La Sindone dal 1992 a oggi

Nel 1992 l’arcivescovo di Torino e custode pontificio della Sindone, il cardinale Giovanni Saldarini, nominò una commissione scientifica internazionale composta da alcuni tra i maggiori esperti di tessuti antichi e da eminenti studiosi, con l’incarico di avviare un ampio e articolato piano di studio per affrontare e risolvere il delicato e importante problema della conservazione della Sindone.
I lavori ebbero inizio nel 1992 con un’ostensione privata alla presenza della commissione e si conclusero nel 1996 con la consegna alla Santa Sede, proprietaria della reliquia, di una relazione finale.
In tale relazione la commissione di esperti faceva il punto sullo stato di conservazione della Sindone e suggeriva una serie di indicazioni e condizioni irrinunciabili per la sua conservazione ottimale che si possono così riassumere: a) la Sindone deve essere conservata in posizione distesa, piana e orizzontale.
b) La Sindone deve essere liberata dagli accessori che servivano alle vecchie modalità di conservazione e di ostensione, ovvero il cilindro di legno, il telo rosso che la ricopriva quando veniva arrotolata, il nastro di seta azzurra cucito lungo il perimetro e le bandelle d’argento cucite all’interno del nastro azzurro lungo i due lati più corti.
c) La Sindone deve essere conservata in una teca di vetro antiproiettile, a tenuta stagna, in assenza di aria e in presenza di un gas inerte, al fine di interrompere il progressivo ingiallimento del tessuto dovuto al naturale processo di ossidazione e che è responsabile della progressiva riduzione di visibilità dell’immagine.
La teca deve essere protetta dalla luce e mantenuta in condizioni climatiche (pressione, temperatura, umidità, e così via) costanti.
d) È necessario studiare a fondo il problema dell’eventuale sostituzione del telo d’Olanda con un nuovo telo e dell’eventuale asportazione o sostituzione dei rattoppi per migliorare le condizioni di conservazione.
Poco mancò che tutti questi studi si rivelassero vani, in quanto il 12 aprile dell’anno successivo un terribile incendio danneggiò seriamente la cappella della Sindone.
Fortunatamente il lenzuolo, che era stato spostato nel duomo per permettere i restauri della cappella stessa, fu risparmiato sia dal fuoco, sia dall’acqua, sia dai crolli di materiale.
Le indicazioni suggerite dalla commissione imponevano ovviamente una modalità di conservazione radicalmente diversa da quella utilizzata negli ultimi tre secoli – l’arrotolamento su di un cilindro – e soprattutto la necessità di costruire una teca di dimensioni ben maggiori.
L’intera operazione si presentava naturalmente molto complessa e delicata poiché numerose erano le difficoltà da superare tanto in fase progettuale quanto in fase esecutiva.
Nonostante le non poche difficoltà incontrate, la costruzione della teca fu completata nei tempi previsti e il 17 aprile 1998 la Sindone venne per la prima volta ospitata nella nuova teca e in essa esposta al pubblico durante l’ostensione tenutasi in quell’anno.
La teca è un parallelepipedo dal peso di 2.500 chilogrammi, le cui superfici laterali e inferiore sono realizzate con un doppio strato di acciaio balistico e la cui superficie superiore è fatta di uno spesso vetro laminato a prova di proiettile.
La teca è sorretta da un carrello mobile che consente di effettuare gli spostamenti e le rotazioni necessarie in occasione delle ostensioni.
All’interno della teca la Sindone è cucita su di un mollettone non trattato e appoggiata su di un supporto di alluminio scorrevole su rotaia.
Al termine dell’ostensione del 2000 la Sindone fu trasferita dalla teca utilizzata per le ostensioni in una nuova teca, più leggera e maneggevole, destinata alla conservazione ordinaria.
All’interno della teca a tenuta stagna è stata introdotta una miscela di argon (99,5 per cento) e di ossigeno (0,5 per cento).
La presenza di un gas inerte come l’argon – che non reagisce con i più comuni elementi chimici – miscelato a una piccola quantità di ossigeno è indispensabile per impedire lo sviluppo di batteri sia aerobici che anaerobici e, come si è detto, per interrompere il progressivo ingiallimento del tessuto.
La nuova teca è provvista di un sistema di controllo della pressione interna costituito da una batteria di soffietti mobili (posizionati al di sotto della teca) che garantiscono un costante equilibrio tra pressione interna ed esterna alla teca, necessario per evitare rischi di rotture del vetro.
Al termine di una lunga e delicata fase di preparazione, il 20 giugno 2002 ebbe inizio l’ultima fase dei lavori, consistente in un importante e indispensabile intervento di restauro conservativo che si concluse il successivo 23 luglio.
Sotto la guida di Mechthild Flury Lemberg, esperta di fama internazionale di restauri di tessuti antichi, la Sindone venne scucita dal vecchio telo d’Olanda e successivamente furono scucite tutte le toppe al di sotto delle quali fu trovata una notevolissima quantità di materiale inquinante – costituito soprattutto da residui di tessuto carbonizzato durante l’incendio di Chambéry e polverizzatosi durante i secoli successivi – che costituiva ovviamente un notevole rischio per la conservazione del tessuto sindonico.
Tale materiale fu asportato, raccolto in appositi contenitori sigillati, catalogato e consegnato al cardinale Severino Poletto, arcivescovo di Torino e custode pontificio della Sindone Prima di provvedere alla cucitura di un nuovo telo di sostegno sul retro della Sindone venne effettuato un completo rilievo fotografico e tramite scanner, oltre a rilievi fotografici in fluorescenza e registrazioni spettroscopiche Uv-Vis e Raman a diverse lunghezze d’onda in siti con diverse caratteristiche – al di sotto di siti senza immagine, con la sola immagine, con il solo sangue, con sangue e immagine, e così via.
Fu inoltre effettuata un’analisi microscopica in alcuni siti con l’utilizzo di un videomicroscopio con ingrandimenti.
Infine vennero inoltre effettuati, sempre sul retro, alcuni prelievi microscopici con i metodi della suzione e del nastro adesivo.
Tutti i dati ottenuti e il materiale raccolto furono consegnati al custode pontificio della Sindone e, se e quando la Santa Sede lo riterrà opportuno, potranno essere messi a disposizione degli scienziati per studi e ricerche.
L’esame del retro della Sindone – rimasto coperto, e quindi non visibile, dal 1534 al 2002 – permise di confermare pienamente l’ipotesi avanzata nel 1978 dagli scienziati dello Sturp relativa al fatto che sul retro appaiono ben evidenti le macchie di sangue presenti sulla faccia visibile della Sindone, mentre è assente ogni traccia dell’immagine corporea perché possiede uno spessore solo di qualche centesimo di millimetro.
La Sindone è stata poi ricucita su di un nuovo telo di supporto, anch’esso tessuto in Olanda e preventivamente testato e analizzato per garantirne le caratteristiche chimico-fisiche.
Infine i bordi delle bruciature furono cuciti al nuovo telo d’Olanda in quanto si è ritenuto non più necessario coprirli con nuove toppe, sia perché la Sindone è ora conservata completamente distesa in posizione orizzontale e quindi non più sottoposta a tensioni meccaniche, sia per rendere del tutto visibili l’immagine sindonica e le macchie ematiche.
Al termine dei lavori la Sindone è tornata nella sua teca, nel transetto sinistro della cattedrale di Torino, protetta e monitorata da sistemi moderni e sofisticati.
Il futuro della ricerca sul misterioso lenzuolo è stato tracciato dal simposio “La Sindone: passato, presente e futuro” svoltosi a Torino nel 2000, che ha visto la partecipazione, su invito, di 40 tra i maggiori esperti a livello internazionale di studi sulla Sindone e dei campi di ricerca a essa connessi, provenienti da dieci Paesi.
Al termine del simposio è stato deciso di raccogliere nuove proposte di ricerca al fine di avviare nuovi studi e una raccolta di nuovi dati.
Negli anni successivi al simposio sono pervenute a Torino, da scienziati di tutto il mondo, nuove proposte e progetti di ricerca che sono stati sottoposti all’esame di una commissione internazionale di esperti, per valutare la possibilità di avviare una nuova campagna coordinata di studi e di ricerche.
Al momento attuale tutto il materiale raccolto è stato consegnato alla Santa Sede.
Sarà la Santa Sede, proprietaria della Sindone, a decidere se e quando avviare una nuova campagna di ricerche dirette.
La nuova e affascinante sfida che la Sindone lancia alla scienza per il nuovo millennio è già iniziata.
di Bruno Barberis e Gian Maria Zaccone ”Muoio, dice il Signore, per vivificare tutti per mezzo mio”.
Queste parole, che un Padre della Chiesa, san Cirillo d’Alessandria, s’immaginava sulla bocca di Cristo, suggeriscono il vero significato della Santa Sindone nella vita della Chiesa: non tanto una reliquia di sofferenza e mortalità, ma il segno della vittoria: della tomba vuota, del sudario abbandonato, della vita che trionfa sulla morte.
Tale vittoria coinvolge poi ogni uomo, non solo il Salvatore: “Con la mia carne ho redento la carne di tutti”, prosegue Cristo nel testo di san Cirillo, spiegando che “la morte infatti morrà nella mia morte e la natura umana, che era caduta, risorgerà insieme con me”.
Questa universale e definitiva vittoria è visualizzata in un capolavoro del Rinascimento d’oltralpe: un pannello dell’altare di Isenheim, opera del tedesco Matthias Grunewald, dove Cristo esplode dal sepolcro ancora avvolto dalla Sindone, la quale viene gradualmente impregnata della sua nuova condizione, colorata dalla luce che lo circonda.
In questa composizione divisa in due parti, Cristo risorto in alto e i soldati messi a sorvegliare il sepolcro sotto di lui, è infatti la Sindone a collegare la terra e il cielo; e laddove nella parte inferiore i militi sono supini o curvi – intorpiditi dal sonno e spaventati – in alto Cristo sorge eretto e libero, il suo corpo nudo sotto la Sindone sciolta mentre le guardie rimangono imprigionate nelle pesanti armature; libero è anche il volto del salvatore – schietto e gioioso – in contrasto alle facce coperte e ombreggiate delle guardie.
Numerosi dettagli, e soprattutto le armi inutilmente impugnate dai militi evocano lo scontro celebrato nell’antica sequenza pasquale, dove si narra che “morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello.
Il Signore della vita era morto, ma ora, vivo, trionfa”.
Gonfalone e reliquia di questo trionfo è la Sindone.
Il tema della Sindone come reliquia della Pasqua era stato elaborato in un altro dipinto nordico, una Risurrezione attribuita a Michael Wolgemut, trent’anni prima.
Nella versione di Wolgemut, il primo maestro di Albrecht Dürer, l’attenzione viene attirata da affascinanti dettagli: l’alba del nuovo giorno su cui si staglia Gerusalemme, sullo sfondo a destra; nella media distanza, poi, le donne che varcano la soglia del giardino murato; e in primo piano i militi assopiti al piede del sepolcro.
S’impongono tuttavia i due elementi narrativi principali, posti al centro della composizione: il Risorto in piedi davanti alla tomba, con lo scettro in mano e un regale manto scarlatto, e, appena dietro di lui, la Sindone, sistemata da un angelo metà dentro il sepolcro, metà fuori.
Sappiamo che tra pochi istanti Cristo scomparirà e che le donne, arrivando, non lo vedranno più; rimarrà solo la Sindone come testimonianza della sua Risurrezione.
La Sindone – il lungo telo utilizzato per il trasporto e la sepoltura del Salvatore morto in croce – appare soprattutto in raffigurazioni della sua deposizione e del successivo compianto sul cadavere: una tavola dell’olandese Geertgen tot Sint Jans, assai vicino al linguaggio stilistico e allo spirito pietistico della Risurrezione attribuita al Wolgemut, illustra bene quest’uso iconografico.
La stoffa bianca su cui il corpo rigido di Gesù è steso, alla stregua della corona di spine e dei chiodi disposti appena sotto di essa, viene presentata come veneranda reliquia del sacrificio della croce; Golgotha, luogo del sacrificio, di fatto è visibile sopra il gruppo costituito da Cristo morto e Maria.
Questa immagine suggerisce poi un’altra dimensione di significato della Sindone.
La tavola di Geertgen è quanto rimane di un grande trittico descritto nelle fonti antiche: una pala d’altare databile intorno al 1484, la cui immagine centrale era la Crocifissione, mentre quella a sinistra rappresentava forse la Via Crucis, e quella a destra il Compianto.
Tale programma iconografico serviva da sfondo per l’Eucaristia, celebrata davanti a queste raffigurazioni del sacrificio fisico del Salvatore, e il telo bianco steso sotto il corpo di Cristo nella tavola era pertanto visto appena sopra l’altare rivestito di un analogo tessuto bianco, la tovaglia su cui il sacerdote pone il Corpus Domini sacramentale: l’ostia consacrata.
Nella simbologia liturgica medievale, l’altare era infatti considerato simbolo del sepolcro, e le “deposizioni” ed “elevazioni” dell’ostia immagine del corpo storico di Gesù tra Venerdì Santo e Pasqua.
La stessa mistica allusione all’altare eucaristico è presente in una piccola tavola del Beato Angelico, dove i temi di compianto e sepoltura, sovrapponendosi e fondendosi, suggeriscono un’adorante “comunione spirituale” che è anche un addio.
Il cruciforme corpo di Cristo, sostenuto da Nicodemo, Maria e Giovanni, il discepolo diletto, è poi avvolto nella lunga Sindone che, sull’erba fiorita del giardino, diventa un perfetto rettangolo di stoffa bianca evocante la tovaglia della mensa eucaristica.
Pure in questo caso l’opera era infatti parte di una pala d’altare – il pannello centrale della predella – e anche qui la tovaglia bianca sulla mensa era visibile pochi centimetri sotto la Sindone raffigurata e della stessa forma.
Quest’immagine era al centro della predella della celebre pala angelicana per la chiesa fiorentina di San Marco, oggi conservata nell’attiguo convento domenicano diventato museo.
Leggendo dall’alto verso il basso si capiva quindi che Cristo era prima nato, poi morto e successivamente sepolto; l’elevazione dell’ostia dalla tovaglia-sindone, alla consacrazione della Messa, avrebbe sottolineato che Egli era anche, infine, risorto.
E la stoffa bianca della Sindone raffigurata nella predella – sotto la tavola grande e sopra l’altare – diventava anche allusione al “velo della carne” avuto dalla madre – il velo con cui Gesù Cristo nascose la sua divinità e s’immolò.
Il collegamento tra la Passione del Salvatore e la sua Natività è antico nell’iconografia cristiana, come suggerisce un’opera palestinese del VI secolo, il coperchio di una teca per reliquie.
Il soggetto principale è la Passione, e al centro vediamo Cristo che stende le braccia tra i due ladri, il suo corpo così grande da quasi occultare la croce stessa.
Ma l’anonimo artista ha inserito la crocifissione tra altri momenti della Vita Christi, così che l’immagine si presenta come un sunto in cui la crocifissione è l’atto dominante, occupando l’intero centro del campo visivo – anzi, configurando la composizione in termini cruciformi.
Ecco allora perché i vangeli e la prima arte cristiana hanno trattato con concisione l’evento della crocifissione in sé, capivano cioè che il senso della crocifissione non era limitato all’evento stesso, ma che sulla croce Cristo aveva portato tutta la sua esistenza passata e futura.
Il legame morte-nascita è ancora più esplicito in uno spettacolare oggetto conservato nel Museo Sacro della Biblioteca Vaticana, la Croce di Papa Pasquale i, un capolavoro di smalto cloisonné su lamina d’oro realizzato forse da un maestro siriaco attivo a Costantinopoli nei primi decenni del IX secolo.
Il programma iconografico è focalizzato sul mistero natalizio ma i sette episodi vengono organizzati nelle braccia e al centro di una croce, così che l’Annunciazione, la Visitazione, la Natività, l’Adorazione dei Magi, la Presentazione al Tempio, la Fuga in Egitto e il Battesimo di Cristo devono essere obbligatoriamente letti tutti in rapporto alla futura crocifissione del Salvatore.
Ciò che abbiamo chiamato “croce” è poi in realtà una stauroteca – un contenitore per frammenti della vera croce – sapendo che l’oggetto conteneva il legno su cui Cristo era morto, il credente contemplava queste scene della sua nascita con profonda commozione; non a caso il centro, corrispondente alla testa di Cristo in un crocifisso, è occupato dalla Natività stessa, col bambino in una mangiatoia, allusione alla futura offerta del corpo di Cristo come alimento.
Lo stesso modo di riassumere in un’unica immagine gli estremi esistenziali dell’umanato Figlio di Dio emerge in una piccola tavola trecentesca dove sono raffigurati sia il neonato Gesù, in basso, che il Vir dolorum, in alto, quasi a conferma dell’affermazione di san Leone Magno, secondo cui “l’unico scopo del Figlio di Dio nel nascere era di rendere possibile la crocifissione.
Nel grembo della Vergine egli assunse una carne mortale, e in quella carne mortale ha compiuto la sua passione”.
L’enfasi delle Scritture e dell’arte sul legame tra la nascita di Cristo e la sua morte ha la funzione di presentare la Passione non come un episodio tragico – una conclusione imprevista e indesiderata del racconto esistenziale di Gesù – bensì come il senso stesso della sua vita, la ragione per cui è venuto nel mondo (cfr.
Giovanni, 19, 37).
Ma la morte di Cristo dà senso anche alle nostre vite, come suggerisce un capolavoro assoluto dell’arte occidentale, la grande pala dipinta da Giovanni Bellini per i francescani di Pesaro negli anni 1470, oggi divisa in due parti: la tavola principale al Museo Civico della città adriatica e la cimasa alla Pinacoteca Vaticana.
Un’immagine drammatica che descrive l’unzione del cadavere di Cristo, tenuto sull’orlo del sepolcro da Giuseppe d’Arimatea, Nicodemo e Maria Maddalena, con la Sindone che gli avvolge le gambe; anche qui, nella sistemazione originale sopra l’altare della chiesa, il significato eucaristico della scena doveva essere evidente.
Ma quest’immagine di Cristo morto sovrastava un’altra, più grande, del Salvatore che, risorto, impone la corona a Maria sua madre.
Il messaggio complessivo riguardava quindi la morte e la risurrezione di Cristo; riguardava anche la risurrezione di Maria, seduta accanto a Cristo, e dei quattro santi intorno al trono: Paolo e Pietro, Girolamo e Francesco.
L’insieme d’immagini rappresenta infatti la meta finale di ogni donna e uomo, la vocazione celeste della carne umana; Maria è l’antesignana di questa “sorte beata”, ma con lei ci sono altri e così capiamo che la nuova condizione del Signore morto e risorto si estende anche a noi.
La bianca Sindone, in alto, che si trasforma in sontuoso abito di festa nella figura di Cristo in basso, diventa metafora della trasformazione della nostra mortalità in quella vita eterna promessa da lui, Cristo.
Piuttosto che “abito di festa” dobbiamo poi dire abito nuziale, perché Chi chiama l’umanità accanto a sé è anche Sposo.
Un analogo livello di interpenetrazione dell’umano col divino traspare in alcune raffigurazioni del Cristo morto dei maestri del Cinquecento.
La prima è un disegno eseguito da Michelangelo Buonarroti per Vittoria Colonna: una Pietà in cui lo stupendo Cristo morto sembra nascere dal corpo della madre.
Maria, seduta sotto la croce dalla quale il figlio è stato deposto, con le mani alzate nel gesto antico di preghiera sembra crocifissa anche lei; figura della Chiesa, supplica il Padre di ridare vita al corpo del figlio, anch’esso figura ecclesiale; la Chiesa che chiede dal cielo la risurrezione della Chiesa, si può dire.
La seconda opera, sempre di Michelangelo e strettamente legata al disegno appena citato, è intensamente personale: la monumentale Pietà di marmo iniziata dal Buonarroti nel 1547 e lasciata incompiuta nel 1555, in cui, nella figura del vecchio che sostiene il corpo di Cristo vediamo l’autoritratto dell’artista.
Secondo i suoi biografi contemporanei, Ascanio Condivi e Giorgio Vasari, Michelangelo intendeva collocare questo gruppo scultoreo sull’altare della cappella in cui pensava di essere sepolto, probabilmente nella basilica romana di Santa Maria Maggiore, servendosene come monumento funebre; esso costituisce pertanto una confessio fidei in cui il committente assume il carattere di un personaggio scritturistico.
In questo caso committente e artista sono la stessa persona, e il “personaggio” assunto ha un significato speciale: Michelangelo si presenta come Nicodemo, il vecchio che “andò da Gesù di notte” per chiedergli “come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?” (Giovanni, 3, 2-4).
Secondo una tradizione popolare diffusa in Toscana, Nicodemo era infatti scultore, autore del Volto Santo di Lucca.
Confrontando questa Pietà scolpita e il coevo disegno per Vittoria Colonna, rimaniamo colpiti dall’evidente rapporto tra le due opere.
Nel disegno e nel gruppo scultoreo, il corpo di Cristo, potente anche nella morte, è sorretto da un personaggio che lo sovrasta e che, all’apice della composizione, diventa interprete del senso spirituale dell’evento.
Ma laddove per Vittoria Colonna l’ “interprete” è Maria (in cui dobbiamo forse vedere un ritratto ideale della devota nobildonna) nella Pietà eseguita per Michelangelo stesso – nella veste di Nicodemo – è il vecchio che vuole rinascere a dare il senso.
Nel gruppo marmoreo Michelangelo si sostituisce alla figura di Maria, cioè, mantenendo però l’idea base del disegno in cui il corpo di Cristo “nasce” dal corpo di chi lo sovrasta, così che vediamo Cristo nascere da Michelangelo forse secondo l’intuizione di sant’Ambrogio, per cui “ogni anima che crede concepisce e genera il Verbo di Dio (…) se c’è una sola madre di Cristo secondo la carne, secondo la fede invece Cristo è il frutto di tutti”.
di Timothy Verdon (©L’Osservatore Romano – 10 gennaio 2010) ”La Sindone: provocazione all’intelligenza, specchio del Vangelo” è il tema dell’incontro che si svolgerà lunedì 11 gennaio, nell’Auditorium della chiesa del Santo Volto a Torino, in occasione della presentazione del volume “Sindone” edito dalla Utet.
Dal libro, ancora non in distribuzione, anticipiamo ampi stralci di due saggi.
Il primo è stato scritto rispettivamente dal direttore scientifico del Museo della Sindone e dal direttore del Centro internazionale di sindonologia.
Il secondo ripercorre la fortuna della Sindone nella storia dell’arte.

