivincita non corrisponde per nulla a una rivincita del Dio cristiano.  La postmodernità col suo crescente desiderio di spiritualità non intende per nulla tradursi nelle tradizionali forme cristiane.
Anzi, il cristianesimo continua a perdere fascino, annoia, nel migliore dei casi consola.
La questione diviene quindi quale forma di spiritualità sia concepibile per un ´epoca che vuole essere religiosa (persino mistica come prevedeva Malraux) ma non intende più essere cristiana nella forma tradizionale del termine.
Affrontare questa sfida è essenziale per la teologia cristiana.
3.
La teologia può tornare a far pensare gli uomini a Dio solo a due condizioni: radicale onestà intellettuale e primato della vita.
Ha scritto Nietzsche: “Nelle cose dello spirito si deve essere onesti fino alla durezza”.
È vero.
Se vuole tornare a essere significativa, la teologia deve configurarsi come radicale onestà intellettuale.
Vi sono stati pensatori che nel ‘900 hanno scritto di Dio in questo modo: penso a Florenskij, Bonhoeffer, Weil, Teilhard de Chardin.
Si tratta di continuare sulla loro strada.
Oggi la coscienza europea non è più disposta a dare credito a una teologia che dia il sospetto anche del minimo mercanteggiare.
4.
In questa prospettiva la teologia deve intraprendere una lotta all´interno della Chiesa e della sua dottrina, talora persino contro la Chiesa e la sua dottrina, senza timore di dare scandalo ai fedeli perché il vero scandalo è il tradimento della verità e l´ipocrisia.
Ha scritto nel 1990 il cardinal Ratzinger: “Nell´alfabeto della fede al posto d´onore è l´affermazione: In principio era il Logos.
La fede ci attesta che fondamento di tutte le cose è l´eterna Ragione”.
Parole sublimi, ma ecco il punto: proprio dall´esercizio della ragione all´interno della fede sorgono acute difficoltà logiche su non pochi asserti dottrinali.
Simone Weil rilevò il paradosso: “Nel cristianesimo, sin dall´inizio o quasi, c´è un disagio dell´intelligenza”.
Tale malaise de l´intelligence è attestato anche dal fatto che i principali teologi cattolici del ‘900 hanno avuto seri problemi con il magistero, penso a Teilhard de Chardin, Congar, de Lubac, Chenu, Rahner, Häring, Schillebeeckx, Dupuis, Panikkar, Küng, Molari.
E oggi le cose non sono migliorate, anzi.
5.
L´impostazione dominante rimane oggi la seguente: la teologia si esercita nella Chiesa e per la Chiesa e deve avere un esplicito controllo ecclesiale.
Nel documento La vocazione ecclesiale del teologo, firmato dal cardinal Ratzinger nel 1990, il nesso chiesa-magistero-teologia è strettissimo.
A mio avviso è precisamente questo nesso che oggi la teologia deve sottoporre a critica.
Perché il cristianesimo possa continuare a vivere in Europa, è necessario che la teologia liberi il pensiero di Dio dalla forma rigidamente ecclesiastica impostale lungo i secoli con la morsa degli anathema sit e faccia entrare l´aria pulita della libertà.
Non sto uspicando la scomparsa del magistero, ma il superamento della convinzione che la verità della fede si misuri sulla conformità a esso.
Ciò che auspico è l´introduzione di una concezione dinamico-evolutiva della verità (verità uguale bene) e non più statico-dottrinaria (verità uguale dottrina).
Ignazio di LoyolaUna teologia all´altezza dei tempi non può più configurarsi come obbedienza incondizionata al papa.
L´obbedienza deve essere prestata solo alla verità, il che impone di affrontare anche le ombre e le contraddizioni della dottrina.
6.
Ciò comporta il passaggio dal principio di autorità al principio di autenticità, ovvero il superamento dell´equazione “verità uguale dottrina” per porre invece “verità maggiore dottrina”.
È esattamente la prospettiva della Bibbia, per la quale la verità è qualcosa di vitale su cui appoggiarsi e camminare, pane da mangiare, acqua da bere.
In questo orizzonte l´esperienza spirituale ha più valore della dottrina, il primato non è della dogmatica ma della spiritualità, e i veri maestri della fede non sono i custodi dell´ortodossia ma i mistici e i santi (alcuni dei quali formalmente eterodossi come Meister Eckhart e Antonio Rosmini).
Ne viene che un´affermazione dottrinale non sarà vera perché corrisponde a qualche versetto biblico o a qualche dogma ecclesiastico, ma perché non contraddice la vita, la vita giusta e buona.
Si tratta di passare dal sistema chiuso e autoreferenziale che ragiona in base alla logica “ortodosso-eterodosso”, al sistema aperto e riferito alla vita che ragiona in base alla logica “vero-falso”, e ciò che determina la verità è la capacità di bene e di giustizia.
Così la teologia diviene autentico pensiero del Dio vivo, qui e ora.
7.
Concretizzando.
Non si può continuare insegnare che la morte è stata introdotta dal peccato dell ´uomo, mentre oggi si sa che la morte c´è da quando esiste la riproduzione sessuata, cioè milioni di anni prima della comparsa dell´uomo.
Né si possono più sostenere così come sono i dogmi sul peccato originale, sull´origine dell´anima, sull´eternità dell´inferno, sulla risurrezione della carne.
Occorre inoltre prendere atto dell´insufficiente risposta alla questione del male e del dolore innocente, la più antica e la più attuale sfida a ogni pensiero di Dio.
Per quanto riguarda poi la morale sessuale, le parole del card.
Poupard sul caso Galileo, cioè che la Chiesa di allora fu incapace di “dissociare la fede da una cosmologia millenaria”, devono portare a domandarsi se oggi non si è allo stesso modo incapaci di dissociare la fede da una biologia altrettanto millenaria e altrettanto sorpassata.
È necessario un immenso lavoro perché l´occidente torni a riconoscersi nella sua religione, e la condizione indispensabile è che il cantiere della teologia si apra alla libertà.
Infatti (per riprendere il sottotitolo del convegno romano) con o senza libertà cambia tutto.
Ma l´attuale gerarchia della Chiesa è spiritualmente grado di cogliere l´urgenza della situazione e di aprirsi al rischio della libera intelligenza? in “la Repubblica” del 10 dicembre 2009 Nell’articolo che segue l’autore riflette sul convegno dedicato a “Dio oggi”.
 E’ necessario cambiare, non si possono più sostenere così come sono i dogmi e la morale sessuale.
Il cristianesimo continua a perdere di fascino e nel migliore dei casi consola.  L´attuale gerarchia ecclesiastica è in grado di aprirsi al rischio della libera intelligenza?  Ecco in forma schematica  le considerazioni sviluppate dall’autore : 1.
La sfida della postmodernità alla fede in Dio non è più l´ateismo materialista.
2.
La questione epocale è che tale rivincita non corrisponde per nulla a una rivincita del Dio cristiano.
3.
La teologia può tornare a far pensare gli uomini a Dio solo a due condizioni: radicale onestà intellettuale e primato della vita.
4.
In questa prospettiva la teologia deve intraprendere una lotta all´interno della Chiesa e della sua dottrina 5.
L´impostazione dominante rimane: la teologia si esercita nella Chiesa e per la Chiesa e deve avere un esplicito controllo ecclesiale.
6.
Ciò comporta il passaggio dal principio di autorità al principio di autenticità, ovvero il superamento dell´equazione “verità uguale dottrina” per porre invece “verità maggiore dottrina”.
7.
Concretizzando.
Non si può continuare insegnare che la morte è stata introdotta dal peccato dell ´uomo, mentre oggi si sa che la morte c´è da quando esiste la riproduzione sessuata, cioè milioni di anni prima della comparsa dell´uomo.

Personaggi del nostro tempo: Gabriele De Rosa

In un’intervista dei primi anni Ottanta, Gabriele De Rosa rievocava la sua via alla storia: la faceva risalire al periodo intorno al 1950, quando era stato redattore dello “Spettatore italiano”, la rivista di Raimondo Craveri ed Elena Croce, di cui curava – con Franco Rodano – la parte politica.
Erano i primi difficili anni della democrazia italiana, di cui stavano emergendo come veri protagonisti i grandi partiti politici di massa, eredi di tradizioni culturali e politiche che erano state di opposizione “sistemica” rispetto allo Stato liberale prefascista.
Di questo retroterra la storiografia politica dell’epoca stentava a rendersi conto e valutava quelle realtà “come fossero nati dall’oggi al domani”.
De Rosa avvertiva invece che dietro la Democrazia cristiana (Dc) si dipanava una storia di più lunga durata, che imponeva una linea di ricerca che andasse non solo al di là del Partito popolare sturziano (di solito presentato come l’antecedente prossimo), ma si spingesse oltre lo stesso Risorgimento fino al periodo della Restaurazione.
Era allora che erano nate le prime espressioni organizzate del laicato cattolico (quelle che dopo il 1870 avrebbero costituito il movimento cattolico), per lo più espressioni di un’opposizione politico-culturale alla nuova società “borghese” che stava emergendo dai postumi della rivoluzione francese.
Rispetto alla tradizionale centralità del “cattolicesimo liberale”, riproposta in quegli anni da uno studioso come Arturo Carlo Jemolo, De Rosa venne perciò privilegiando, “tra tutte le correnti del movimento cattolico, quella degli “intransigenti”, perché (…) più ricca di socialità in confronto ad altre più ideologizzate e politicizzate, come il “cattolicesimo liberale”, e perché rispondente maggiormente alla nostra sensibilità di allora”.
Socialità: bisogno cioè di andare al di là dell’individualismo liberale, di sentirsi calato in una più ampia comunità (politica, sociale, religiosa), di dare alla propria attività culturale una proiezione sociale, di collegarla a un impegno politico.
Questa socialità è stata una delle cifre più originali della personalità di De Rosa, che aiuta a spiegare il suo periplo ideologico tra la fine degli anni Trenta e il 1953-54, quando appunto pubblicò il pionieristico lavoro su L’Azione cattolica.
Storia politica dal 1874 al 1904.
Come per non pochi della sua generazione (era nato nel 1917 a Castellammare di Stabia), fu il fascismo inteso come movimento di definitiva emancipazione della nazione italiana a costituire il suo primo sistema di valori politici e come altri appartenenti alla “generazione cattolica del Littorio” conobbe anche lui un dérapage antisemita nel periodo delle leggi razziali (La rivincita di Ario, Alessandria 1938).
Ma – anche qui siamo di fronte a una vicenda non solo sua – la crisi del fascismo giovanile dovuta alle tragiche esperienze di guerra (De Rosa partecipò come ufficiale dei granatieri alla campagna in Africa settentrionale) non comportò nel giovane cattolico un recupero dell’eredità “liberale” (magari filtrata dall’esperienza popolare e dai suoi eredi che allora si apprestavano a fondare la Dc), ma la ricerca di un altro tipo di socialità: la trovò nel Partito cristiano-sociale guidato da Gerardo Bruni e poi (novembre 1944) nella Sinistra cristiana di Franco Rodano, che seguì alla fine del 1945 nell’adesione al Pci, nella collaborazione alla stampa comunista e nell’esperienza, appunto, dello “Spettatore italiano”.
