Testimoni del nostro tempo: Vittorio Bachelet

Ad “avere attenzione alla realtà dell’uomo di oggi senza chiudersi nell’alterigia del fariseo (…) ed essere non fazione tra fazioni, non organizzazione di potere, ma sale e luce del mondo”, come diceva nel 1966 ai presidenti diocesani, lo aiutava la piena intesa col Papa e con l’assistente nazionale, monsignor Franco Costa, ispiratori di un’intera generazione di preti e laici innamorati della libertà e della democrazia e, dopo la guerra e la Resistenza, della Repubblica, della Costituente e della Costituzione.
Solo a un presidente e un assistente tanto concordi nella distinzione di compiti fra clero e laici, quanto refrattari a ogni faziosità e favoritismo, poteva riuscire il miracolo di accompagnare l’emersione di diversi punti di vista, fisiologicamente associati all’avvento della democrazia associativa, con la “continua crescita di uno stile di fraternità e di libertà, di uno sforzo di costruzione”, che mio padre registrava con gioia nel suo ultimo discorso all’Azione cattolica nel 1973.
Molte di queste cose le ho capite meglio dopo.
Allora, fra elementari e liceo, don Costa era per me un prete genovese col quale si andava in montagna insieme ad altre famiglie; un vescovo che scherzava volentieri e, per esempio, impediva a noi bambini di baciargli la mano, improvvisando un esilarante, inatteso braccio di ferro.
Sapevo che era assistente nazionale dell’Azione cattolica e che c’era un concilio in fase di attuazione; tuttavia in quel gruppo di montanari cambiare lingua dal latino all’italiano e introdurre tre letture, il segno della pace o la chitarra, parevano cose altrettanto naturali che il mio passaggio dalle elementari alle medie al liceo; solo da grande mi resi conto che, altrove, quegli stessi passaggi conciliari erano stati vissuti con minor naturalezza e talora con forti resistenze.
Solo da grande, grazie ai racconti di mamma, appresi ad esempio che Bruno Paparella, segretario generale dell’Azione cattolica mentre mio padre era presidente, spesso a pranzo a casa nostra e noto a noi bambini soprattutto per i suoi scherzi, non era proprio entusiasta del nuovo cammino conciliare.
Evidentemente in quegli anni, dietro il fraterno e pacifico cammino conciliare dell’Azione cattolica (e con essa gran parte della Chiesa italiana), c’era molta fede, ma anche molta capacità di ascolto, intesa coi pastori, umiltà nell’accettare un progresso fatto di piccoli passi.
La consegna era quella di portarsi appresso tutti:  trasferire gradualmente e senza strappi all’intero popolo di Dio “privilegi” anticamente riservati al clero e, fino al concilio, accessibili al massimo a universitari o laureati cattolici, come la preghiera delle ore, la lettura e il commento della Bibbia, la comprensione e la partecipazione piena alla liturgia eucaristica.
Il senso dell’umorismo spingeva spesso mio padre a sorridere, anziché piangere, sulla lentezza e l’ansietà nella realizzazione del dettato conciliare.
Sorrideva quando un vecchio parroco concluse l’omelia con una postilla a sorpresa, del tutto avulsa dalle letture del giorno:  “Io la moglie per i preti non ce la vedo! Sia lodato Gesù Cristo”.
Sorrideva nel ricordare sommessamente a un amico vescovo che “in democrazia non basta aver ragione, ma occorre anche farsela dare dal 51 per cento degli elettori”.
Sorrideva anche quando i vescovi italiani fissavano una riunione plenaria della loro conferenza proprio alla vigilia di una scadenza elettorale, malgrado la distinzione conciliare fra comunità politica e Chiesa:  dopo secoli di trono e altare – diceva – ci vuole almeno qualche decennio a cambiare abitudini…
Sulla centralità della competenza e della conoscenza, sulla legittima pluralità di vedute in molti campi dell’agire umano, sulla chiara distinzione di ruoli fra comunità politica e Chiesa della Gaudium et spes si basava la “scelta religiosa” dell’Azione cattolica.
“Nel momento in cui l’aratro della storia scavava a fondo rivoltando profondamente le zolle della realtà sociale italiana che cosa era importante? Era importante gettare seme buono”, diceva papà.
Dunque la Chiesa, e con essa l’Azione cattolica, dovevano concentrarsi sulla propria missione primaria:  evangelizzare o rievangelizzare il mondo in rapido mutamento.
Ma questa scelta non implicava affatto il ritorno dei laici nelle sacrestie e il disprezzo per la politica:  al contrario, si fondava sul rispetto della sua autonomia e sull’apprezzamento della sua insostituibile funzione, tanto che Paolo VI la definì addirittura “la più alta forma della carità”.
Per carattere e vocazione, però, mio padre amava molto l’università e l’Azione cattolica, meno la politica e la Democrazia Cristiana.
Certo votava per quel partito, convinto che “i pochi che ci assomigliano sono lì”, ma credo che, pur non immaginando che quattro anni dopo gli sarebbe costata la vita, nel 1976 papà abbia vissuto la candidatura nella “nuova Dc” di Moro e Zaccagnini più come dovere che come piacere.
Fu eletto al Comune di Roma e poco dopo il Parlamento lo designò per il Consiglio Superiore della Magistratura, dove fu eletto vicepresidente.
In quegli anni alcuni politici, tuttora vispi e attivi, avevano coniato lo slogan “né con lo Stato né con le Brigate Rosse”; c’era anche chi tramava nell’ombra, fra logge e bombe sui treni.
Stare con la magistratura richiedeva coraggio.
Come poi si vide.
Don Abbondio sosteneva che il coraggio, uno, non se lo può dare.
Il cardinale Borromeo lo sgridava chiedendo:  “Non pensate che (…) c’è Chi ve lo darà infallibilmente, quando glielo chiediate? Credete voi che tutti que’ milioni di martiri avessero naturalmente coraggio?” (I promessi sposi, xxv).
Mio padre trovava coraggio e forza nel Signore, come Gedeone, come Bonhoeffer da lui citato all’ultima assemblea del 1973:  “Io credo che Dio, in ogni situazione difficile, ci concederà tanta forza di resistenza quanta ne avremo bisogno.
Egli però non la concede in anticipo, affinché ci abbandoniamo interamente in lui e non in noi stessi.
Ogni paura per il futuro dovrebbe essere superata con questa fede”.
Questa fede a noi figli è apparsa, fin da piccoli, nella preghiera dei genitori, papà e mamma insieme.
In loro la preghiera appariva un bisogno primario come il cibo o il sonno:  preghiera antica e moderna, salmi e rosario e compieta, italiano e latino.
La mattina, la sera, prima di mangiare, in viaggio.
In uno dei ricordi più dolci dell’infanzia ci sono papà e mamma inginocchiati vicino al mio letto e, prima che il sonno prevalga, sento le parole di una delle loro preghiere della sera:  Oremus pro pontifice nostro Ioanne…
da allora abbiamo pregato per Paolo, per Giovanni Paolo, e, oggi, per Benedetto; abbiamo amato e amiamo il Papa non perché, come disse una volta papà, si chiama Giovanni o Paolo, ma perché si chiama Pietro.