2012? Non è mica la fine del mondo

Faremo la stessa fine dei dinosauri? Forse sì.
Ma tranquilli, non nel 2012.
Perciò nessun credito a “improbabili pronostici” o “previsioni” del futuro già stigmatizzati da Benedetto XVI.
La rassicurazione arriva da fratel Guy Consolmagno, astronomo della Specola Vaticana, che di transiti celesti se ne intende, eccome.
Il viso incorniciato da capelli e barba d’altri tempi, questo gesuita statunitense unisce il rigore dello studioso a uno spiccato senso della notizia – ci ha confidato che da giovane provò a fare il giornalista – e alla fede salda dei discepoli di Ignazio di Loyola.
Da lui una lezione ai profeti di sventura che in tempi di crisi fanno affari d’oro:  il colossal 2012 sbanca al botteghino e i nefasti pronostici attribuiti al calendario degli incolpevoli maya hanno riacceso i riflettori sul tema della fine del mondo.
Lo abbiamo raggiunto a Tucson, dove ha trascorso le giornate natalizie tra l’università dell’Arizona e l’osservatorio sul Monte Graham, con l’avveniristico telescopio vaticano a tecnologia avanzata.  L’intervista Che atmosfera si respira da quelle parti? Il Natale qui presenta quelle caratteristiche comuni che conosciamo e amiamo in tutto il resto del mondo…
ma senza la neve.
Io sono cresciuto nel Michigan, proprio vicino al lago canadese Huron, con molta neve e inverni freddi.
Lo stesso clima l’ho ritrovato sul Monte Graham, a 3.200 metri di altitudine, dove ho trascorso la settimana prima di Natale presso il nostro telescopio con la temperatura che ha quasi raggiunto il gelo e il suolo ricoperto di neve.
Come vive la gente il Natale in Arizona? Qui c’è la tradizione della “luminaria”:  candele poste in piccoli involucri di carta, appesantiti da sabbia, che illuminano le strade la sera.
Il giorno di Natale ho partecipato alla messa in una comunità di monache benedettine.
Il celebrante indossava una stola speciale fatta da una donna Navaho e decorata con immagini di stelle e pianeti.
Poi ho fatto visita a numerosi amici e ho assaggiato cibi tradizionali delle varie culture che formano l’America:  äbleskivers danesi, tamales messicani, mincemeat pies inglesi.
Siamo alla vigilia dell’Epifania.
Cosa può dirci oggi l’astronomia della stella che duemila anni fa guidò i magi e i pastori alla grotta di Betlemme? Di certo non sappiamo cosa videro i pastori o i magi nel cielo.
I Vangeli sono molto più interessati a raccontarci di Gesù che a insegnarci l’astronomia.
Forse si trattò di un avvenimento del tutto miracoloso, senza paragoni nell’astronomia comune; o forse di racconti che vogliono rappresentare ed enfatizzare l’evento dell’Incarnazione che ha scosso l’universo.
Oppure, ancora, si è verificato qualche raro fatto astronomico che è coinciso divinamente con la nascita di Gesù.
Ma qualcuno avvistò la cometa? I pastori erano persone semplici che conoscevano le stelle solo perché le vedevano in cielo, ma non erano interessati a calcolare i loro movimenti.
Per converso, si può presumere che i magi fossero astronomi e avessero la capacità di calcolare e prevedere le posizioni dei pianeti.
Tuttavia, in quanto studiosi della loro epoca, pensavano che i movimenti planetari fossero in qualche modo collegati con gli eventi umani, il che li rendeva anche degli astrologi.
Di certo, i pastori potrebbero non aver visto nel cielo le stesse cose dei saggi.
Le Scritture ebraiche proibivano, in modo categorico, qualsiasi tentativo di predire la fortuna mediante l’astrologia.
E questo potrebbe quindi anche spiegare perché la stella, qualunque fosse, non fu “interpretata” a Gerusalemme come la nascita di un re.
A questo proposito, c’è anche chi periodicamente propone di spostare le lancette e “rimettere” l’ora esatta del Natale.
Gli studiosi moderni riconoscono che è leggermente errata la numerazione degli anni a partire dalla nascita di Gesù – il nostro anno Domini – fatta da Dionigi il Piccolo, nel VI secolo.
Basandoci sui Vangeli possiamo collocare la Natività alcuni anni prima dell’anno 4 avanti l’età cristiana, data considerata coincidente con la morte del re Erode.
Parimenti, il riferimento ai pastori che curano le greggi all’aperto di notte implica che essa possa essere forse avvenuta in primavera.
Di altro non possiamo essere certi.
Quindi tutti i fenomeni verificatisi in quel periodo potrebbero essere la stella di Betlemme? Secondo alcune ipotesi si trattò di una cometa, di una nova o di una supernova, oppure di una congiunzione di pianeti particolarmente luminosa.
In realtà, nelle nostre registrazioni nel periodo coincidente con la nascita di Gesù non è emerso un dato univoco; ma queste non sono del tutto esaustive e vi sono altri indizi annotati da astronomi cinesi che potrebbero essere presi in considerazione.
Esistono diverse possibili congiunzioni dei pianeti Saturno e Giove o di quest’ultimo con la stella Regulus, ma non sono così insolite ed è difficile considerarle un evento tale da attrarre astrologi dall’Oriente.
Altre teorie plausibili? C’è quella suggestiva dell’astronomo Michael Molnar, che suggerisce come la “stella d’Oriente” possa essere una congiunzione di pianeti che sorgono con il sole, una cosiddetta levata eliaca.
Egli sottolinea che il 17 aprile dell’anno 6 avanti l’era cristiana i pianeti Venere, Saturno, Giove e la Luna sorsero tutti poco prima del Sole, raggiunti subito dopo da Marte e da Mercurio, al centro della costellazione dell’Ariete.
Molnar ipotizza che ciò potrebbe aver implicato per gli esperti del tempo la nascita di un re, da qualche parte vicino alla Siria.
In tal caso, comunque, non si sarebbero veramente visti i pianeti, ma solo un astrologo molto capace sarebbe stato in grado di calcolarne le posizioni e ricavare un significato.
Non c’è consenso fra astronomi o storici.
Ogni teoria ha i propri ferventi sostenitori e oppositori.
Non sapremo mai la verità con certezza.
E questo è il bello.
Allora ci viene in soccorso la fede.
Il messaggio più profondo della storia dei magi è che la nascita di Gesù ha avuto un significato cosmico.
Per mezzo della sua Incarnazione, Dio non solo redime le anime umane, ma – come disse sant’Atanasio – “purifica e rinvigorisce” tutto il creato.
Si può essere condotti a Dio dallo studio della sua creazione.
Quindi l’impresa stessa di uno scienziato, che cerca la verità nel mondo fisico, è un compito sacro e santo.
“Fides et ratio”, fede e ragione.
Che rapporto ha un teologo come Benedetto XVI con l’astronomia? Tutti i Pontefici più recenti hanno sostenuto la nostra opera presso la Specola, ma il sostegno di Papa Ratzinger è stato speciale.
Nel suo discorso all’Angelus del 21 dicembre 2008 è stato forse il primo leader mondiale a riconoscere e a salutare l’Anno internazionale dell’astronomia.
Nell’omelia per la solennità dell’Epifania del 2009 vi ha fatto di nuovo riferimento.
Il successivo 30 ottobre ci ha reso onore rivolgendo un discorso a un incontro internazionale di astronomi.
Un’attenzione di cui lei ha fatto esperienza diretta.
Per quanto mi riguarda, la prova più concreta del suo interesse per l’astronomia è la nuova sede della Specola nei giardini di Castel Gandolfo, che è stata inaugurata da Benedetto XVI il 16 settembre scorso.
Per una felice coincidenza la visita è avvenuta proprio 75 anni dopo il trasferimento della Specola – voluto dal suo predecessore Pio xi – dall’interno della Città del Vaticano alla residenza pontificia estiva a Castel Gandolfo.
Cosa resterà dell’Anno dell’astronomia che si conclude proprio in questi giorni? È stato un anno molto impegnativo, scandito da numerosi appuntamenti:  dall’inizio a Parigi, fino alle cerimonie conclusive in programma a Padova il 9 e il 10 gennaio prossimi. Tra i più seguiti dal grande pubblico:  la visita guidata in rete al nostro telescopio nell’Arizona meridionale nel corso di un avvenimento denominato “Il giro del mondo in ottanta telescopi”, la serie podcast “I 365 giorni dell’astronomia” e la mostra “Astrum 2009” ai Musei vaticani che proseguirà fino al 16 gennaio.
Insomma, dodici mesi di febbrile attività.
Fra le tante iniziative sono stato particolarmente impegnato nella pubblicazione del libro The heavens proclaim – in italiano L’infinitamente grande – che descrive l’opera della Specola e la storia del sostegno pontificio all’astronomia.
Si tratta di un coffee-table book, un volume in edizione pregiata con immagini magnificamente riprodotte dalla Libreria Editrice Vaticana.
Ora lo stiamo facendo tradurre in altre lingue, perché grazie a quest’opera gli sforzi promozionali proseguiranno ovunque nel mondo anche dopo la fine dell’Anno dell’astronomia.
Quali sono state le maggiori acquisizioni scientifiche in questo periodo? In genere deve trascorrere molto tempo prima di sapere qual è stata la più importante scoperta dell’anno.
Abbiamo bisogno di una certa prospettiva per vedere cosa è stato davvero importante e cosa si è rivelata una falsa pista.
Ci potrebbero volere anni di lavoro per poter apprezzare ciò che abbiamo osservato quest’anno.
Qualche esempio? Consideriamo la scoperta, nell’ottobre 2008, proprio al di sopra dell’atmosfera della Terra, di un piccolo asteroide che siamo riusciti a seguire fino a quando ha colpito il deserto del Sudan settentrionale.
Quest’anno, abbiamo completato e pubblicato i risultati scientifici del rinvenimento dei pezzi nel deserto e della comparazione fra le differenti osservazioni dell’oggetto durante la sua caduta.
Secondo me, si è trattato di uno dei risultati più entusiasmanti nell’astronomia planetaria del 2009, anche se l’evento in sé si è verificato l’anno precedente.
Invece noi profani pensavamo all’acqua sulla Luna…
Quella è stata una scoperta particolarmente eccitante:  un veicolo spaziale inviato dall’India nell’orbita intorno al satellite ha trovato negli spettri a infrarossi riflessi dalla superficie la prova dell’esistenza di tracce di acqua.
Questo rilevamento è stato confermato quando gli scienziati hanno riesaminato gli spettri misurati da un altro veicolo spaziale passato vicino alla Luna l’anno precedente.
Ma attenzione:  la quantità rilevata dal veicolo di passaggio nella polvere della superficie è soltanto una goccia d’acqua per ogni litro di pulviscolo lunare.
Tuttavia, pare ci sia un po’ più di acqua sepolta nei crateri in ombra delle regioni polari della Luna.
Acqua sufficiente ad alimentare futuri insediamenti umani? Probabilmente sì.
Abbiamo ipotizzato che l’acqua potesse essere intrappolata in queste regioni che sono estremamente fredde, perché non sono mai esposte al sole, ma è stato rassicurante trovarla veramente lì, dopo aver fatto schiantare un veicolo in uno di quei crateri e aver osservato il materiale che fuoriusciva alla luce del sole.
Una buona notizia, specie in caso di evacuazione forzata del pianeta.
Del resto film, oroscopi e libri ci ricordano di continuo che dobbiamo prepararci al peggio.
Gli uomini predicono la fine del mondo fin dagli albori dell’umanità.
Finora, nessuna di queste teorie si è rivelata vera.
Non c’è alcun motivo di credere che lo siano quelle relative al 2012.
Ma mentre è facile ridere di queste sciocche paure, c’è un male più serio dietro di esse:  queste credenze proliferano perché noi tutti siamo tentati dal desiderio di possedere una “conoscenza segreta” del futuro, come se ciò ci rendesse più potenti degli altri.
In realtà questo è solo un segnale di cattiva scienza o di cattiva religione.
Ma l’astronomia può prevedere il futuro senza degenerare nell’astrologia? Direi di sì, ma solo nel senso che l’osservazione dei fenomeni celesti permette di ipotizzare possibili catastrofi di cui dovremmo essere consapevoli.
Del resto comete e asteroidi colpiscono continuamente la Terra.
In che senso “continuamente”? Vuol forse iscriversi alla scuola delle cassandre? Per la maggior parte si tratta di corpi piccoli che passano inosservati, ma un grande evento come quello verificatosi nel 1908 in Siberia, nei pressi di Tunguska, causando un’esplosione paragonabile a quella di una bomba atomica, può accadere una volta ogni cento anni.  Quindi per la legge dei grandi numeri…
Finora gli impatti si sono verificati negli oceani o su terre disabitate, ma prima o poi uno di questi corpi colpirà un’area più densamente popolata.
Da una parte, gli impatti più comuni sono i più piccoli, ma dall’altra sono anche quelli più difficili da rilevare prima che si verifichino.
Non è che rischiamo di fare la fine dei dinosauri e non ce ne rendiamo conto? Un impatto dell’entità di quello che spazzò via i dinosauri 65 milioni di anni fa probabilmente avviene soltanto una volta ogni cento milioni di anni.
Allora perché affannarci con telescopi sempre più sofisticati? Possiamo starcene tranquilli per milioni di anni…
Indipendentemente dalla rarità del fenomeno, vale sempre la pena scrutare i cieli e cercare di determinare se qualcuno dei centomila asteroidi conosciuti può incrociare l’orbita della Terra nel futuro prevedibile.
Significa anche che vale la pena impiegare il nostro tempo per comprendere in che modo questi asteroidi e queste comete sono composti, per poter meglio capire come deviarli nel caso dovessero entrare in rotta di collisione con il nostro pianeta.
Comunque prima di preoccuparci di minacce esterne, forse faremmo meglio a preservare la terra dalle devastazioni prodotte dall’uomo.
Di sicuro.
Ma il discorso è complesso.
Man mano che le aree urbane divengono maggiormente affollate dipendiamo sempre di più dalla tecnologia per sopravvivere.
I sistemi idrici e quelli di trattamento delle acque, l’elettricità, il trasporto pubblico sono tutti necessari a tenerci al caldo, nutriti e in salute.
In definitiva dipendiamo gli uni dagli altri.
Non possiamo vivere egoisticamente perché, di fatto, siamo i custodi dei nostri fratelli.
Lo stesso Benedetto XVI ha dedicato la recente Giornata mondiale della pace al tema “Se vuoi la pace, custodisci il creato”.
Il Papa è consapevole che possiamo causare o impedire disastri ambientali a seconda del modo in cui trattiamo la Terra.
Purtroppo, il tema del riscaldamento globale è stato politicizzato e troppi assumono posizioni estreme o basate su motivazioni che prescindono dalla scienza.
È vero che oltre all’attività umana molti fattori possono causare il riscaldamento globale, ma gli unici che possiamo controllare sono quelli che dipendono da noi.
Per questo non dobbiamo abbandonare il cammino intrapreso per ridurre l’emissione di ossido di carbonio nell’atmosfera.
E nel frattempo? Niente panico.
Bastano due misure precauzionali per aumentare le possibilità di una vita lunga e sana:  smettere di fumare e allacciare le cinture di sicurezza.
(©L’Osservatore Romano – 6 gennaio 2010)