La crisi di questa esperienza si consumò proprio negli anni in cui preparava il libro sull’Azione cattolica: per De Rosa, comportò il definitivo trapasso a un’attività più propriamente culturale e l’incontro con nuovi interlocutori che avrebbero poi avuto una decisiva influenza sulla sua personalità.
Innanzitutto don Giuseppe De Luca, per anni un referente del gruppo di Rodano, che lo introdusse nell’ambiente delle sue Edizioni di Storia e Letteratura, un’esperienza editoriale che allora si poneva al di là dello storicismo diffuso nella cultura italiana e riproponeva la centralità del lavoro filologico e documentario.
Fu proprio De Luca che fece il suo nome a Luigi Sturzo, che cercava un giovane studioso che facesse per lui alcune ricerche: così il 15 maggio 1954, nel convento delle suore canossiane di Roma, ebbe luogo il primo incontro fra lo storico e il sacerdote siciliano.
Quasi trent’anni dopo, De Rosa avrebbe sottolineato l’importanza di questi due preti nella sua ricerca storica anche da un altro punto di vista: essi gli avrebbero fatto sentire l’esigenza di superare progressivamente una storiografia événementielle dei fatti politico-sociali a vantaggio di “una “storia minore” di un popolo privo di grandi avvenimenti politici, ma che pure aveva avuto le sue periodizzazioni importanti sia a livello politico sia a livello sociale”: verso insomma una storia delle mentalità e dei comportamenti, che avevano contraddistinto la vita religiosa in Italia e dei quali – proprio negli studi sull’Azione cattolica – egli aveva potuto verificare i perduranti riflessi.
Sturzo (sociologo, non lo si dimentichi) lo avrebbe spinto dal politico al sociale, De Luca lo avrebbe fatto entrare nel “profondo religioso”, attingendo “i ritmi più lenti e duraturi della coscienza popolare e della vita di pietà”.
Questo passaggio avvenne alla metà degli anni Sessanta: nel 1966 pubblicava i due volumi della Storia del movimento cattolico in Italia, in cui rifondeva i suoi libri precedenti sull’Azione cattolica e sul Partito popolare.
Nello stesso anno fondava a Padova il Centro studi per la storia della Chiesa nel Veneto nell’età contemporanea, in cui avviava, fra l’altro, un’ampia ricerca sulle visite pastorali in area veneta, in cui il suo nuovo approccio ormai emergeva.
In questa storia delle strutture, delle mentalità, delle pratiche religiose, De Rosa si confrontava con suggestioni assai diverse, ma che allora in Italia erano di casa: Gramsci e le note dei Quaderni del carcere sul cattolicesimo popolare, la storiografia delle “Annales”, Lucien Febvre e Marc Bloch in particolare, l’indirizzo “sociologico” di Gabriel Le Bras.
Ma, a petto di queste indubbie presenze, la storiografia socio-religiosa di De Rosa mostra una sua originalità: non è pura storia della pietà, né della pratica religiosa e neppure storia del sociale.
Nemmeno si adatta a una storiografia meramente seriale e quantitativa.
Un elemento – si potrebbe dire – “storicistico” permane nel suo approccio, che lo induce a respingere una “storia “immobile”, che apparterrebbe alla storia di coloro che non hanno storia e che sarebbe costituita da permanenze culturali di lungo periodo” e lo fa parlare di “lenta e grandiosa processualità” come caratteristica del processo storico-religioso.
De Rosa è stato uno degli ultimi “maestri” della storiografia italiana, in cui la passione civile si è fatta lievito di ricerca storica, senza mai farla diventare lotta politica condotta con altri mezzi; l’apertura internazionale si è coniugata con un radicamento nella terra italiana, dal Veneto degli “intransigenti” ottocenteschi al Mezzogiorno delle plebi rurali; il rinnovamento metodologico non si è mai risolto in una sperimentazione fine a se stessa, ma è stato diretto all’approfondimento di temi e problemi emergenti nel concreto lavoro storico.
Come ebbe a dire un grande storico “laico” come Giuseppe Galasso, la sua vita è stata una valida testimonianza per la sua fede e per il suo mestiere.
(©L’Osservatore Romano – 9-10 dicembre 2009)

Milano torni grande con la sobrietà e la solidarietà

il Cardinale di Milano Dionigi Tettamanzi ha tenuto il tradizionale “Discorso alla Città di Milano” in occasione della festività di Sant’Ambrogio.  Il Cardinale parla di umanità, di solidarietà, di attenzione ai giovani, ai disoccupati, ai poveri.
Invita a un nuovo stile di vita che chiama: Santa Sobrietà.
Carissimi, ancora una volta il Signore mi dà la grazia e la gioia di rivolgermi alla Città per la festa di sant’Ambrogio, patrono di Milano e della Diocesi.
L’amore per la nostra Città Inizio confessando il particolare amore che mi lega a questa Città, alla mia Città.
Sono sicuro che tutti voi condividete con me questo amore, un amore segnato da gratitudine e insieme da responsabilità.
La gratitudine, anzi tutto.
Riconosciamo il patrimonio di fede, di storia, di cultura, di tradizioni, di opere che nei secoli ha arricchito la nostra Città: una preziosa eredità che ogni giorno viene posta nelle nostre mani, un dono grande che è offerto anche alle giovani generazioni e ai milanesi di domani, a coloro che in questa Città vengono ad abitare da altre città, da terre lontane.
A questa nostra gratitudine s’accompagna poi un senso di responsabilità.
È un amore che si pone una domanda: sapremo anche noi arricchire l’eredità morale e spirituale da trasmettere a quanti verranno dopo di noi? Ma quale potrà essere il nostro modo, per conservare, anzi per arricchire la storia di questa Città? Nessuno di noi pensa che per perpetuare nel futuro la grandezza di Milano sia sufficiente edificare qualche monumento, questa o quell’altra infrastruttura, abbellirla con qualche opera d’arte.
Si tratta di interventi utili ma – sappiamo – da sempre sono gli abitanti la ricchezza più grande di una città.
Mi chiedo ancora: noi stiamo portando il nostro contributo per rendere grande Milano? “Milano con il cuore in mano”, “solidarismo ambrosiano”: queste ed altre espressioni proverbiali, da sole, lasciano intendere quale sia l’eredità migliore che ci è stata consegnata: la solidarietà.
Tante istituzioni caritative ne sono una splendida testimonianza.
Eroi della solidarietà dicono di questa grandezza.
Come non ricordare il beato don Carlo Gnocchi e la Fondazione che ne porta il nome? La solidarietà rende grande la Città È la pratica straordinaria della solidarietà che ha reso grande nei secoli Milano.
Ed è sulla solidarietà che dobbiamo misurare ancora oggi l’autenticità della grandezza della nostra Città.
Spesso la solidarietà riceve un’interpretazione semplicistica: emotivo-sentimentale nell’ambito personale, benefico-assistenziale in quello sociale.
Ma, come sottolinea la recente enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI, la solidarietà esige di essere riscattata da queste visioni parziali, affermandone il ruolo tipicamente sociale e politico.
Essa, infatti, persegue il bene non solo individuale ma anche e specificamente comune, è del tutto inscindibile dalla giustizia e include, pertanto, la presenza attiva e responsabile delle stesse Istituzioni ben oltre il pur indispensabile servizio del volontariato.
La solidarietà è inseparabile dalla giustizia e per questo ha una destinazione propriamente sociale.
Alla sua radice ci sono sempre gli altri.
Sì, gli altri, perché ciascuno di noi, lungi dall’essersi costituito da sé, è in se stesso un dono, un essere che ha ricevuto molto dagli altri.
E non c’è solo un debito individuale, ma anche un debito comunitario, che ci lega alle generazioni che ci hanno preceduto.
Scriveva Paolo VI nella sua famosa Enciclica sullo sviluppo dei popoli e dell’intera umanità: «Ogni uomo è membro della società: appartiene all’umanità intera… Eredi delle generazioni passate e beneficiari del lavoro dei nostri contemporanei, noi abbiamo degli obblighi verso tutti, e non possiamo disinteressarci di coloro che verranno dopo di noi a ingrandire la cerchia della famiglia umana.
La solidarietà universale, che è un fatto, per noi è non solo un beneficio, ma altresì un dovere» (Populorum progressio, 17).
La solidarietà riveste i tratti del dovere.
È un aspetto che viene sottolineato con forza anche dalla nostra Costituzione.
Tra i “principi fondamentali” viene affermato il profondo legame tra i “diritti inviolabili dell’uomo” e “l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art.
2).
È questo il grande patto sociale che mantiene coesa una città.
Qui è in gioco una virtù cardinale, è in gioco la giustizia! Milano è una città solidale? La nostra Città oggi è una città solidale, all’altezza della sua tradizione? È difficile rispondere con poche parole.
Come ogni città, anche la nostra Milano è una città composita, dai tanti volti, dalle mille storie, che in alcune sue parti rischia di essere costituita da isole, da “città nella città”.
Non ha un aspetto unico ed è inevitabile che sia così per una metropoli moderna.
E se la solidarietà non è solo il dare episodico ma una tensione interiore che si esprime in comportamenti abituali e permanenti, si fa inevitabile la domanda se la nostra città sia veramente solidale con tutti i suoi abitanti.
Milano è solidale con i bambini e il loro futuro se, ad esempio, sono sufficienti gli asili nido, le scuole materne, i parchi gioco.
La Città è solidale con i ragazzi se sa dare loro, insieme a un’offerta scolastica qualificata, anche opportunità educative, culturali, ricreative, quali momenti significativi per prevenire il disagio.
La Città è solidale con i giovani se sa farsi carico delle loro domande e delle loro tensioni, se sa ascoltarli e guardarli con stima, fiducia, amore sincero.
Ma è solidarietà offrire ai giovani che si affacciano al mondo del lavoro forme di impiego quasi sempre precarie, quasi a voler approfittare della loro condizione, sfruttando le loro necessità? La solitudine poi di tante persone manifesta il bisogno di solidarietà.
Sono sole tante famiglie, alle prese con il peso di conflitti e violenze nascoste, con il dramma della separazione, con i problemi economici, con la malattia di un congiunto; sono soli tanti anziani, senza relazioni significative e prospettive per il futuro; rischiano di essere soli gli immigrati, spesso confinati – per chiusura o per rifiuto sociale – dentro i propri gruppi etnici… Ma Milano offre anche molti esempi di autentica solidarietà.
Penso a tutti i lavoratori che compiono bene il proprio dovere, con dedizione e generosità.