Qualche giorno fa mamma mi ha detto di aver trovato in casa un libretto che in trent’anni non aveva mai notato:  Fede e futuro, che Papa Benedetto ha scritto da giovane, pochi anni dopo la fine del concilio.
Due brani erano sottolineati a matita da papà.
Il primo diceva:  “Solo chi dà se stesso crea futuro.
Chi vuol semplicemente insegnare, cambiare solo gli altri, rimane sterile”.
L’altro brano, nell’ultimo paragrafo intitolato Il futuro della Chiesa, diceva:  “Il futuro della chiesa (…) non verrà da coloro che prescrivono ricette (…) o invece si adeguano al momento che passa (…) o criticano gli altri e ritengono se stessi una misura infallibile (…) o dichiarano sorpassato tutto ciò che impone sacrifici all’uomo (…) Anche questa volta, come sempre, il futuro della chiesa verrà dai nuovi santi”.
La fede, l’amore e l’obbedienza risultano purtroppo incomprensibili a molti di quelli che guardano alle vicende della Chiesa dal di fuori e credono di vederci dentro solo una gigantesca partita a scacchi.
Papà era invece convinto che “cristiani franchi e liberi possano vivere nella Chiesa di oggi e di domani nell’obbedienza e nella pace, proprio come Angelo Roncalli, prete, vescovo e Papa libero e fedele, perché ha avuto fede non nella sua forza ma in quella dello Spirito che guida la Chiesa”.
Ne sono convinto anch’io, e, a trent’anni dalla morte di mio padre, chiedo al Signore per me e per i miei figli, per i laici e per i preti della mia Chiesa fede e coraggio, obbedienza e pace.
(©L’Osservatore Romano – 12 febbraio 2010) ”Il Signore disse a Gedeone:  “La gente che è con te è troppo numerosa, perché io metta Madian nelle sue mani; Israele potrebbe vantarsi dinanzi a me e dire:  La mia mano mi ha salvato.
Ora annunzia davanti a tutto il popolo:  Chiunque ha paura e trema, torni indietro”” (Giudici, 7, 1-3).
Con mia madre e mia sorella scegliemmo questi versetti, molto cari a papà, per accompagnare la sua foto.
Gedeone, seguendo le istruzioni del Signore, rimanda a casa trentaduemila uomini e ne tiene con sé solo trecento.
Con loro, armati di brocche, trombe e fiaccole accese – e grande coraggio, fondato sulla parola del Signore – irrompe di notte nel campo dei madianiti, che, presi dal panico, fuggono in disordine.
 Ci voleva coraggio e fede per accettare a trentatré anni, da Giovanni xxiii, e a trentotto, da Paolo VI, la vicepresidenza e poi la presidenza dell’Azione cattolica, col formidabile mandato di attuare in Italia il concilio.
Per far entrare la Bibbia e la nuova liturgia in ogni famiglia e in ogni parrocchia.
Per trasformare l’Azione cattolica in un laboratorio della Chiesa di domani, un’inedita combinazione di democrazia interna (con capi eletti dai soci e non rinnovabili per più di due mandati) e serena fedeltà ai Pastori (titolari anche nel nuovo statuto di un ruolo decisivo nelle scelte importanti).
Per concentrarsi sul Vangelo e sulla formazione cristiana, restituendo l’impegno politico – e lo sport, e altre cose buone per le quali l’Azione cattolica aveva fino a quel momento svolto una preziosa opera di supplenza – all’autonoma responsabilità dei laici.
Per voltare pagina rispetto a quelli che Mario Rossi aveva definito “i giorni dell’onnipotenza”, al prezzo di una dolorosa cura dimagrante numerica e finanziaria.
Ci volevano il coraggio e la fiducia che nel Signore aveva avuto Gedeone.

Eluana un anno dopo

E’ semplice stare dalla parte giusta Amare la vita umana, difenderla, sostenerla e – comunque e sempre – accoglierla e rispettarla è la cosa più semplice di questo mondo.
E viene na­turale.
È naturale e umano proteggere chi è piccolo e fragile, aiutare chi è in pericolo, consolare chi sof­fre.
È naturale e umano dar da mangiare e da bere a chi non può provvedere da solo.
Innaturale e terri­bile è invece l’idea di negare, in qualunque modo, la vita di chiunque o anche solo di abbandonarla nel­la debolezza, nell’estrema dipendenza, nella diffi­coltà.
Innaturale e terribile è anche solo pensare di lasciar andare alla deriva una persona totalmente disabile.
Amare la vita è semplice.
E, infatti, sono le persone semplici che sanno farlo meglio.
Quei semplici che sono semplici perché – per quanto abbiano speri­mentato, per quanto abbiano studiato, per quanto abbiano indagato – hanno colto, e conservano, il sen­so di una verità basilare: ogni essere umano è « de­gno » e nessuna vita, mai, è padrona di un’altra vita.
Quando le cose, dentro di noi e nelle comunità di cui facciamo parte, sono così chiare, è facile capire che cosa è giusto e che cosa è sbagliato.
Chi sta con la vi­ta – chi è per la vita – mai la ferisce e mai arbitraria­mente la finisce.
Chi coltiva un’idea di morte – chi si allea con la morte – fa l’esatto contrario.
Eppure, og­gi, c’è molto che sembra rendere incredibilmente ar­dua la comprensione di che cosa è giusto e di che co­sa è sbagliato.
E c’è chi tenta, in tutti i modi, di ren­derci difficile, addirittura impossibile, dire dei « sì » e dei « no » limpidi e chiari.
Per questo, oggi, a un anno dalla dolorosissima mor­te di Eluana Englaro « per disidratazione » , cioè per sete – così ha certificato l’autopsia –, ci sembra im­portante tornare a indicare a noi stessi e a tutti, con la necessaria chiarezza, l’esempio di coloro che, con dolcezza e sapienza umana e medica, amano e ser­vono la vita e non la negano.
Vi raccontiamo le suore Misericordine che nella ca­sa di cura ‘ Talamoni’ di Lecco continuano a offrire ai loro pazienti la stessa dedizione e la stessa fedeltà che diedero per 17 anni alla giovane donna in stato vegetativo persistente poi portata a morte a Udine.
E vi raccontiamo i medici che al Centro ‘ Cyclotron’ dell’Università di Liegi stanno dando nuove e sem­pre più impressionanti risposte scientifiche alle do­mande di chi non s’arrende e non dichiara perse e « senza qualità » le persone classificate in stato vege­tativo.
Facciamo parlare Lucrezia ed Ernesto Tresol­di che hanno riavuto il loro Massimiliano, dopo die­ci anni di asserito stato vegetativo «permanente» (ag­gettivo oggi abolito dagli uomini di scienza, tranne che da quelli superficiali o tenacemente pro- euta­nasia), perché l’amore aiuta i « miracoli » e quel figlio ferito e perso in una disabilità sconfortante loro non l’hanno mai voluto lontano dalle loro vite e da casa sua.