Testimoni del nostro tempo: Edward Schillebeeckx

Edward Schillebeeckx, il teologo olandese del Concilio e postconcilio, ci ha lasciato alla vigilia di Natale.
Chi si sofferma a considerare le date della sua biografia umana e intellettuale resta colpito da una circostanza significativa.
Il teologo domenicano nasce nel 1914, alla vigilia del primo conflitto mondiale, e scrive la sua ultima opera (Umanità, la storia di Dio) nel 1989.
Dopo quell’anno la sua fatica conosce un lungo periodo di silenzio.
Fino alla sua dipartita dal mondo.
La sua parabola intellettuale si colloca dunque tra le due date che delimitano quello che è stato definito il “secolo breve” (Hobsbawn).
Il giovane teologo nasce ad Antwerpen.
Dopo la scuola primaria a Kortenberg, un paesino tra Bruxelles e Leuven, compie gli studi umanistici a Turnhout dai gesuiti.
La vocazione religiosa lo indirizza però dai domenicani per l’ispirazione tomista che proponeva un’armonia tra religioso e umano-mondano, nel noviziato in Gent dove si insegnava filosofia con grande attenzione per la teologia.
La sua formazione teologica avviene a Lovanio tra le due guerre mondiali, tra fermenti di novità sul fronte culturale e timidi accenni di apertura nella Chiesa.
Questi momenti di sotterranea ricerca che fanno capo alla fenomenologia, all’esistenzialismo e al personalismo trovano sbocco nel confronto appassionato della cultura francese con l’engagement nel mondo, facendo da sfondo ideologico ai nuovi movimenti democratici dell’immediato dopoguerra.  La specializzazione a Parigi (1945) influenzerà profondamente la sua mentalità teologica.
L’inizio dell’insegnamento allo Studio teologico domenicano a Lovanio (1946-1956) è solo un momento di apprendistato di una prospettiva teologica che farà di Schillebeeckx un teologo molto ascoltato e ancor più letto, per la sua maggiore accessibilità rispetto alla tormentata lingua di Rahner.
Inoltre, il docente domenicano poteva vantare un’approfondita conoscenza della scolastica, in particolare di san Tommaso, non solo per tradizione, ma per la lettura geniale che aveva coltivato durante il suo dottorato di ricerca presso lo studio teologico di Le Saulchoir, nella scia di Chenu.
Una lettura che cercava intensamente di coniugare senso storico e intento teorico o, come si diceva allora, teologia positiva e teologia speculativa.
La rivisitazione della tradizione si presentava non solo provocata, come nei francesi, da un ricupero delle fonti con il programma di ressourcement, ma motivata da un tratto speculativo più forte, radicato nella fenomenologia ontologica del maestro Dominicus Maria de Petter.
Egli cercherà di accreditarlo come l’omologo di Joseph Maréchal, a sua volta ispiratore della “svolta antropologica” di Karl Rahner.
L’opera di Schillebeeckx trovò ascolto presso l’episcopato olandese per l’abilità delle formule della sua produzione teologica prima del Concilio e durante la stessa assise vaticana.
In questo periodo fece studi approfonditi sulla tematica  sacramentaria, confluiti  nella  dissertazione  De sacramentele heilseconomie e nel fortunato testo Cristo, sacramento dell’incontro con Dio (1959).
Nel 1957 l’università di Nimega lo chiama all’insegnamento di teologia dogmatica, nel momento di trapasso della Chiesa olandese.
Nel crogiolo incandescente dell’Olanda del postconcilio, Schillebeeckx fu un testimone privilegiato del travaglio con cui la Chiesa cattolica voleva ricuperare la distanza accumulata rispetto al mondo moderno.
Al di là del giudizio di merito circa il risultato, si trattava di una distanza che sottoponeva la fede a un’obiettiva insignificanza.
Schillebeeckx ha accompagnato con la forza della riflessione e la competenza della ricca conoscenza della tradizione gli impulsi e le intemperanze di quel popolo, dove ognuno si sente homo theologicus, che non perde mai l’occasione di parlare della religione e della fede.
Il teologo fiammingo si è sentito prestato all’Olanda cattolica e ha inteso dare un contributo critico alle trasformazioni operatesi nella Chiesa olandese, divenuta capofila di un avventuroso progressismo.
L’approdo in Olanda segna una svolta non solo nella vita, ma anche nella teologia del domenicano.
Il cambiamento ha un periodo di incubazione che risale ai primi anni del suo magistero a Nimega (1957-1966).
Da quel momento la sua riflessione diventa una teologia militante.
Il “primo” Schillebeeckx assume la veste di mediatore critico, dinanzi ai nuovi fermenti della Chiesa olandese, che fino a quel momento aveva avuto tratti tradizionalisti.
Tutto riceve un’improvvisa accelerazione con la preparazione immediata e la celebrazione del Concilio.
Basterà ricordare i suoi interventi degli anni Sessanta sulla cristologia, la presenza eucaristica e il celibato ecclesiastico, ma più ancora il serrato dibattito con la stagione della secolarizzazione e della cosiddetta teologia della morte di Dio.
Sullo sfondo la sua teologia della Rivelazione, che forse ha influito per la sua maggiore flessibilità più di ogni altra sull’elaborazione del Concilio.
Solo con il viaggio in America del 1966-1967, il teologo domenicano, per sua esplicita ammissione, non solo diviene l’interlocutore delle nuove istanze culturali e sociali, ma si getta nell’arena della battaglia del rinnovamento ecclesiale.
È a partire da queste circostanze che si parla di un “secondo” Schillebeeckx (1966-1989), sovresposto alle luci della ribalta e più difficile da tratteggiarne la figura.
Intorno agli anni Settanta Schillebeeckx sembra cavalcare un più accentuato rinnovamento.
Si pensi alla questione della cristologia – alla quale ha dedicato due voluminose opere – che ha dato origine a un vero e proprio caso, su cui è intervenuta ripetutamente la Congregazione per la Dottrina della Fede.
Ma soprattutto si rammentino i suoi volumi degli anni Ottanta sul ministero ecclesiale, assai problematici sotto il profilo degli esiti pratico-pastorali, che hanno di nuovo richiesto l’intervento della stessa congregazione.
Infatti, il discusso saggio Gesù, la storia di un vivente (1974), che resta il suo capolavoro, intendeva essere una risposta di alto profilo al pamphlet pubblicato con molto rumore in Germania nel 1972 da Rudolf Augstein, direttore di “Der Spiegel”, cioè alle obiezioni radicali mosse al centro stesso della fede cristiana da un editore molto potente.
La sottovalutazione della risurrezione di Gesù, come esperienza di conversione, poneva però dubbi sulla sufficienza della sua ricostruzione storico-teologica.
Il giudizio sull’opera di Schillebeeckx – e del “secondo” in particolare – non può essere formulato solo confrontandosi con i singoli temi del dibattito teologico, ma risalendo alle fonti della sua teologia e all’impianto stesso della sua opera.
Soprattutto non è possibile stabilire una cesura di comodo tra “primo” e “secondo” periodo del suo lavoro teologico tale da occultare i motivi di continuità e le strutture di pensiero ricorrenti della sua teologia.
Se è innegabile che la riflessione del teologo olandese accompagni con puntigliosa precisione i problemi e i temi dell’effervescente periodo postconciliare (l’ermeneutica, la teoria critica, la dimensione politica della fede, la cristologia e la soteriologia, i temi del ministero e della Chiesa, la questione del pluralismo religioso), altrettanto non si può nascondere l’impressione che la fine delle grandi ideologie sembri sottrarre forza propulsiva al suo pensiero.
Così appare un segno non piccolo che il crollo del muro di Berlino (1989) coincida con la data di pubblicazione dell’ultima sua opera significativa.
Nonostante che la pubblicistica si sia impegnata a lanciarla come una summa del suo itinerario teologico, essa appare piuttosto un canto del cigno, sia per forza di disegno che per profondità delle questioni trattate.
Più interessante forse è la presentazione dell’opera di Schillebeeckx come parabola della teologia del Novecento.
Essa sembra condividerne il destino:  come il secolo sembra terminare anzitempo, così sulla sua opera scende il silenzio in anticipo.
La teologia di Schillebeeckx è testimonianza del Novecento come “secolo breve”.
Chi la percorre si immerge con passione nelle grandi questioni teologiche e non solo che hanno travagliato il secolo, nel trapasso dalla teologia neoscolastica (o “concettualista”, come la definisce il teologo scomparso) passando per la teologia della Rivelazione fino alle “teologie del genitivo” (del futuro, della speranza, della liberazione e la teologia politica).
Ma non si renderà giustizia al lavoro teologico del teologo domenicano se non si renderà conto della tensione epistemologica che l’attraversa.
Schillebeeckx è stato certamente un autore in movimento, ma non ha prodotto un pensiero eclettico.
Nella sua stessa idea di teologia era presente il germe dell’attenzione alle cangianti figure del mutamento culturale.
Col rischio di professare una visione intuizionista della verità, depotenziando la concettualità a mera mediazione culturale, e di dover sottoporre la verità della fede al cambiamento della sua mediazione storica.
La fine delle “grandi narrazioni”, però, sembra far crollare anche l’opera insonne del teologo olandese e forse spiega il suo cecidere manus.
Così pare spegnersi – a differenza di altri autori che hanno avuto un successo postumo – anche l’interesse alla sua produzione.
Essa cade nell’oblio.
Restando tuttavia emblematica, non solo per quello che ha di caduco, ma anche per ciò che lascia in eredità ancora da pensare.
(©L’Osservatore Romano – 28-29 dicembre 2009)

A Betlemme irrompe la notizia che cambia tutto, anche i “cuori di pietra”.

Cari fratelli e sorelle,   “un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio” (Isaia 9, 5).
Ciò che Isaia, guardando da lontano verso il futuro, dice a Israele come consolazione nelle sue angustie ed oscurità, l’angelo, dal quale emana una nube di luce, lo annuncia ai pastori come presente: “Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore” (Luca 2, 11).
Il Signore è presente.
Da questo momento, Dio è veramente un “Dio con noi”.
Non è più il Dio distante, che, attraverso la creazione e mediante la coscienza, si può in qualche modo intuire da lontano.
Egli è entrato nel mondo.
È il Vicino.
Il Cristo risorto lo ha detto ai suoi, a noi: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Matteo 28, 20).
Per voi è nato il Salvatore: ciò che l’angelo annunciò ai pastori, Dio ora lo richiama a noi per mezzo del Vangelo e dei suoi messaggeri.
È questa una notizia che non può lasciarci indifferenti.
Se è vera, tutto è cambiato.
Se è vera, essa riguarda anche me.
Allora, come i pastori, devo dire anch’io: Orsù, voglio andare a Betlemme e vedere la Parola che lì è accaduta.
Il Vangelo non ci racconta senza scopo la storia dei pastori.
Essi ci mostrano come rispondere in modo giusto a quel messaggio che è rivolto anche a noi.
Che cosa ci dicono allora questi primi testimoni dell’incarnazione di Dio? Dei pastori è detto anzitutto che essi erano persone vigilanti e che il messaggio poteva raggiungerli proprio perché erano svegli.
Noi dobbiamo svegliarci, perché il messaggio arrivi fino a noi.
Dobbiamo diventare persone veramente vigilanti.
Che significa questo? La differenza tra uno che sogna e uno che sta sveglio consiste innanzitutto nel fatto che colui che sogna si trova in un mondo particolare.
Con il suo io egli è rinchiuso in questo mondo del sogno che, appunto, è soltanto suo e non lo collega con gli altri.
Svegliarsi significa uscire da tale mondo particolare dell’io ed entrare nella realtà comune, nella verità che, sola, ci unisce tutti.
Il conflitto nel mondo, l’inconciliabilità reciproca, derivano dal fatto che siamo rinchiusi nei nostri propri interessi e nelle opinioni personali, nel nostro proprio minuscolo mondo privato.
L’egoismo, quello del gruppo come quello del singolo, ci tiene prigionieri dei nostri interessi e desideri, che contrastano con la verità e ci dividono gli uni dagli altri.
Svegliatevi, ci dice il Vangelo.
Venite fuori per entrare nella grande verità comune, nella comunione dell’unico Dio.
Svegliarsi significa così sviluppare la sensibilità per Dio; per i segnali silenziosi con cui Egli vuole guidarci; per i molteplici indizi della sua presenza.
Ci sono persone che dicono di essere “religiosamente prive di orecchio musicale”.
La capacità percettiva per Dio sembra quasi una dote che ad alcuni è rifiutata.
E in effetti, la nostra maniera di pensare ed agire, la mentalità del mondo odierno, la gamma delle nostre varie esperienze sono adatte a ridurre la sensibilità per Dio, a renderci “privi di orecchio musicale” per lui.
E tuttavia in ogni anima è presente, in modo nascosto o aperto, l’attesa di Dio, la capacità di incontrarlo.
Per ottenere questa vigilanza, questo svegliarsi all’essenziale, vogliamo pregare, per noi stessi e per gli altri, per quelli che sembrano essere “privi di questo orecchio musicale” e nei quali, tuttavia, è vivo il desiderio che Dio si manifesti.
Il grande teologo Origene ha detto: se io avessi la grazia di vedere come ha visto Paolo, potrei adesso (durante la liturgia) contemplare una grande schiera di angeli (cfr.
In Lucam 23, 9).
Infatti, nella sacra liturgia, gli angeli di Dio e i santi ci circondano.
Il Signore stesso è presente in mezzo a noi.
Signore, apri gli occhi dei nostri cuori, affinché diventiamo vigilanti e veggenti e così possiamo portare la tua vicinanza anche ad altri! Torniamo al Vangelo di Natale.
Esso ci racconta che i pastori, dopo aver ascoltato il messaggio dell’angelo, si dissero l’un l’altro: “Andiamo fino a Betlemme”.
E “andarono senza indugio” (Luca 2, 15s.).
“Si affrettarono”, dice letteralmente il testo greco.
Ciò che era stato loro annunciato era così importante che dovevano andare immediatamente.
In effetti, ciò che lì era stato detto loro andava totalmente al di là del consueto.
Cambiava il mondo.
È nato il Salvatore.
L’atteso Figlio di Davide è venuto al mondo nella sua città.
Che cosa poteva esserci di più importante? Certo, li spingeva anche la curiosità, ma soprattutto l’agitazione per la grande cosa che era stata comunicata proprio a loro, i piccoli, e uomini apparentemente irrilevanti.
Si affrettarono, senza indugio.
Nella nostra vita ordinaria le cose non stanno così.
La maggioranza degli uomini non considera prioritarie le cose di Dio, esse non ci incalzano in modo immediato.
E così noi, nella stragrande maggioranza, siamo ben disposti a rimandarle.
Prima di tutto si fa ciò che qui ed ora appare urgente.
Nell’elenco delle priorità Dio si trova spesso quasi all’ultimo posto.
Questo – si pensa – si potrà fare sempre.
Il Vangelo ci dice: Dio ha la massima priorità.
Se qualcosa nella nostra vita merita fretta senza indugio, ciò è, allora, soltanto la causa di Dio.
Una massima della regola di san Benedetto dice: “Non anteporre nulla all’opera di Dio (cioè all’ufficio divino)”.
La liturgia è per i monaci la prima priorità.
Tutto il resto viene dopo.
Nel suo nucleo, però, questa frase vale per ogni uomo.
Dio è importante, la realtà più importante in assoluto nella nostra vita.
Proprio questa priorità ci insegnano i pastori.
Da loro vogliamo imparare a non lasciarci schiacciare da tutte le cose urgenti della vita quotidiana.
Da loro vogliamo apprendere la libertà interiore di mettere in secondo piano altre occupazioni – per quanto importanti esse siano – per avviarci verso Dio, per lasciarlo entrare nella nostra vita e nel nostro tempo.
Il tempo impegnato per Dio e, a partire da lui, per il prossimo non è mai tempo perso.
È il tempo in cui viviamo veramente, in cui viviamo lo stesso essere persone umane.
Alcuni commentatori fanno notare che per primi i pastori, le anime semplici, sono venuti da Gesù nella mangiatoia e hanno potuto incontrare il redentore del mondo.
I sapienti venuti dall’Oriente, i rappresentanti di coloro che hanno rango e nome, vennero molto più tardi.
I commentatori aggiungono: questo è del tutto ovvio.
I pastori, infatti, abitavano accanto.
Essi non dovevano che “attraversare” (cfr.
Luca 2, 15) come si attraversa un breve spazio per andare dai vicini.
I sapienti, invece, abitavano lontano.
Essi dovevano percorrere una via lunga e difficile, per arrivare a Betlemme.
E avevano bisogno di guida e di indicazione.
Ebbene, anche oggi esistono anime semplici ed umili che abitano molto vicino al Signore.
Essi sono, per così dire, i suoi vicini e possono facilmente andare da lui.
Ma la maggior parte di noi uomini moderni vive lontana da Gesù Cristo, da Colui che si è fatto uomo, dal Dio venuto in mezzo a noi.
Viviamo in filosofie, in affari e occupazioni che ci riempiono totalmente e dai quali il cammino verso la mangiatoia è molto lungo.
In molteplici modi Dio deve ripetutamente spingerci e darci una mano, affinché possiamo trovare l’uscita dal groviglio dei nostri pensieri e dei nostri impegni e trovare la via verso di lui.
Ma per tutti c’è una via.
Per tutti il Signore dispone segnali adatti a ciascuno.
Egli chiama tutti noi, perché anche noi si possa dire: Orsù, “attraversiamo”, andiamo a Betlemme, verso quel Dio che ci è venuto incontro.
Sì, Dio si è incamminato verso di noi.
Da soli non potremmo giungere fino a lui.
La via supera le nostre forze.
Ma Dio è disceso.
Egli ci viene incontro.
Egli ha percorso la parte più lunga del cammino.
Ora ci chiede: Venite e vedete quanto vi amo.
Venite e vedete che io sono qui.
“Transeamus usque Bethleem”, dice la Bibbia latina.
Andiamo di là! Oltrepassiamo noi stessi! Facciamoci viandanti verso Dio in molteplici modi: nell’essere interiormente in cammino verso di lui.
E tuttavia anche in cammini molto concreti: nella liturgia della Chiesa, nel servizio al prossimo, in cui Cristo mi attende.
Ascoltiamo ancora una volta direttamente il Vangelo.
I pastori si dicono l’un l’altro il motivo per cui si mettono in cammino: “Vediamo questo avvenimento”.
Letteralmente il testo greco dice: “Vediamo questa Parola, che lì è accaduta”.
Sì, tale è la novità di questa notte: la Parola può essere guardata.
Poiché si è fatta carne.
Quel Dio di cui non si deve fare alcuna immagine, perché ogni immagine potrebbe solo ridurlo, anzi travisarlo, quel Dio si è reso, Egli stesso, visibile in Colui che è la sua vera immagine, come dice Paolo (cfr.
2 Corinzi 4, 4; Colossesi 1, 15).
Nella figura di Gesù Cristo, in tutto il suo vivere ed operare, nel suo morire e risorgere, possiamo guardare la Parola di Dio e quindi il mistero dello stesso Dio vivente.
Dio è così.
L’Angelo aveva detto ai pastori: “Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia” (Luca 2, 12; cfr.
16).
Il segno di Dio, il segno che viene dato ai pastori e a noi, non è un miracolo emozionante.
Il segno di Dio è la sua umiltà.
Il segno di Dio è che Egli si fa piccolo; diventa bambino; si lascia toccare e chiede il nostro amore.
Quanto desidereremmo noi uomini un segno diverso, imponente, inconfutabile del potere di Dio e della sua grandezza! Ma il suo segno ci invita alla fede e all’amore, e pertanto ci dà speranza: così è Dio.
Egli possiede il potere ed è la Bontà.
Ci invita a diventare simili a lui.
Sì, diventiamo simili a Dio se ci lasciamo plasmare da questo segno; se impariamo, noi stessi, l’umiltà e così la vera grandezza; se rinunciamo alla violenza ed usiamo solo le armi della verità e dell’amore.
Origene, seguendo una parola di Giovanni Battista, ha visto espressa l’essenza del paganesimo nel simbolo delle pietre: paganesimo è mancanza di sensibilità, significa un cuore di pietra, che è incapace di amare e di percepire l’amore di Dio.
Origene dice dei pagani: “Privi di sentimento e di ragione, si trasformano in pietre e in legno” (In Lucam 22, 9).
Cristo, però, vuole darci un cuore di carne.
Quando vediamo lui, il Dio che è diventato un bambino, ci si apre il cuore.
Nella liturgia della Notte Santa Dio viene a noi come uomo, affinché noi diventiamo veramente umani.
Ascoltiamo ancora Origene: “In effetti, a che gioverebbe a te che Cristo una volta sia venuto nella carne, se Egli non giunge fin nella tua anima? Preghiamo che venga quotidianamente a noi e che possiamo dire: vivo, però non vivo più io, ma Cristo vive in me (Galati 2, 20)” (In Lucam 22, 3).
Sì, per questo vogliamo pregare in questa Notte Santa.
Signore Gesù Cristo, tu che sei nato a Betlemme, vieni a noi! Entra in me, nella mia anima.
Trasformami.
Rinnovami.
Fa’ che io e tutti noi da pietra e legno diventiamo persone viventi, nelle quali il tuo amore si rende presente e il mondo viene trasformato.
Amen.
__________

