Categoria: Formazione
“Oltre lo Schermo”
Una settimana senza televisione e senza videogiochi.
Agli alunni di una scuola di Trevi, in Umbria, questa bizzarra iniziativa proposta dalle insegnanti dell’Istituto, sarà sembrata una scommessa impossibile da vincere.
Eppure ce l’hanno fatta, o almeno ce l’ha fatta la maggior parte.
Il progetto “Oltre lo Schermo” è nato per iniziativa di Giovanna Grieco, una giornalista umbra.
Ma soprattutto una mamma.
Una mamma attenta e consapevole del potere ipnotico della tv, che lascia al proprio figlio solo uno spicchio della giornata per seguire sullo schermo avventure e storie dei cartoni animati preferiti.
Una scelta a favore di giochi, letture di fiabe, attività quasi del tutto trascurate a favore di ore e ore davanti alla scatola magica.
“In cambio del loro ‘sacrificio’ – racconta Giovanna Grieco – “abbiamo proposto ai bambini giochi ed attività da fare tutti insieme a scuola, letture in biblioteca, ma anche pomeriggi liberi per stare serenamente in famiglia con genitori e fratelli.
Ponendo l’attenzione sullo stare insieme senza il rumore in sottofondo, continuo, che proviene dalla tv”.
Già, perché nella maggior parte delle case degli italiani, la televisione è accesa anche durante i pasti; e in più, è collocata quasi in tutte le stanze.
Una presenza forse ingombrante, di cui si pensa però di non poter fare a meno.
A svantaggio dei più piccoli, che non sanno difendersi dai tanti, troppi stimoli a cui si viene sottoposti con la riproduzione meccanica di immagini e suoni a una velocità vuota di contenuti.
Il progetto è stato accolto quindi con vivo interesse dall’Istituto Comprensivo T.
Valenti di Trevi (una scuola elementare e media), dalla dirigente scolastica Giovanna Carnevali, dall’assessore alla Pubblica Istruzione del Comune di Trevi, Stefania Moccoli e dal corpo docente, che ne condividevano le intenzioni e i valori alla base.
In totale si sono sottoposti alla “prova” 41 bambini e ragazzi tra gli otto e gli 11 anni di due le classi (la terza elementare e la prima media): sette giorni senza guardare la televisione e senza giocare a nessun videogioco, niente Playstation, niente Wii e quant’altro.
In 28 ce l’hanno fatta.
Hanno scoperto con sorpresa, che vivere senza – almeno limitare – le suggestioni deformanti provenienti dallo schermo, non solo è possibile ma anche piacevole.
“Volevamo insegnare loro a recuperare i rapporti con i coetanei, con i genitori e con gli insegnanti”, spiega l’ideatrice di “Oltre lo Schermo”.
Un’idea che sembrerebbe d’eco steineriana (la scuola chiamata “Libera Scuola Waldorf”, fondata appunto da Rudolf Steiner nel 1919), dove ai bambini l’uso della televisione è proibito almeno fino ai sette anni di età.
La maestra.
“Hanno tenuto anche un diario, che aggiornavano quotidianamente, di quest’esperienza” , ha detto lMaria Cristina Garofani, che insegna italiano e storia nella classe di terza elementare.
“I bambini nella loro spontaneità hanno confessato anche difficoltà e cedimenti nell’impegno a privarsi della tv, ma alla fine erano soddisfatti.
Non solo del risultato ottenuto, ma anche della scoperta di quanto fossero divertenti i ‘diversivi’ proposti da noi adulti: giochi, letture, la compagnia degli amichetti”.
Abitudini insomma, troppo spesso trascurate.
Quando le viene chiesto se l’esperimento sarà ripetuto, la maestra risponde che “Oltre lo Schermo” è stato “un progetto-pilota, ma vista la risposta ottenuta e i riscontri positivi dei protagonisti di questa storia, abbiamo in cantiere di riproporlo ancora ed estenderlo a tutta la scuola”.
“La sfida vera – aggiunge – semmai, sono i genitori degli alunni.
Più restii ad accettare l’invito a tenere spenti gli schermi di casa e ad assumersi questo impegno”.
La voce dei bambini.
“Noi invece di vedere la tv – dicono all’unisono le gemelle Beatrice e Arianna Grisanti, otto anni – abbiamo cucinato con la mamma e ogni volta che papà provava ad accendere la tv andavamo a spegnerla.
Ci siamo divertite molto!”.
E ancora, Andrea Nocchi, anche lui otto anni: “Mi sono divertito a disegnare, invece di guardare la tv, e ho passato un bel pomeriggio con i miei amici in biblioteca e a scuola giocando con le mamme fino a quando è diventato buio: non ne ho sentito la mancanza”.
Più difficoltà hanno incontrato i ragazzi più grandi della scuola superiore di primo grado: Riccardo Ricciola, 11 anni, ha confessato: “Ci sono riuscito poco perché il secondo giorno avevo un po’ di tempo libero e non sapendo cosa fare ho giocato con il Nintendo: ma per poco tempo…”.
Alcol e giovani, connubio rischioso
Sempre più diffuso in Italia, l’uso e abuso di alcol coinvolge fasce crescenti di giovani e giovanissimi come emerge dalla lettura dei dati raccolti in un recente rapporto che il Governo ha pubblicato sul proprio sito.
Basato su dati forniti dall’Istituto Superiore di Sanità, messi a confronto con dati internazionali forniti dall’OMS e dall’OSSFAD, il rapporto contiene l’analisi delle criticità, delle cause e degli effetti, in rapporto all’età e al genere come emerge dagli esiti dell’indagine “Il Pilota” dell’Osservatorio Nazionale Alcol CNESPS e dai dati dello studio Multiscopo Istat.
L’ubriacatura negli ultimi dieci anni è assurta a modello sociale e di comportamento, spesso nascosta dietro i disvalori espressi dalla pubblicità che esaltano il valore positivo dell’alcol e in qualche modo favorita da una poco attenta vigilanza da parte della famiglia.
Il 41,7% dei ragazzi ed il 20,8% delle ragazze al di sotto dei 18 anni beve sino ad ubriacarsi, seguiti dai 19-24enni (18,8% dei maschi e 9,4% delle femmine) e dai giovani oltre i 25 anni (7,5% dei maschi e 5,5% delle femmine) tra cui si registra la più elevata percentuale di sobri.