Non sono poche le persone che hanno come tratto distintivo della propria vita il volontariato e nelle associazioni caritative.
Voglio qui menzionare in particolare – insieme ai benefattori – le centinaia di volontari impegnati nel “Fondo Famiglia-Lavoro”, non solo per distribuire contributi economici, ma soprattutto per ascoltare chi ha perso l’occupazione, studiare con loro soluzioni per tornare a essere produttivi.
Non mancano gli imprenditori che sfidano la crisi economica affrontando sacrifici pur di salvaguardare il posto di lavoro dei propri dipendenti e di non far mancare il sostentamento alle famiglie; i ricercatori che sono attivi per migliorare le cure con cui combattere la malattia.
Non manca chi progetta con intelligenza gli spazi della Città per innalzare la qualità della vita delle persone.
Come non citare poi chi opera per migliorare le condizioni di vita degli immigrati, chi si impegna per offrire percorsi di autentica integrazione, per coniugare solidarietà e legalità? Mi ha colpito nei giorni scorsi, a seguito dello sgombero di un gruppo di famiglie rom accampate a Milano, la silenziosa mobilitazione e l’aiuto concreto portato loro da alcune parrocchie, da tante famiglie del quartiere preoccupate, in particolare, di salvaguardare la continuità dell’inserimento a scuola – già da tempo avviato – dei bambini.
La risposta della Città e delle Istituzioni alla presenza dei rom non può essere l’azione di forza, senza alternative e prospettive, senza finalità costruttive.
La Chiesa di Milano, il volontariato e altre forze positive della Città hanno dimostrato, e rinnovano, la propria disponibilità per costruire un percorso di integrazione.
Non possiamo, per il bene di tutta la Città, assumerci la responsabilità di distruggere ogni volta la tela del dialogo e dell’accoglienza nella legalità che pazientemente alcuni vogliono tessere.
Sono innumerevoli coloro che nella vita quotidiana tengono gli occhi aperti alle necessità degli altri: attenzioni che si concretizzano in piccoli gesti e segni di prossimità, ma che – considerati tutti insieme – portano uno straordinario beneficio a tantissime persone per il loro equilibrio, per il loro benessere, assorbendo tanta fatica che, altrimenti, appesantirebbe la vita di molte persone e della Città nel suo insieme.
Senza questi “angeli” della quotidianità la vita a Milano sarebbe per tanti sicuramente più difficile.
In questa prospettiva va promossa con decisione una “nuova solidarietà” che assuma la forma di una vera e propria “alleanza” intesa come incontro, dialogo, scambio d’informazioni, condivisione di interventi, collaborazione corresponsabile tra le Istituzioni pubbliche e le forze vive della società civile, ovviamente nel rispetto delle diverse competenze e nel segno di una reciproca fiducia: si pensi, in particolare, all’urgenza di una simile alleanza nei fondamentali ambiti della scuola, del lavoro, della salute, della lotta alle varie forme di povertà e di emarginazione sociale.
Non c’è solidarietà senza sobrietà Ed ora, proprio nel contesto di Milano chiamata a un supplemento di solidarietà, giungo a un’affermazione forse inattesa: quella riguardante la sobrietà.
Sì, la nostra Milano, come tutte le città e forse ancor più delle altre, ha bisogno di sobrietà.
Vorrei ricordare quanto dissi nell’omelia della S.
Messa della notte dell’ultimo Natale in Duomo quando rivolsi un invito alla conversione: «C’è uno stile di vita costruito sul consumismo che tutti siamo invitati a cambiare per tornare a una santa sobrietà, segno di giustizia prima ancora che di virtù».
A distanza di quasi un anno, sento di dover ripetere queste parole, invitando a recuperare la fatica e la gioia della sobrietà.
La sobrietà è possibile, in essa c’è il segreto della vita buona e bella, anche se il cammino per arrivarvi è difficile e chiede che si cambi lo stile di vita.
Con la sobrietà è in questione un “ritornare”, come se si fosse smarrita la strada.
Ci siamo lasciati andare a una cultura dell’eccesso, dell’esagerazione.
Soprattutto la sobrietà è questione di “giustizia”.
Siamo in un mondo dove c’è chi ha troppo e chi troppo poco, e anche nella nostra Città c’è chi sta molto bene, mentre sempre più aumenta il numero di chi fa più fatica.
La sobrietà ci aiuta a costruire la giustizia, perché decide, sceglie e agisce secondo la giusta misura, e dunque sempre con l’attenzione vigilante ai diritti e doveri che si hanno nei riguardi sia di se stessi che degli altri, superando sempre eccessi e sprechi.
In particolare la “giusta misura” nell’uso dei beni rende la sobrietà, da un lato nemica dell’avarizia, dall’altro amica della liberalità, ossia di una pronta disponibilità alla condivisione dei beni.
Questa stretta connessione tra la sobrietà e la giustizia ci aiuta a comprendere come la sobrietà sia una via privilegiata che ci conduce alla solidarietà.
Solo chi è sobrio può essere veramente solidale.
Infatti la sobrietà crea gli spazi: nella mente, nel cuore, nella vita, nella nostra casa… La sobrietà apre agli altri e ridimensiona l’importanza eccessiva che diamo a noi stessi; ci apre agli altri e in ogni cosa ci interpella a partire dal bisogno altrui.
La sobrietà favorisce lo sviluppo La sobrietà non è solo un valore personale e individuale, è anche un valore sociale, comunitario: coinvolge la Città come tale.
Una delle più frequenti obiezioni alla sobrietà va al cuore della questione: l’industria e il terziario tengono solo se ci sono consumi, il cui calo comporta il calo della produzione.
Ora la sobrietà pare esigere una riduzione dei consumi e, se attuata, andrebbe contro lo sviluppo, divenendo fonte di gravi problemi a cominciare dalla disoccupazione.
Dunque la sobrietà potrebbe apparire un valore estraneo per Milano! Sobrietà, però, non significa non consumare e non produrre.
È piuttosto “utilizzare” non in un’ottica di spreco, bensì di saggio impiego, finalizzando così la produzione e i servizi ai veri bisogni dei singoli, per crescere nel benessere condiviso.
La sobrietà muove dalla consapevolezza che le risorse sono limitate e che vanno quindi ben utilizzate.
Essa stimola l’intelligenza e la capacità di ciascuno perché sappia usare al meglio le opportunità che vengono offerte per il singolo e per gli altri, per l’intera umanità.
La sobrietà non danneggia l’economia ma è a favore di una sua realizzazione sapiente perché mette al centro la persona e le sue esigenze più vere.
È questo l’insegnamento della Chiesa riproposto nell’enciclica sociale Caritas in veritate.
Il futuro della Città: Expo 2015 e vita quotidiana In questa prospettiva Milano deve considerare le opportunità legate a Expo 2015.
Lo stesso tema prescelto “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita” offre un ambito dove la sobrietà, rettamente intesa, può essere un fattore determinante.
La sfida di “nutrire il pianeta” – meglio dire, tutte le persone che vivono e vivranno sulla Terra – esige infatti un profondo ripensamento dell’uso delle risorse.
Richiede intelligenza per escogitare forme nuove di uso e valorizzazione dei beni; pretende un salto di qualità nell’intendere in modo nuovo e solidale i legami tra le nazioni e l’interconnessione tra i diversi attori pubblici e privati della produzione e del mercato; spinge a impiegare energie per la ricerca agro-alimentare; comporta impegno per cercare modalità di dialogo e di scambio, di conoscenza e di risorse, per una crescita equilibrata e solidale del pianeta.
Ovviamente la realtà di Milano non può esaurirsi nell’avventura dell’Expo.
La speranza è che questo evento possa far da traino per un ripensamento globale di Milano in termini innovativi, economicamente solidi e promettenti, aperti a una visione profondamente etica e responsabile.
Diventa inevitabile a questo punto interrogarci sulle concrete applicazioni quotidiane della sobrietà come via alla solidarietà nell’ambito della nostra Città, in riferimento, ad esempio, alle risorse pubbliche e al loro impiego.
Milano è spesso etichettata come città “del fare”.
La sobrietà può rinverdire questo nobile appellativo: un “fare” che non deve riguardare solo la dimensione produttiva ma che vuole mirare ai risultati concreti a beneficio di tutti gli abitanti; un risultato che si raggiungerà eliminando tutto ciò che è superficiale, vuota apparenza, perdita di tempo e spreco di risorse.
Non abbiamo forse la sensazione che si punti alla costruzione di campagne di comunicazione e di immagine, nascondendo la consistenza reale dei problemi, più che alla soluzione dei problemi stessi e all’offerta di servizi efficienti e per tutti? Sono convinto che chi per vocazione, per lavoro, per servizio, per mandato pubblico, per elezione è chiamato a operare per gli altri debba essere sobrio per incontrare realmente le donne e gli uomini nelle loro esigenze, per mettere al centro delle proprie attenzioni i problemi delle persone e delle famiglie e, quindi, per risolverli.
La festa di sant’Ambrogio può suonare come appello a un sussulto di moralità e spiritualità nei nostri stili di vita.
La nostra Città è interessata – e lo sarà sempre più – da progetti di realizzazione di grandi opere che esigono ingenti quantità di denaro e per le quali sono possibili interferenze e infiltrazioni di criminalità organizzata.
Divengono quindi ancora più urgenti da parte di tutti – e specialmente di chi ha maggiori responsabilità – il rispetto di norme semplici, chiare ed efficaci, il confronto con la coscienza morale, la rettitudine nell’agire, la gestione corretta del denaro pubblico.
In ambito ancor più personale, vivere secondo sobrietà aiuta a verificarsi su quale sia la vera sorgente della felicità.
Con uno stile di vita sobrio è facile smascherare l’illusione che la felicità provenga dal possesso delle cose, da un’esistenza condotta sempre “oltre il limite”.
Troppe persone – e non solo i giovani – sembrano alla ricerca di uno “stato di ebbrezza permanente” da perseguire con eccessi (di sostanze stupefacenti, di alcool, di sensazioni ed emozioni forti) quasi per dimenticare quanto sia seria e impegnativa la vita, quasi per sfuggire alle proprie responsabilità, quasi per volersi sottrarre al compito di ricercare quella felicità duratura e profonda che deriva dalla piena e autentica realizzazione di sé.
Questi stili di vita esaltano l’individualismo, corrono il rischio di distruggere i soggetti, allentano i legami sociali, indeboliscono la Città.
Persone autenticamente felici, invece, portano un grande contributo alla costruzione di una Città migliore: la vera gioia, infatti, non presenta mai i tratti dell’egoismo bensì del dono di sé, scaturisce dalla ricerca del bene dell’altro.
Se anzitutto i fedeli di questa Città – ed è il pastore, il Vescovo ad esprimersi così – vivranno con sempre maggiore coerenza il loro essere cristiani, la ricerca del bene dell’altro genererà un intreccio virtuoso che renderà Milano coesa, capace di curare e guarire le ferite dei suoi abitanti.