E diamo voce a tutte le altre famiglie toccate dalla durissima prova di una persona cara e presen­te chiusa in uno stato che la rende apparentemente o effettivamente « irraggiungibile » ( famiglie che non lasciano soli questi loro congiunti, ma che, troppe volte, sono lasciate drammaticamente sole dalle pub­bliche strutture di assistenza).
Questi sono gli esempi, i fatti.
E poi ci sono le chiac­chiere.
I digrignanti sofismi di chi vuol far credere che accudire i malati più gravi, i cosiddetti « senza spe­ranza » , sarebbe crudele.
Le algide polemiche di chi osa descrivere come una « violenza » le tenere cure prestate a chi non può badare a se stesso.
L’alterigia antidemocratica di chi invoca l’azione di « saggi ma­gistrati » per sovvertire le leggi che già stabiliscono (come la legge 40) o, si spera, stabiliranno presto (co­me la legge sulle dichiarazioni anticipate di tratta­mento) un limite di rispetto nella manipolazione della vita nascente e un dovere minimo di assisten­za degli inabili.
Le chiacchiere anche feroci di chi, in­somma, pretenderebbe di rovesciare il senso reale delle cose.
Fino a dichiarare « inumano » lo stare, sen­za esitazioni e senza accanimenti, semplicemente dalla parte della vita.
Parole cattive, ferrigne propagande che non valgo­no un attimo del tempo di ricerca e di cura del pro­fessor Laureys o del professor Dolce e neanche il più piccolo e umile dei gesti che compiono ogni giorno, a Lecco, suor Albina e le sue consorelle.
Parole cat­tive che vogliono rendere «morte» sinonimo di «li­bertà» , e perciò non sono e non saranno mai spec­chio dell’animo vero della gente.
Sono passati quasi due anni dall’inciden­te d’auto che prima l’ha condotta in fin di vi­ta e poi sprofondata nello stato vegetativo, ma Eluana chiama mamma Saturna, evoca l’im­magine cui ci si rivolge nel bisogno.
Nei due anni di ricovero a Sondrio mamma Saturna la raggiunge quotidianamente da Lecco, pur di restarle accanto e continuare a spiare in lei quei segnali che solo un genitore può cogliere, il movimento di un dito, un so­spiro più lungo…
Messaggi spediti dal profon­do di una coscienza nascosta, da sottolinea­re con trepidazione al medico di turno: «La madre riferisce, nel pomeriggio, la comparsa di movimenti spontanei di estensione del go­mito sinistro», era scritto qualche pagina pri­ma.
Ogni genitore resta sempre in attesa, scru­ta ed ascolta, aspetta una risposta che maga­ri arriverà tra vent’anni, stimola, chiama, ac­carezza, spera.
Così Eluana «saltuariamente esegue ordini semplici su comando della ma­dre», ad esempio «flessione dorsale dei piedi, flessione esterna delle ginocchia».
Poi quel­l’invocazione due volte ripetuta, e chissà co­me avrà rimbalzato sul cuore di Saturna do­po anni di silenzi: «Mamma, mamma».
Ha viaggiato molto, Eluana, nei 17 anni di ‘sonno’, di ospedale in ospedale, per brevi ricoveri, esami, riabilitazioni, e ogni volta – si legge – «nessun problema durante il trasferi­mento».
È tranquilla, non necessiterebbe nemmeno di farmaci antiepilettici, nessuna crisi, mai.
Il penultimo viaggio importante è quello che la porta a Lecco, dalle suore Mise­ricordine, dove la famiglia chiede che sia o­spitata perché è là che Saturna l’aveva parto­rita il 25 novembre del 1970, e là ora avrebbe potuto continuare ad assisterla, a due passi da casa.
La speranza non muore, specie se i me­dici a Sondrio hanno scritto che «a tratti fissa e sembra contattabile», o che «se adeguata­mente stimolata esegue ordini semplici», non un mignolo mosso, non un colpo di palpebra ma addirittura «la apertura e chiusura della mano sinistra»…
Fantasie di una madre che vede ciò che vuo­le vedere? No, osservazioni di medici e in­fermieri: «…Emetteva qualche vocalizzo, fis­sava e cercava di incrociare lo sguardo del­l’interlocutore ».
«Messa prona con appog­gio sui gomiti accettava la posizione», anche se poi «non riusciva a raddrizzare il capo».
« Sembra muovere le dita dei piedi su co­mando…
».
Alla fine, «considerata la giovane età della paziente e la continua evoluzione anche se lenta, si consiglia il prosieguo del trattamento riabilitativo».
La speranza non muore, ma ce ne vuole dav­vero tanta, e Saturna si ammala di dolore, le loro strade si separano.
Eluana è curata nella casa di cura delle Misericordine fino alla not­te tra il 2 e il 3 febbraio di un anno fa, quan­do il padre la fa trasferire a ‘La Quiete’ di U­dine, dove dovrà morire (un ricovero ufficial­mente finalizzato al suo «recupero funziona­le» e «alla promozione sociale dell’assistita»).
E durante il viaggio questa volta Eluana si di­batte, fino a espellere il sondino.
Ospedale di Sondrio, Divisione di Lun­godegenza, ore 4 del mattino del 15 ottobre 1993.
Eluana è in stato vege­tativo ‘permanente’ – come si diceva allora – da quasi due anni.
Nella sua stanza succe­de qualcosa: «La paziente ha cominciato a la­mentarsi facendo versi…», si legge nella ‘Do­cumentazione clinica’ che la riguarda (e rac­conta i 17 anni dall’incidente alla morte).
Non è un’eccezione che Eluana emetta suoni, so­spiri, gemiti, le accade da due anni e lo farà per altri 15, fino al giorno prima della morte a ‘La Quiete’ di Udine.
Ma quella notte non si placa, forse appare più agitata del solito, forse ha accanto un’infermiera più attenta, forse lì con lei è rimasta sua madre, non lo sappiamo.
Fatto sta che Eluana continua a ‘lamentarsi’, come volesse dire qualcosa, e chi è lì la incoraggia, porge l’orecchio a quei ‘versi’, finché – è scritto nella cartella clinica – «stimolata a dire la parola ‘mamma’ è riu­scita a dirla due volte, in modo comprensibi­le».
Sono passati quasi due anni dall’inciden­te d’auto che prima l’ha condotta in fin di vi­ta e poi sprofondata nello stato vegetativo, ma Eluana chiama mamma Saturna, evoca l’im­magine cui ci si rivolge nel bisogno.
Nei due anni di ricovero a Sondrio mamma Saturna la raggiunge quotidianamente da Lecco, pur di restarle accanto e continuare a spiare in lei quei segnali che solo un genitore può cogliere, il movimento di un dito, un so­spiro più lungo…
Messaggi spediti dal profon­do di una coscienza nascosta, da sottolinea­re con trepidazione al medico di turno: «La madre riferisce, nel pomeriggio, la comparsa di movimenti spontanei di estensione del go­mito sinistro», era scritto qualche pagina pri­ma.
Ogni genitore resta sempre in attesa, scru­ta ed ascolta, aspetta una risposta che maga­ri arriverà tra vent’anni, stimola, chiama, ac­carezza, spera.