Si beve di più nel fine settimana: al venerdì la percentuale di ragazze che dichiara di aver bevuto è del 37,2%, mentre i ragazzi sono il 52%; al sabato la percentuale di ragazze sale all’86%, mentre quella dei ragazzi aumenta fino all’86,3%; la domenica sera si beve meno con le ragazze attestate al 20,9% e i ragazzi al 20,7%.
In media, si bevono più di tre unità di alcool, considerando come unità un bicchiere da 125 ml di vino o una lattina da 33,3 cl di birra; la percentuale di giovani al di sotto dei 18 anni che beve appare preoccupante: i maschi sono il 41,7% del totale, le femmine sono il 20,8%.
I ragazzi più grandi sembrano più moderati: tra i 19 e i 24 anni bevono il 18,8% dei maschi e il 9,4% delle femmine.
I numeri tendono a diminuire ulteriormente con l’età: oltre i 25 anni beve il 7,5% dei maschi e il 5,5% delle femmine.
Il senso di moderazione che pare crescere con l’età non esime tuttavia le istituzioni e le famiglie dall’intervenire per far conoscere e mettere in guardia i giovani dai rischi dell’alcol che, anche a livello internazionale, è solo al 5° posto fra le droghe più pericolose con una sottovalutazione dei danni correlati.
“La legge morale vale anche per non credenti”
La legge morale naturale “non è esclusivamente o prevalentemente confessionale”, ma si fonda sulla stessa natura umana: lo ha ricordato Benedetto XVI ai partecipanti all’assemblea plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede, ricevuti in udienza nella mattina di venerdì 15 gennaio, nella Sala Clementina.
Signori Cardinali, Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio, Carissimi fedeli collaboratori, è per me motivo di grande gioia incontrarvi in occasione della Sessione Plenaria e manifestarvi i sentimenti di profonda riconoscenza e di cordiale apprezzamento per il lavoro che svolgete al servizio del Successore di Pietro nel suo ministero di confermare i fratelli nella fede (cfr.
Lc 22, 32).
Ringrazio il Signor Cardinale William Joseph Levada per il suo indirizzo di saluto, nel quale ha richiamato le tematiche che impegnano attualmente la Congregazione, nonché le nuove responsabilità che il Motu Proprio “Ecclesiae Unitatem” le ha affidato, unendo in modo stretto al Dicastero la Pontificia Commissione Ecclesia Dei.
Vorrei ora brevemente soffermarmi su alcuni aspetti che Ella, Signor Cardinale, ha esposto.
Anzitutto, desidero sottolineare come la Vostra Congregazione partecipi del ministero di unità, che è affidato, in special modo, al Romano Pontefice, mediante il suo impegno per la fedeltà dottrinale.
L’unità è infatti primariamente unità di fede, sostenuta dal sacro deposito, di cui il Successore di Pietro è il primo custode e difensore.
Confermare i fratelli nella fede, tenendoli uniti nella confessione del Cristo crocifisso e risorto costituisce per colui che siede sulla Cattedra di Pietro il primo e fondamentale compito conferitogli da Gesù.
È un inderogabile servizio dal quale dipende l’efficacia dell’azione evangelizzatrice della Chiesa fino alla fine dei secoli.
Il Vescovo di Roma, della cui potestas docendi partecipa la Vostra Congregazione, è tenuto costantemente a proclamare: “Dominus Iesus” – “Gesù è il Signore”.
La potestas docendi, infatti, comporta l’obbedienza alla fede, affinché la Verità che è Cristo continui a risplendere nella sua grandezza e a risuonare per tutti gli uomini nella sua integrità e purezza, così che vi sia un unico gregge, radunato attorno all’unico Pastore.
Il raggiungimento della comune testimonianza di fede di tutti i cristiani costituisce pertanto la priorità della Chiesa di ogni tempo, al fine di condurre tutti gli uomini all’incontro con Dio.
In questo spirito confido in particolare nell’impegno del Dicastero perché vengano superati i problemi dottrinali che ancora permangono per il raggiungimento della piena comunione con la Chiesa da parte della Fraternità S.
Pio X.
Desidero inoltre rallegrarmi per l’impegno in favore della piena integrazione di gruppi di fedeli e di singoli, già appartenenti all’Anglicanesimo, nella vita della Chiesa Cattolica, secondo quanto stabilito nella Costituzione Apostolica Anglicanorum coetibus.
La fedele adesione di questi gruppi alla verità ricevuta da Cristo e proposta dal Magistero della Chiesa non è in alcun modo contraria al movimento ecumenico, ma mostra, invece, il suo ultimo scopo che consiste nel giungere alla piena e visibile comunione dei discepoli del Signore.
Nel prezioso servizio che rendete al Vicario di Cristo, mi preme ricordare anche come la Congregazione per la Dottrina della Fede nel settembre 2008 ha pubblicato l’Istruzione Dignitas personae su alcune questioni di bioetica.
Dopo l’Enciclica Evangelium vitae del Servo di Dio Giovanni Paolo ii nel marzo 1995, questo documento dottrinale, centrato sul tema della dignità della persona, creata in Cristo e per Cristo, rappresenta un nuovo punto fermo nell’annuncio del Vangelo, in piena continuità con l’Istruzione Donum vitae, pubblicata da codesto Dicastero nel febbraio 1987.
In temi tanto delicati ed attuali, quali quelli riguardanti la procreazione e le nuove proposte terapeutiche che comportano la manipolazione dell’embrione e del patrimonio genetico umano, l’Istruzione ha ricordato che “il valore etico della scienza biomedica si misura con il riferimento sia al rispetto incondizionato dovuto ad ogni essere umano, in tutti i momenti della sua esistenza, sia alla tutela della specificità degli atti personali che trasmettono la vita” (Istr.
Dignitas personae, n.
10).
In tal modo il Magistero della Chiesa intende offrire il proprio contributo alla formazione della coscienza non solo dei credenti, ma di quanti cercano la verità e intendono dare ascolto ad argomentazioni che vengono dalla fede ma anche dalla stessa ragione.
La Chiesa, nel proporre valutazioni morali per la ricerca biomedica sulla vita umana, attinge infatti alla luce sia della ragione che della fede (cfr.
Ibid., n.
3), in quanto è sua convinzione che “ciò che è umano non solamente è accolto e rispettato dalla fede, ma da essa è anche purificato, innalzato e perfezionato” (Ibid., n.
7).
In questo contesto viene altresì data una risposta alla mentalità diffusa, secondo cui la fede è presentata come ostacolo alla libertà e alla ricerca scientifica, perché sarebbe costituita da un insieme di pregiudizi che vizierebbero la comprensione oggettiva della realtà.