Stili di vita personali virtuosi sprigionano la forza per rinnovare la Città.
Una conversione è possibile? In questo senso ripropongo la chiamata alla conversione, esattamente nella linea proposta da Benedetto XVI il 1° gennaio 2009 e – in termini ampi e dal valore profetico – nell’enciclica Caritas in veritate.
Il Papa invita a vedere la crisi “come un banco di prova”, ponendo questi interrogativi: «Siamo pronti a leggerla, nella sua complessità, quale sfida per il futuro e non solo come un’emergenza a cui dare risposte di corto respiro? Siamo disposti a fare insieme una revisione profonda del modello di sviluppo dominante, per correggerlo in modo concertato e lungimirante?».
Si esige un cambiamento radicale, lungimirante e teso al bene comune globale.
Si esige una progettazione di ampio respiro, capace di andare oltre le risposte immediate ed effimere, capace di dare un volto nuovo alla nostra Città.
Una progettazione che riguardi tutti i grandi capitoli della vita sociale.
La direzione tracciata è precisa: si tratta di favorire, diffondere e condividere modelli e stili di vita insieme profetici e praticabili, capaci di far crescere le virtù e le opere della sobrietà e della solidarietà: nell’ambito personale e interpersonale, in quello comunitario e istituzionale.
Guardiamo a Cristo È richiesto un grande investimento educativo da parte di tutti.
All’Angelus del 1° gennaio di quest’anno il Papa conclude con un’annotazione di particolare importanza: «Gesù Cristo non ha organizzato campagne contro la povertà, ma ha annunciato ai poveri il Vangelo, per un riscatto integrale dalla miseria morale e materiale.
Lo stesso fa la Chiesa, con la sua opera incessante di evangelizzazione e promozione umana…».
È dunque a Cristo che dobbiamo guardare, come singole persone, come città di Milano, a lui che è il “buon samaritano” e che vuole continuare a essere presente e operante nella storia dell’umanità ferita e bisognosa di “cura” tramite la nostra mediazione.
Quella di Cristo è una presenza che ha i segni del Crocifisso, che sa attraversare le situazioni umane di fatica e di sofferenza assumendole, facendosene carico.
Conserviamo la presenza del crocifisso, simbolo cristiano ma anche simbolo profondamente umano.
Di fronte ad esso siamo tutti richiamati a interrogarci sul significato che hanno il soffrire e il morire, così come possiamo ritrovare la speranza per superare le situazioni di dolore e di morte.
Ma il Crocifisso è risorto! Non limitiamoci a considerare il crocifisso come segno di un’identità.
Dobbiamo passare dal simbolo alla realtà, alla realtà di Gesù Cristo morto e risorto e veniente, persona viva, concreta, incontrabile, sperimentabile.
Conserviamolo questo simbolo, ma soprattutto viviamolo con umile, forte e gioiosa coerenza.
Concludiamo con una riflessione che sant’Ambrogio pone al termine del suo commento alla parabola del buon samaritano.
«Siccome nessuno è maggiormente prossimo di Colui che guarì le nostre ferite, amiamolo come Signore, ma amiamolo anche come prossimo; nulla è tanto prossimo quanto il Capo alle membra.
Amiamo anche chi è imitatore di Cristo, amiamo chi ha compassione dell’altrui indigenza secondo l’unità che vige nel corpo.
Non è la parentela che fa il prossimo, ma la misericordia» (Esposizione del Vangelo secondo Luca, VII,84).
+ Dionigi card.
Tettamanzi

43° Rapporto Censis

“La società italiana è una società testardamente replicante.
Quel ‘non saremo più come prima’ che un anno fa dominava la psicologia collettiva è mutato in un ‘siamo sempre gli stessi'”.
Sono insolitamente venate di pessimismo le “considerazioni generali” del 43° Rapporto annuale del Censis sulla situazione sociale del Paese, illustrate questa mattina dal suo presidente storico, Giuseppe De Rita.
L’Italia ha saputo resistere alla crisi meglio di altri Paesi per la nostra migliore capacità di adattamento (“galleggiamento”, diceva De Rita già 25 anni fa) e perché il sistema economico italiano è caratterizzato da una “diffusissima presenza di piccole aziende, il mercato del lavoro è elastico (si pensi al sommerso) e protetto (si pensi al lavoro fisso e agli ammortizzatori sociali), e le famiglie sono patrimonializzate”.
Ma la crisi “ha finito per rallentare il processo di uscita dal puro adattamento intravisto lo scorso anno, quando all’orizzonte si presentava quasi una ‘seconda metamorfosi’, dopo quella degli anni fra il ‘45 e il ‘75”, anche se proseguono alcuni processi di trasformazione.
Essi riguardano in primo luogo il settore terziario (istruzione compresa), che non può più essere considerato come la valvola di scarico della disoccupazione intellettuale.
Per uscire davvero dalla crisi occorre avere consapevolezza di questo, e di quanto faticoso sarà l’impegno per un “modello vocazionalmente replicante” come quello italiano.
Il “dopo”, così si concludono le considerazioni generali, parte dall’oggi.
Si tratta di una sfida faticosa, ma che non può che partire “qui e adesso”.
Il 47,7% dei genitori non incontra mai o quasi mai gli insegnanti dei propri figli.
E’ questo un altro dei dati che più colpiscono nel Rapporto Censis di quest’anno.
Inoltre il 59,7% dei genitori con figli in età scolare ritiene che il fenomeno del bullismo sia in crescita, mentre il 52% non ha fiducia nella capacità della scuola di proteggere i ragazzi da questo fenomeno.
La responsabilità però non viene scaricata sugli insegnanti: il 59,7% dei genitori intervistati ritiene infatti che gli insegnanti non abbiano gli strumenti per fermare i bulli.
I docenti, a loro volta, individuano nella scarsa motivazione degli allievi verso l’apprendimento uno dei principali problemi da affrontare in classe:  è quanto pensa il 54,4% di un campione di insegnanti neoassunti nella scuola secondaria di II grado.
Lo stesso esito, d’altra parte, aveva avuto qualche anno fa una grande inchiesta condotta in Francia in migliaia di scuole.
Il problema, da noi come in altri Paesi, è destinato a complicarsi perché si intreccia con la crescente perdita di attrattiva della professione docente, che risulta essere la meno preferita tra i giovani che si affacciano all’università.
Nell’insolitamente limitato spazio dedicato quest’anno all’istruzione, spicca un’indagine realizzata dal Censis sugli atteggiamenti degli studenti nei confronti della scuola.
Il dato è impressionante: “Circa l’80% dei giovani di età compresa tra 15 e 18 anni si è chiesto almeno una volta che senso abbia stare a scuola o frequentare corsi di formazione professionale”.
Dominano il disincanto e lo scetticismo, prosegue il Rapporto: “il 92,6% dei giovani in uscita dalla scuola secondaria di II grado ritiene che anche per chi ha un titolo di studio elevato il lavoro sia oggi sottopagato, il 91,6% pensa che sia agevolato chi può avvalersi delle conoscenze”.
Ma anche il 63,9% degli occupati giudica inutili le cose studiate a scuola per il proprio lavoro.
La visione pessimistica travalica i confini dell’universo educativo: “il 75% dei laureati e l’85% dei non laureati di 16-35 anni pensano che in Italia vi siano scarse possibilità di trovare lavoro grazie alla propria preparazione”, e comunque i laureati italiani in economia e in ingegneria hanno stipendi annui inferiori rispettivamente del 20,2% e del 21,4% rispetto a di quelli medi europei.
Forse la scarsa considerazione per il valore degli studi concorre a spiegare il fatto che il 19,3% dei giovani italiani di 18-24 anni non sia in possesso di un diploma e non sia più in formazione, contro il 12,7% di Francia e Germania, il 13% del Regno Unito, il 14,8% medio europeo.
I dirigenti scolastici, benché li ritengano utili, segnalano anche le criticità nell’adozione di percorsi di alternanza scuola-lavoro per i propri studenti.
La più diffusa tra queste (55,1%) è quella delle risorse finanziarie, cui si correla la difficoltà ad offrire percorsi di alternanza a tutti gli studenti interessati (53,6%).
Negli ultimi tre anni questo tipo di esperienze sono cresciute nelle scuole: nel 2008/2009 hanno attivato l’alternanza scuola-lavoro più di 1.000 istituti coinvolgendo 69.375 studenti (+51,2% rispetto al 2006-2007).
La probabilità di poter usufruire di un’esperienza di alternanza scuola-lavoro è stata superiore nelle aree del Centro-Nord, che raccolgono il 53,5% degli studenti coinvolti nel 2008-2009, e soprattutto nelle regioni del Nord-Ovest, dove il raccordo con il mondo del lavoro è probabilmente agevolato dalla incidenza maggiore di realtà aziendali di media e grande dimensione.
Anche la durata e l’articolazione delle esperienze è ampiamente differenziata nelle diverse aree del Paese.
   La presentazione del rapporto annuale Censis è stata anche l’occasione per scoprire anche alcuni aspetti “di nicchia” per quello che attiene la scuola in Italia.
Un segmento di indagine ha riguardato l’opinione dei capi d’istituto delle scuole superiori italiane sull’alternanza scuola-lavoro: per il 53,2% dei dirigenti aver fatto una piccola esperienza lavorativa durante il percorso di studi aumenta, alla fine delle superiori, le possibilità occupazionali dei diplomati.
Non solo, queste iniziative aiutano a contrastare la dispersione e motivano i ragazzi.
In particolare, il 71,2% dei presidi sottolinea che il ricorso all’alternanza scuola-lavoro permette agli studenti di avere una migliore conoscenza del mondo del lavoro, il 55,9% pensa che consenta di offrire un curriculum di studio più adeguato alle esigenze delle imprese, il 53,2% ritiene che aumenti le opportunità occupazionali dei diplomati.
Positiva è anche la ricaduta che l’attivazione di questa opzione ha sull’ambiente scolastico: per il 52,9% dei presidi l’introduzione dell’alternanza influenza i livelli motivazionali, contrastando i fenomeni di dispersione, e per il 51,0% funge da stimolo ad una continua innovazione della didattica.
Le iniziative di contatto con le imprese, poi, secondo oltre un terzo dei presidi, aumentano l’attrattività di un istituto (33,9%), mentre un altro 30,6% ne evidenzia l’influenza positiva sul livello di aggiornamento e specializzazione dell’intero corpo docente.

Se il Vaticano vuole vendere le chiese senza fedeli

In sostanza, al catasto cimiteriale delle chiese sarebbero condannati unicamente i pesi morti, le chiese già defunte.
«Un mucchio di mattoni privi di carisma, spesso già sconsacrate» dice Giuliano Della Pergola, per anni docente di sociologia urbana al Politecnico di Milano.