Il desiderio di comunità nella Chiesa

L’esperienza della fragilità spinge l’individuo a cercare appoggi nei gruppi o nelle comunità per una «ricostruzione interiore» per lasciarsi guidare e sostenere dal gruppo, in una società che tende facilmente a emarginare o abbandonare a se stessi soprattutto i più deboli.
La comunità nella prospettiva educativa, che si caratterizza proprio come «comunità educante», diventa così un importante riferimento e sostegno nel perseguimento degli obiettivi dei singoli.
Attraverso le tecniche e i metodi che la pedagogia ci offre è possibile quindi riflettere sulla Chiesa come comunità e considerare il fenomeno aggregativo nella Chiesa stessa tentandone un’analisi.
Stretta è la connessione tra sociologia (in quanto conoscenza dell’ambiente in cui gli individui interagiscono), psicologia (in quanto conoscenza degli individui) e teologia (in quanto essa implica anche la conoscenza e l’esperienza del divino che gli individui hanno nell’ambiente e nel tempo in cui vivono).
Lo studio della teologia, e in particolare dell’ecclesiologia, può legarsi allo studio delle scienze umane proprio perché coinvolge l’uomo tutto nelle sue dimensioni antropologiche e spirituali, in relazione soprattutto alla comunità dei credenti.
Lo stesso Concilio Vaticano II invita a uno studio delle problematiche ecclesiali alla luce delle moderne scienze pedagogiche e psico-sociologiche: «Si conoscano sufficientemente e si faccia buon uso non soltanto dei principi della teologia, ma anche delle scoperte delle scienze profane, in primo luogo della psicologia e della sociologia, cosicché anche i fedeli siano condotti a una più pura e più matura vita di fede».11 Per questi motivi, ritengo sia necessario considerare il tema del fenomeno aggregativo dei laici nella Chiesa oltre che da un punto di vista strettamente ecclesiale, anche secondo la prospettiva delle scienze umane: dalla prospettiva comunitaria, l’esigenza comune dell’uomo di aggregarsi in una comunità, al bisogno di comunità per entrare in dialogo con l’altro, con un «tu» diverso da me, per cultura, per formazione, e talvolta per fede.   1.
Il termine «comunità»   Nel linguaggio quotidiano il termine comunità è utilizzato per indicare una collettività di persone che sono raggruppate rispetto a un certo parametro: territoriale (gli abitanti di una cittadina, di un quartiere o di tutta una nazione); religioso (ad esempio i francescani, i parrocchiani, oppure gli ebrei); temporale (gli anziani, gli adolescenti o i giovani); utilitaristico (l’Unione Europea, ecc.) e così via, secondo un principio simile a quello dell’insiemistica, che in matematica raggruppa in base agli elementi in comune.
L’indagine etimologica ci suggerisce alcuni interessanti spunti di riflessione: cum-moenia suggerisce la fraternità degli esseri che stanno dentro le mura; cum-munia fa appello al senso del dovere; cum munis evoca il compimento del proprio incarico con altri.
La comunità a cui noi pensiamo indica piuttosto una situazione di disperazione, di isolamento, e quindi la propria solitudine, il proprio isolamento che si fanno «munus», dono, insieme a quello di altri (comunità = «cum» «munus») nella nostra stessa condizione.
La «comunità» non può avere a che fare con il «proprio»; ha a che fare, invece, con l’alterità, con il profondo abisso mortale dell’altro che ci insidia, ci guarda e ci chiede di accettarlo, di ascoltarne le ragioni, mentre noi vorremmo ucciderlo, perché Caino è nato prima di Abele ed è stanziale e assassino, «autoritario» per natura.2 2.
Il bisogno di comunità    Le piccole realtà aggregative indubbiamente favoriscono questo progetto con  l’ingresso spontaneo di nuovi membri e la prossimità che rende facili gli approcci, le attività di gruppo, ecc.
Sul piano religioso il gruppo offre la possibilità di fare un’esperienza concreta a livello delle realtà più semplici della vita evangelica: confessione della fede, liturgia, preghiera, comunione spirituale, ecumenismo, testimonianza di carità nella comunione interna e nella missione.
Se le prospettive sono la comunione e l’evangelizzazione, solo se si è in costante rapporto con Dio e si vive in profondità tale comunione si può essere annunciatori veri di evangelizzazione.
Questo concetto è precisato molto chiaramente dai Vescovi italiani nel documento pastorale per gli anni ’80 Comunione e comunità: «Solo una Chiesa che vive e celebra in se stessa il mistero della comunione, traducendolo in una realtà vitale sempre più organica e articolata, può essere soggetto di una efficace evangelizzazione».3 Nell’anonimato dell’urbanesimo moderno e della massificazione, spesso senza rapporti veri, anche nelle comunità tradizionali, la ricerca del gruppo nel senso più ampio del termine, il desiderio di rapporti più autentici e intimi hanno effettivamente favorito il sorgere e il prosperare di tante comunità, facilitando il perseguimento degli obiettivi di comunione tra gli aderenti.
Il bisogno di aggregarsi, tuttavia, non è solo un’esigenza di tipo sociale.4 Le motivazioni che spingono una persona a passare dal «micro»5 al «macro»,6 per mettersi in gioco e condividere le proprie ansie, i propri bisogni e obiettivi di vita, risiedono nella natura stessa dell’uomo.
Bernard Descouleurs, esperto in tema di nuove comunità nella Chiesa, ha scritto in un recente articolo a proposito di insicurezze e potere: «L’esperienza della debolezza di un sé che non si realizza più, né trova da se stesso il senso dell’esistenza […] può condurre alla ricerca di un inquadramento rigoroso capace di supplire alle insufficienze della determinazione personale.
La comunità appare, quindi, come un sostegno istituzionale grazie all’autorità di un “maestro” che dona gli orientamenti, dirige e discerne, incoraggia o deprime».7.
L’esperienza della fragilità spinge l’individuo a cercare appoggi nei gruppi o nelle comunità per una «ricostruzione interiore»,8 per lasciarsi guidare e sostenere dal gruppo in una società che tende facilmente a emarginare o abbandonare a se stessi, soprattutto i più deboli.
La comunità diventa così un importante riferimento e sostegno nel perseguimento degli obiettivi personali, e non solo in presenza di problematiche di carattere psicologico: le motivazioni che spingono all’aggregazione, infatti, sono naturalmente radicate nella persona e il bisogno affettivo di vivere in comunione con gli altri è un’esigenza interiore, psicologica, anche se molto spesso «soffocata» dalla diffusa e spersonalizzante massificazione sociale.
Note  1 Gaudium et Spes, EV 1/62/1389.
2 La querelle etimologica sul termine «communitas» ha avuto luogo nella seconda quindicina del mese di agosto 2003, sulle pagine virtuali dei commenti a Lettera da Leuca 1 di Antonio Moresco in Nazione Indiana (www.nazioneindiana.com).
3 CEI, Comunione e comunità, n.
3, ECEI/3/395.
4 Vedi Z.
Bauman, Dentro la globalizzazione, Bari, Laterza, 2000; Id., Voglia di comunità, Bari, Laterza, 2007.
5 Il gruppo, per Gurvitch, studioso di gruppi sociali, è «un microcosmo di manifestzioni della socialità »: vedi G.
Gurvitch, La vocazione attuale della sociologia, Bologna, il Mulino,1965, pp.
357-370.
6 Gurvitch afferma che «[…] non esiste gruppo particolare il quale non sia integrato in una societàglobale, macrocosmo di raggruppamenti» (G.
Gurvitch, La vocazione attuale …,op.
cit., p.
369).
7 B.
Descouleurs, À Nouvelles communautés nouveaux types de croyants? Approche antropologiqueet psycho-spirituelle, «Lumen vitae», n.
4, 2007, p.
410.
Mia traduzione dal testo originale: «L’expérience de la faiblesse d’un soi qui ne parvient plus à déterminer, ni à trouver par lui-même le sens de son existence […] peut conduire à la recherche d’un encadrement rigoureux capable de suppléer aux insuffisances de la détermination personnelle.
La communauté apparaît d’abord comme un soutien institutionnel grâce à l’autorité d’un “maitre”, qui donne les orientations, dirige, discerne, encourage ou réprimande».
Descouleurs, in questo studio, fa particolare riferimento ai membri delle comunità delle Beatitudini in Francia.
8 Ibidem, p.
411.
Mia traduzione dall’originale: «reconstruction intérieure».
                                                               4.
La comunità cristiana in pedagogia La  comunità cristiana in pedagogia si configura come luogo d’incontro e di complementarità tra persone convocate da una comune missione.35 Per qualificarsi come educante essa è chiamata a porsi nella prospettiva della continua crescita che orienta tutti e ciascuno personalmente, a partire dal ruolo che gli compete, non solo a educare, ma soprattutto a educarsi.
Una comunità che educa e si educa è quindi attenta al quotidiano per cogliere i segni della presenza di Dio.
Essa crede nelle energie positive delle giovani generazioni e degli adulti ed è capace di uscire dalle proprie sicurezze per accogliere la fragilità e la precarietà sperimentata dai giovani, di mettersi in dialogo e di ripensare con loro l’esperienza umana e religiosa.36 L’aggettivo educante aggiunto al termine comunità determina il contesto nel quale prende forma una voce carica di significati, poiché insieme indicano un gruppo di soggetti che — in una situazione istituzionale, cioè di apparato ecclesiale — si occupano di un percorso di insegnamento-apprendimento e di crescita globale della persona secondo i valori cristiani.
La relazione che si sviluppa dentro la comunità educante è circolare e tutti i soggetti sono esposti al flusso dello scambio linguistico e a molteplici attività inter-relazionali, per cui l’esempio dell’uno costituisce un insegnamento per l’altro oltre che uno sprone a progredire nella propria formazione e nel perseguimento dei fini comuni.
La comunità si prende cura di questi aspetti e vigila su queste dinamiche interne di scambio, al fine di autoregolamentarsi e sostenersi.
Dove c’è «comunità educante» c’è partecipazione; ma partecipazione opposta a delega, a gerarchizzazione come sclerosi delle posizioni, a ruolo come riduzione di parola.
Il potere si ridistribuisce continuamente, si coagula nelle decisioni condivise, perché nella «comunità» viene naturalmente posto in primo piano il valore della comunione.
Nei diversi contesti e ambiti, la comunità educante è costituita dagli educatori, chierici, religiosi e laici, dai catechisti, dai giovani, dai genitori e da altri membri delle famiglie che, a vari livelli, condividono la comune missione attraverso ruoli diversificati e complementari.
Orientare soprattutto le giovani generazioni e formarle ai valori della giustizia, della verità e della solidarietà attraverso una pedagogia d’ambiente è la nuova sfida da affrontare.37 I laici chiamati in particolar modo a «cercare il Regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio»,38 in quanto educatori, sono a maggior ragione chiamati a vivere «nella Fede la [loro] vocazione secolare nella struttura comunitaria della scuola, con la maggior qualificazione professionale ossibile e con un progetto apostolico ispirato alla fede per la formazione integrale dell’uomo».39 L’educazione, ovviamente, si realizza anche in altre situazioni della vita scolastica e oltre l’ambiente scolastico vero e proprio.
«Così gli insegnanti, come ogni persona che vive e lavora in un ambito scolastico, educano, o possono anche diseducare, con il loro comportamento verbale e non verbale.
Centrale nell’opera educativa, e specialmente nell’educazione alla fede, che è il vertice della formazione della persona e il suo orizzonte più adeguato, è dunque in concreto la figura del testimone».40 Nella comunità educativa, pertanto non va disatteso il fattore testimonianza, perché soprattutto lo stile di vita dei membri della comunità contribuisce a creare «un ambiente educativo permeato dallo spirito evangelico di libertà e carità»41.
Dando testimonianza di comunione, la comunità educativa cattolica è in grado di formare alla comunione, la quale, come dono che viene dall’alto, anima il progetto di formazione alla convivenza e all’accoglienza.
In questo modo, la vita di comunione della comunità educativa assume il valore di principio educativo, di paradigma che orienta la sua azione formativa come servizio per la realizzazione di una cultura della comunione.
Perciò, la comunità cattolica, attraverso gli strumenti dell’insegnamento e dell’apprendimento, «non trasmette […] la cultura come mezzo di potenza e di dominio, ma come capacità di comunione e di ascolto degli uomini, degli avvenimenti, delle cose».42 Ogni attività educativa è «informata» da tale principio e anche tutte quelle attività diverse dall’attività catechistica vera e propria, quali lo sport, il teatro e l’impegno nel sociale, che favoriscono l’apporto creativo degli allievi e la socializzazione, sono permeate dal principio della comunione43.
Per compiere questo cammino formativo le comunità cristiane educanti, espressioni particolari di tutta la Chiesa, dovrebbero perseguire i propri obiettivi pedagogici in piena comunione con le altre realtà ecclesiali.
«I laici che, in ragione delle loro relazioni familiari e sociali, vivono immersi nel mondo, possono favorire l’apertura della comunità educativa a un apporto costruttivo con le situazioni culturali, civili e politiche, con le diverse aggregazioni sociali — da quelle più informali a quelle più organizzate — presenti nel territorio».44 La Chiesa, sul piano universale, senza mai trascurare le fonti bibliche e il Magistero, si pone degli obiettivi a carattere generale e particolare al fine di favorire una comunione di intenti sulle verità fondamentali e gli asserti più specifici della teologia e della dottrina, ma tiene conto anche della specificità dei territori, della tradizione e della cultura delle singole realtà umane, a tutti i livelli.
Attraverso gli organismi preposti dalla gerarchia, la Chiesa riflette anche sul cammino pedagogico delle numerose e varie realtà aggregative sia di quelle nuove, che molto spesso si configurano come movimenti, sia di quelle tradizionali.
Benedetto XVI in una recente lettera alla diocesi di Roma ribadisce la necessità di ripensare all’impegno educativo verso le nuove generazioni, sfida decisiva per il futuro della Fede, sottolineando come oggi tale impegno sia molto più complesso e arduo del passato e come non possa esaurirsi nella ricerca di nuovi metodi, ma debba essere ripensato a partire dall’individuazione delle cause profonde della sua crisi, per rispondere alle nuove esigenze storiche.
La comunità cristiana è chiamata ad affrontare questa nuova sfida con serenità.45 Educare per la Chiesa non è mai stata un’attività semplicemente pedagogica, ma piuttosto una proposta di inserimento nella sua stessa vita, che per essere educante deve essere vera realtà e non semplice finzione, sia pure di natura religiosa: non c’è educazione senza realtà, vitalità e testimonianza viva.
C’è quindi un legame intrinseco tra vita ecclesiale ed educazione che oggi, come non mai, si rende indispensabile e viene maggiormente richiesto dal nuovo contesto culturale, spingendo la Chiesa nel campo della società dinamica, in cui il processo educativo deve mirare alla formazione integrale dell’uomo su un piano teorico e pratico.
In questo nuovo impegno educativo la comunità cristiana certamente ritrova se stessa, nella sua vera natura di realtà storica e non solo di fenomeno religioso, riscoprendo la sua responsabilità verso la società, impegnandosi in una meravigliosa opera di progettazione e formazione di persone e cittadini che, una volta formati, diventano anch’essi formatori.
Una dinamica educativa mai disancorata dalla realtà e dinamicità di questa nostra società, giacché l’incontro con Cristo inserisce l’uomo, non in un mondo astratto, meramente ideologico, bensì nella concretezza e nella storicità di quell’organismo divino-umano che è la Chiesa.46 Note 32 Concilio Vaticano II, Dichiarazione sull’educazione cristiana Gravissimum educationis, EV 1/ Introduzione/819.
33 Ibidem.
34 M.
Mannucci, Barbiana.
Per una comunità educante, Tirrenia, Edizioni del Cerro, 2004.
35 Vedi L.
Leuzzi, La comunità cristiana e l’educazione alla fede.
Prospettive di pastorale universitaria, Città del Vaticano, Lateran University Press, 2006.
36 Vedi AA.VV., Educazione religiosa.
Scuola Cattolica in Italia.
7° Rapporto, Brescia, La Scuola, 37 Vedi G.P Quaglino, Fare formazione, Bologna, il Mulino, 1985; G.P.
Quaglino e G.P.
Carrozzi, Il processo di formazione.
Dall’analisi dei bisogni alla valutazione dei risultati, Milano, Angeli, 1987.
38 LG, EV 1/31/549.
39 Sacra Congregazione per l’Educazione Cattolica, Il laico cattolico testimone di fede nella scuola, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1982, n.
24.
40 Benedetto XVI, Discorso all’apertura del Convegno ecclesiale della Diocesi di Roma su famiglia e comunità cristiana (6 giugno 2005), AAS 97, 2005, 815.
41 Concilio Vaticano II, Dichiarazione sull’educazione cristiana Gravissimum educationis, EV 1/8/837.
42 Sacra Congregazione per l’Educazione Cattolica, La scuola cattolica, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1977, n.
56.
43 Vedi Congregazione per l’Educazione Cattolica, Educare insieme nella scuola cattolica.
Missione condivisa di persone consacrate e fedeli laici, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, n.
39, 25.
44 44.
Ibidem, n.
47, 30.
45 Vedi Benedetto XVI, Lettera alla Diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione, 21 gennaio 2008.
46 Vedi J.
Ratzinger, Il concetto di Chiesa e il problema dell’appartenenza alla chiesa.
In Il nuovo popolo di Dio, Brescia, Morcelliana, 1992, s.i.p.
       