Di fronte a tale atteggiamento, che tende a sostituire la verità con il consenso, fragile e facilmente manipolabile, la fede cristiana offre invece un contributo veritativo anche nell’ambito etico-filosofico, non fornendo soluzioni precostituite a problemi concreti, come la ricerca e la sperimentazione biomedica, ma proponendo prospettive morali affidabili all’interno delle quali la ragione umana può ricercare e trovare valide soluzioni.
Vi sono, infatti, determinati contenuti della rivelazione cristiana che gettano luce sulle problematiche bioetiche: il valore della vita umana, la dimensione relazionale e sociale della persona, la connessione tra l’aspetto unitivo e quello procreativo della sessualità, la centralità della famiglia fondata sul matrimonio di un uomo e di una donna.
Questi contenuti, iscritti nel cuore dell’uomo, sono comprensibili anche razionalmente come elementi della legge morale naturale e possono riscuotere accoglienza anche da coloro che non si riconoscono nella fede cristiana.
La legge morale naturale non è esclusivamente o prevalentemente confessionale, anche se la Rivelazione cristiana e il compimento dell’uomo nel mistero di Cristo ne illumina e sviluppa in pienezza la dottrina.
Come afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica, essa “indica le norme prime ed essenziali che regolano la vita morale” (n.
1955).
Fondata nella stessa natura umana e accessibile ad ogni creatura razionale, la legge morale naturale costituisce così la base per entrare in dialogo con tutti gli uomini che cercano la verità e, più in generale, con la società civile e secolare.
Questa legge, iscritta nel cuore di ogni uomo, tocca uno dei nodi essenziali della stessa riflessione sul diritto e interpella ugualmente la coscienza e la responsabilità dei legislatori.
Nell’incoraggiarvi a proseguire nel Vostro impegnativo e importante servizio, desidero esprimervi anche in questa circostanza la mia spirituale vicinanza, impartendo di cuore a voi tutti, in pegno di affetto e di gratitudine, la Benedizione Apostolica.
(©L’Osservatore Romano – 16 gennaio 2010)
«A Rosarno immigrati accolti come fratelli»
Domenica, in tutte le chiese della diocesi di Oppido-Palmi, verrà letto il messaggio scritto dal vescovo Luciano Bux (che pubblichiamo di seguito) dopo la guerriglia urbana, con agguati e ferimenti, che per alcuni giorni, ha sconvolto la cittadina calabrese di Rosarno, nel cuore della piana di Gioia Tauro, contrapponendo lavoratori stranieri – in maggioranza giovani africani – e residenti della zona, probabilmente manovrati dalla criminalità organizzata.
Dopo la confusa campagna dei mezzi di comunicazione, specie le tv a livello nazionale, e dopo tante dichiarazioni di personaggi locali e nazionali ritengo di dover dire una parola al clero e ai fedeli della nostra diocesi.
Tralascio ogni considerazione di carattere sociale, civile, politico e culturale: non si addicono a una sacra celebrazione.
Ritengo sia mio grato dovere, di vescovo, dire un grazie al Signore per il comportamento della Chiesa di Oppido-Palmi non solo in questi giorni, ma per tutti i lunghi anni in cui è nato e cresciuto il fenomeno degli immigrati in diocesi, specie a Rosarno.
In tutti questi anni la nostra Chiesa ha dato esempio di come si possa essere “servi inutili” (Lc.
17, 10), a cominciare dal vescovo, ma servi che si sentiranno dire dal Signore: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto» (Mt.
25, 35).
Poi, il Signore dirà a tanti sacerdoti e laici di parrocchie, aggregazioni ecclesiali, organismi diocesani: «Non vi chiamo più servi… ma vi ho chiamati amici» (Gv.
15, 17).
La misericordia di Dio praticata dal nostro clero e dai nostri laici mi è stata di grande conforto nelle recenti tristi giornate.
Abbiamo accolto gli immigrati non solo come persone umane, ma come nostri fratelli, a cominciare dai fedeli di Rosarno guidati dai sacerdoti operanti nelle tre parrocchie insieme ai diaconi e alle suore, fino a comunità e gruppi operanti in tante altre località della diocesi.
Quando li abbiamo invitati, in anni diversi, a due convegni diocesani per rallegrare con la loro presenza e i loro canti i nostri intervalli di convegno, sono venuti con gioia, e più di uno rinunciando a mezza giornata di lavoro e di guadagno… Ricordo anche dei ragazzi stranieri e musulmani felici di far parte della squadretta di calcio parrocchiale… Dico: “Grazie” al Signore e grazie ai preti e ai laici che si sono affaticati con amore generoso per anni, non solo nei giorni passati.
A quei fedeli che sono stati solo a guardare dico: ogni volta che vedete un essere umano che è nel bisogno, non state solo a guardare e a parlare, ma rimboccatevi le maniche e datevi da fare come potete per alleviare le loro sofferenze. Questo ci insegna Gesù nella parabola del buon Samaritano (cfr.
Lc.
10, 30 ss.).
Alle persone che vivono con la mente e il cuore lontano da Dio, anche se si mostrano religiosi credenti, ricordate loro che Gesù dice: «Nessuno può servire due padroni, perché … si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza» (Mt.
6, 24).
Concludo con le parole che il Santo Padre, il Papa, ha pronunciato domenica scorsa, con attenzione anche alla nostra Terra: «Un immigrato è un essere umano, differente per provenienza, cultura e tradizioni, ma è una persona da rispettare e con diritti e doveri, in particolare nell’ambito del lavoro dove è più facile la tentazione dello sfruttamento, ma anche nell’ambito delle condizioni concrete di vita». «La violenza non deve essere mai, per nessuno, la via per risolvere le difficoltà. Il problema è anzitutto umano. Invito a guardare il volto dell’altro e a scoprire che egli ha un’anima, una storia e una vita: è una persona e Dio lo ama come ama me».
O Signore, nostro e di tutti i popoli, o Signore della Chiesa e di questa Chiesa particolare che è in Oppido-Palmi, grazie a Te e grazie a voi, sacerdoti e fedeli.
Per il futuro restiamo nella fedeltà al Vangelo di Gesù nostro Signore e alla Sua Chiesa, che è il Suo mistico Corpo.
Luciano Bux vescovo di Oppido-Palmi
Francesco Guccini
Il 7 settembre 2009 è scomparso John T.
Elson, l’autore di una clamorosa inchiesta pubblicata sul “Time” e destinata a fare epoca.