Così Eluana «saltuariamente esegue ordini semplici su comando della ma­dre», ad esempio «flessione dorsale dei piedi, flessione esterna delle ginocchia».
Poi quel­l’invocazione due volte ripetuta, e chissà co­me avrà rimbalzato sul cuore di Saturna do­po anni di silenzi: «Mamma, mamma».
Ha viaggiato molto, Eluana, nei 17 anni di ‘sonno’, di ospedale in ospedale, per brevi ricoveri, esami, riabilitazioni, e ogni volta – si legge – «nessun problema durante il trasferi­mento».
È tranquilla, non necessiterebbe nemmeno di farmaci antiepilettici, nessuna crisi, mai.
Il penultimo viaggio importante è quello che la porta a Lecco, dalle suore Mise­ricordine, dove la famiglia chiede che sia o­spitata perché è là che Saturna l’aveva parto­rita il 25 novembre del 1970, e là ora avrebbe potuto continuare ad assisterla, a due passi da casa.
La speranza non muore, specie se i me­dici a Sondrio hanno scritto che «a tratti fissa e sembra contattabile», o che «se adeguata­mente stimolata esegue ordini semplici», non un mignolo mosso, non un colpo di palpebra ma addirittura «la apertura e chiusura della mano sinistra»…
Fantasie di una madre che vede ciò che vuo­le vedere? No, osservazioni di medici e in­fermieri: «…Emetteva qualche vocalizzo, fis­sava e cercava di incrociare lo sguardo del­l’interlocutore ».
«Messa prona con appog­gio sui gomiti accettava la posizione», anche se poi «non riusciva a raddrizzare il capo».
« Sembra muovere le dita dei piedi su co­mando…
».
Alla fine, «considerata la giovane età della paziente e la continua evoluzione anche se lenta, si consiglia il prosieguo del trattamento riabilitativo».
La speranza non muore, ma ce ne vuole dav­vero tanta, e Saturna si ammala di dolore, le loro strade si separano.
Eluana è curata nella casa di cura delle Misericordine fino alla not­te tra il 2 e il 3 febbraio di un anno fa, quan­do il padre la fa trasferire a ‘La Quiete’ di U­dine, dove dovrà morire (un ricovero ufficial­mente finalizzato al suo «recupero funziona­le» e «alla promozione sociale dell’assistita»).
E durante il viaggio questa volta Eluana si di­batte, fino a espellere il sondino.

La santità è democratica

La congregazione salesiana nacque il 18 dicembre 1859, in una riunione, tenuta nella stanza di don Bosco all’oratorio di Valdocco, di cui ci è giunto uno scarno verbale redatto in termini vagamente burocratici e in un italiano qua e là zoppicante.
Quell’adunanza era stata preceduta e preparata da una “conferenza speciale” pubblicamente preannunciata da don Bosco l’8 dicembre in occasione della festa dell’Immacolata Concezione, quando aveva convocato per l’indomani “i preti, i chierici, i laici che cooperavano alle sue fatiche e ammessi entro alle segrete cose”.
Nella conferenza del 9 dicembre don Bosco anticipò l’intenzione di procedere alla costituzione di quella congregazione “che da tanto tempo egli meditava di erigere” affermando di aver avuto l’incoraggiamento di Pio IX, incontrato per la prima volta l’anno precedente.
Diede una settimana di tempo ai collaboratori per decidere in piena libertà se aderire o meno alla costituenda società.
A quanto sembra, due soli si defilarono, sebbene al termine della conferenza del 9 dicembre più d’uno fu udito esclamare: “Don Bosco ci vuole fare tutti frati”.
Fatto sta che il 18 dicembre si radunarono nella modesta camera di don Bosco 18 persone, di cui, va notato, due soli sacerdoti, 15 chierici e un giovane laico.
Se è vero che nella tradizione salesiana fu più tardi attribuita a quell’adunanza la denominazione di primo Capitolo, o Capitolo superiore, si trattò indubbiamente di un singolare Capitolo.
Esso era tuttavia l’immagine abbastanza fedele della natura in se stessa singolare (e ancora notevolmente fluida) dell’ambiente in cui la congregazione prendeva vita.
Vanno inoltre rilevate le circostanze di estremo riserbo e prive di qualsiasi solennità in cui si compì quell’atto di fondazione: possiamo senz’altro ammettere che, a parte i diretti interessati, in quell’ultimo scorcio del 1859 nessuno se ne accorse.
Del resto l’attenzione dell’opinione pubblica era presa da ben più pressanti avvenimenti, concernenti, come sappiamo, le vicende susseguite all’appena conclusa guerra franco-piemontese contro l’Austria.
Si può ben dire che mentre don Bosco fondava i salesiani in quella sua sperduta stanza dell’oratorio, stava nascendo, tra le doglie di un parto difficile e nient’affatto scontato nei suoi esiti, lo Stato nazionale italiano.
Quando don Bosco affermava davanti ai suoi collaboratori che progettava da tempo di dar vita a una congregazione, non diceva però con precisione quale tipo di congregazione avesse in mente: di certo le sue idee in proposito non corrispondevano ai modelli di comunità religiosa consolidati nella tradizione canonica.
In effetti, quell’atto che possiamo definire costituente, fu solo una tappa, pur importante, di una storia ch’era iniziata molto prima di quel 18 dicembre 1859, e che si sarebbe sviluppata, in modi allora imprevedibili e attraversando parecchie metamorfosi, nei successivi decenni.
Quella storia fu largamente condizionata da tre principali ordini di fattori.
Anzitutto dalle dinamiche interne che caratterizzarono l’espansione dell’opera di don Bosco, dalle sue origini sino al rapido sviluppo della congregazione salesiana da piccolo nucleo torinese, pressoché sconosciuto fuori dal Piemonte, a istituzione di scala e risalto internazionale, presente e attiva in vari Paesi europei e in diversi continenti, a partire dall’America latina.
In secondo luogo, quella storia fu condizionata dai rapporti tra la congregazione e le strutture istituzionali della Chiesa cattolica, sia sul piano locale, sia e soprattutto a livello di vertice, cioè dai rapporti di don Bosco e dei salesiani con il Papato, e con gli apparati di governo della Chiesa romana, da cui dipendeva, tra l’altro, l’approvazione degli statuti e delle regole della società.
In terzo luogo, ebbe considerevole incidenza sulla fisionomia e la vita della congregazione il contesto politico e istituzionale in cui essa prese forma e nel quale ebbe modo di svilupparsi.
Il contesto politico in cui si erano poste le basi per la fondazione della congregazione salesiana non era il più propizio alla nascita e allo sviluppo in Piemonte di nuove forme di vita religiosa associata.
La politica ecclesiastica dei governi costituzionali piemontesi, in specie sotto la presidenza di Massimo d’Azeglio e poi di Cavour, aveva imboccato senza esitazioni, ma non senza forti controversie, la via della laicizzazione dello Stato.
Uno dei settori più colpiti dalla politica laicizzatrice dei governi liberali era stato quello degli ordini e delle comunità religiose.