Ha piantato la sua tenda fra noi.

  Ha piantato la sua tenda fra noi.
  Non ha scelto una tenda comoda: non quando è nato; né quando, profugo, ha dovuto trapiantarla in Egitto.
E quando alla morte del tiranno torna in patria la sua tenda resta semplice e povera, quella di un umile artigiano.
Vi lavora sconosciuto per trent’anni, senza abbellirla o dilatarla: gli basta.
  E quando finalmente decide di percorrere le strade assolate della Palestina, la lascia senza rimpianto.
Due discepoli di Giovanni, conquistati dalla maestà della sua figura, gli pongono la domanda: – dove abiti? – venite e vedrete! Forse non ha mostrato loro neppure una tenda: il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo…
(Luca 9, 58)   La povera tenda di Nazaret, che l’ha ospitato per una vita, gli ha consentito di intuire ed elaborare il progetto più ambizioso: instaurare il regno di Dio.
I discepoli che lo incontrano, a cominciare dai primi che gli hanno chiesto – dove abiti?- intuiscono che i contorni della sua tenda sono diversi.
Non accolgono per le ore di riposo.
Incalzano per le ore di impegno.
La sua non è una tenda, è una consegna: beati i poveri, …  beati i perseguitati per la giustizia…
( Matteo 5) – Lui lo sarà per primo! E la consegna suona perentoria ed esigente: “chi ama la sua vita la perde…” Questo discorso è duro, noteranno presto i più.
Ma il loro abbandono non attenua l’esigenza della consegna.
Rivolto ai discepoli: – volete andarvene anche voi? – Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio (Giovanni 6, 67-68) Pietro ha intuito che l’incontro con il Maestro non lo introduceva in nessuna tenda Spalancava orizzonti alternativi, dai contorni misteriosi e carichi di futuro.
In lui e in loro Gesù aveva trovato amici fedeli, disposti a camminare anche senza alcuna tenda, e tuttavia carichi di attesa.
Pietro glielo ricorda: “Ecco noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito”.
Gesù gli rispose: “In verità vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle, o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madre e figli e campi, insieme e a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna”.
(Marco 10, 28-32)   La tenda prima, la strada poi consentono a Cristo e ai suoi di impiantare il Regno – la nuova tenda -; un regno stabile: duemila anni di storia lo confermano.
Un regno singolare, sotto molti risvolti alternativo; ma sotto altri singolarmente illuminante: un regno che non si impegna a dilatare la tenda terrena; però vi abita a lungo nel nascondimento e nella fatica quotidiana per esplorare le risorse nascoste del mondo presente e assumerle a condizione privilegiata di salvezza futura.
  La secolarità… pp.
63-65