Portava la data dell’8 aprile 1966, una manciata di mesi dopo la conclusione del concilio Vaticano ii e qualcuno in più prima dello scoppio fragoroso di quello che sarebbe stato il – mitico, famigerato, rimpianto, a seconda dei gusti – Sessantotto.
La sua copertina, su sfondo scuro, riportava solo un interrogativo lapidario, in caratteri rossi: Is God dead? (“Dio è morto?”).
Nel ricordarlo, “L’Osservatore Romano” ha dedicato una riflessione alla canzone di Francesco Guccini ispirata da quel titolo, ancor oggi, per tanti, la sua più famosa: Dio è morto, appunto.
Che viene presentata come “un’esaltazione di valori umani e naturaliter cristiani; tanto che, al contrario del cieco bacchettonismo dei canali nazionali ufficiali, il pezzo fu messo in onda dalla Radio Vaticana”.
Fra le leggende metropolitane legate al brano ce n’è una, perlomeno verosimile, che racconta di come Paolo vi l’avrebbe definito un lodevole esempio di esortazione alla pace e al ritorno a sani e giusti principi morali.
Siamo andati a parlarne direttamente con Guccini, raggiungendolo nei primi giorni di ottobre nel suo buen retiro di Pàvana, dove da qualche anno ha scelto di abitare nella casa in cui è cresciuto da bambino, e che sta pian piano rimettendo a posto.
A partire da Dio è morto, con lui – modenese di nascita, classe 1940, storico cantautore, scrittore, sceneggiatore di fumetti, linguista e persino attore (per gioco, tiene a precisare) – abbiamo ripercorso la sua vasta produzione musicale, scegliendo il filo rosso della spiritualità.
Non si è tirato indietro, confermando – una volta di più – la sua vocazione a porsi controcorrente rispetto al clima dominante nel Paese, la sua vitalità genuina, il suo impegno civile e la passione per la forza primigenia della parola, in musica e non solo.
Cominciamo con Dio è morto.
Avevo venticinque anni e stavo studiando all’università di Bologna (sembra strano, sono stato giovane anch’io!), i primi sit-in e il Sessantotto erano alle porte, era mia intenzione scrivere qualcosa di generazionale con Dio è morto.
Sta arrivando qualcosa che ci porterà a una nuova primavera, l’idea è questa, giocata su un registro fra l’apocalittico e l’esistenziale.
Oltre allo spunto del “Time”, un altro mi venne da alcuni miei versi vagamente ispirati a Thomas S.
Eliot, intitolati Le tecniche da difendere, che dicevano fra l’altro: “Non abbiamo tecniche da difendere / né miti da venerare / dei ed eroi”, per concludersi con un’esortazione rivolta ai coetanei: “Voi della mia generazione: svegliatevi!” (che poi cambiai, imitando il Paradiso perduto di Milton, quando Satana parla agli angeli che poi decadranno, con “O potentati, principi guerrieri”).
Anche se l’incipit, ovviamente, mi derivò da una famosa poesia di Allen Ginsberg che ispirò la beat generation, Howl (“Urlo”): “Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia”.
Tutto nasce, comunque, dalla consapevolezza che qualcosa doveva cambiare! Faccio spesso questo esempio: la scuola che racconta Fellini in Amarcord, dunque di prima della guerra, in pieno fascismo, era identica alla scuola che ho frequentato io, alcuni decenni più tardi, in piena democrazia! I primi versi di Dio è morto sono un’accusa, gli ultimi risentono del pacifismo che c’era allora, ed era una mia risposta a un extraparlamentarismo che sentivo come troppo violento.
Del resto, l’aggiunta finale della speranza non mi venne dalla volontà di trasmettere il canonico happy end, ma dal fatto che all’epoca la speranza covava veramente.
Certo, il “dio” di cui parlavo era un “dio” con la minuscola, un “dio” laico simbolo dell’autenticità…
Anche se il primo recital che ho fatto, quattro brani in tutto, dopo le esibizioni in osteria o con gli amici – era il dicembre 1968 – fu proprio alla Cittadella di Assisi, un luogo simbolo del rinnovamento della Chiesa…
E poco dopo andai anche a Loppiano, e mi esibii, anzi, fui preso di forza e piacevolmente costretto a cantare davanti ai focolarini.
Per evitare problemi (che ci saranno ugualmente), la prima incisione, dei Nomadi, porta nel titolo un punto interrogativo, oltre al sottotitolo fra parentesi “Se Dio muore è per tre giorni e poi risorge”…
Ma c’è un altro aneddoto su Dio è morto…
Quando andavo all’università pensavo a una carriera accademica.
Fortunatamente ho cambiato strada! Avevo fatto tutti gli esami, mancava solo la tesi, ma mi bocciarono in latino, sui paradigmi, e io ricordavo solo i più facili.
Il professore disse all’assistente: “Lo sa che questo ragazzo ha scritto quella canzone bellissima che si chiama Dio è morto?” (era stata appena incisa dai Nomadi).
“Però, si ricordi, i paradigmi vanno chiesti a tutti”.
E mi dissero di tornare.
La ricomporresti oggi? Dio è morto 2.
La vendetta, come certi film? No, perché, appunto, è una canzone generazionale, che si rivolgeva alla gente di allora, anche se ogni volta che la canto in concerto mi stupisco del fatto che i giovani la conoscano a memoria, dopo tanti anni…
Non riesco a eliminarla dalla scaletta! Il merito però, devo dire, non è del tutto mio, ma degli “sponsor” di queste canzoni (potrei ricordare anche Auschwitz), i razzisti e gli imbecilli che, a quanto pare, tornano periodicamente alla ribalta.
Passerei a Libera nos Domine, da Amerigo, siamo nel 1978, un anno cruciale per il nostro Paese.
Qui c’è la memoria dell’infanzia, con il recupero delle rogazioni, classico genere della tradizione religiosa popolare nostrana.
Con le rogazioni si chiedeva il soccorso divino per ottenere finalmente la pioggia dopo un periodo di siccità, o si supplicava di vedere allontanate le malattie collettive (tipo peste, colera e dintorni).
La nostra era una religiosità popolare, casalinga, piena di credenze paganeggianti.
Io, quando l’ho composta, avevo lasciato da parecchi anni la Chiesa, suppergiù a dodici anni, dopo aver fatto la comunione e la cresima (lo stesso giorno, come usava allora, credo per risparmiare sulle feste) presso la parrocchia di Sant’Agnese, a Modena.