L’ostilità nei loro confronti dei governi, e di una parte consistente del ceto dirigente e dell’opinione pubblica, veniva giustificata con tre principali argomenti, di natura morale ed economica, che riguardavano in modo specifico gli ordini detti “contemplativi” o “mendicanti”: il loro carattere parassitario, nel senso almeno della loro estraneità allo svolgimento di funzioni considerate utili alla collettività; la privazione (seppur volontariamente accettata) di diritti e prerogative di natura civile conseguente alla sottomissione alle regole proprie dei vari ordini religiosi, tra cui la rinuncia al diritto di proprietà individuale; e infine la sottrazione di un cospicuo patrimonio immobiliare e fondiario alle dinamiche e alle innovazioni di un’economia di mercato, che proprio in quegli anni era entrata in fase di espansione.
L’acutizzarsi del conflitto fu determinato in modo particolare dal primo sgretolamento territoriale dello Stato della Chiesa avvenuto durante la guerra del 1859, in seguito al distacco dal governo pontificio della parte nord-orientale dello Stato (Bologna e le Romagne).
Ciò aveva riproposto in termini pressanti, e più generali, il problema controverso del potere temporale dei Papi: problema non solo italiano, ma dotato di delicate e complesse implicazioni di natura sia religiosa sia internazionale, già sorte drammaticamente nel 1849, e allora risolte dall’intervento militare francese contro la Repubblica romana che aveva dichiarato decaduto il potere temporale.
Ma 10 anni dopo la situazione era molto cambiata, e le tendenze – presenti anche tra il clero detto “nazionale” – avverse al temporalismo, avevano guadagnato terreno, urtandosi però con l’intransigenza di Pio IX, pronto a ricorrere nuovamente all’arma della scomunica in difesa di quelli che giudicava inalienabili diritti della Chiesa.
In stretta concomitanza con la guerra del 1859, la questione delle future sorti dello Stato Pontificio era tornata prepotentemente nell’agenda politica internazionale.
Don Bosco sapeva benissimo i rischi che correva con il suo progetto di dar vita a una nuova congregazione religiosa, e aveva preso le sue precauzioni.
Anche per questo aveva insistito nell’imprimerle una connotazione “di vita attiva” e non “contemplativa”, pienamente in linea peraltro con la natura dell’opera da lui svolta fino a quel momento.
“Siamo in tempi in cui bisogna operare.
Il mondo attuale vuole vedere le opere, vuole vedere il clero lavorare a istruire e a educare la gioventù povera e abbandonata con opere caritatevoli, con ospizi, scuole.
Chi non sa lavorare non è salesiano”.
In secondo luogo aveva previsto che i membri della congregazione conservassero a pieno titolo i diritti civili “in faccia alle autorità governative”, compreso, in particolari forme, quello di proprietà (che secondo Don Bosco costituiva un “nuovo modello riguardo al voto di povertà”): del resto il suo obiettivo dichiarato era quello di congiungere strettamente la formazione religiosa con un’educazione alla cittadinanza, a formare buoni cristiani che fossero buoni cittadini.
Infine aveva prospettato una consociazione religiosa dalla fisionomia altamente flessibile, dotata nel contempo di un forte centro di governo (che durante la sua esistenza s’identificò totalmente con la sua personalità carismatica) e di una considerevole plasticità nei modi dell’affiliazione (non esclusa un’affiliazione di “esterni”), della cooperazione e dei campi d’attività: una società, in ogni caso, popolare non solo nel senso caritativo, tradizionale, ma anche nel senso di una sua specifica conformazione popolare, da realizzarsi mediante la costituzione di un proprio clero formato nel seno e a contatto con la comunità, in base alla convinzione profetica (manifestata da don Bosco a Pio IX) che fosse ormai venuto “il tempo (…) che i popoli saranno evangelizzati dai popoli.
I leviti saranno cercati tra la zappa, la vanga e il martello, affinché si compiano le parole di Davide: “Ho sollevato il povero dalla terra, per collocarlo sul trono dei principi del suo popolo””.
Sebbene la cosa possa destare sorpresa, a dare una mano a don Bosco nel profilare i tratti dell’erigenda congregazione era stato proprio l’ex-ministro della giustizia e convinto propugnatore della legge sui frati, Urbano Rattazzi.
Questi gli aveva suggerito la costituzione di una “associazione di liberi cittadini, i quali si uniscono e vivono insieme a uno scopo di beneficenza”, e i cui membri conservassero i diritti civili, fossero soggetti alle leggi, pagassero le imposte e via dicendo, insomma un’associazione come tante, a carattere privato.
Non era esattamente quello a cui stava pensando don Bosco, ma è certo che di quel suggerimento egli tenne debito conto.
Per converso il medesimo Rattazzi, a dispetto delle sue idee in vari modi opposte a quelle di don Bosco, concepì da allora una personale e durevole ammirazione nei riguardi suoi e delle opere salesiane.
Si deve aggiungere, a completare il quadro, che gli organi di governo dello Stato sabaudo, a partire dal ministero degli Interni, non ebbero alcuna esitazione ad approfittare largamente della capacità di accoglimento dell’oratorio salesiano di Valdocco, affidandogli a più riprese casi di adolescenti orfani o abbandonati dai genitori o comunque in difficoltà, con la corresponsione di sussidi una tantum di una certa entità: dimostrazione del fatto che l’oratorio aveva finito per esercitare un ruolo pubblico di recupero e di assistenza, cui lo Stato sabaudo non era in grado di far fronte.
Veniamo così ai rapporti tra don Bosco (e la sua congregazione) e il movimento nazionale italiano.
Per intendere tale aspetto, occorre considerare che la visione del mondo di don Bosco si radicava in una percezione della realtà in cui la dimensione terrena e quella ultraterrena si compenetravano intimamente, in cui fenomeni naturali e sovrannaturali convivevano in una stringente interrelazione, in cui la presenza divina, come quella diabolica, era agevolmente avvertibile in segni sensibili, in cui anche i fatti calamitosi erano il frutto di un diretto intervento punitivo di origine divina per atti o comportamenti personali o collettivi considerati contrari alla legge di Dio od ostili alla sua Chiesa (ma le due cose per don Bosco s’identificavano senza residui).
D’altra parte, la stessa immagine di una vicinanza quasi fisica della mano di Dio alla storia dell’uomo e alla vicenda personale di ogni essere umano anche il più umile, consentiva a don Bosco di professare e promuovere l’idea di un accesso relativamente agevole alla salvezza eterna, di diffondere addirittura un’immagine di santità che, a certe condizioni, poteva diventare un attributo comune, per tutti disponibile, non più dipendente da particolari pratiche ascetiche né da rigorosi esercizi di pietà né da prove di specifico eroismo, ma unicamente dall’adempimento rigoroso dei propri doveri di stato, dal rispetto della legge morale, dalla pratica religiosa compresa la comunione frequente, dalla preghiera di devozione, dalla fedeltà alla Chiesa e soprattutto alla persona del suo capo, vicario di Cristo e suo rappresentante indefettibile e infallibile sulla terra.