Natale dei popoli

Se c’é una cosa carina da ricordare dalle tumultuose manifestazioni dei black bloc  e di tutti coloro che sono accorsi a Copenaghen( tra l’altro, la città più verde d’Europa, nel dicembre 2009!!!) perché “i grandi della terra”  assumano provvedimenti seri per ridurre i guai climatici, ho notato un cartello profetico( forse gliel’ha suggerito lo stesso Gesù Bambino, essendo entrati già nel clima natalizio): quello che da il titolo al mio servizio sull’ormai NATALE DEI POPOLI che ci apprestiamo a festeggiare.
E’ innegabile che non c’è un Pianeta B e che Cristo, per quanti credono in Lui e nel suo messaggio di pace e tenerezza tra tutti i popoli della terra, per l’umanità c’è solo la terra da salvare assolutamente, essendo il “luogo” che ha scelto per incarnarsi ed assumere la nostra miserabile umanità, affinché si stabilisca tra gli uomini e le donne quella complicità amichevole per meglio vivere e prosperare insieme, senza lasciare alcuno indietro.
In tale atmosfera, richiamo alcune tradizioni natalizie.
STORIA E TRADIZIONI DEL NATALE Storicamente non è accertato che Gesù il Cristo sia nato effettivamente il 25 dicembre.
Nei Vangeli di Matteo e di Luca, che danno una descrizione di alcuni momenti legati alla Natività, non è citato né il giorno, né il mese, e neppure l’anno della venuta del Figlio di Dio, anche se sappiamo che Gesù nacque quando regnava l’imperatore Cesare Augusto.
La festa del Natale cristiano, ovvero del dies natalis Christi, sembra sia stata istituita, nella data del 25 dicembre, da Papa Giulio I solo nel 337.
Il primo riferimento al 25 dicembre si trova in uno scritto di Sant’Ippolito del 235 circa, il Commentario su Daniele: «La prima venuta di nostro Signore, quella nella carne, nel quale egli nacque a Betlemme, ebbe luogo otto giorni prima delle calende di gennaio, di mercoledì, nel quarantaduesimo anno di regno di Augusto» (IV, 23, 3).
Un’altro documento, la Depositio episcoporum (elenco liturgico contenuto nel Cronografo, il più antico calendario della Chiesa di Roma), attesta che tale celebrazione era già presente nel 336, anche se sembra che inizialmente la festività fosse celebrata solo nella Basilica di San Pietro.
Altri documenti ecclesiastici rinviano al 354, sotto il pontificato di Liberio, la prima apparizione del Natale in Occidente (come si attesta ancora nello stesso Cronografo).
Nel 461 la scelta sarà ufficializzata da Papa Leone Magno.
La Chiesa di Roma decise di far coincidere la ricorrenza della nascita del Cristo con la festa pagana della nascita del Sole invincibile (Dies Natalis Solis Invicti), voluta dall’imperatore Aureliano nel 275, per soffocare il “culto del sole” ancora radicato presso i Romani, nonostante Costantino avesse proclamato la confessione cristiana religione ufficiale dell’Impero.
Egli, poi, nel 321, aveva cambiato il nome del primo giorno della settimana da Dies Solis, il “venerabile” giorno del Sole, a Dominus, “giorno del Signore” (questo cambiamento non fu accettato da tutti, tanto che nel centro-nord dell’Europa, ancora oggi, è rimasto l’antico nome di “giorno del Sole”: Sunday tra i Sassoni e Sontag presso i popoli germanici).
Il 25 dicembre, successivamente,  è una data importante per molte religioni antiche, poiché si celebrava la nascita di una divinità legata alla simbologia del Sole:in Egitto si ricordava la nascita di Horo o Horus (nato dalla vergine Osiride); presso i Babilonesi si festeggiava il dio Tammuz (unico figlio della dea Istar, rappresentata con il bimbo in braccio e con un’aureola di dodici stelle attorno alla testa, che muore per risorgere dopo tre giorni); in Grecia la nascita di Dionisio (Bacco per i Romani); in Siria quella di Adone; in Persia si celebrava la nascita di Mitra (figlio del Sole e Sole egli stesso); presso i popoli precolombiani era una data significativa poiché coincideva con la venuta della divinità inca Quetzalcoatl, in Messico, o di Bacab, nello Yucatan, divinità quest’ultima messa al mondo dalla vergine Chiribirias; i popoli scandinavi, invece, onoravano la nascita del dio Freyr.
Una singolare omogeneità si ha poi con il culto mitraico, la pratica devozionale “antagonista” del cristianesimo, giunto a Roma con l’espandersi dell’Impero verso Oriente: anche Mitra era stato partorito da una vergine in una grotta, aveva dodici discepoli ed era soprannominato “il Salvatore”.
Per i paesi occidentali, tra cui quelli che si dicono “cristiani” , la tradizione più comune è l’allestimento del Presepio.
Infatti, gli evangelisti Luca e Matteo sono  i primi a descrivere la Natività.
Nei loro brani c’è già tutta la sacra rappresentazione che a partire dal medioevo prenderà il nome latino di praesepium ovvero recinto chiuso, mangiatoia.
Si narra infatti della umile nascita di Gesù, come riporta Luca, “in una mangiatoia perché non c’era per essi posto nell’albergo” (Ev., 2,7); dell’annunzio dato ai pastori; dei magi venuti da oriente seguendo la stella per adorare il Bambino che i prodigi del cielo annunciano già re.
Questo avvenimento così familiare e umano se da un lato colpisce la fantasia dei paleocristiani rendendo loro meno oscuro il mistero di un Dio che si fa uomo, dall’altro li sollecita a rimarcare gli aspetti trascendenti quali la divinità dell’infante e la verginità di Maria.
Così si spiegano le effigi parietali del III secolo nel cimitero di S.
Agnese e nelle catacombe di Pietro e Marcellino e di Domitilla in Roma che ci mostrano una Natività e l’adorazione dei Magi, ai quali il vangelo apocrifo armeno assegna i nomi di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, ma soprattutto si caricano di significati allegorici i personaggi dei quali si va arricchendo l’originale iconografia.
Il bue e l’asino, aggiunti da Origene, interprete delle profezie di Abacuc e Isaia, divengono simboli del popolo ebreo e dei pagani; i Magi il cui numero di tre, fissato da S.
Leone Magno, ne permette una duplice interpretazione, quali rappresentanti delle tre età dell’uomo: gioventù, maturità e vecchiaia e delle tre razze in cui si divide l’umanità: la semita, la giapetica e la camita secondo il racconto biblico; gli angeli, esempi di creature superiori; i pastori come l’umanità da redimere e infine Maria e Giuseppe rappresentati a partire dal XIII secolo, in atteggiamento di adorazione proprio per sottolineare la regalità dell’infante.
Anche i doni dei Magi sono interpretati con riferimento alla duplice natura di Gesù e alla sua  regalità: l’incenso, per la sua Divinità, la mirra, per il suo essere uomo, l’oro perché dono riservato ai re.
A partire dal IV secolo la Natività diviene uno dei temi dominanti dell’arte religiosa e in questa produzione spiccano per valore artistico: la natività e l’adorazione dei magi del dittico a cinque parti in avorio e pietre preziose del V secolo che si ammira nel Duomo di Milano e i mosaici della Cappella Palatina a Palermo, del Battistero di S.
Maria a Venezia, e a Roma quelli delle Basiliche di S.
Maria in Trastevere della Basilica di Santa Maria Maggiore, dove già nel 600 esisteva  una riproduzione della grotta di Betlemme: «Sancta Maria ad Praesepem».
E molti cristiani si recavano a visitarla con la stessa devozione con la quale i pellegrini confluivano a Betlemme, in Giudea, alla grotta considerata luogo di nascita di Gesù e dove per desiderio di sant’Elena (madre dell’imperatore Costantino) sorse, nel 326, la Basilica della Natività.  In queste opere dove si fa evidente l’influsso orientale, l’ambiente descritto è la grotta, che in quei tempi si utilizzava per il ricovero degli animali, con gli angeli annuncianti mentre Maria e Giuseppe sono raffigurati in atteggiamento ieratico simili a divinità o, in antitesi, come soggetti secondari quasi estranei all’evento rappresentato.
Dal secolo XIV la Natività è affidata all’estro figurativo degli artisti più famosi che si cimentano in affreschi, pitture, sculture, ceramiche, argenti, avori e vetrate che impreziosiscono le chiese e le dimore della nobiltà o di facoltosi committenti dell’intera Europa, valgano per tutti i nomi di Giotto, Filippo Lippi, Piero della Francesca, il Perugino, Dürer, Rembrandt, Poussin, Zurbaran, Murillo, Correggio, Rubens e tanti altri.
Il presepio come lo vediamo realizzare ancor oggi ha origine, secondo la tradizione, dal desiderio di San Francesco di far rivivere in uno scenario naturale la nascita di Betlemme; nel 1223 a Greccio, in Umbria, per la prima volta arricchì la Messa di Natale con la presenza di un presepio vivente, episodio poi magistralmente dipinto da Giotto nell’affresco della Basilica Superiore di Assisi.  L’opera ideata da san Francesco venne chiamata Presepio o Presepe, termine di derivazione latina indicante la stalla, e anche la mangiatoia che si trova in quell’ambiente, propriamente ogni recinto chiuso.
Alcuni studiosi italiani e stranieri ritengono non del tutto corretto attribuire a San Francesco la paternità del presepio.
Come narra Tommaso da Celano, il frate che raccontò la vita del santo, Francesco nel Natale del 1222 si trovava a Betlemme dove assisté alle funzioni liturgiche della nascita di Gesù.
Ne rimase talmente colpito che, tornato in Italia, chiese a Papa Onorio III di poterle ripetere per il Natale successivo.
Ma il Papa, essendo vietati dalla chiesa i drammi sacri, gli permise solo di celebrare la messa in una grotta naturale invece che in chiesa.
Quando giunse la notte santa, accorsero dai dintorni contadini di Greccio e alcuni Frati che illuminarono la notte con le fiaccole.
All’interno della grotta fu posta una greppia riempita di paglia e accanto vennero messi un asino e un bue.
Francesco, che non era sacerdote, predicò per il popolo riunito.
Pertanto non si tratta della realizzazione di un vero presepio (che é la rappresentazione tridimensionale, a tutto tondo, della nascita di Gesù, mediante un plastico e alcune statuine) ma piuttosto di una messa celebrata eccezionalmente in una grotta anziché in una chiesa.
Il primo presepe con personaggi a tutto tondo risalirebbe quindi al 1283, e fu opera di Arnolfo di Cambio che scolpì otto statuette in legno rappresentanti i personaggi della Natività ed i Magi.
Tale presepe si trova ancora nella basilica romana di S.
Maria Maggiore.
Da allora e fino alla metà del 1400 gli artisti modellano statue di legno o terracotta che sistemano davanti a un fondale pitturato riproducente un paesaggio che fa da sfondo alla scena della Natività; il presepe è esposto all’interno delle chiese nel periodo natalizio.
Culla di tale attività artistica fu la Toscana ma ben presto il presepe si diffuse nel regno di Napoli ad opera di Carlo III di Borbone e nel resto degli Stati italiani.
Nel ‘600 e ‘700 gli artisti napoletani danno alla sacra rappresentazione un’impronta naturalistica inserendo la Natività nel paesaggio campano ricostruito in scorci di vita che vedono personaggi della nobiltà, della borghesia e del popolo rappresentati nelle loro occupazioni giornaliere o nei momenti di svago: nelle taverne a banchettare o impegnati in balli e serenate.
Ulteriore novità è la trasformazione delle statue in manichini di legno con arti in fil di ferro, per dare l’impressione del movimento, abbigliati con indumenti propri dell’epoca e muniti degli strumenti di svago o di lavoro tipici dei mestieri esercitati e tutti riprodotti con esattezza anche nei minimi particolari.
Questo per dare verosimiglianza alla scena delimitata da costruzioni riproducenti luoghi tipici del paesaggio cittadino o campestre: mercati, taverne, abitazioni, casali, rovine di antichi templi pagani.
A tali fastose composizioni davano il loro contributo artigiani vari e lavoranti delle stesse corti regie o la nobiltà, come attestano gli splendidi abiti ricamati che indossano i Re Magi o altri personaggi di spicco, spesso tessuti negli opifici reali di S.
Leucio.
In questo periodo si distinguono anche gli artisti liguri in particolare a Genova, e quelli siciliani che, in genere, si ispirano sia per la tecnica che per il realismo scenico, alla tradizione napoletana con alcune eccezioni come ad esempio l’uso della cera a Palermo e Siracusa o le terracotte dipinte a freddo di Savona e Albisola.
Sempre nel ‘700 si diffonde il presepio meccanico o di movimento che ha un illustre predecessore in quello costruito da Hans Schlottheim nel 1588 per Cristiano I di Sassonia.
La diffusione a livello popolare si realizza pienamente nel ‘800 quando ogni famiglia in occasione del Natale costruisce un presepe in casa riproducendo la Natività secondo i canoni tradizionali con materiali – statuine in gesso o terracotta, carta pesta e altro – forniti da un fiorente artigianato.
In questo secolo si caratterizza l’arte presepiale della Puglia, specialmente a Lecce, per l’uso innovativo della cartapesta, policroma o trattata a fuoco, drappeggiata su uno scheletro di fil di ferro e stoppa.
A Roma le famiglie importanti per censo e ricchezza gareggiavano tra loro nel farsi costruire i presepi più imponenti, ambientati nella stessa città o nella campagna romana, che permettevano di visitare ai concittadini e ai turisti.
Famosi quello della famiglia Forti posto sulla sommità della Torre degli Anguillara, o della famiglia Buttarelli in via De’ Genovesi riproducente Greccio e il presepe di S.
Francesco o quello di Padre Bonelli nel Portico della Chiesa dei Santi XII Apostoli, parzialmente meccanico con la ricostruzione del lago di Tiberiade solcato dalle barche e delle città di Gerusalemme e Betlemme.
Oggi dopo l’affievolirsi della tradizione negli anni ’60 e ’70, causata anche dall’introduzione dell’albero di Natale, il presepe è tornato a fiorire grazie all’impegno di religiosi e privati che con associazioni come quelle degli Amici del Presepe, Musei tipo il Brembo di Dalmine di Bergamo, mostre, tipica quella dei 100 Presepi nelle Sale del Bramante di Roma; dell’Arena di Verona, rappresentazioni dal vivo come quelle della rievocazione del primo presepio di S.
Francesco a Greccio e i presepi viventi di Rivisondoli in Abruzzo o Revine nel Veneto e soprattutto la produzione di artigiani presepisti, napoletani e siciliani in special modo, eredi delle scuole presepiali del passato, hanno ricondotto nelle case e nelle piazze d’Italia la Natività e tutti i personaggi della simbologia cristiana del presepe.
  Nel corso dei secoli la festa del Natale ha assunto, accanto al suo significato religioso, anche aspetti pagani.
Così sono comparse la figura di Babbo Natale con l’usanza dei doni, quella dell’albero e del presepe.
Babbo Natale, l’omone simpatico che porta i doni ai bambini,  trae origine da San Nicola di Mira (antica città dell’attuale Anatolia, in Turchia), vescovo vissuto nel IV secolo, di cui tuttora il personaggio di Babbo Natale porta il nome nei paesi nordeuropei: Santa Claus.
Nel folclore, questo protagonista natalizio, un po’ grasso, gioviale e con una lunga barba bianca, arriva durante la notte di Natale su una slitta trainata da una renna, scende per il camino, lascia i doni ai bambini, e mangia il cibo che gli hanno lasciato.
Il resto dell’anno lo passa fabbricando giocattoli e ricevendo lettere sul comportamento dei bambini.
In realtà, l’usanza di collegare San Nicola ai regali è legata alle grandi elargizioni che il vescovo faceva a favore dei poveri e, soprattutto, per aver provvisto la dote alle tre figlie di un cristiano povero ma devoto, evitando così che fossero obbligate alla prostituzione.
La dimora tradizionale di Babbo Natale cambia a seconda delle tradizioni: negli Stati Uniti si sostiene che abiti al Polo Nord, in Alaska; in Europa è invece più diffusa la versione finlandese, che lo vuole residente nel villaggio di Rovaniemi, in Lapponia.
Altre tradizioni parlano del paesino di Dalecarlia, in Svezia, oppure di Nuuk, in Groenlandia.
Se Babbo Natale è nell’immaginario dei bambini il simbolo per eccellenza del Natale, l’albero e il Presepe sono tra le più evocative e diffuse tradizioni natalizie nel mondo, comuni più o meno a tutti i popoli, sebbene in forme diverse.
La rappresentazione artistica della Natività ha origini remote.
I primi cristiani usavano scolpire o dipingere le scene della nascita di Cristo nei loro luoghi di incontro, ad esempio nelle catacombe.
Sono gli evangelisti Luca e Matteo i primi a descrivere la Natività.
Nei loro Vangeli c’è la sacra narrazione che a partire dal medioevo prenderà il nome latino di praesepium, ovvero recinto chiuso, mangiatoia.
del Cristo in San Francesco d’Assisi fu il primo a rappresentare la Natività  forma “vivente”, animata dal popolo e rappresentata a Greccio la notte di Natale del 1223.
Tale evento fu poi raffigurato da Giotto nell’affresco della Basilica Superiore di Assisi.
Arnolfo di Cambio fu, invece, il primo artista a rievocare la nascita di Gesù in forma inanimata.
Egli, nel 1280, scolpì nel legno otto statue per rievocare la nascita del Cristo.
Le statue residue si trovano tutt’oggi nella cripta della Cappella Sistina di Santa Maria Maggiore in Roma.
Da allora la produzione artistica della Natività non si è mai fermata, sino ad arrivare ai presepi “fai da te” che si trovano oggi nelle nostre case (Cfr.: http://www.storiain.net/arret/num122/artic7.asp).
L’origine dell’albero di Natale è incerta.
L’immagine dell’albero come simbolo del rinnovarsi della vita è un popolare tema pagano, presente sia nel mondo antico che medioevale.
La derivazione dell’uso moderno della tradizione dell’albero di Natale, tuttavia, non è stata provata con comprensibilità.
Sicuramente tale usanza risale alla Germania del XVI secolo.
Ma esiste una leggenda che risale a secoli prima.
Una storia, infatti, lega l’albero di Natale a San Bonifacio, il santo nato in Inghilterra intorno al 680 e che evangelizzò le popolazioni germaniche.
Si narra che Bonifacio affrontò i pagani riuniti presso la “Sacra Quercia del Tuono di Geismar” per adorare il dio Thor.
Il Santo, con un gruppo di discepoli, arrivò nella radura dov’era la “Sacra Quercia” e, mentre si stava per compiere un rito sacrificale umano, gridò: «questa è la vostra Quercia del Tuono e questa è la croce di Cristo che spezzerà il martello del falso dio Thor».
Presa una scure cominciò a colpire l’albero sacro.
Un forte vento si levò all’improvviso, l’albero cadde e si spezzò in quattro parti.
Dietro l’imponente quercia stava un giovane abete verde.
San Bonifacio si rivolse nuovamente ai pagani: «Questo piccolo albero, un giovane figlio della foresta, sarà il vostro sacro albero questa notte.
È il legno della pace, poiché le vostre case sono costruite di abete.
È il segno di una vita senza fine, poiché le sue foglie sono sempre verdi.
Osservate come punta diritto verso il cielo.
Che questo sia chiamato l’albero di Cristo bambino; riunitevi intorno ad esso, non nella selva, ma nelle vostre case; là non si compiranno riti di sangue, ma doni d’amore e riti di bontà».
Bonifacio riuscì a convertire i pagani e il capo del villaggio mise un abete nella sua casa, ponendo sopra ai rami delle candele.
Tra i primi riferimenti storici alla tradizione dell’albero di Natale, la scienza, attraverso l’etnologo Ingeborg Weber-Keller, ha identificato una cronaca di Brema del 1570 che racconta di un albero decorato con mele, noci, datteri e fiori di carta.
Ma è la città di Riga, capitale della Lettonia, a proclamarsi sede del primo albero di Natale della storia: nella sua piazza principale si trova una targa scritta in otto lingue, secondo cui il “primo albero di capodanno” fu addobbato nella città nel 1510.
L’usanza di avere un albero decorato durante il periodo natalizio si diffuse nel XVII secolo e agli inizi del secolo successivo era già pratica comune nelle città della Renania.
Per molto tempo la tradizione dell’albero di Natale rimase tipica delle regioni protestanti della Germania e solo nei primi decenni del XIX secolo si diffuse nei paesi cattolici.
A Vienna l’albero di Natale apparve ufficialmente nel 1816, per volere della principessa Henrietta von Nassau Weilburg, mentre in Francia fu importato dalla duchessa di Orléans nel 1940.
Oggi la tradizione dell’albero di Natale è universalmente accettata anche nel mondo cattolico.
Papa Giovanni Paolo II lo introdusse nel suo pontificato facendo allestire, accanto al presepe, un grande albero di Natale proprio in piazza San Pietro.
  ”Paese che vai, usanze che trovi” In Spagna, paese cattolicissimo, esiste un proverbio legato alle tradizioni natalizie: “Presepe fai, pane mangerai”.
Infatti, grazie anche agli italiani, il rito del presepe qui è molto sentito.
Anche i presepi viventi sono molto comuni in questo paese: in Andalusia i presepi servono anche per fare beneficenza, poiché chi si reca a visitare il presepe lascia qualcosa per le famiglie più bisognose.
Sempre in tema di generosità, in molti paesi spagnoli è usanza, la notte di Natale, accogliere in casa un neonato povero con la propria mamma, al quale la famiglia regalerà un corredino nuovo.
La notte della vigilia di Natale è chiamata dagli spagnoli la Nochebuena, durante la quale ci si riunisce in casa per assaporare i prodotti tipici.
I canti natalizi spagnoli sono diversi da regione a regione, si chiamano villancicos e il ritmo dominante è soprattutto il flamenco.
In Portogallo le usanze sono simili.
Il rito cattolico della notte di Natale è chiamato “Messa del gallo” perché una leggenda dice che quando Gesù nacque il gallo cantò a perdifiato nonostante non fosse ancora alba.
Subito dopo la messa i portoghesi cenano e tra le portate non manca la “Consoada” (baccalà con legumi).
Qui Babbo Natale è chiamato Pai Natal, ma a portare i doni è il Menino Jesus, Gesù Bambino, anche se l’usanza dei doni è più legata al 6 gennaio, quando arrivano los Rejes Magas, ovvero i Re Magi.
In Francia i doni arrivano ai bambini la notte di Natale, mentre gli adulti li scambiano generalmente a Capodanno.
Un’usanza delle campagne francesi è il ceppo bruciato: si accende un pezzo di legno per riscaldare virtualmente Gesù Bambino.
Nel presepe francese il personaggio che piace di più ai bambini è il ravi, un omino che con la sua lanterna rischiara il sentiero che conduce alla grotta di Gesù.
Anche in Francia si usa organizzare il cenone della vigilia; una volta finito, si lascia la tavola apparecchiata per la Vergine Maria.
Famosi sono i canti natalizi provenzali, dai quali derivano le varie pastorali.
In Alvernia è ancora in uso il rito della chandelle, una grossa candela colorata accesa durante il cenone.
Il più anziano segna la candela con una croce e la spegne, poi la passa a colui che gli sta accanto e così via.
Nella regione di Carpentras, invece, alla fine della cena natalizia si pianta in un vaso una rosa di Gerico, perché su questa pianta la Madonna stendeva ad asciugare la biancheria di Gesù Bambino.
In Svizzera la tradizione vuole che i regali ai bambini siano portati da Gesù Bambino (Christkind, in tedesco, o petit Jesus, in francese).
Uno dei tradizionali dolci natalizi della confederazione elvetica è il Grittibaenz, un pane dolce a forma di bambolina decorato con frutta secca e mandorle.
In Austria sono famosi i presepi realizzati con figure di legno intagliate a mano.
A Salisburgo l’albero e il presepe si allestiscono in maniera del tutto singolare: si tratta infatti di una rappresentazione della storia dell’umanità.
Partendo dalla rappresentazione del peccato originale, si procede – giorno per giorno, a partire dall’Avvento – con rappresentazioni del profeta Isaia, dell’Annunciazione in terra, fino alla nascita del Redentore.
L’Austria vanta anche la pastorale più celebre al mondo: Still Nacht, che noi conosciamo come Astro del Ciel.
Questa melodia fu eseguita per la prima volta nella chiesa di San Nicola a Obendorf, vicino a Salisburgo.
Era la vigilia di Natale del 1818 e Padre Mohor era stato chiamato per battezzare un neonato.
Era una sera particolarmente chiara e le stelle brillavano nel firmamento.
Il sacerdote, toccato da quella pace tranquilla, scrisse di getto quelle le parole, musicate qualche tempo dopo dal maestro Franz Gruber.
In Germania l’albero e la corona d’Avvento rivestono grandissima importanza e si trovano, oltre che in tutte le case, anche nelle chiese.
L’origine della corona va ricercata presso i luterani della Germania orientale.
Essa è in pratica la continuazione di antichi riti pagani che si celebravano nel mese di Yule (dicembre).
È costituita da un grande anello di fronde d’abete (ma si può usare anche il tasso, il pino o l’alloro), che viene sospeso al soffitto con quattro nastri rossi, oppure collocato su un tavolo.
Attorno alla corona sono fissati quattro ceri, posti ad eguale distanza tra di loro, che rappresentano le quattro settimane d’Avvento e che si accendono una volta al settimana man mano che si avvicina il Natale.
La tradizione tedesca assegna anche un nome alle quattro candele: la prima è la candela della Profezia, la seconda è quella di Betlemme, la terza dei Pastori, l’ultima degli Angeli.
Molto usato dai bambini è anche il calendario dell’Avvento, con ventiquattro finestrelle che scandiscono il tempo che manca alla grande festa natalizia.
Partendo dal 1° dicembre, ogni giorno si apre una finestrella e il bambino promette di compiere una buona azione.
Al termine del calendario (sarà quindi il giorno di Natale) appare l’immagine del presepe.
Il pranzo di Natale tedesco è costituito da oca ripiena, carpa, salsicce e, ovviamente, birra.
Il tipico dolce natalizio della Germania è, invece, lo Stollen, un dessert a base di farina, limone e arancia candita, mandorle amare e dolci, cannella, uva sultanina, uva fresca, rum.
  In Belgio è diffusa la tradizione dei falò e dei fuochi.
La cena di Natale è a base di salmone, caviale e ostriche.
Il pranzo del 25 prevede, invece, roastbeef o tacchino arrosto farcito di carne macinata, tartufi e bagnato con cognac, mentre il contorno è composto da cavolini di Bruxelles e albicocche sciroppate passate in padella col fondo di cottura del tacchino.
Il dolce riprende il tronco di Natale francese, a cui è però qui aggiunto un piccolo Gesù Bambino di zucchero.
In Olanda i bambini mettono davanti al camino i loro zoccoli o le scarpe pieni di fieno e di carote per il cavallo di Sinter Klaas (Babbo Natale), sperando così di ricevere in cambio dolci e regali.
La notte di Natale si mangia tutti insieme un dolce chiamato Letterbanket, cioé “dolce lettera”, fatto di marzapane e biscotto.
La tradizione vuole che ogni famiglia gli dia la forma della lettera iniziale del proprio nome; in alternativa si fanno tanti piccoli dolci, uno per ogni componente della famiglia, con la forma della sua iniziale.
Il giorno di Natale si consuma il tacchino o l’oca ripiena di prugne.
Ci sono anche i dolci tipici, quasi tutti a base di melassa e mandorle.
In Danimarca esiste l’usanza di coltivare il giacinto in vaso: se fiorisce il giorno di Natale la casa sarà protetta dalle malattie.
Il pranzo di Natale comprende il riso al latte, nel quale è nascosta una mandorla: chi la trova ha diritto a un regalo più grande.
In Inghilterra sia la notte sia il giorno di Natale si festeggiano con tacchino ripieno accompagnato da mirtilli, mentre il dolce tradizionale è il Christmas Pudding o Christmas Cake.
Verso le tre del pomeriggio si assiste insieme al tradizionale discorso della Regina in televisione.
Tutte le città, Londra in testa, ospitano un grande albero addobbato mentre le chiese sono ornate con agrifoglio e vischio.
Anche qui la tradizione vuole che la vigilia di Natale sia acceso un ceppo da far durare il più a lungo possibile, conservandone un pezzo da accendere il Natale successivo.
In Irlanda la leggenda vuole che Maria, Giuseppe e il Bambin Gesù vaghino per le strade dell’isola durante il periodo natalizio: per questo motivo i bambini, per rischiarare il loro cammino, mettono sul davanzale un lumicino, spesso inserito in una rapa o in una zucchetta scavata e decorata con rami verdi.
Secondo l’usanza irlandese, ci si siede a tavola soltanto dopo la mezzanotte.
La cena prevede generalmente piatti a base di oca, pollo o tacchino.
Il giorno di Natale, invece, si gusta lo Speed beef, un rotolo di bue alle spezie che esige una lunga preparazione.
Una vecchia consuetudine irlandese era la cosiddetta “caccia allo scricciolo”.
Nel giorno di Natale i ragazzi catturavano uno scricciolo che legavano, in una gabbia fatta di agrifoglio ed edera, su un bastone portandolo in giro per la questua.
La crudele tradizione, diffusa un tempo anche in Inghilterra e Francia, ha tutte le caratteristiche del sacrificio di un animale alla divinità.
Il motivo di tanto accanimento contro questo uccellino è da ricercare nella leggenda che accompagna il martirio di Santo Stefano.
Si narra infatti che il Santo si fosse nascosto dietro un cespuglio per sfuggire ai suoi persecutori, ma che fosse stato scoperto a causa di uno scricciolo che, volando via, aveva svelato la presenza del martire.
Una consuetudine attestata nella penisola balcanica, dalla Dalmazia alla Macedonia, riguarda i famosi Bandjaci.
Il termine, che si riferisce al verbo slavo bdijeti, “vigilare”, indica i tre ceppi di Natale (ma in Montenegro se ne contano cinque) che si pongono ad ardere nei giorni che vanno dal Natale al Capodanno.
In Grecia uno dei più caratteristici riti della vigilia è la preparazione del Christopsomo o “pane di Cristo”, una pagnotta di pane dolce che può assumere forme e nomi diversi, con decorazioni sulla crosta che rappresentano scene di vita familiare.
La preparazione di questo pane assume il significato di una vera e propria cerimonia religiosa.
Accanto alla farina sono utilizzati ingredienti particolari, quali acqua di rose, sesamo, miele, chiodi di garofano e cannella, pronunciando la formula: “Cristo è nato, la luce si accende, cresca il lievito del pane”.
A cena il padrone di casa rompe il “pane di Cristo” sulla sua testa e se il pezzo di sinistra è il più grande, significa che il nuovo anno sarà buono.
In alcune regioni si preparano i Lahanosarmades, foglie di cavolo cappuccio ripiene di riso con besciamella, che rappresentano le fasciature del Cristo.
Dolci tipici sono i Kourambiedes (a base di burro, mandorle e ricoperti di zucchero a velo), i Melomakarona, originari dell’Epiro (al miele e pistacchio), e le Diples, simili alle frappe, dolci originari di Creta.
In Ungheria è tradizione mettere sotto la tavola natalizia una cesta con del fieno e dei semi, affinché vengano benedetti dal Bambino.
Di quelle sementi, una manciata se ne brucia; ciò che rimane si sparge invece sui campi come auspicio per un buon raccolto.
La cena è abbondante: la carpa, pesce tipico del Natale dell’area orientale europea, è servita come antipasto, in gelatina, decorata con verdure e uova sode, oppure durante e a fine pasto, farcita o fritta in pastella.
Altra pietanza tradizionale, comune a tutti i Paesi dell’est europeo, sono le aringhe affumicate o in salamoia, conservate in piccole botti di legno, poi tenute in ammollo e servite con tanta cipolla tagliata sottilmente, pezzetti di mela e panna acida.
Il menu natalizio ungherese propone una zuppa con verdure e spezzatino di montone, crauti e un formaggio fresco, equivalente della ricotta, condito con capperi, cipolle ed abbondante paprika.
Tra i dolci tipici ci sono il Dobos, una torta dalla preparazione laboriosa, e il Rétés, la pasta per fare lo strudel preparata a mo’ di tortelli e farcita con marmellate e frutta.
In Polonia la rappresentazione della natività è allestita su due piani.
In quello superiore è rappresentata la Natività, in quello inferiore le scene degli eroi nazionali.
Sono celebri i presepi di Cracovia, altissimi, riccamente ornati e simili a cattedrali.
La cena polacca natalizia, rigorosamente “di magro”, ha inizio con un rito diffuso anche nelle famiglie meno osservanti: prima di sedersi, in piedi intorno alla tavola imbandita a festa, si spezza e ci si scambia l’Oplatek, un pane azzimo rettangolare benedetto, che reca stampate immagini sacre.
La tavola è coperta da una tovaglia bianca sotto la quale è sparsa della paglia, in ricordo del Bambin Gesù, ed è decorata con frutta, rami di abete e candele augurali.
In Polonia la notte di Natale si consuma il Barszcz, un brodo caldo preparato la vigilia.
In Russia, accanto al presepe (Verteb), simile allo Szopka polacco, la famiglia canta e prega.
In alcuni villaggi si usa decorare all’aperto l’abete più grande.
Anche gli animali domestici hanno il loro dono: un pane d’avena per i cavalli, un cosciotto d’agnello per il cane, un pesce per il gatto.
Speciale leccornia della vigilia di Natale sono i semi di grano integrale, tenuti per ore a macerare e aromatizzati con semi di papavero schiacciati e mescolati nel miele.
Nella penisola scandinava, durante il periodo natalizio le case sono addobbate con decorazioni di paglia, con fiori e con dolcetti speziati.
I bambini usano il calendario dell’Avvento per contare i giorni fino a Natale e ogni giorno aprono una finestrella.
L’albero si addobba il giorno prima di Natale.
La sera di Natale si mangia una minestra di riso, polpettine e salcicce.
Dopo la cena solitamente ci si riunisce intorno all’albero per cantare.
In Asia tutte le civiltà celebrano il Natale delle proprie divinità e il ciclico rinnovarsi del tempo.
Questo continente è la culla di molte religioni e il cristianesimo è in numerosi Stati la religione della minoranza.
Per questo il Natale è celebrato in forma estremamente privata e il presepe è presente in pochissimi popoli.
Con la globalizzazione le tradizioni europee sono arrivate anche in Asia: in molti Stati è presente Babbo Natale, anche se con nomi e origini diverse (ad esempio, in Cina è chiamato Dun Che Lao Ren, mentre il Giappone ha Santa Kurohsu).
Nei Paesi cristiani, comunque, il Natale è molto sentito e i fedeli non rinunciano alla messa di mezzanotte.
Anche in Oceania si festeggia il Natale, soprattutto sotto l’aspetto consumistico.
In Australia lo scambio culturale avvenuto per la presenza nell’isola di una gran varietà di gruppi etnici, fa si che ognuno viva il Natale secondo le tradizioni della cultura di provenienza.
In Australia a Natale fa caldo, quindi nessuno si stupisce se Babbo Natale arriva in   surf o in canoa.
Assai celebre è il concerto di Natale che si tiene ogni anno, sin dal 1937, nella St.
Mary’s Cathedral di Sydney.
Case, piazze e chiese sono addobbate con fiori e, soprattutto, con i tradizionali New South Wales Christmas bush, ovvero i “Cespugli di Natale australiani”, piante che danno dei piccoli fiori rossi vagamente somiglianti alle nostre Stelle di Natale.
In Nuova Zelanda i trascorsi coloniali hanno portato la tradizione dell’albero di Natale, che qui ovviamente non può essere l’abete ma che è il Pohutokawa (Metrosideros tomentosa o più comunemente Bottle brush), utilizzato come simbolo per questa festa perché i fiori rossi di cui si ricopre spuntano proprio nel periodo natalizio.
In questa parte del mondo, da alcuni anni si sta diffondendo l’abitudine di festeggiare un secondo Natale il 25 di luglio, quando l’emisfero australe è in pieno inverno.
In molti Paesi dell’Africa, la coesistenza di culture religiose diverse ha dato vita ad interessanti incontri: la messa cattolica spesso prevede riti locali come il ballo, come anche le figure del Cristo riprendono spesso sembianze di un bambinello nero(e con Barak Obama, il nero è d’obbligo!).
In quasi tutti gli Stati dove si festeggia il Natale, tradizionali sono i balli adornati con grandi maschere di legno, ognuna prodotta artigianalmente da chi la deve indossare.
Il presepe, invece, è una tradizione importata solo di recente, anche se è presente nel continente nelle celebrazioni natalizie africane già dai primi tempi delle missioni.
Ovviamente non esiste l’abete: la decorazione più diffusa consiste in un intreccio di rami di palma, spesso disposti a formare un arco, su cui sono applicati dei grandi fiori bianchi selvatici che sbocciano sotto Natale.
In America i modi di festeggiare il Natale variano molto: al Nord tutto è all’insegna del consumo e dello shopping sfrenato, al Centro e al Sud il Natale è più sentito sotto l’aspetto religioso, anche se non mancano le grandi luci e i grandi addobbi.
Negli Stati Uniti l’usanza di festeggiare cambia a seconda l’etnia di appartenenza: gli italo-americani (numerosi anche in Canada) attendono la mezzanotte per andare a messa e poi consumare un sontuoso pranzo a base di pesce.
Malgrado la varietà di abitudini culturali, si sono imposte con gli anni consuetudini che accomunano un po’ tutti, come l’attesa dei regali portati da Santa Klaus, l’albero addobbato e i Christmas-crackers.
Questi ultimi sono pacchettini di carta a forma di grosse caramelle, contenenti cappellini di carta colorata o piccoli regali; si mettono sia sull’albero sia in tavola, come segnaposto, e si aprono immediatamente prima del pranzo.
A tavola c’è il tacchino ripieno di castagne che rappresenta la tradizione americana adottato da tutti gli immigrati, ovviamente accanto alle preparazioni tipiche del Paesi d’origine.
Famosi sono i Mince-pies, biscotti che originariamente avevano la forma di mangiatoia ma che i Riformatori cristiani hanno bandito perché troppo pagani.
Oggi questi dolcetti hanno svariate forme.
In Canada si usa decorare la casa con addobbi natalizi realizzati con corone di alloro.
Il pranzo natalizio consiste nel tacchino ripieno con contorno di patate e salsa di mirtilli, oppure nella prelibata anatra arrosto.
Più folcloristiche sono le tradizioni natalizie in America Latina.
In Messico, ad esempio, si  iniziano i festeggiamenti religiosi già nove giorni prima del Natale: ogni giorno rappresenta un mese della gravidanza di Maria.
In ogni casa si allestiscono le Pifiatas, grosse pentole in coccio rivestite di carta stagnola colorata ai cui lati si applicano dei coni fatti con cartoncino o carta di riso, da cui pendono striscioline multicolori, riempite di frutta di stagione.
Al termine dei nove giorni, in chiesa o per strada, prima della messa, s’inscena una breve rappresentazione, conosciuta come las posadas, dove si impersonano Giuseppe e Maria che vagano alla ricerca di un ricovero.
La cena di Natale varia da Paese a Paese.
Sulle tavole delle famiglie più povere il menù generalmente non si discosta da quello quotidiano, mentre chi ne ha la possibilità festeggia l’arrivo del Bambin Gesù con tacchino ripieno di verdura, cosciotto di maiale al forno o con l’Asado, la carne alla brace.
In America latina la “Stella di Natale”, “riscoperta” da Joel Poinsett, primo ambasciatore statunitense in Messico (ma anche cultore di botanica), fu importata negli Usa nel 1828 e prese il nome, in suo onore, di Poinsettia pulcherrima.
In Europa fu importata nel 1804 dal naturalista Alexander von Humboldt, che notò questa pianta con un “fiore non fiore” in un suo viaggio in America centrale….
Ci sarebbero tantissime altre cose da raccontare sulle tradizioni natalizie, ma è meglio augurare un sereno Natale e un prospero anno nuovo in molte lingue del mondo( il papa mi perdoni se gli rubo la scena del 25 dicembre, quando dalla loggia vaticana dopo la benedizione Urbi et Orbi augura buon Natale in tanti linguaggi del mondo che è e rimane la sola casa che abbiamo, come abbiamo voluto sottolineare nel titolo): Afrikaans: Gesëende Kersfees; Albanese:Gezur Krislinjden; Arabo: Idah Saidan Wa Sanah Jadidah; Armeno: Shenoraavor Nor Dari yev Pari Gaghand; Azerbaijan: Tezze Iliniz Yahsi Olsun; Bahasa (Malesia): Selamat Hari Natal; Basco: Zorionak eta Urte Berri On; Bengali: Shuvo Naba Barsha; Boemo: Vesele Vanoce; Bretone: Nedeleg laouen na bloavezh mat; Bulgaro: Tchestita Koleda; Tchestito Rojdestvo Hristovo; Catalano: Bon Nadal i un Bon Any Nou; Ceco: Prejeme Vam Vesele Vanoce a stastny Novy Rok; Choctaw (Nativi americani, Oklahoma): Yukpa, Nitak Hollo Chito; Cinese (Cantonese): Gun Tso Sun Tan’Gung Haw Sun; Cinese (Mandarino): Kung His Hsin Nien bing Chu Shen Tan; Cingalese: Subha nath thalak Vewa.
Subha Aluth Awrudhak Vewa; Coreano: Sung Tan Chuk Ha; Croato: Sretan Bozic; Danese: Glædelig Jul; Eschimese: Jutdlime pivdluarit ukiortame pivdluaritlo; Esperanto: Gajan Kristnaskon; Estone: Ruumsaid juulup|hi; Farsi: Cristmas-e-shoma mobarak bashad; Fiammingo: Zalig Kerstfeest en Gelukkig nieuw jaar; Filippino: Maligayan Pasko; Finlandese: Hyvaa joulua; Francese: Joyeux Noel; Frisone: Noflike Krystdagen en in protte Lok en Seine yn it Nije Jier (lingua del ramo germanico occidentale parlata nelle zone costiere meridionali del Mare del Nord, nei Paesi Bassi e in Germania); Gaelico (Scozia): Nollaig chridheil huibh; Gallese: Nadolig Llawen; Giapponese: Shinnen omedeto.
Kurisumasu Omedeto; Greco: Kala Christouyenna; Hamish Dutch (Pennsylvania): En frehlicher Grischtdaag un en hallich Nei Yaahr; Hausa: Barka da Kirsimatikuma Barka da Sabuwar Shekara (lingua parlata in Nigeria del Nord, Niger, Benin, Burkina Faso, Camerun, Ciad, Congo, Eritrea, Ghana, Sudan e Togo); Hawaaiano: Mele Kalikimaka; Hindi: Shub Naya Baras; Indonesiano: Selamat Hari Natal; Inglese: Merry Christmas; Iracheno: Idah Saidan Wa Sanah Jadidah; Irochese: Ojenyunyat Sungwiyadeson honungradon nagwutut.
Ojenyunyat osrasay (Nativi americani dell’America Settentrionale); Islandese: Gledileg Jol; Isola di Man: Nollick ghennal as blein vie noa (isola situata nel Mar d’Irlanda); Latino: Natale hilare et Annum Faustum; Latviano: Prieci’gus Ziemsve’tkus un Laimi’gu Jauno Gadu; Lituano: Linksmu Kaledu; Macedone: Sreken Bozhik; Maltese: LL Milied Lt-tajjeb; Maori: Meri Kirihimete; Navajo: Merry Keshmish (Narivi americani del sud-ovest degli Stati Uniti, principalmente in Arizona e in Nuovo Messico); Norvegese: God Jul, or Gledelig Jul; Occitano: Pulit nadal e bona annado; Olandese: Vrolijk Kerstfeest en een Gelukkig Nieuwjaar oppure Zalig Kerstfeast; Papua Nuova Guinea: Bikpela hamamas blong dispela Krismas na Nupela yia i go long yu; Polacco: Wesolych Swiat Bozego Narodzenia oppure Boze Narodzenie; Portoghese (Brasile): Boas Festas e Feliz Ano Novo; Portoghese: Feliz Natal; Rapa-Nui: Mata-Ki-Te-Rangi Te-Pito-O-Te-Henua (Isola di Pasqua); Rumeno: Sarbatori vesele; Russo: Pozdrevlyayu s prazdnikom Rozhdestva is Novim Godom; Samoa: La Maunia Le Kilisimasi Ma Le Tausaga Fou; Sardo: Bonu nadale e prosperu annu nou; Serbo: Hristos se rodi; Slovacco: Sretan Bozic oppure Vesele vianoce; Sloveno: Vesele Bozicne Screcno Novo Leto; Spagnolo: Feliz Navidad; Svedese: God Jul and (Och) Ett Gott Nytt År; Tailandese: Sawadee Pee Mai; Tedesco: Fröhliche Weihnachten; Turco: Noeliniz Ve Yeni Yiliniz Kutlu Olsun; Ucraino: Srozhdestvom Kristovym; Ungherese: Kellemes Karacsonyi unnepeket; Urdu: Naya Saal Mubarak Ho (Asia meridionale); Vietnamita: Chung Mung Giang Sinh; Yoruba: E ku odun, e ku iye’dun (Africa occidentale)… E buon Natale anche a me che nei prossimi giorni sarò impegnata a fare gli “struffoli” secondo la tradizione napoletana e a preparare tante cose buone per la mia numerosa famiglia, come faranno- del resto- i miei e le mie carissime amiche che stringo al mio cuore, chiedendo al Signore o a quello che loro credono di spingerci un po’ più in là, come vorrebbero fare i nostri amici per la terra con i potenti del pianeta affinché mai e poi mai ignorino che la Terra è la nostra Madre e va assolutamente salvaguardata.
E anche perché non crediate che mi invento i fatti, eccovi una piccola: BIBLIOGRAFIA Verso una globalizzazione etica?di Maria de falco marotta, Elledici, Leumann, Torino, 2002; Natale.
Le storie della tradizione, di Carena C.
– Interlinea, Novara, 1993 Tutto sul Natale.
Tradizioni, canti e ricette dal mondo, di Falanga A.
– Città Nuova, Roma, 2001 Storia e magia del Natale.
Alla scoperta di origini, tradizioni, fiabe e leggende, di Maschio C.
– QuiEdit, Verona, 2005 Storia del Natale.
Culti, miti e tradizioni di una festa millenaria, di Triggiani M.
– Progedit, Bari, 2005 La magia del Natale nel mondo.
Un viaggio fantastico attraverso tutti i continenti, di Maschio C.
– QuiEdit, Verona, 2006 Quel teatrino della Natività che tiene scena da secoli, di Paternoster R.
– Storia in Network, numero 122, anno 2006, http://www.storiain.net/arret/num122/artic7.asp Natale.
Piccola guida alla festa più amata dell’anno, di De Pietri A.
e Giordano M.
C.
– Astraea, Bologna, 2008      