Mentre solo qualche anno dopo avrei fondato, con alcuni amici, sempre a Modena, il Movimento Laico Indipendente, con il quale facemmo uscire due numeri di una rivistina.
Qui si tratta di una preghiera laica, che procede per accumulazione con un vasto elenco di mali epocali da cui trovare liberazione, con accenti che riecheggiano gli scenari della stessa Dio è morto: “Da tutti gli imbecilli d’ogni razza e colore / dai sacri sanfedisti e da quel loro odore / dai pazzi giacobini e dal loro bruciore / da visionari e martiri dell’odio e del terrore / da chi ti paradisa dicendo “è per amore” / dai manichei che ti urlano “o con noi o traditore” / libera, libera, libera, / libera nos, Domine”.
Ce l’avevo con tutti gli integralisti, con gli ipocriti, di ogni religione! Beh, anche questa canzone funziona ancora, purtroppo.
È il turno di Shomér ma mi-llailah?, del 1983, tratta dal disco intitolato minimalisticamente Guccini.
Lo spunto mi venne da uno squarcio meraviglioso del profeta Isaia (21, 11-12).
Il titolo – letteralmente – si potrebbe tradurre con “Sentinella, che cosa della notte?”.
Mi colpì soprattutto l’invito del profeta a insistere, a ridomandare, a tornare ancora senza stancarsi.
Io sono uno sempre in ricerca, curioso di tutto.
All’epoca stavo leggendo la traduzione di Isaia proposta da Guido Ceronetti, bellissima, uscita per Adelphi.
Non si tratta, però, come qualcuno ha voluto vederci, di un simbolo di carattere sociale e politico, ma piuttosto di un universale antropologico.
Isaia, il profeta che di regola minaccia fuoco e fiamme per quanti non seguono le indicazioni divine, a un certo momento della sua vicenda dimostra in pieno la sua profonda apertura umana, in un paio di versetti pieni di speranza: sentinella, a che punto stiamo della notte? Vale a dire, non bisogna stancarsi di porsi delle domande: questa è la cosa più importante fra tutte! Coltivare la curiosità, la sete di ricerca.
Non ci si può mai fermare.
La sentinella risponde: “La notte sta per finire, ma l’alba non è ancora giunta.
Tornate, domandate, insistete!”.
Potrei avvicinare questo pezzo a Signora Bovary, del 1987, in cui m’interrogo su “cosa c’è in fondo a quest’oggi”, “cosa c’è in fondo a questa notte”, “cosa c’è proprio in fondo in fondo / quando bene o male faremo due conti”…
Qui c’è un’angoscia esistenziale, l’angoscia della notte che non finisce…
Anche se non ci sono ancora arrivato, a fare quei due conti…
Staremo a vedere! Francesco, tu sei e sei sempre stato un gran lettore.
Che rapporto hai con la Bibbia? La Bibbia è un grande libro, assolutamente da leggere.
È pieno di storie affascinanti, di testi poetici.
Da ragazzetti si leggeva soprattutto il Cantico dei Cantici, che era così erotico.
Certo, quando t’imbatti nel Levitico o in quelle interminabili genealogie di personaggi più o meno sconosciuti, l’entusiasmo tende inevitabilmente a scemare, e li salti a piè pari.
Amo in particolare, naturalmente, la Genesi e l’Apocalisse, e sono convinto che ci possa essere una lettura di questi libri non necessariamente confessionale.
Qual è il tuo rapporto con Dio? Beh, parlerei piuttosto del rapporto con un senso religioso delle cose: in genere mi definisco agnostico, anche se, quando sono soprappensiero, mi scopro vagamente panteista.
Il senso religioso della vita può essere l’avere una morale che hai assunto fin da quando eri bambino.
Poi si è modificato con certe conoscenze, certi incontri e certe cose, ma grosso modo è quello.
E quindi per me il senso religioso della vita è innanzitutto attenersi alla propria morale e poi pensare che tutto sommato anche per me, che sono laico, c’è la parte misteriosa della vita che non può essere schiacciata dal positivismo, dallo scientismo, come poi i secoli hanno sempre dimostrato, e quindi le fughe nell’irrazionale ci sono e ci saranno sempre.
Anzi, sono un po’ non solo la nostra condanna, ma anche, a volte, la nostra fortuna, la nostra possibilità di espansione.
Qualche settimana fa, come sai, è morta mia madre, Ester.
Da qualche tempo, sto pensando a una canzone, che forse però non ultimerò mai, che sarebbe la mia personale Spoon River, e che vorrei intitolare Vignale, dal nome della località in cui si trova il cimitero di Pàvana, in cui vedo i miei passati con cui parlo; se si vive in un paesino come questo, la morte è presente, ogni anno se ne va qualcuno.
Mi viene in mente anche un pezzo di molti anni fa, Gli amici, in cui canto: “Se e quando moriremo, ma la cosa è insicura, / avremo un paradiso su misura, / in tutto somigliante al solito locale, / ma il bere non si paga e non fa male.
/ E ci andremo di forza, senza pagare il fìo / di coniugare troppo spesso in Dio: / non voglio mescolarmi in guai o problemi altrui, / ma questo mondo ce l’ha schiaffato Lui”.
Ho scritto, tempo fa, un ricordo per Biggi, un amico che se n’è andato, un farmacista ligure che era stato partigiano assieme a Italo Calvino, per una pubblicazione del Club Tenco, in cui gli dico: hai presente la mia canzone Gli amici? Immagino sarai sicuramente là – lui era un discreto bevitore – e stapperai le bottiglie di vino: ci sarà Amilcare del Club Tenco, Augusto dei Nomadi, Victor dell’Equipe 84, il fumettista Bonvi, e poi ora è arrivato anche De André.
Vedrai che un tavolo di carte lo organizzate di certo! Gli dicevo anche che la morte è un fatto del tutto naturale, e che noi uomini siamo come piante, che hanno un’infanzia, una giovinezza, una maturità, poi, a un certo punto, il loro ciclo è finito e se ne vanno: siamo esseri umani, Biggi, fondamentalmente buoni e retti, con una nostra morale implacabile, ma religiosi il giusto.
Del resto, che noia sarebbe essere immortali…
(©L’Osservatore Romano – 16 gennaio 2010)
Le domande che i ragazzi rivolgono a Gesù
Oggi la teologia e la predicazione della Chiesa sono concentrate sul Gesù storico, sulla sua esistenza, la sua predicazione, il suo messaggio, la sua morte e la sua risurrezione.