«Strutture chiuse da tempo, inevase per difetto di partecipazione.
Quasi mai hanno un valore artistico o urbano tale da giustificarne il ripristino.
Non sono più un punto di riferimento, nemmeno per la comunità civile.
Per cui l´alternativa che si pone è fra il loro abbattimento puro e semplice o il riuso civile, che non esclude funzioni spirituali, culturali e sociali».
Il caso di Guardia Piemontese potrebbe fare testo nel dibattito subito esploso dopo le dichiarazioni di Ravasi, specie per le spade roteanti dei guardiani leghisti della conservazione a ogni prezzo dell ´antiquariato sacro per scongiurare eventuali aborriti meticciati religiosi con l´Islam.
Ignorano forse che il Dio dell´Islam è lo stesso Dio dei cristiani e degli ebrei e dichiarano di preferire un night club ad una moschea in una ipotetica ex chiesa cattolica sconsacrata.
Che sia uno spazio in sfacelo, lo provano gli stucchi caduti dalla volta sul pavimento, i finestroni sbrecciati, le tre dita di polverume sull´altar maggiore.
Un tempo erano le anziane del villaggio che si prendevano cura della chiesa, scendendo in processione nei loro costumi occitani a cantare il rosario e a confidare le loro pene alla statua della Vergine Addolorata.
«Qui il prete non ci viene, il prete siamo noi» dicevano, riabilitando uno dei tratti laicali della riforma valdese in Calabria.
Ma ora che la somma di secolarizzazione ed emigrazione ha dissolto la piccola comunità spontanea di cristiani di quel paese del sud in vista del Tirreno anche per quella chiesa è suonata la campana a morto.
Tuttavia perfino con la loro rovina queste mura potrebbero rivendicare un senso: testimoniare la ferocia con cui le truppe dell´Inquisizione massacrarono nel 1561 i contadini venuti con la loro eresia dalle valli piemontesi.
La chiesa fu eretta subito dopo per imporre “l´unica vera fede”.
L ´immenso convento dei domenicani là vicino è anch´esso in decomposizione.
La strage fu tale che la Porta del paese si chiama “Porta del Sangue”.
Questa funzione vivente della memoria potrebbe dunque essere ritenuta sufficiente, secondo gli standard stabiliti dalla Commissione vaticana per la conservazione dei Beni Ecclesiastici, a preservare dallo sterminio la chiesa domenicana dell ´Inquisizione in Calabria.
Decisione che implicherebbe interventi di recupero, ripensamenti di funzioni museali-didattiche, programmazioni culturali, con costi difficilmente compensati dai flussi turistici in calo o dalle passioni ecumeniche raffreddate.
Ma se aveva ragione Padre Davide Maria Turoldo a ricordare che sui frontoni di molte chiese cristiane la parola “Dio” è scritta col sangue e le guerre, quale chiesa non avrebbe valore storico sufficiente a salvarla dalla demolizione o dal mercato? Alcuni temono che a prevalere potrebbe essere l´interesse delle alte sfere ecclesiastiche a destituire un passato violento con un cambio negazionista della destinazione d´uso dei luoghi di culto per rimuovere le stragi, prima ancora di averne fatto mea culpa.
Questa storia di chiese inutili serve troppo da allegoria per la crisi del cattolicesimo istituito, come la cattedrale a cielo aperto di Andrej Tarkovskij in Nostalghia.
Di fatto, dichiara formalmente che la Chiesa di Ratzinger rinuncia all´ipotesi di un recupero del terreno perduto, nella prospettiva di un cristianesimo di massa o di una “società cristiana”.
Calo della pratica religiosa, indebolimento istituzionale, travolgenti fattori di trasformazione dei vissuti collettivi hanno tagliato fuori per sempre alcune postazioni sacre, come vecchie stazioni ferroviarie su binari morti.
La secolarizzazione si è abbattuta sul cattolicesimo e sul suo spazio sacro senza la furia distruttiva delle armate di Oliver Cromwell sulle abbazie irlandesi o gli incendi giacobini appiccati alle pievi cattoliche durante la Rivoluzione Francese.
Ma la devastazione a dosi omeopatiche, consumistica, è stata non meno micidiale, e l´alleanza tra Chiesa e Mercato, contro cui Pier Paolo Pasolini aveva predicato nel deserto, presenta ora il conto: non solo il catasto delle chiese da vendere o rottamare, ma anzitutto la “chiesa superflua” analizzata da Heinrich Frics.
«Ovunque la Chiesa è per i più qualcosa di cui si può fare a meno per la significatività del vissuto quotidiano» ha scritto il teologo tedesco, «L´erosione del legame attacca soprattutto la Chiesa istituzionale, col risultato che la fede diventa volatile e la Chiesa perde di riconoscimento sociale».
S´incontrano tuttavia dei vescovi che rifiutano di rovesciare qualsiasi responsabilità sul capro espiatorio della modernità o del laicismo.
Claude Dagens, vescovo di Angouleme, chiama in causa la scarsa attuazione del modello di “Chiesa comunità” proposta dal Concilio Vaticano II e chiede di puntare sul “rifacimento interiore” della Chiesa, su una riorganizzazione istituzionale in cui la Chiesa faccia leva sui piccoli gruppi di preti e laici.
Se la Chiesa ha continuato a farsi identificare con gerarchia e clero, era fatale che, venendo meno il clero in modo massiccio, non si trovassero preti sufficienti a gestire tutte le parrocchie.
L´abbandono di alcuni campanili era il risultato matematico di un errore strategico.
E´ il clericalismo che si morde la coda.
Per deficit di partecipazione e di ruolo dei laici, le chiese sono state caricate quasi unicamente sulle spalle dei preti.
Venendo meno i preti le chiese devono essere abbandonate al nulla.
Il sacramento viene abbandonato e allora, piuttosto che lasciarlo nel deserto di una chiesa vuota, è preferibile trasferirlo ove ci sia il calore di una comunità.
In Francia sono corsi per primi ai ripari, sperimentando le assemblee domenicali senza prete.
Il Vaticano si è affrettato a stroncarle rifiutando loro il diritto di consacrare l´eucarestia, di accettare che persone designate dalle comunità potessero assumere delle responsabilità direttive nella comunità.
Questa diaspora di chiese di pietra non è tuttavia così apocalittica o anomala come potrebbe sembrare a prima vista.
Per alcuni indica che la Chiesa ammette di non poter più a lungo restare avvinghiata a una forma di vita istituzionale, la parrocchia residenziale, che data dall´era preindustriale, e di dover cercare di inculturarsi in forme istituzionali più flessibili e differenziate, provvisorie, accanto a quelle classiche nel territorio.
Della Pergola assicura che non si tratta che di “un´operazione di buon senso”, che non è il caso di drammatizzare dando corpo ai fantasmi del passato.
«Questa transizione dell´identità – dice – è una prerogativa specifica dell´identità fluida del cristianesimo in ogni secolo e ha accompagnato continuamente la storia degli edifici di culto, a Palermo ci sono sinagoghe divenute prima chiese cristiane, poi moschee, in Spagna a Cordova questi cambi di identità sono comuni.
Il cristianesimo si è installato con l´assimilazione di sinagoghe prima e da templi pagani poi, divenuti chiese cattoliche».
In accordo con l´urbanista, anche l´arcivescovo Loris F.
Capovilla che richiama l´invito di Papa Roncalli, quando era nunzio in Turchia, davanti alla scomparsa delle chiese antiche, numerose “come le stelle del cielo” nella terra dei primi Concili Ecumenici: «Non importa nulla.
Venerare i luoghi anche se devastati, le memorie monumentali anche se rovine, ma non attaccarci a tutto ciò.
Il regno di Gesù non è subordinato a ciò che nella stessa religione vera c´è di materiale, di esterno, di transitorio».
«La dismissione di chiese» osserva l´ex segretario di Roncalli – «è una storia che data almeno dal dopoguerra.
A Napoli come a Venezia ci sono chiese storiche trasformate in scuole o banche, uno dei licei scientifici di Venezia è il Santa Giustina, che ha sede nella omonima ex chiesa.
Si conserva la facciata ma si cambia l´interno e la destinazione».
Prima di disfarsi delle chiese spente, Capovilla sarebbe per l´affidamento a Confraternite laicali o a piccole comunità monastiche, come a Bose.
In ogni caso egli raccomanda che le dismissioni siano accompagnate da strumenti giuridici che assicurino la destinazione pertinente dell´ex edificio sacro, vietandone utilizzi impropri.
Nessuna preclusione all´uso dell´edificio di culto per riunioni di preghiera di altre religioni.
Oppure per conferenze, dibattiti, esposizioni, concerti, per la bellezza, perché «si dovrebbe ricordare che ove è bellezza e verità, giustizia e bontà, ivi è Dio».
in “la Repubblica” del 2 dicembre 2009 Le ragnatele rivestono di strati ancestrali il confessionale dell´Inquisizione da dove pende la stola un tempo violacea dell´ultimo confessore: la chiesa di san Michele sulla rocca di Guardia Piemontese, nella Calabria tirrenica, potrebbe essere inclusa nel catasto delle chiese in vendita o da rottamare annunciato dal ministro della cultura della Santa Sede, l´arcivescovo Gianfranco Ravasi.
Corrisponde infatti alle condizioni tassative enunciate per la selezione degli edifici di culto da avviare al mercato o alla demolizione fra le oltre centomila chiese o cappelle sparse lungo la penisola: mancanza di fedeli, scarso o nullo valore artistico o per la memoria, onerosità della manutenzione, sproporzione ingiustificata tra valore in gioco e costi dell´eventuale restauro, sui bilanci delle diocesi.

La riforma delle superiori sul web

Come annunciato dal ministro Gelmini, sul web è disponibile da questa settimana un’ampia documentazione relativa alla riforma della scuola secondaria superiore.
La consultazione, aperta a tutti, è possibile accedendo al sito http://nuovilicei.indire.it/.
Il sito, nella sezione “Costruire i nuovi licei”, riporta gli schemi di regolamento dei nuovi licei, i piani di studio, i quadri orario e ogni altro elemento utile per conoscere i nuovi licei della riforma Gelmini.
Analogamente sul sito sono presenti anche le sezioni “Costruire i nuovi tecnici” e “Costruire i nuovi professionali”.
La struttura delle tre sezioni comprende sei punti di contatto relativi a: Appunti di viaggio (dedicata agli approfondimenti sulle tematiche legate alla riforma che via via giungeranno in redazione) Cabina di regia (licei) e Gruppi di lavoro (tecnici e professionali) Conosci la riforma (documentazione normativa e schemi di regolamento) Rassegna stampa (raccolta di articoli della stampa anche on line dedicati alle riforme) Area riservata (per il personale preposto ai rapporti esterni mediante forum, faq e altro) Contatti (per inviare commenti e proposte).
Per la riforma degli istituti tecnici e degli istituti professionali e previsto anche un servizio di FAQ già attivo.