Le sfide del terzo millennio

CARLO MARIA MARTINI – ENZO BIANCHI, Le sfide del terzo millennio giovani alle prese con un mondo che cambia, in dialogo, Milabno 2009,  EAN : 9788881236057,  Prezzo € 6,50 Chi è e come vive un giovane che vuole dirsi «cristiano», oggi, in un mondo che cambia e che sembra travolgere nella sua frenesia tante facili certezze? E ancora: dov’è la differenza che mostriamo in quanto cristiani rispetto alla vita del mondo? Perché una «differenza cristiana» deve pur esserci e deve essere qualcosa di visibile, deve avere a che fare con il nostro comportamento, deve essere un comportamento «altro», non «mondano».
Ci guidano in questa riflessione due maestri della fede: il cardinale Carlo Maria Martini, per tanti anni alla guida della Chiesa di Milano, fine biblista e conoscitore dell’animo umano, e padre Enzo Bianchi, monaco, priore del Monastero di Bose, uno dei «profeti» più ascoltati nel nostro tempo.
Alle loro parole lasciamo il compito di indicare ai giovani del Terzo millennio una via sicura per camminare verso la felicità vera, quella costruita su cose che durano e che non si lasciano ammaccare dai guai della vita e dallo scorrere inesorabile del tempo.