I corsi biblici organizzati dalle parrocchie non si contano più.
Ma queste domande mostrano chiaramente che l’interesse degli uomini d’oggi non è per una storia lontana, destinata ogni anno a divenire sempre più lontana, ma per il senso di questa vita qui e ora.
Gesù non interessa come singolo personaggio storico a cui accadono delle cose speciali (emblematico che nessuno tra i giovani gli avrebbe chiesto lumi sul suo concepimento verginale, sulla veridicità dei suoi miracoli, sui responsabili della sua morte, sulla realtà della sua risurrezione) ma interessa come il maestro a cui chiedere spiegazioni su questa vita e sui suoi conti che faticano a tornare.
Una risposta di un ragazzo di quindici anni metteva addirittura in crisi il sacrificio espiatorio di Gesù, o meglio la teologia tradizionale che interpreta Gesù quale «vittima immolata per la nostra redenzione» (come viene definito da alcune parole del canone della Messa).
Che cosa appare allora da queste domande dei giovani? Appare quello che già Hegel vedeva come il limite della coscienza cristiana tradizionale, cioè l’essere una «coscienza infelice».
Da questi giovani emerge chiaramente un disorientamento sulla loro identità di uomini, segno dell’inefficacia delle risposte tradizionali della fede ascoltate nelle lezioni di catechismo.
A differenza di quanto avveniva al tempo di sant’Agostino e di san Tommaso d’Aquino, dalla fede cristiana di oggi non emerge più una veritiera e affidabile visione del mondo.
Da qui il senso diffuso di infelicità, da qui il disagio rispetto al proprio essere al mondo.
I credenti adulti suppliscono questa incertezza teoretica con il ricorso al principio di autorità (è così perché è stato sempre insegnato che è così), ma con i giovani questo principio (se purtroppo o se per fortuna, non lo so) non funziona.
C’è un detto medievale che dice: «Vengo non so da dove; sono non so chi; muoio non so quando; vado non so dove; mi stupisco di essere lieto».
Il filosofo Karl Jaspers, che lo cita all’inizio del libro La fede filosofica di fronte alla rivelazione, dice che per questa unione di ignoranza e di gioia tale detto non può essere cristiano.
E poi aggiunge un affondo terribile, affermando che, al contrario, la coscienza cristiana ha sì le risposte a tutte le questioni perché sa da dove viene, perché sa chi è, perché sa che morirà quando lo deciderà Dio (non prima e non dopo), perché sa dove andrà, ma, sapendo tutto ciò, non è per nulla lieta, per nulla serena, ma è immersa nella macerazione e in una continua tensione con il mondo con cui non riesce a riconciliarsi.
A mio avviso ha ragione: la coscienza cristiana troppo spesso appare come una coscienza infelice, a tratti risulta persino aggressiva, soprattutto in coloro che coltivano sopra ogni cosa l’adesione alla dottrina stabilita dalle gerarchie ecclesiastiche e che coniugano il verbo “credere” sempre accanto a “obbedire e combattere”.
Da dove nascono invece quell’essere lieti in profondità, quella gioia inestirpabile verso la vita, quella quiete dello spirito e della mente, che sono il contrassegno di una autentica esperienza spirituale e che sole possono dare risposte convincenti alle inquietudini dei giovani? Nascono dal sapere di essere a casa in questo mondo di Dio, dal senso di intima comunione con l’essere e con la natura che portò Francesco d’Assisi a scrivere il “Cantico delle creature”, e dalla certezza che l’incarnazione di Dio non riguarda solo un giorno lontano di tanti anni fa ma è la dinamica che si avvera ogni giorno, in tutti gli uomini che amano il bene e la giustizia.
Gesù è l’uomo che cessa di fare di se stesso il centro del mondo e si pone al servizio di una realtà più importante di sé.
Anche la Chiesa deve cessare di fare di se stessa il centro del mondo e si deve porre al servizio di qualcosa di più grande di sé, del bene comune e di ogni singolo individuo di questa nostra società, credente o non credente, bianco o nero, etero o omosessuale.
in “la Repubblica” del 12 gennaio 2010 Il Sermig di Torino, movimento cattolico fondato da Ernesto Olivero, ha sottoposto un esteso questionario a migliaia di giovani sulla figura di Gesù.
Alla domanda numero 7, che chiedeva «Cosa diresti a Gesù se potessi parlare con lui oggi?», le principali risposte dei giovani furono le seguenti: Perché si deve morire? Che senso ha la mia vita? Perché esiste il male? Perché muoiono tanti giovani? Cosa mi aspetta dopo la morte? Perché mi hai creato? Queste domande dei giovani a Gesù (ipotetiche quanto alla possibilità di raggiungere il destinatario, ma assolutamente reali quanto a valore esistenziale) mostrano un intenso bisogno di significato, si potrebbe dire di filosofia.
Più che a Gesù quale singolo personaggio storico, le interpellanze dei giovani si rivolgono al Cristo, al Figlio di Dio in quanto Dio, a Dio, all’Assoluto.
Sono tre infatti le questioni capitali: 1) chi sono io e perché sono qui; 2) perché questo mondo è colmo di ingiustizia; 3) che cosa ne sarà di me dopo la morte.
Natale, venduti più e-book che libri
E’ stato un Natale con il botto per Kindle, e al quartier generale di Amazon possono certamente stappare lo champagne.
Il lettore di e-book è stato infatti l’oggetto più regalato nella storia dell’azienda di e-commerce.
Ma – dato forse ancora più interessante – il 25 dicembre sulla piattaforma creata da Jeff Bezos sono stati comprati più libri di bit che di carta.
Un sorpasso forse motivato dall’urgenza di ricevere immediatamente il titolo in questione, ma che nel contempo è la spia di un mercato in crescita: quello, appunto, dell’editoria digitale.
LE VENDITE – In generale sembra che le vendite in occasione delle feste siano andate particolarmente bene per Amazon, anche se l’azienda non ha fornito dati chiari e precisi: il giorno di picco è stato il 14 dicembre, quando i clienti hanno comprato 9,5 milioni di prodotti in 178 paesi, per una media di 110 al secondo.
Non si tratta ovviamente solo di libri, ma anche dvd, gadget tecnologici, e oggetti di vario genere, perfino dolci.
Sul fronte elettronico, dopo il Kindle, i prodotti più acquistati tra il 15 novembre e il 19 dicembre sono stati l’iPod Touch da 8GB della Apple e il Gps Garmin Nuvi 260W.