II Domenica di Avvento anno C

II DOMENICA DI AVVENTO   Lectio Anno c     Prima lettura: Baruc 5,1-9          Deponi, o Gerusalemme, la veste del lutto e dell’afflizione, rivèstiti dello splendore della gloria che ti viene da Dio per sempre.
Avvolgiti nel manto della giustizia di Dio, metti sul tuo capo il diadema di gloria dell’Eterno, perché Dio mostrerà il tuo splendore a ogni creatura sotto il cielo.
Sarai chiamata da Dio per sempre: «Pace di giustizia» e «Gloria di pietà».
Sorgi, o Gerusalemme, sta’ in piedi sull’altura e guarda verso oriente; vedi i tuoi figli riuniti, dal tramonto del sole fino al suo sorgere, alla parola del Santo, esultanti per il ricordo di Dio.
Si sono allontanati da te a piedi,  incalzati dai nemici; ora Dio te li riconduce in trionfo come sopra un trono regale.
Poiché Dio ha deciso di spianare ogni alta montagna e le rupi perenni, di colmare le valli livellando il terreno, perché Israele proceda sicuro sotto la gloria di Dio.
Anche le selve e ogni albero odoroso hanno fatto ombra a Israele per comando di Dio.
Perché Dio ricondurrà Israele con gioia alla luce della sua gloria, con la misericordia e la giustizia che vengono da lui.
       v In questo brano un profeta con espressioni prese in prestito dal libro di Isaia e di Geremia presenta il ritorno dall’esilio di Babilonia in forma trionfale attraverso il deserto.
     In una prima strofa (vv.
1-4) vi è un invito a Gerusalemme a passare dall’afflizione alla gioia, cambiando le vesti.
Secondo l’antica tradizione ebraica Adamo ed Eva nel paradiso terrestre avevano una veste di gloria, la luce li avvolgeva.
Una veste persa quando si sono allontanati da Dio.
Ora il Signore ritorna nella sua città e dona ai suoi abitanti una splendida veste di gloria.
Il cambiamento è tale che Dio dà alla sua città un nome nuovo: «Pace di giustizia» e «Gloria di pietà» (v.
4).
La gloria, cioè l’amore di Dio che ritorna a splendere nel cuore dell’uomo gli ridona la giustizia, lo mette in un giusto rapporto con Dio e con i fratelli.
Ne consegue quindi la pace, una vita piena di beni spirituali e materiali, e la pietà, il sentimento religioso di fiducia in Dio e di gratitudine per la sua presenza.
     In una seconda strofa (vv.
5-7) Gerusalemme è invitata ad ammirare il ritorno glorioso dei suoi fratelli dall’esilio.
È un cammino non faticoso perché Dio stesso guida questo ritorno.
È lui stesso che spiana la strada, perché Israele proceda sicuro (v.
7).
Anzi egli li fa trasportare sul suo trono regale, e non devono neppure camminare (v.
6).
     Nella terza strofa (vv.
8-9) anche il creato è coinvolto nella storia di  salvezza che Dio vuole fare con il suo popolo.
Il deserto fiorisce e diventa un giardino di alberi profumati che con la loro ombra impediscono al sole bruciante di far ripiombare il popolo nella morte dopo aver sperimentato la liberazione.
La terra promessa viene anticipata.
Il paradiso promesso si può già sperimentare qui nella storia concreta, perché il Signore è presente.
Il paradiso infatti è stare con il Signore.
  Seconda: Filippesi 1,4-6.8-11          Fratelli, sempre, quando prego per tutti voi, lo faccio con gioia a motivo della vostra cooperazione per il Vangelo, dal primo giorno fino al presente.
Sono persuaso che colui il quale ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù.
Infatti Dio mi è testimone del vivo desiderio che nutro per tutti voi nell’amore di Cristo Gesù.
E perciò prego che la vostra carità cresca sempre più in conoscenza e in pieno discernimento, perché possiate distinguere ciò che è meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo, ricolmi di quel frutto di giustizia che si ottiene per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio.
    v Paolo inizia con una invocazione e intercessione che sfocia nella lode.
Dalla sua buia prigione egli sta scrivendo alla comunità una lettera piena di gioia, perché proprio lì in una situazione di massimo fallimento umano ha sperimentato un’intimità tale con Gesù Cristo che gli dona una felicità che non può essere intaccata neppure dalla morte.
     È il Signore colui il quale ha iniziato (v.
6), il primo agente della evangelizzazione, e anche, se Paolo è stato tolto forzatamente alla comunità questa continua la sua cooperazione per il Vangelo (v.
5).
È una comunità viva: tutti per gratitudine partecipano all’evangelizzazione.
Il tempo che intercorre tra la presente semina del vangelo e la raccolta del frutto di giustizia che si ottiene per mezzo di Gesù Cristo (v.
11) della parusia è un periodo in cui può crescere l’amore e la fedeltà a Dio.
Tutto lo zelo missionario di Paolo e della comunità cristiana ha come scopo non l’autoglorificazione, ma a gloria e lode di Dio (v.
11).
    Vangelo: Luca 3,1-6          Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetràrca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetràrca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetràrca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Càifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccarìa, nel deserto.
Egli percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati, com’è scritto nel libro degli oracoli del profeta Isaìa: «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri! Ogni burrone sarà riempito, ogni monte e ogni colle sarà abbassato; le vie tortuose diverranno diritte e quelle impervie, spianate.
Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!».
    Esegesi      Luca presenta Giovanni Battista come l’ultimo dei profeti dell’Antico Testamento.
Questo lo possiamo dedurre dal suo modo di descriverlo.
Anche gli scritti profetici iniziano presentando il contesto storico in cui si svolge la predicazione profetica e la protagonista è la Parola del Signore.
Gli stessi termini infatti troviamo in Geremia: La Parola di Dio che fu su Geremia (Ger 11).
La Parola del Signore non rimane una teoria, una nuova filosofia, ma è una realtà storica: «non sono fatti accaduti in un angolo» (At 26,26), ma hanno delle coordinate storiche e geografiche molto concrete.
     Siamo informati su l’anno dell’inizio della predicazione di Giovanni, figlio di Zaccaria.
Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, che corrisponde al 27/28 dopo Cristo.
I grandi avvenimenti della storia della salvezza hanno dei testimoni molto concreti, pagani ed ebrei.
Innanzitutto l’imperatore romano, Tiberio, quindi il responsabile della Giudea-Samaria dal 26 al 36, il procuratore romano Ponzio Pilato.
Entrando nel mondo giudaico sono citate altre autorità politiche: Erode Antipa, figlio di Erode il grande, Filippo suo fratellastro e Lisania.
Come ai tempi dei profeti non solo le autorità politiche, ma anche quelle religiose sono testimoni della Parola di Dio.
Vengono quindi ricordati i nomi del sommo sacerdote in carica (anni 18-36) Caifa e del suo suocero deposto nel 18, Anna, che continuava a far sentire la sua influenza politico-religiosa.
Viene presentata anche la mappa geografica: Giudea-Samaria, Galilea, Iturea, Traconitide, Abilene.
    In questo quadro geografico c’è un luogo privilegiato in cui Dio ha parlato come uno sposo al suo popolo, il deserto: ecco la attirerò a me nel deserto e parlerò al suo cuore (Os 2,16).
E nel deserto di Giuda la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccarìa (v.
2).
Chi parla attraverso la sua voce è la Parola.
Quando la Parola si renderà visibile, la voce scomparirà.
La parola non è solo un grido, una chiamata a conversione, ma essendo parola (dabar) di Dio incomincia già a sentirsi la sua efficacia.
Il brano infatti termina con una inclusione dicendo: ogni uomo vedrà la salvezza di Dio (v.
6).
    È l’esperienza più stupefacente, che aveva fatto la comunità cristiana primitiva, di vedere risplendere la vita e l’immortalità mediante l’annuncio del vangelo (cfr.
2Tim 1,10).
Era un annuncio itinerante come quello di Giovanni che percorse tutta la regione del Giordano (v.3).
Si concretizzava nella discesa delle acque del Giordano, significato dal fonte battesimale.
Lì si lasciava il corpo del peccato e avveniva una reale conversione perché sorgeva una creatura nuova, che il battesimo di Giovanni prometteva.
È una salvezza che ogni uomo vedrà (v.
6).
È a disposizione di tutti gli uomini, non solo degli ebrei.
Tutti allora sono invitati a preparare la via del Signore (v.
4).
Questa strada non è materiale ma una via interiore attraverso la quale il Verbo di Dio, possa entrare dentro l’uomo e prendere il suo posto nel suo cuore.
  Meditazione      «Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!» (Lc 3,6).
     L’antico annuncio del profeta Isaia, così universale da apparire generico, così radicalmente esistenziale e teologico da sembrare fiabesco, dopo secoli viene ribadito e nuovamente proclamato da Giovanni Battista.
Soprattutto viene storicizzato e reso contemporaneo, mettendolo in relazione con luoghi e figure di una scena per nulla religiosa, che, da remotamente locale, si apre e vuole interessare la terra intera.
Ma qualcosa che sembra avvenire, risuonare in uno sperduto deserto, può – e deve – avere ricadute perfino sul titanico e onnipresente/onnipotente impero romano? L’impalpabilità e leggerezza di una voce – questo il fatto annunciato – può giungere fino all’orecchio dell’imperatore e osar pretendere di cambiargli la vita?      A essere onesti, sì, di cose del genere ne possono succedere – e succedono! – anche ai giorni nostri.
La speranza di un’umanità senza distinzioni di sesso e di razza e che vive nella giustizia, speranza antica quanto il mondo ma riformulata da un Martin Luther King o da un Ghandi, è arrivata fin dentro stanze ovali ed è riuscita a superare l’invalicabile sbarramento di uffici e segreterie che difendono i potenti della terra (non chiamiamo grandi quanti sono spesso solo più forti economicamente e militarmente!).
E certamente la forza di quella parola qualcosa ha fatto, ha segnato lo sviluppo delle vicende storiche, anche su scala mondiale, universale.
Ha operato nel profondo.
E val la pena ricordare che è certamente più difficile cambiare il cuore di un solo uomo che compiere qualsiasi mirabolante impresa astronomica, architettonica, politica o militare…
     Questa Parola, questa voce può sperare di ottenere questo risultato perché viene dal profondo, dall’alto, da Dio.
Prende sempre carne in uomini attenti, vigili e disponibili, non teme di mescolarsi ad altre voci richiamando ogni uomo alla sua responsabilità di scelta, fa affidamento solo sull’autorevolezza della propria sapiente verità.
Ma quale dunque il contenuto di questa discreta eppur energica Parola? Il suo involucro esterno potrebbe spaven-tare ogni ‘amante delle alture’: chiede infatti che «Ogni monte e colle siano abbassati», per poi proseguire «Le vie tortuose diverranno diritte e quelle impervie spianate» (Lc 3,5).