“Coltivare il creato”

Ecco dunque i tre paragrafi chiave del messaggio per la Giornata della Pace 2010: “Se vuoi coltivare la pace, coltiva il creato”.
IL COMANDO DI COLTIVARE E CUSTODIRE LA TERRA [6] All’origine di quella che, in senso cosmico, chiamiamo “natura” vi è un disegno di amore e di verità.
Il mondo “non è il prodotto di una qualsivoglia necessità, di un destino cieco o del caso.
Il mondo trae origine dalla libera volontà di Dio, il quale ha voluto far partecipare le creature al suo essere, alla sua saggezza e alla sua bontà” (Catechismo della Chiesa cattolica, 295).
Il libro della Genesi, nelle sue pagine iniziali, ci riporta al progetto sapiente del cosmo, frutto del pensiero di Dio, al cui vertice si collocano l’uomo e la donna, creati ad immagine e somiglianza del Creatore per “riempire la terra” e “dominarla” come “amministratori” di Dio stesso (cfr.
Genesi 1, 28).
L’armonia tra il Creatore, l’umanità e il creato, che la Sacra Scrittura descrive, è stata infranta dal peccato di Adamo ed Eva, dell’uomo e della donna, che hanno bramato occupare il posto di Dio, rifiutando di riconoscersi come sue creature.
La conseguenza è che si è distorto anche il compito di “dominare” la terra, di “coltivarla e custodirla” e tra loro e il resto della creazione è nato un conflitto (cfr.
Genesi 3, 17-19).
L’essere umano si è lasciato dominare dall’egoismo, perdendo il senso del mandato di Dio, e nella relazione con il creato si è comportato come sfruttatore, volendo esercitare su di esso un dominio assoluto.
Ma il vero significato del comando iniziale di Dio, ben evidenziato nel libro della Genesi, non consisteva in un semplice conferimento di autorità, bensì piuttosto in una chiamata alla responsabilità.
Del resto, la saggezza degli antichi riconosceva che la natura è a nostra disposizione non come “un mucchio di rifiuti sparsi a caso” (Eraclito, 535-475 a.C.), mentre la rivelazione biblica ci ha fatto comprendere che la natura è dono del Creatore, il quale ne ha disegnato gli ordinamenti intrinseci, affinché l’uomo possa trarne gli orientamenti doverosi per “custodirla e coltivarla” (cfr.
Genesi 2, 15).
Tutto ciò che esiste appartiene a Dio, che lo ha affidato agli uomini, ma non perché ne dispongano arbitrariamente.
E quando l’uomo, invece di svolgere il suo ruolo di collaboratore di Dio, a Dio si sostituisce, finisce col provocare la ribellione della natura, “piuttosto tiranneggiata che governata da lui” (Centesimus annus, 48).
L’uomo, quindi, ha il dovere di esercitare un governo responsabile della creazione, custodendola e coltivandola (Caritas in veritate, 50).
ECOLOGIA DELLA NATURA, MA PRIMA ANCORA DELL’UOMO [12] La Chiesa ha una responsabilità per il creato e sente di doverla esercitare, anche in ambito pubblico, per difendere la terra, l’acqua e l’aria, doni di Dio Creatore per tutti, e, anzitutto, per proteggere l’uomo contro il pericolo della distruzione di se stesso.
Il degrado della natura è, infatti, strettamente connesso alla cultura che modella la convivenza umana, per cui “quando l’ecologia umana è rispettata dentro la società, anche l’ecologia ambientale ne trae beneficio” (Caritas in veritate, 51).
Non si può domandare ai giovani di rispettare l’ambiente, se non vengono aiutati in famiglia e nella società a rispettare se stessi: il libro della natura è unico, sia sul versante dell’ambiente come su quello dell’etica personale, familiare e sociale (Caritas in veritate, 15.51).
I doveri verso l’ambiente derivano da quelli verso la persona considerata in se stessa e in relazione agli altri.
Volentieri, pertanto, incoraggio l’educazione ad una responsabilità ecologica, che, come ho indicato nell’enciclica “Caritas in veritate”, salvaguardi un’autentica “ecologia umana” e, quindi, affermi con rinnovata convinzione l’inviolabilità della vita umana in ogni sua fase e in ogni sua condizione, la dignità della persona e l’insostituibile missione della famiglia, nella quale si educa all’amore per il prossimo e al rispetto della natura (Caritas in veritate, 28.51.61).
Occorre salvaguardare il patrimonio umano della società.
Questo patrimonio di valori ha la sua origine ed è iscritto nella legge morale naturale, che è fondamento del rispetto della persona umana e del creato.
CIÒ CHE DIFFERENZIA L’UOMO DAGLI ALTRI ESSERI VIVENTI [13] Non va infine dimenticato il fatto, altamente indicativo, che tanti trovano tranquillità e pace, si sentono rinnovati e rinvigoriti, quando sono a stretto contatto con la bellezza e l’armonia della natura.
Vi è pertanto una sorta di reciprocità: nel prenderci cura del creato, noi constatiamo che Dio, tramite il creato, si prende cura di noi.
D’altra parte, una corretta concezione del rapporto dell’uomo con l’ambiente non porta ad assolutizzare la natura né a ritenerla più importante della stessa persona.
Se il magistero della Chiesa esprime perplessità dinanzi ad una concezione dell’ambiente ispirata all’ecocentrismo e al biocentrismo, lo fa perché tale concezione elimina la differenza ontologica e assiologica tra la persona umana e gli altri esseri viventi.
In tal modo, si viene di fatto ad eliminare l’identità e il ruolo superiore dell’uomo, favorendo una visione egualitaristica della “dignità” di tutti gli esseri viventi.
Si dà adito, così, ad un nuovo panteismo con accenti neopagani che fanno derivare dalla sola natura, intesa in senso puramente naturalistico, la salvezza per l’uomo.
La Chiesa invita, invece, ad impostare la questione in modo equilibrato, nel rispetto della “grammatica” che il Creatore ha inscritto nella sua opera, affidando all’uomo il ruolo di custode e amministratore responsabile del creato, ruolo di cui non deve certo abusare, ma da cui non può nemmeno abdicare.
Infatti, anche la posizione contraria di assolutizzazione della tecnica e del potere umano, finisce per essere un grave attentato non solo alla natura, ma anche alla stessa dignità umana (Caritas in veritate, 70).
__________ PRIMA GLOSSA.
DA MOSCA CON AMORE Il messaggio “Se vuoi coltivare la pace, coltiva il creato” cita più volte l’enciclica “Caritas in veritate”, ultimo prodotto del magistero della Chiesa di Roma in materia di dottrina sociale.
Un interessante parallelo è il documento di analogo contenuto pubblicato dal patriarcato di Mosca nel 2000, dal titolo “Le fondamenta della dottrina sociale della Chiesa ortodossa russa”, dei cui sviluppi www.chiesa ha dato notizia in un recente servizio.
La sintonia tra questo documento e il messaggio di Benedetto XVI per la Giornata Mondiale della Pace 2010 è molto forte.
Ad esempio là dove si legge: “I problemi ecologici hanno sostanzialmente un carattere antropologico, essendo generati dall’uomo e non dalla natura.
La base antropogenica dei problemi ecologici dimostra che noi tendiamo a cambiare il mondo che ci circonda in conformità con il nostro mondo interiore, e proprio per questo la trasformazione della natura deve partire da una trasformazione dell’anima.
Secondo il pensiero di Massimo il Confessore, l’uomo potrà trasformare tutta la terra in un paradiso solo quando egli avrà portato il paradiso in se stesso”.
__________ SECONDA GLOSSA.
LA “FALSA PARTENZA” DI COPENAGHEN Nel suo quarto paragrafo, il messaggio “Se vuoi coltivare la pace, coltiva il creato” elenca tra i segnali di pericolo “i cambiamenti climatici, la desertificazione, il degrado e la perdita di produttività di vaste aree agricole, l’inquinamento dei fiumi e delle falde acquifere, la perdita della biodiversità, l’aumento di eventi naturali estremi, il disboscamento delle aree equatoriali e tropicali”.
Ma il documento non entra nello specifico.
Non formula diagnosi scientifiche, né propone soluzioni.
Questo ha fatto invece un commento apparso sulla prima pagina de “L’Osservatore Romano” del 7-8 dicembre 2009, a firma del professor Franco Prodi, membro dell’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche, nonché fratello di Romano Prodi, già capo del governo italiano e presidente della Commissione europea.
Il professor Prodi mostra di non condividere affatto il mantra ecologista secondo cui l’aumentata immissione nell’atmosfera di anidride carbonica e di altri gas, da parte dell’uomo, è la causa del surriscaldamento del pianeta e dell’innalzamento del livello dei mari.
A giudizio di Prodi questa non è una certezza, ma solo una probabilità.
E riguarderebbe comunque un aumento della temperatura media dell’aria in tutto il pianeta “che dall’inizio dell’Ottocento è di sette decimi di grado per secolo”.
Molto più influenti sul clima, secondi Prodi, sono altri fenomeni, ancora però in gran parte da studiare, come il flusso di calore dall’interno della terra, l’apporto di anidride carbonica dai vulcani e soprattutto il ruolo dell’aerosol, cioè delle particelle aerosospese messe in circolo dall’uomo, che oggi sono “già il 20 per cento di quelle prodotte dalla natura” e modificano le nubi e le piogge.
Prodi avverte però che ci vorranno almeno “trenta o quarant’anni” di studi prima di arrivare ad avere “modelli completi di clima che portino alla spiegazione del sistema e alla previsione sicura della sua evoluzione”.
E nel frattempo? Nel frattempo a Copenaghen è andata in scena una “falsa partenza”, tutta giocata sul “conteggio delle emissioni nell’ambito di una economia strettamente di mercato”.
Secondo il professor Prodi, sarebbe molto meglio che gli Stati si occupino più semplicemente di quel degrado della natura che è sotto gli occhi di tutti: aria inquinata, fiumi e acque sotterranee maltrattate, specie animali e vegetali minacciate.
Il testo completo dell’articolo di Franco Prodi, su “L’Osservatore Romano” del 7-8 dicembre 2009: > La Conferenza dell’ONU sull’ambiente.
Aggiustamento mercantile o accordo mondiale?
__________ TERZA GLOSSA.
I FENDENTI DEL BANCHIERE DEL PAPA Il 17 dicembre “L’Osservatore Romano” è tornato sulla Conferenza di Copenaghen con un secondo commento di prima pagina, questa volta affidato a Ettore Gotti Tedeschi, l’economista e banchiere che da pochi mesi è anche presidente dell’Istituto per le Opere di Religione, la banca vaticana.
Gotti Tedeschi è ancora più radicalmente critico del professor Prodi, circa gli orientamenti della Conferenza.
E in più si fa forte del messaggio di Benedetto XVI “Se vuoi coltivare la pace, coltiva il creato”, reso pubblico due giorni prima.
Ecco che cosa scrive: “Il pensiero nichilista, con il suo rifiuto di ogni valore e verità oggettivi causa gravissimi danni se applicato in economia.
[…] Ma sulla questione ambientale il pensiero nichilista sta producendo danni forse ancora più gravi.
[…] Pretende di risolvere i problemi climatici – dove regna molta confusione – attraverso la denatalità e la deindustrializzazione, anziché attraverso la promozione di valori che riportino l’individuo alla sua dignità originaria.
La conferenza sul clima di Copenaghen sta confermando questo percorso, provocando più contrapposizioni che soluzioni.
[…] “In realtà, manca una visione strategica del problema, proprio a causa del diffuso nichilismo che giunge a teorizzare l’assenza di valore della vita umana rispetto a una presunta centralità della natura – l’ecocentrismo denunciato da Benedetto XVI – che dall’uomo viene solo danneggiata.
[…] “Sul tema dell’ambiente si cercano quindi accordi vaghi sulle emissioni nocive, prescindendo da premesse etiche e da considerazioni scientifiche condivise.
Il pensiero nichilista rischia cioè di trasformare il processo di globalizzazione – che in realtà è positivo per i paesi poveri – in un disordine dovuto all’uomo economico, che è anche causa dei mali ambientali e pertanto candidato all’autoeliminazione.
[…] Fanno bene gli ambientalisti a sollecitare maggiore attenzione per la natura.
Ma farebbero meglio a leggere anche la ‘Caritas in veritate’.
Capirebbero perché – ma soprattutto per chi – l’ambiente si deve rispettare”.
Il testo integrale dell’articolo di Ettore Gotti Tedeschi su “L’Osservatore Romano” del 17 dicembre 2009: > Incertezze del vertice di Copenaghen.
Per chi salvare l’ambiente
La prestigiosa rivista americana di geopolitica “Foreign Affairs” ha classificato Benedetto XVI al 17.mo posto tra i “100 maggiori pensatori globali” dell’anno: quelli che con le loro “grandi idee hanno modellato il nostro mondo nel 2009”.
Tra i meriti che “Foreign Affairs” riconosce a papa Benedetto c’è quello di “aver collocato la Chiesa inaspettatamente in prima fila nella difesa dell’ambiente e nella denuncia dei pericoli del cambiamento di clima”.
Ma qual è la “rivoluzione verde” che Benedetto XVI propone? La risposta è venuta dal messaggio che accompagnerà la prossima Giornata Mondiale della Pace, quella che la Chiesa di Roma celebra ogni anno il 1 gennaio.
Il messaggio per il Capodanno del 2010 è stato firmato dal papa l’8 dicembre ed è stato reso pubblico due giorni fa, proprio mentre a Copenaghen i rappresentanti di tutti gli Stati erano riuniti per una litigiosa e infruttuosa conferenza mondiale sul clima.
Nel sito web del Vaticano il messaggio lo si può leggere integralmente in sette lingue.
E già il suo titolo è un programma: > “Se vuoi coltivare la pace, coltiva il creato” Più sotto ne sono riprodotti tre passaggi salienti, ripresi dai paragrafi sesto, dodicesimo e tredicesimo.
Al centro del messaggio c’è un’immagine biblica: quella del giardino della creazione, affidato da Dio all’uomo e alla donna perché lo custodiscano e lo coltivino.
La natura non ha quindi alcun primato sull’uomo, né questi è una particella della natura.
Né a sua volta l’uomo può arrogarsi il diritto di depredare la natura invece di prenderne cura.
Il giusto rapporto tra l’essere umano e la terra è quello mirabilmente raffigurato in quel capolavoro di Piero della Francesca del 1472 di cui sopra è riprodotto un particolare.
Il paesaggio che fa da sfondo è coltivato, ordinato e luminoso, come nobilmente “illuminata” di perle è la donna in primo piano, la sposa di quel Federico da Montefeltro che ha il dominio su quelle terre.
Un concetto essenziale del messaggio di papa Benedetto è proprio questo.
Tra l’ecologia della natura e l’ecologia dell’uomo c’è identità di destino.
La cura del creato deve fare tutt’uno con la cura della “inviolabilità della vita umana in ogni sua fase e in ogni sua condizione”.
Tutto si tiene: cura della natura, rispetto della dignità dell’uomo e pace tra i popoli.
Dove scoppiano l’odio e la violenza, anche la natura geme.
Un paesaggio devastato e una città inabitabile sono il prodotto di un’umanità che ha fatto il deserto nella propria anima.

God Is Back

JOHN MICKLETHWAIT E ADRIAN WOOLDRIDGE, God Is Back: How the Global Revival of Faith Is Changing the World, Penguin Press, 2009, pp.
416.
Contrariamente a quello che si riteneva in Europa, Dio non è morto, anzi sta benissimo, e anche il capitalismo sta meglio di quello che pensavamo.
Infatti, dato che sarà il mercato globale a decidere dove Dio tornerà, e soprattutto quale Dio tornerà, sarà un Dio cristiano, occidentale e americano.
Questa è, in estrema sintesi, la tesi di fondo dell’ultimo libro di John Micklethwait e Adrian Wooldridge, God Is Back: How the Global Revival of Faith Is Changing the World (Penguin Press, 2009, 416 pagine).
Già autori di vari reportage, tra cui un volume sui vari volti della destra americana, la “right nation” (tradotto da Mondadori nel 2005, La destra giusta.
Storia e geografia dell’America che si sente giusta perché è di destra), i due giornalisti di punta dell’Economist dipingono un interessante panorama della “rivincita di Dio” in corso nel mondo post-11 settembre.
Di recente alcuni libri hanno annunciato una controffensiva in difesa di Dio da parte di una generazione di neo-apologisti (tra i più recenti usciti in America: Robert Wright, The Evolution of God; Karen Armstrong, The Case for God; Nicholas Wade, The Faith Instinct) che hanno lanciato una reazione al proselitismo antireligioso e populista della triade Dawkins-Harris-Hitchens.
L’appassionante God Is Back parte da una prospettiva di geopolitica delle fedi.
Micklethwait e Wooldridge non sono avvocati della tesi dello “scontro di civiltà” interpretato dai teocon americani, ma fanno propria la lezione di Samuel Huntington circa la necessità di comprendere la dimensione religiosa della politica internazionale e di elaborare una lettura politica (ed economica) delle relazioni interreligiose nel mondo globalizzato.
La prima parte del libro dipinge due vie alternative verso la modernità: la via europea e la via americana.
Di fronte ad un’Europa laicista in cui l’ateismo pubblico è la condizione richiesta ai personaggi pubblici, la storia degli Stati Uniti rappresenta l’esatto contrario, cioè una democrazia che si regge su un pilastro religioso e trascendente, cioè sulla religione, «e non mi importa quale essa sia» (per citare le parole del presidente Eisenhower).
La maggiore differenza rispetto all’Europa è che l’America si divide sull’interpretazione della religione nello spazio pubblico, più che sull’opportunità di dare alla religione uno spazio pubblico.
Ma lo scenario è in mutamento su entrambi i lati dell’Atlantico.
Se in America, dagli anni Ottanta in poi, il cristianesimo evangelical è passato da mera lobby culturale a forza politica organizzata, secondo gli autori anche in Europa si comincerà presto a sentire l’effettorimbalzo causato da una spinta migratoria in gran parte proveniente da paesi arabi e/o a maggioranza musulmana.
Ma tra Europa e America vi è ancora un evidente “God gap”, una fondamentale differenza nella percezione del ruolo della religione in politica: questa differenza è impersonata dal tentativo di alfabetizzazione teologica del neo-cattolico Tony Blair, un tentativo finora malriuscito e incompreso da entrambe le parti dell’Atlantico (il suo corso su “fede e globalizzazione” a Yale ha sollevato critiche per l’ignoranza dell’ex premier inglese circa concetti-base della “teologia pubblica” che avrebbe dovuto insegnare).
La storia recente degli Stati Uniti è testimone del gap.
La lunga campagna elettorale per le presidenziali del 2008 si era risolta a favore di Obama anche grazie alle sua capacità di “outgodding”, cioè di articolare meglio la questione religiosa rispetto agli altri candidati: meglio sia di Hillary Clinton (che tentò di usare in modo cinico il caso del reverendo Wright), sia di John McCain (che, intervistato, non era certo di sapere a quale chiesa appartenesse).
Però la vittoria di Obama non significa la fine delle “culture wars” attorno alla questione religiosa in America: ne è testimone il caso di Sarah Palin, «la più radicata nella subcultura evangelical di qualsiasi altro candidato alla Casa Bianca» (p.
124).
Quanto a “cultural warrior”, per gli autori di God Is Back «quello con la maggiore esperienza nel campo conservatore è la Chiesa cattolica (…) il cui appetito per la battaglia culturale è aumentato in modo visibile sotto Giovanni Paolo II» (p.
347).
Ma se la lotta all’aborto sembra essere il campo di battaglia preferito dei cattolici, il nuovo evangelicalismo americano (quello del pastore Rick Warren) si è aperto alle questioni della povertà, dell’immigrazione, della solidarietà internazionale, dell’ambientalismo.
Grazie alla formidabile spinta missionaria del cristianesimo di matrice evangelicale e pentecostale in tutti i continenti, il cristianesimo è in ripresa, e gli autori riconoscono l’esistenza di diverse aree di tensione politico-religiosa sull’atlante mondiale: l’Africa centrale, India e Pakistan, la Cina.
Tuttavia è tra Europa, America e islam che si deciderà la lotta.
Per i due autori è assai più verosimile che l’Europa si avvicini al modello americano piuttosto che una secolarizzazione della politica americana.
Tuttavia, è la maggiore capacità degli americani di gestire il “God business”, il marketing di Dio, che spinge Micklethwait e Wooldridge a vedere l’America come il mercato trainante nella concorrenza tra cristianesimo e islam: «L’America contribuisce al revival religioso globale da due lati: come maggior esportatore mondiale di religione e come maggior fornitore mondiale di quel capitalismo che aumenta la domanda di religione.
Gli americani stanno esportando oppio e allo stesso tempo stimolando la domanda di oppiacei» (p.
244).
Al contrario della cultura politica europea, l’Economist non ha dimenticato né la lunga durata della “politica di Dio” né la lezione di Marx sui rapporti tra economia, politica e religione.
Tocca agli europei decidere se è ragionevole lasciare che di “religione e politica” si occupino i chierici e i manager.
Il marketing delle religioni di Massimo Faggioli in “Europa” del 16 dicembre 2009