Nella categoria videogiochi troneggia invece la Wii Fit Plus con Balance Board, seguita da New Super Mario Bros e Call of Duty: Modern Warfare 2.
Molti i computer impacchettati: anche qui, i dirigenti Amazon, più che dare numeri, preferiscono affidarsi a immagini poetiche: e dunque i pc venduti sono tanti che in pila uno sull’altro sarebbero alti quanto due volte l’Everest.
DIETRO I PACCHETTI – Sul fronte della velocità nelle consegne va segnalato il caso di un cliente di Seattle che ha ordinato un Kindle alle 13 e 43 della vigilia di Natale e ha ricevuto il pacchetto alle 16 e 57 dello stesso giorno.
In tempo insomma per metterlo sotto l’albero.
Ma a questo proposito vale la pena ricordare che dietro il sistema di e-commerce di Amazon non ci sono solo byte e fibre ottiche, bensì anche muscoli e sudore umano.
Come quelli delle centinaia di persone reclutate in occasione delle festività presso Coffeyville, in Kansas, dove si trova il più grande centro di smistamento dell’azienda americana.
Quest’anno Jeff Bezos ha deciso di assoldare il popolo dei camper, di chi vive su 4 ruote, offrendo parcheggio gratuito a poche miglia dallo stabilimento e un lavoro di magazziniere e impacchettatore per circa 10 dollari all’ora.
Turni di 8-10 ore continuamente in piedi, camminate da 15 miglia al giorno, sollevamento pesi e un deciso effetto palestra assicurato a fine giornata.
Carola Frediani Corriere della sera 28 dicembre 2009
Benedetto XVI ai diplomatici
Come ad ogni inizio d’anno, papa Benedetto XVI ha rivolto stamane al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede il suo discorso sullo stato del mondo.
Il discorso ha lo stile e le prudenze della diplomazia vaticana.
Non vi si fa parola, ad esempio, né della Cina né dell’India, le due superpotenze emergenti, dove la Chiesa cattolica è per motivi diversi schiacciata e aggredita.
Ciò non toglie, però, che il discorso trasmetta dei messaggi volutamente alternativi a quelli correnti.
In particolare tre.
1.
ECOLOGIA DELLA NATURA, MA SOPRATTUTTO DELL’UOMO Il primo messaggio coincide con quello già lanciato da Benedetto XVI per la Giornata Mondiale della Pace, celebrata a Capodanno: “Se vuoi coltivare la pace, coltiva il creato”.
Con una sottolineatura decisiva e controcorrente: il primato dato alla salvaguardia integrale dell’uomo.
Ecco tre passaggi del discorso che svolgono questo tema: “Vent’anni fa, quando cadde il Muro di Berlino e quando crollarono i regimi materialisti ed atei che avevano dominato lungo diversi decenni una parte di questo continente, si è potuta avere la misura delle profonde ferite che un sistema economico privo di riferimenti fondati sulla verità dell’uomo aveva inferto, non solo alla dignità e alla libertà delle persone e dei popoli, ma anche alla natura, con l’inquinamento del suolo, delle acque e dell’aria.
La negazione di Dio sfigura la libertà della persona umana, ma devasta anche la creazione! Ne consegue che la salvaguardia del creato non risponde in primo luogo ad un’esigenza estetica, ma anzitutto a un’esigenza morale, perché la natura esprime un disegno di amore e di verità che ci precede e che viene da Dio”.
[…] “Se si vuole edificare una vera pace, come sarebbe possibile separare, o addirittura contrapporre la salvaguardia dell’ambiente a quella della vita umana, compresa la vita prima della nascita? È nel rispetto che la persona umana nutre per se stessa che si manifesta il suo senso di responsabilità verso il creato”.
[…] “Le creature sono differenti le une dalle altre e possono essere protette, o al contrario messe in pericolo, in modi diversi, come ci mostra l’esperienza quotidiana.
Uno di tali attacchi proviene da leggi o progetti, che, in nome della lotta contro la discriminazione, colpiscono il fondamento biologico della differenza fra i sessi.
Mi riferisco, per esempio, ad alcuni paesi europei o del continente americano.
‘Se togli la libertà, togli la dignità’, come disse san Colombano.
Tuttavia, la libertà non può essere assoluta, perché l’uomo non è Dio, ma immagine di Dio, sua creatura.
Per l’uomo, il cammino da seguire non può quindi essere l’arbitrio, o il desiderio, ma deve consistere, piuttosto, nel corrispondere alla struttura voluta dal Creatore”.
2.
LAICITÀ POSITIVA Un secondo messaggio controcorrente è rivolto principalmente all’Europa e all’Occidente.
Rivendica il ruolo pubblico della Chiesa.
Ecco in che senso: “Le radici della situazione che è sotto gli occhi di tutti sono di ordine morale e la questione deve essere affrontata nel quadro di un grande sforzo educativo, per promuovere un effettivo cambiamento di mentalità ed instaurare nuovi stili di vita.
Di ciò può e vuole essere partecipe la comunità dei credenti, ma perché ciò sia possibile, bisogna che se ne riconosca il ruolo pubblico.
Purtroppo, in alcuni paesi, soprattutto occidentali, si diffondono, negli ambienti politici e culturali, come pure nei mezzi di comunicazione, un sentimento di scarsa considerazione, e, talvolta, di ostilità, per non dire di disprezzo verso la religione, in particolare quella cristiana.
È chiaro che, se il relativismo è concepito come un elemento costitutivo essenziale della democrazia, si rischia di concepire la laicità unicamente in termini di esclusione o, meglio, di rifiuto dell’importanza sociale del fatto religioso.
Un tale approccio crea tuttavia scontro e divisione, ferisce la pace, inquina la ‘ecologia umana’ e, rifiutando, per principio, le attitudini diverse dalla propria, si trasforma in una strada senza uscita.
“Urge, pertanto, definire una laicità positiva, aperta, che, fondata su una giusta autonomia tra l’ordine temporale e quello spirituale, favorisca una sana collaborazione e un senso di responsabilità condivisa.
In questa prospettiva, io penso all’Europa, che con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona ha iniziato una nuova fase del suo processo di integrazione, che la Santa Sede continuerà a seguire con rispetto e con benevola attenzione.
Nel rilevare con soddisfazione che il Trattato prevede che l’Unione Europea mantenga con le Chiese un dialogo ‘aperto, trasparente e regolare’ (art.