Il senso autentico di queste strane parole non è certo da ricercarsi in ambito geologico/stradale ma ci è ben ritradotto dall’orazione della colletta eucaristica: «O Dio grande nell’amore, che chiami gli umili alla luce gloriosa del tuo regno, raddrizza nei nostri cuori i tuoi sentieri, spiana le alture della superbia, e preparaci a celebrare con fede ardente la venuta del nostro salvatore, Gesù Cristo tuo Figlio».
     Un invito, quindi, a farci, come Giovanni, maggiormente attenti ai desideri più profondi della nostra esistenza ma, al contempo, anche ai segni dei tempi, alle vicende storiche che attraversano in modo apparentemente casuale la nostra vita.
C’è infatti il rischio di lasciarsi passare sotto gli occhi una grande occasione perché si sta guardando altrove e si sta attendendo altro.
Il profeta Baruc, nella prima lettura, richiama la città di Gerusalemme ad abbandonare lo stato di prostrazione e lamento che la affliggono per aprirsi alla speranza: «Dio mostrerà il tuo splendore ad ogni creatura sotto il cielo» (Bar 5,3).
Ma la città santa deve mettersi nella posizione, nella condizione della sentinella, che guarda e aspetta di vedere il ritorno glorioso dei propri figli, dispersi e incalzati dai nemici (cfr.
Bar 5,5-6).
Non sarà lei a riportarli in patria, saranno «la misericordia e la giustizia che vengono da Dio» (Bar 5,9) ad operare tale meraviglia.
Ma sperare e domandare, cercare e attendere allargando il cuore è compito dell’uomo.
     Il periodo liturgico dell’Avvento è tempo di meditazione, di sollecitazione alla profondità, a ritrovare i grandi desideri che abitano la nostra vita e che la parola di Dio ci allarga e concretizza ancor più.
Per tutti possiamo e dobbiamo sperare, a tutti dobbiamo rilanciare la fiducia per un orizzonte più vero e autentico.
«Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!» (Lc 3,6).
         Preghiere e Racconti   Giovanni Battista Identificare Giovanni Battista con l’Avvento risulta ovvio, considerato il soprannome di Precursore attribuitogli dalla Scrittura stessa, con il quale siamo soliti definirlo.
I tre sinottici -Mt 11,10; Mc 1,2-3; Lc 3,4- gli applicano la profezia di Isaia: «Ecco io mando davanti a te il mio messaggero che preparerà la tua via davanti a te…
Una voce grida: Nel deserto preparate la via al Signore » (Is 40,3).
Nel caso di Matteo è lo stesso Cristo che, esaltando la figura del Battista, gli applica la profezia; l’evangelista Giovanni, che predilige il linguaggio simbolico, lo definisce «testimone della luce» (Gv 1,7-8).
Non ci deve pertanto stupire che in questo tempo di preparazione la liturgia ci proponga la figura e il messaggio di Giovanni Battista in tutti i vangeli della seconda e terza domenica di Avvento, in tutti giorni della terza settimana e nei giorni immediatamente precedenti la venuta del Signore.
Il personaggio Luca ci racconta con molti particolari l’annuncio solenne della nascita di Giovanni.
Come dice A.
Nocent: «Così Dio vuole sottolineare che egli stesso prende l’iniziativa della salvezza del suo popolo.
Egli stesso sceglie gli strumenti e se ne serve a modo suo.
L’annuncio della nascita di Giovanni è solenne: esso avviene nell’inquadratura liturgica del tempio.
Fin dalla designazione del nome del bambino, “Giovanni”, che significa: “Dio è favorevole”, tutto diventa una precisa preparazione divina dello strumento che il Signore si è scelto.
Il suo arrivo non passerà inavvertito e la sua nascita sarà accolta con gioia da molti (Lc 1,14).
Sarà un uomo consacrato e, come prescrive il libro dei Numeri (6,1), si asterrà dal vino e dalle bevande inebrianti.
Il nazireato è già segno della sua vocazione di asceta.
Lo Spirito abita in lui dal seno di sua madre.
Alla vocazione di asceta si aggiunge quella di guida del popolo (Lc 1,17).
Egli precederà il Messia, funzione che Malachia attribuiva a Elia (3,23).
Nella sua circoncisione un fatto significativo indica ancora la scelta divina: nessuno nel suo parentado porta il nome di Giovanni (Lc 1,6), ma il Signore vuole che sia chiamato così, sconvolgendo le usanze.
È il Signore che lo ha scelto, è lui che dirige il gioco e conduce il suo popolo».
L’incontro fra Giovanni e Gesù, tra il Precursore e il Salvatore, avviene già prima della nascita.
È l’unione tra i due Testamenti, nel momento in cui l’Antico lascia il passo al Nuovo.
Al significativo particolare dell’annuncio delle loro nascite, si aggiunge l’incontro nel seno materno, quando Maria visita Elisabetta e la creatura di questa le salta di gioia nel grembo (Lc 1,39-45).
Gesù causa gioia, Giovanni la riceve.
Le loro madri, partecipi della gioia, intonano ognuna un canto di lode.
Elisabetta si rivolge alla madre del suo Signore, dichiarandola benedetta tra tutte le donne; Maria, riprendendo le promesse fatte ad Abramo e alla sua discendenza, proclama la grandezza del Signore e si rallegra in Dio, suo salvatore (cf.
Lc 1,46-56).
Abbiamo una stretta consonanza anche nella designazione divina dei loro nomi e nell’accostamento dei loro significati: favore di Dio, salvezza di Dio; nei cantici profetici di Zaccaria e di Simeone, quando i bambini saranno circoncisi.
La consonanza si farà abbraccio nel passaggio da un’èra all’altra in occasione del battesimo di Gesù da parte di Giovanni; e si farà abbraccio di congedo quando, dopo aver indicato Gesù come «l’Agnello di Dio colui che toglie il peccato del mondo» (Gv 1,29), Giovanni riconosce umilmente: «Egli deve crescere e io invece diminuire» (Gv 3,30).
Dopo averci offerto tanta abbondanza di particolari sulla sua nascita, i vangeli non ci parlano più di Giovanni Battista fino al battesimo di Gesù.
Alcuni autori avanzano congetture e supposizioni a questo proposito: che si fosse formato in una delle comunità di vita ascetica del deserto (gli esseni) e che alcuni membri di tali comunità lo avessero seguito come discepoli per iniziare la sua predicazione…
I vangeli lo presentano mentre predica la conversione secondo la missione profetica che gli era stata affidata.
Ci offrono alcuni dettagli (per esempio Mt 3,1-12) dai quali deduciamo la sua personalità: vita austera, penitente, radicale; uomo sincero e incorruttibile, esigente e coerente.
L’abbigliamento, il cibo, il modo di parlare ci rivelano la figura del profeta di vecchio stampo.
Punto di contraddizione, trascinerà masse di persone semplici in sincera ricerca, ma si scontrerà con l’opposizione delle classi privilegiate, che vedevano vacillare la loro posizione, se le dure denunce di Giovanni, tanto scarne quanto giuste, avessero sortito il loro effetto.
La fine del Battista, la decapitazione, ne è una drammatica testimonianza (Mc 6,17-29).
Nessun altro personaggio ha avuto il privilegio che egli ottenne, dal momento che Gesù stesso gli dedicò un panegirico: « Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Che cosa dunque siete andati a vedere? Un uomo avvolto in morbide vesti? Coloro che portano morbide vesti stanno nei palazzi dei re! E allora che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, vi dico, anche più di un profeta.
Egli è colui, del quale sta scritto: “Ecco, io mando davanti a te il mio messaggero che preparerà la tua via davanti a te”.
In verità vi dico: tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista; tuttavia il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui» (Mt 11,2-11; Lc 7,24-30).
Proprio queste parole di Gesù, che riassumono ed esaltano la figura di Giovanni, ci danno l’occasione di addentrarci nella descrizione della missione a lui affidata.
  La sua missione Gesù non poteva essere più esplicito nell’applicare a Giovanni le parole del profeta: «Ecco, io mando davanti a te il mio messaggero».
Giovanni Battista è il segno dell’irruzione di Dio in mezzo al suo Popolo.
Come aveva proclamato il padre Zaccaria intonando il Benedictus (Lc 1,67-69), il Signore visita e redime il suo popolo realizzando le promesse.
Egli è il Precursore e il suo ruolo è «preparare la via al Signore».
Il compimento di questa missione si riassume a sua volta nella frase che i vangeli ricordano come inizio della sua predicazione: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!».
Ma, per quanto importante, la missione di Giovanni non finisce qui, bensì raggiunge il suo punto culminante nel duplice incontro che abbiamo citato prima: il battesimo di Gesù e la designazione di Cristo da parte di Giovanni come l’Agnello di Dio.
Dicevamo che è l’incontro e il passaggio da un’alleanza all’altra.
Il battesimo di Giovanni era battesimo di acqua in segno di penitenza per i propri peccati.
Quello di Gesù sarà un battesimo «in Spirito Santo e fuoco» (Mt 3,1-12): brucerà il peccato, ma anche la morte, sua nefasta conseguenza; sorgerà la nuova luce e lo Spirito infonderà la vita nuova.
Coloro che rinasceranno a questa vita rinasceranno alla vita stessa di Dio, saranno fratelli di Cristo e partecipi del suo trionfo e della sua risurrezione.
In questo senso Gesù diceva che «il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui (Giovanni)» (Mt 11,11).
Questo aspetto viene simboleggiato, con le rispettive differenze, dalle date che la liturgia segnala per la nascita di Gesù e di Giovanni.
Da una parte i due personaggi, strettamente uniti, che dividono in due il calendario coincidendo con i solstizi d’inverno (25 dicembre) e d’estate (24 giugno).
Dall’altra Giovanni, come luce splendente dell’Antico Testamento, ha la sua festa nel giorno più lungo dell’anno.
Tuttavia non può riuscire a dominare la notte; egli non è la luce ma il testimone della luce (Gv 1,8).
Domani la notte comincerà a essere un po’ più lunga di oggi, sempre un po’ di più…
fino alla notte di Natale, la più corta.
Si direbbe che le tenebre abbiano vinto, ma non è così.
Cristo nasce oggi.
Egli è la luce, il nuovo sole e perciò domani il giorno sarà un po’ più lungo, un po’ di più…
e la luce vincerà le tenebre.
Anche l’altro momento è particolarmente significativo.
«In modo ancora più positivo – dice A.
Nocent – Giovanni dovrà indicare colui che è già presente ma che ancora non si conosce (Gv 1,26) e che egli addita quando lo vede venire da lui: “Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29).
Giovanni corrisponde e vuole corrispondere a ciò che è stato detto di lui e predetto per lui.
Deve testimoniare che il Messia è presente.
Il modo con cui lo indica già esprime ciò che il Cristo rappresenta per lui: è “l’Agnello di Dio”.