Possiamo dire, a tal proposito, che con don Bosco si apriva l’epoca di una santità, per così dire, “democratizzata” e, in parte almeno, de-clericalizzata, di cui faceva parte integrante il rispetto di un’etica del lavoro e della professione, d’impianto teologico sostanzialmente diverso da quello di matrice protestante, ma in grado di competere con esso.
Da questo sfondo di convinzioni, di immagini, di strutture mentali discendevano le due idee dominanti che guidavano il suo modo di guardare agli eventi storici in cui era immerso.
In primo luogo, l’idea che la religione cattolica, in quanto unica vera religione, non fosse soltanto sicura via di salvezza delle anime, ma costituisse altresì la ragione insostituibile di un ordinato vivere civile, la base irrinunciabile di una “buona società”, la cui omogeneità religiosa andava preservata dagli attacchi dell’empietà, generatori di tutti i mali del secolo, nonché dal suo ipotetico sgretolamento per mano di pericolose minoranze a-cattoliche.
La seconda idea-guida concerneva il legame indissociabile che avvinceva l’Italia al cattolicesimo e alla Chiesa cattolica, e in modo particolare al papato, suo vertice gerarchico e carismatico, costituendone l’autentico principio di nazionalità, il fattore che più e prima di ogni altro le conferiva una propria inconfondibile identità nazionale.
(©L’Osservatore Romano – 7 febbraio 2010)

XXXII Giornata per la Vita: 7 febbraio 2010

Messaggio per la 32ª Giornata Nazionale per la vita (7 febbraio 2010) Chi guarda al benessere economico alla luce del Vangelo sa che esso non è tutto, ma non per questo è indifferente.
Infatti, può servire la vita, rendendola più bella e apprezzabile e perciò più umana.
Fedele al messaggio di Gesù, venuto a salvare l’uomo nella sua interezza, la Chiesa si impegna per lo sviluppo umano integrale, che richiede anche il superamento dell’indigenza e del bisogno.
La disponibilità di mezzi materiali, arginando la precarietà che è spesso fonte di ansia e paura, può concorrere a rendere ogni esistenza più serena e distesa.
Consente, infatti, di provvedere a sé e ai propri cari una casa, il necessario sostentamento, cure mediche, istruzione.
Una certa sicurezza economica costituisce un’opportunità per realizzare pienamente molte potenzialità di ordine culturale, lavorativo e artistico.
Avvertiamo perciò tutta la drammaticità della crisi finanziaria che ha investito molte aree del pianeta: la povertà e la mancanza del lavoro che ne derivano possono avere effetti disumanizzanti.
La povertà, infatti, può abbrutire e l’assenza di un lavoro sicuro può far perdere fiducia in se stessi e nella propria dignità.
Si tratta, in ogni caso, di motivi di inquietudine per tante famiglie.
Molti genitori sono umiliati dall’impossibilità di provvedere, con il proprio lavoro, al benessere dei loro figli e molti giovani sono tentati di guardare al futuro con crescente rassegnazione e sfiducia.
Proprio perché conosciamo Cristo, la Vita vera, sappiamo riconoscere il valore della vita umana e quale minaccia sia insita in una crescente povertà di mezzi e risorse.
Proprio perché ci sentiamo a servizio della vita donata da Cristo, abbiamo il dovere di denunciare quei meccanismi economici che, producendo povertà e creando forti disuguaglianze sociali, feriscono e offendono la vita, colpendo soprattutto i più deboli e indifesi.
Il benessere economico, però, non è un fine ma un mezzo, il cui valore è determinato dall’uso che se ne fa: è a servizio della vita, ma non è la vita.
Quando, anzi, pretende di sostituirsi alla vita e di diventarne la motivazione, si snatura e si perverte.
Anche per questo Gesù ha proclamato beati i poveri e ci ha messo in guardia dal pericolo delle ricchezze (cfr Lc 6,20–25).
Alla sua sequela e testimoniando la libertà del Vangelo, tutti siamo chiamati a uno stile di vita sobrio, che non confonde la ricchezza economica con la ricchezza di vita.
Ogni vita, infatti, è degna di essere vissuta anche in situazioni di grande povertà.
L’uso distorto dei beni e un dissennato consumismo possono, anzi, sfociare in una vita povera di senso e di ideali elevati, ignorando i bisogni di milioni di uomini e di donne e danneggiando irreparabilmente la terra, di cui siamo custodi e non padroni.
Del resto, tutti conosciamo persone povere di mezzi, ma ricche di umanità e in grado di gustare la vita, perché capaci di disponibilità e di dono.
Anche la crisi economica che stiamo attraversando può costituire un’occasione di crescita.
Essa, infatti, ci spinge a riscoprire la bellezza della condivisione e della capacità di prenderci cura gli uni degli altri.
Ci fa capire che non è la ricchezza economica a costituire la dignità della vita, perché la vita stessa è la prima radicale ricchezza, e perciò va strenuamente difesa in ogni suo stadio, denunciando ancora una volta, senza cedimenti sul piano del giudizio etico, il delitto dell’aborto.
Sarebbe assai povera ed egoista una società che, sedotta dal benessere, dimenticasse che la vita è il bene più grande.
Del resto, come insegna il Papa Benedetto XVI nella recente Enciclica Caritas in veritate, “rispondere alle esigenze morali più profonde della persona ha anche importanti e benefiche ricadute sul piano economico” (n.
45), in quanto “l’apertura moralmente responsabile alla vita è una ricchezza sociale ed economica” (n.
44).
Proprio il momento che attraversiamo ci spinge a essere ancora più solidali con quelle madri che, spaventate dallo spettro della recessione economica, possono essere tentate di rinunciare o interrompere la gravidanza, e ci impegna a manifestare concretamente loro aiuto e vicinanza.
Ci fa ricordare che, nella ricchezza o nella povertà, nessuno è padrone della propria vita e tutti siamo chiamati a custodirla e rispettarla come un tesoro prezioso dal momento del concepimento fino al suo spegnersi naturale.
Roma, 7 ottobre 2009 Memoria della Beata Vergine del Rosario  «Nessuno si salva da solo» Stare accanto nella crisi Fare argine alla precarietà di vita che segna sempre più la nostra società.
E servire la vita, prendendoci cura gli uni degli altri e continuando a stare sempre e solo dalla parte della persona umana, «nella sua interezza».
Il messaggio che i vescovi hanno deciso di inviare ai cattolici italiani e a ogni donna e uomo di buona volontà in occasione della 32esima Giornata nazionale per la vita si fa carico in questi termini del peso ulteriore e troppe volte drammatico che la grande crisi ha scaraventato sulla quotidianità di tante famiglie e di tanti singoli.
Richiama l’attenzione sulle situazioni di indigenza e di bisogno rese più acute e dolorose da una tempesta economico-finanziaria che ha fatto grandinare numeri sballati, scoperchiato vergogne affaristiche e stravolto progetti ed esistenze.