17), auspico che, nella costruzione del proprio avvenire, l’Europa sappia sempre attingere alle fonti della propria identità cristiana”.
3.
LIBERTÀ DI RELIGIONE Infine, un terzo messaggio è di rivendicazione della libertà di religione e di denuncia delle situazioni nelle quali tale libertà è conculcata.
Benedetto XVI cita alcuni casi che vedono come vittime i cristiani: Iraq, Pakistan, Egitto, Medio Oriente.
Dell’islam non fa parola, ma in tutti i casi citati gli aggressori sono musulmani: “Per amore del dialogo e della pace, che salvaguardano la creazione, esorto i governanti e i cittadini dell’Iraq ad oltrepassare le divisione, la tentazione della violenza e l’intolleranza, per costruire insieme l’avvenire del loro paese.
Anche le comunità cristiane vogliono dare il loro contributo, ma perché ciò sia possibile, bisogna che sia loro assicurato rispetto, sicurezza e libertà.
Anche il Pakistan è stato duramente colpito dalla violenza in questi ultimi mesi e alcuni episodi hanno preso di mira direttamente la minoranza cristiana.
Domando che si compia ogni sforzo affinché tali aggressioni non si ripetano e i cristiani possano sentirsi pienamente integrati nella vita del loro paese.
Trattando delle violenze contro i cristiani, non posso non menzionare, peraltro, i deplorevoli attentati di cui sono state vittime le Comunità copte egiziane in questi ultimi giorni, proprio quando stavano celebrando il Natale.
[…] “Le gravi violenze che ho appena evocato, unite ai flagelli della povertà e della fame, come pure alle catastrofi naturali ed al degrado ambientale, contribuiscono ad ingrossare le fila di quanti abbandonano la propria terra.
Di fronte a tale esodo, invito le autorità civili, che vi sono coinvolte a diverso titolo, ad agire con giustizia, solidarietà e lungimiranza.
In particolare, vorrei menzionare i cristiani in Medio Oriente: colpiti in varie maniere, fin nell’esercizio della loro libertà religiosa, essi lasciano la terra dei loro padri in cui si è sviluppata la Chiesa dei primi secoli.
È per offrire loro un sostegno e per far loro sentire la vicinanza dei fratelli nella fede che ho convocato, per l’autunno prossimo, l’assemblea speciale del sinodo dei vescovi sul Medio Oriente”.
* Come negli anni passati, anche questa volta il testo del discorso è stato preparato negli uffici della segreteria di Stato.
Ma anche questa volta Benedetto XVI non ha mancato di lasciarvi la sua impronta.
La “firma” personale di Joseph Ratzinger è nelle righe d’inizio, nelle quali egli ha immediatamente offerto ai diplomatici presenti, molti dei quali estranei alla fede cristiana, la contemplazione della nascita del Verbo incarnato, annunciata dagli angeli ai pastori.
E ha citato il prefazio della seconda messa di Natale: “Nel mistero adorabile del Natale, Egli, Verbo invisibile, apparve visibilmente nella nostra carne, e generato prima dei secoli, cominciò ad esistere nel tempo, per assumere in sé tutto il creato e sollevarlo dalla sua caduta”.
Sandro Magister www.chiesa,it Per leggere il testo integrale del discorso del papa al corpo diplomatico: > “È per me motivo di grande gioia…”
La “generazione 20 parole”
Scorrendo la lista delle venti parole che costituiscono un terzo delle conversazioni online tra i giovani inglesi si trovano termini banali, come “yeah” (sì), “but” (ma) e “no”, ma anche vocaboli misteriosi come “chenzed”, che può significare “stanco” o “ubriaco”, oppure “spong”, traducibile in “stupido”.
E poi ovviamente ci sono le abbreviazioni tipiche dei dialoghi su internet, come “lol”, acronimo di “laugh out loud” (“rido a crepapelle”).
Applicando gli stessi criteri alle comunicazioni elettroniche tra ragazzi italiani emergerebbero verosimilmente gli ormai proverbiali “xke” al posto di “perché”, “tvb” per “ti voglio bene” o “cmq” invece di “comunque”.
Ma anche nuove forme di saluto, come “bella”, rivisitazione del vecchio “ciao”.
O slittamenti del significato, come nel caso di “pisciare”, ormai usato come sinonimo di “lasciare”, “abbandonare”.
Oppure “accollarsi”, sostituto di “mettersi in mezzo”, “dare fastidio”.
Termini che spesso nascono per esigenze di spazio, per rispettare gli angusti limiti degli sms o dei cinguettii su Twitter.
E che altre volte vengono scelti per marcare una distanza da chi guarda da fuori ed è abituato ad esprimersi in un altro modo.
Un gergo che dall’esterno può sembrare un codice misterioso e in qualche modo persino ostile, ma che secondo gli esperti non completa l’universo linguistico delle nuove generazioni.
E così, mentre il governo inglese si prepara a lanciare per l’anno prossimo una campagna nazionale per arricchire il linguaggio dei teenager, c’è chi ridimensiona gli allarmi e preferisce ricondurre tutto a un problema di gap generazionale: “Tanta gente non capisce come i giovani possano avere un vocabolario per parlare di hip-hop e non per discorrere di politica”, ha detto al Times il linguista David Crystal.
“Il fatto è che i ragazzi sviluppano un frasario articolato per parlare di ciò che piace a loro.
Ed è un vocabolario che gli studiosi non sono ancora riusciti a misurare”.
Repubblica 12 gennaio 2010 SI PUÒ comunicare con 20 parole? Sì, stando a una ricerca inglese che analizza il linguaggio dei ragazzi sul web e che ha fatto inorridire il governo di sua maestà: anche se i teenager hanno un vocabolario di 40 mila termini, quando parlano con i coetanei tramite Internet o il telefonino ne usano solo 800.
Ma non basta: in un terzo delle conversazioni le parole ricorrenti sarebbero appena venti.
Lo sostiene Tony McEnery, professore di Linguistica alla Lancaster University, la cui ricerca ha messo in allarme Jean Gross, appena nominata consulente del governo britannico per le politiche sulla comunicazione giovanile.
La Gross teme che l’abitudine a parlarsi attraverso il computer e i cellulari possa trasformarsi in un handicap insuperabile per il futuro dei teenager: “I ragazzi passano sempre più tempo comunicando attraverso gli sms e altri strumenti elettronici, con messaggi brevi e diretti”, ha detto.
“Ma devono capire che ottocento parole non sono sufficienti per conquistare un lavoro e avere successo nella vita”.