Il Levitico nel capitolo 14 descrive l’immolazione dell’agnello in espiazione dell’impurità legale.
Leggendo questo passo, san Giovanni evangelista pensa al servo del Signore descritto da Isaia nel capitolo 53 e che porta su di sé i peccati d’Israele.
Giovanni Battista, indicando il Cristo ai suoi discepoli, già lo vede come la vera Pasqua che supera quella dell’Esodo (12, 1) e dalla quale l’universo otterrà la salvezza».
A partire da questo momento si mette in disparte.
Non si tratta di una minuzia: è una parte altrettanto fondamentale della sua missione con un messaggio molto concreto.
  Il suo messaggio Il messaggio di Giovanni Battista costituisce la parte fondamentale dell’Avvento: «Preparate la via al Signore».
I punti specifici e la concretezza di tale messaggio si trovano sviluppati nella seconda e terza domenica, nella terza settimana e nei giorni 19, 21, 23 e 24 dicembre.
Se volessimo esporli, dovremmo rifarci alle pagine corrispondenti; per il momento ci limiteremo a presentarne un riassunto.
1) Convertitevi.
È l’obiettivo da raggiungere, con quanto la conversione comporta come mutamento di mentalità alla luce della parola di Dio e come adeguamento dei nostri criteri a quelli del Signore; insieme a un cambiamento del cuore, perché i nostri atteggiamenti e comportamenti siano quelli che esige il regno di Dio e che Cristo viene a stabilire come regno di salvezza.
Il momento culminante di questo processo dovrebbe essere costituito dalla celebrazione della penitenza.
2) Atteggiamento penitente.
Non si tratta tanto di fare penitenze e sacrifici, quanto di adottare l’austerità, la sobrietà e la semplicità come forma di vita.
Dominare quanto ci porta a eccedere nelle abitudini e nei costumi, come negli atteggiamenti e nei comportamenti, sarà la miglior penitenza per appianare i sentieri.
3) Sincerità, autenticità.
Il Battista è durissimo nel denunciare l’ipocrisia dei farisei e dei sadducei, come poi lo sarà il Signore.
Annuncia che Dio userà la scure con «ogni albero che non produce frutti buoni», che sarà «tagliato e gettato nel fuoco»; e con il «ventilabro pulirà la sua aia e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma brucerà la pula con un fuoco inestinguibile» (Mt 3,10.12).
4) Frutti della conversione.
In positivo, la condivisione: «Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto» (Lc 3,11).
Sempre in positivo, anche se espressa negativamente, l’onestà («Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato», Lc 3,13) e la giustizia («Non estorcete niente a nessuno» Lc 3,14).
Tuttavia, oltre al messaggio espresso in parole, Giovanni Battista ne trasmette uno eloquente attraverso due modi di operare, frequentemente presentati come aneddoti.
a) Fede Purificata nella Prova.
Quando Giovanni invia i suoi discepoli a chiedere a Gesù: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?» (Mt 11, 3) sta pensando alla prova di fede cui si vede sottoposto.
Gli schemi mentali che aveva concepito riguardo al Messia non corrispondono a ciò che raccontano di Gesù di Nazaret.
Infatti dicono che non condanna ma perdona; non è implacabile ma comprensivo; non impone ma invita; non abbatte come un giustiziere ma ama fino alla tenerezza.
Allora Giovanni cerca, chiede, consulta…
e accetta i piani di Dio che non coincidono con i suoi.
Una grande lezione di fede e un buon sostegno per la fede dei discepoli.
b) Testimonianza sino alla fine.
Non ci riferiamo alla sua morte che è solo il sigillo finale.
La firma l’aveva messa prima, accettando la conclusione del suo ruolo.
«Compito difficile -continua A.
Nocent- quello di essere presente al mondo, fermamente presente fino al martirio, come Giovanni, e non mettere davanti un’istituzione invece della stessa persona di Cristo! Ruolo missionario sempre difficile quello di annunciare la buona novella e non una razza, una civiltà, una cultura, un paese: “Egli deve crescere e io diminuire” (Gv 3,30).
Annunciare la buona novella e non una determinata spiritualità, un certo ordine religioso, un certo movimento cattolico speciale, una certa chiesuola; come Giovanni, mostrare ai nostri discepoli dove sta per essi “l’Agnello di Dio”, e non impossessarsene, come se dovessimo essere noi stessi la loro luce».
Certo, deve essere difficile accettare e compiere questa missione, e infatti alcuni discepoli di Giovanni costituirono comunità proprie e si opposero alle prime comunità cristiane.
I vangeli, che riflettono i problemi delle comunità apostoliche, ci offrono vari indizi di questa opposizione.
Per esempio la domanda sul perché i discepoli di Giovanni digiunavano e quelli di Gesù no.
Deve essere molto difficile saper restare al proprio posto, poiché la Chiesa di oggi è piena di protagonismi e persino di settarismi, che non assomigliano in nulla alla testimonianza di Giovanni né all’atteggiamento evangelico.
  Le parole dell’Avvento A) Deserto e fiume Se il deserto è il luogo dell’intimità con Dio, della prova, della purificazione, dell’abbattimento degli idoli, viverne la spiritualità, oggi, deve comportare tante conseguenze: non lasciarci prendere dall’affanno delle cose; non sprofondare nello scoraggiamento quando si sperimenta l’aridità e la fatica nel quotidiano, con tutte le sue tentazioni; abbattere i piccoli idoli che abbiamo eretto, forse anche accanto alla croce, nel santuario della nostra coscienza.
E se il fiume, nella simbologia biblica, indica la salvezza che straripa provocando novità di vita, sarebbe opportuno chiederci se noi da queste acque ci lasciamo appena lambire, rimanendo a mezza costa o sul greto, sedotti magari solo dalla curiosità, oppure ci siamo decisi cordialmente a «entrare nel fiume».    B) Parola e voce   II Battista, definito semplice voce di colui che verrà dopo e che sarà la Parola, deve provocare, in noi, una conversione all’umiltà, alla coscienza del limite, al rifiuto di ogni arrogante prevaricazione.
Noi siamo i servi della Parola.
Le prestiamo vibrazioni e risonanze.
La portiamo lontano e le    diamo cadenze di attualità.
Ma la Parola è Cristo.
È lui che giudica e che salva.
Forse la considerazione della nostra semplice strumentalità, oltre che spingerci all’approfondimento della Parola che poi, come credenti in Gesù, dobbiamo rivestire di voce, potrebbe riscattarci anche da non pochi abusi di potere.
  C) Denuncia e proposta Lo stile di Giovanni che rimprovera gli ebrei e, ricorrendo al vocabolario più duro, ne sferza la cattiva condotta di vita, potrebbe fuorviarci, se non tenessimo presente che, nel suo messaggio, accanto alla denuncia si colloca l’annuncio, con una incredibile forza propositiva.
«Razza di vipere», sì.
Ma anche: «Convertitevi», «Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri: il regno dei cieli è vicino» (Mt3, 3).
Ci sarebbe da chiedersi se anche nelle nostre comunità cristiane lo sbilanciamento sui versanti della denuncia, che per altro non ha molto bisogno di inventiva, non debba essere ricondotto a più maturo equilibrio mediante proposte positive, incoraggianti, che facciano appello alle risorse della speranza.
Sarebbe ben triste che scambiassimo la profezia con l’esercizio del brontolare cronico, dimenticando che essa è danza più che lamento.
  D) Acqua e fuoco «Io vi battezzo con acqua…
egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco» (Mt 3, 11).
È molto significativo che già lo Spirito Santo venga insediato al centro dell’economia di salvezza.
Non è raro, infatti, che il Natale venga percepito come espressione del protagonismo solo del Padre e del Figlio, rimandando quasi una più seria presa in considerazione dello Spirito Santo al periodo di Pentecoste.
Non c’è nulla di più deleterio di questa visione.
Non sarebbe fuori posto oggi buttare lì, come una pietra nello stagno, una domanda a bruciapelo: che cosa significa per noi credenti fermarsi all’acqua di Giovanni?   E) Grano e pula Non è esercitare forme di ricatto o di terrorismo spirituale, su di sé o sugli altri, se oggi ci chiediamo qual è la percentuale della crusca nel frumento della nostra esistenza.
E non è neppure dare sfogo all’ingenuità se ci si esercita in una specie di bilancio di previsione, pensando a quale sarà la crusca della nostra vita che il Signore un giorno brucerà e a quali saranno i chicchi di grano lucente che egli riporrà nei suoi granai.
È solo il tentativo di chi vuol tradurre in spessore di concretezza l’invito alla conversione.
(Don Tonino Bello, Avvento.
Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 61-66).
Il cristiano è un prigioniero Il cristiano è un prigioniero.
Prigioniero di una vita: la vita di Cristo.
Non è il propagandista di un’idea, ma il membro di un corpo che vive e che vuole crescere.
Prigioniero di un pensiero: non è un libero pensatore, né il propagandista di un’idea, ma la voce di un altro: “la voce del Padrone”.
Prigioniero di uno slancio: di un desiderio a misura di Dio, che vuole salvare ciò che è perduto, guarire ciò che è malato, unire ciò che è separato, perpetuamente ed universalmente.
Essere cristiano è essere prigioniero di uno stato di fatto, prigioniero di dimensioni che da ogni lato non sono più le nostre, prigioniero, se posso dire, di una libertà che ha scelto in anticipo per noi.
È in questa cattività che il missionario deve annunciare il Cristo che egli vive, annunciare un messaggio che ha ricevuto e che non deve modificare; trasmettere una salvezza che non viene da lui e che ha la misura del mondo intero.
Quel Cristo che egli vive, non può modificarlo.
Ne è prigioniero.
Quel messaggio, non può modificarlo.
Ne è prigioniero.
Quella salvezza non può restringerla.
Ne è prigioniero.
(Madeleine DELBRỆL, Noi delle strade, Milano, Gribaudi, 2008, 19-20).
  La strada ….La strada non è luce, è la speranza della chiarezza; non è fiamma prima, è promessa di verità.
  È il termine dell’attesa, l’eternità dello sforzo: la fine della strada che sale, è il passaggio della morte.
  (Madeleine DELBRỆL, Noi delle strade, Milano, Gribaudi, 2008, 16).
Preghiera della seconda domenica di avvento Ci riunisci con la tua Parola, Signore dei secoli, Dio eterno.
Rivolgi verso di te i nostri occhi distratti, affinché al termine del cammino possiamo vedere levarsi la luce del tuo Figlio Gesù Cristo.
  Riempici, o Signore, della forza del tuo Spirito affinché possiamo rispondere alla voce che grida nel deserto e preparare il cammino di colui che sta, sconosciuto, in mezzo a noi, di colui che viene,                                                Gesù, tuo Figlio e nostro fratello.                                      * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo D’Avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
68.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– Don Tonino Bello, Avvento e Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.