E chiama tutti noi che «conosciamo Cristo» a testimoniare con la passione di sempre eppure con un’urgenza nuova il valore della vita umana, esercitando il «dovere» di riconoscere e denunciare i «meccanismi» che producono povertà e disuguaglianza e feriscono «soprattutto i più deboli e indifesi».
Ogni tempo dell’uomo, lo sappiamo, è  un tempo di prova.
E purtroppo in ogni tempo accade che la vita dei piccoli e dei senza difesa venga misconosciuta, colpita e, addirittura, negata.
Ma ogni tempo ha anche caratteristiche sue proprie.
Quello che stiamo vivendo propone difficoltà e insidie che sembrano fatte apposta per enfatizzarne altre, già esistenti, moltiplicandone gli esiti nefasti per la nostra comunità nazionale (e non solo per essa) e inducendo una crescita del tasso di insicurezza e di egoismo.
E’ proprio per questo, mentre il 2010 è ancora giovane, che la riflessione sull’impegno per la vita ci viene riproposta con accentuazioni un po’ insolite che fanno tornare alla mente temi e tempi forti dell’anno che ci siamo appena lasciati alle spalle.
Pensiamo solo ai gesti esemplari e “contagiosi” – perché tesi, appunto, a suscitare una solidarietà diffusa e iniziative analoghe di altri soggetti istituzionali – con cui Conferenza episcopale e Diocesi hanno promosso fondi di sostegno alle famiglie e alle imprese investite dalla crisi.
O alla parola forte e alla presenza collaborativa (con autorità e realtà civili) spese dai nostri Pastori in tutte le situazioni di emergenza create dai disastri (non solo naturali) che si sono abbattuti su realtà piccole e grandi della nostra Italia: dalla ricostruzione post-sismica nell’Aquilano al complicato dopo-alluvione nel Messinese e al disorientante dopo-terremoto in una minuscola porzione d’Umbria, dalla crisi occupazionale in Sardegna al disagio crescente in importanti realtà industriali del Centro-Nord.  Segni chiari, segni di speranza e di contraddizione.
«Nessuno si salva da solo», continua infatti a rammentarci Charles Peguy.
Ed è quanto mai opportuno tenerlo a mente in questi mesi di crisi, mentre continua a emergere e rischia di accentuarsi una preoccupante tendenza ad affievolire gli impegni reciproci, ad allentare i legami di solidarietà, a non accettare accanto a sé presenze scomode e, comunque, “ingombranti”.
Il mito della “qualità della vita” porta a smarrire il senso della vita e a squalificare le vite che sono o vengono percepite come inadeguate o imperfette, vite minori e d’insuccesso: il bambino non nato, il disabile o il malato grave, l’anziano non autosufficiente, l’immigrato a cui si chiede e dà lavoro ma non vita civile, il disoccupato che pesa sulla fiscalità generale, il padre separato divenuto barbone, la madre abbandonata, la donna sola che cerca un’alternativa alla “libertà” di abortire e non riesce a trovarla nei labirinti libertari costruiti attorno al suo dramma.  «Nessuno si salva da solo».
E’ proprio necessario ricordarlo in un momento storico in cui il montare dell’onda degli egoismi viene o sottovalutato o addirittura nobilitato come un conquistato approdo di autonomia e di autodeterminazione.
Ci sono “architetti” che progettano una società di persone sole.
Noi no.
E anche il tempo della crisi può diventare un’occasione per affermarlo nei fatti.
Per ribadire che c’è ancora e sempre un’alternativa a quello sguardo cupo ed escludente, che non sta scritto che nella sofferenza si debba essere soli e che la disperazione può e deve essere vinta.
Il popolo della vita lo dimostra nelle opere e nei giorni.
Con riconoscenza, con coraggio e con pazienza.   Marco Tarquinio

Classe seconda – Febbraio

Unità di Lavoro per una riflessione degli allievi sulla propria esperienza, con approfondimenti teologici sull’identità della comunità-Chiesa.
Seconda parte OSA di riferimento  Conoscenze  – L’opera di Gesù e la missione della Chiesa nel mondo.
– I Sacramenti, incontro con Cristo nella Chiesa, fonte di vita nuova.    Abilità  – Cogliere gli aspetti costitutivi e i significati della celebrazione dei Sacramenti.
– Individuare caratteristiche e responsabilità di ministeri, stati di vita e istituzioni ecclesiali.  Obiettivi Formativi ipotizzabili – Conoscere e saper descrivere il concetto di Chiesa nelle varie accezioni.
– Conoscere e saper descrivere la relazione tra sequela Gesù e appartenenza ecclesiale.
– Sviluppare, in proposito, opinioni motivate.
– Saper riflettere, esprimendo opinioni motivate, sui rapporti con i propri coetanei, l’amicizia, l’esperienza di gruppo.    Competenze di riferimento dell’allievo in prospettiva triennale – Provando interesse nei confronti degli interrogativi di senso, avviare percorsi di introspezione e di analisi della realtà sociale.
– Saper prendere in considerazione la visione cristiana dell’esistenza, sulla base di conoscenze acquisite.
F – Questionario conclusivo e dibattito  – Quali sono i compiti della Chiesa? Quali sono i modi in cui essa agisce “come comunità”? – Quali caratteristiche di “diversità positiva” hanno i rapporti umani in un gruppo ecclesiale ben impostato? – In “Giovani opinioni”, quali aspetti dell’appartenenza ecclesiale entusiasmano i ragazzi delle testimonianze? Esprimi la tua opinione sulle loro idee, motivandola.
– Descrivi, se ti è possibile, un’esperienza felice di gruppo cristiano tua o di altri.
Perché la ritieni positiva? Quali risultati ci sono stati per gli individui, la comunità, il mondo “fuori”? Per l’inserimento dell’argomento in Unità di Apprendimento articolate, vedere Tiziana Chiamberlando, Sentinelle del Mattino, SEI, Volume per il biennio e Guida E – L’insegnante, presentando il testo-guida, propone agli allievi una riflessione su come i cristiani dovrebbero “essere comunità” in nome del loro Maestro, uniti a genti lontane dal desiderio di cambiare se stessi e il mondo.
La Chiesa: “stare insieme” nello stile di Gesù 1) Un grande compito La Chiesa…
è l’immensa comunità dei credenti che riconoscono in Cristo il loro Dio e Maestro, dei battezzati sparsi in tutto il mondo.
Gesù ha espresso chiaramente la volontà che i “suoi”, rimanendo uniti a Lui e imitandolo, vivessero, testimoniassero e insegnassero l’amore estremo per Dio e per gli altri che è il cuore del Vangelo, divenendo sale, luce, lievito per il mondo…
la Chiesa è comunità di “ministero”, in cui le membra di un unico organismo la cui anima è Cristo Risorto, vivo e presente, hanno incarichi diversi, tutti importanti per il bene comune – clero, laici, religiosi…
In essa, il cattivo esempio di un cristiano solo ferisce l’intero organismo, la crescita di ciascuno si ripercuote su tutti.
La Chiesa è una comunità, secondo i credenti, con una misteriosa forza di coesione che è lo Spirito Santo, la presenza di Dio come forza dell’Amore; essa è donata dal Risorto soprattutto attraverso i Sacramenti per poter amare e vincere il male.
La Chiesa è una comunità in cui è più facile avvertire la fratellanza umana, perché in essa si conoscono il volto del Padre di tutti e le caratteristiche del Suo amore per tutti i figli…
È facile guardare gli altri con rispetto, coglierne i lati positivi se si cerca di vederli con gli occhi di Dio.
La Chiesa è il primo “luogo” in cui il Risorto fa germogliare il Suo Regno, in cui inizia la riconciliazione dell’universo, a partire dai credenti, alimentati dalla Parola e dall’intima unione con Cristo, soprattutto attraverso l’Eucaristia; il rapporto con Cristo rende capaci di amarsi l’un l’altro come Lui ha insegnato.
La Chiesa è poi comunità missionaria, Sua testimone di fronte al mondo.
Ciò avviene attraverso l’evangelizzazione, che annuncia il messaggio di Cristo a chi non lo conosce o lo conosce male con la vita vissuta, la cultura, il dialogo; attraverso la catechesi, un percorso di approfondimento dottrinale che può riguardare bambini, futuri sposi, famiglie; attraverso la promozione umana, che è la lotta concreta in difesa della persona umana, della vita e della pace, in opposizione a ogni ingiustizia.
Lo “stare insieme” nello stile di Gesù è la prima testimonianza.
I cristiani sono chiamati a sostenersi reciprocamente mentre camminano seguendo Cristo, a formarsi e trasformarsi insieme per poi condividere con il resto del mondo il loro “tesoro”, la certezza che il senso della vita consista unicamente nell’imparare ad amare Dio e gli altri nel modo più ampio e profondo possibile.
Il Battesimo rappresenta il fondamentale legame con Cristo che è vincolo di unione tra le chiese cristiane (Cattolici, Ortodossi, Protestanti), nonostante le divergenze.
La Chiesa: “stare insieme” nello stile di Gesù 3) Giovani opinioni «In un certo senso non sono io che ho scelto la Chiesa; ho piuttosto la sensazione di essere stato scelto dalla Chiesa.
A 19 anni mi sono ribellato.
Nel corso di una crisi che è durata un anno, a poco a poco però ho capito che la barca della Chiesa era la mia barca» (Sandro) «Ora Gesù è mio amico.
Ho deciso: voglio che entri nella mia vita.
Questa volta, mi sento veramente cristiana.
È la prima volta che dico un “voglio” così deciso» (Manuela) «È nato un ragazzo nuovo.
È stato come un boato per me.
Prima la calma, poi l’esplosione.
Prima la tristezza, poi la gioia» (Carmine) «Sento il bisogno di ritrovare ogni tanto dei ragazzi della mia età, che la pensano un po’ come me, che hanno i miei stessi ideali, che hanno le mie stesse difficoltà.
Dopo questi incontri ritorno più sereno, più ottimista, e mi riesce più facile essere un testimone di Gesù Cristo» (Giacomo) «Ho cominciato quasi per gioco, poi mi sono ritrovata entusiasta e solo ora capisco tutto ciò che ho ricevuto dal gruppo.
Sono cose impercettibili all’istante, ma che col passare del tempo si capiscono.
Ora sono cambiata parecchio, con me e con gli altri.
La mia vita ha un senso e, benché non abbia ancora una fede con le basi solide, trovo in Dio una grande serenità» (Claudia) «Il nostro gruppo è una comunità che si rifà alla comunità di Gesù.
Noi in gruppo siamo Chiesa perché siamo salvati, e ci sforziamo di essere testimoni tra i nostri compagni» (Carla) «Ti ringrazio Signore per la mia vocazione alla Chiesa: a volte mi chiedo perché io sono tra i fortunati che sono stati aggregati al Tuo Corpo…
grazie per avermi salvato da una vita senza senso, di avermi regalato una comunità nella quale mi è tanto facile entrare in rapporto con Te» (Giulio)                                   (In Dossier adolescenti, U.
De Vanna, Questa nostra Chiesa, LDC) La Chiesa: “stare insieme” nello stile di Gesù 2) Dall’ideale ai problemi concreti  I Cristiani possono esprimere nel concreto il loro “essere comunità” agendo insieme – nei momenti di azione liturgica, in cui ricercano l’unione con Dio pregando, celebrando la Messa domenicale, vivendo i Sacramenti e le feste che rievocano le grandi azioni di Gesù…
– nei momenti in cui la Chiesa si pronuncia su questioni importanti per proporre il proprio pensiero al mondo, tramite il Papa e i Vescovi sostenuti dallo Spirito, e tutti i credenti sono chiamati a difendere e diffondere questo pensiero; – nei momenti formativi della vita parrocchiale, come animatori o “animati”; in gruppi biblici, di giovani, di famiglie…
– nei movimenti che vivono la fede accentuando alcuni aspetti del cammino (i Focolarini nella loro ricerca di “unità” con il mondo, gli Scouts con il loro itinerario che comprende vita semplice e natura, ecc.) – nei momenti in cui, insieme, si fa promozione umana attraverso volontariato condiviso sulla base della fede comune, o si cerca di lottare contro qualche ingiustizia o di offrire sollievo a qualche sofferenza; – nei momenti in cui, insieme, dialogano con il mondo con proposte culturali – dibattiti, arte, giornali – o semplicemente ritrovandosi in due o tre nella stessa classe, nello stesso ufficio, con l’esigenza di testimoniare la loro fede nei fatti e nei discorsi (per esempio, opponendosi al bullismo o al “mobbing” che opprimono un qualsiasi compagno o collega…).
Stare insieme “nello stile di Gesù” è un fatto serio, richiede innanzitutto di evitare qualsiasi superficialità e qualsiasi falsità, di essere assolutamente autentici e sinceri, fino al riconoscimento degli errori commessi e delle difficoltà personali.
Condividendo il più meraviglioso dei segreti, la certezza di aver trovato il senso della vita, ci si deve guardare negli occhi comprendendo, senza parole, che la posta in gioco è altissima, così come gli Apostoli devono aver fatto in tempi lontani: si deve mettere in atto il meglio della propria umanità identificando e combattendo i lati oscuri.
Si è anche consapevoli di quanto sia difficile avvicinarsi davvero al Signore e amare l’altro come se stessi imitando il Maestro, imparando il dono gratuito del meglio di sé, il perdono che ricostruisce i rapporti dimenticando l’orgoglio personale e le rivendicazioni, l’attenzione allo spazio che l’altro deve avere…
Non si può che ricercare il massimo di ciò che si può dare, in ogni rapporto la massima profondità e ampiezza.
In una comunità cristiana, che si esprima come “gruppo del dopo-Cresima” o altro, si dovrebbero realmente combattere invidia e maldicenza; ciascuno dovrebbe essere al centro di una premurosa attenzione, certo di essere realmente accettato, di poter gradualmente condividere gioie e dolori.
Si potrà sperimentare un “viaggio interiore” condiviso con i sacerdoti-guide, con i fratelli, irrobustendo la fede nel confronto, in una comune meditazione della Parola…
Per poi uscire dal “nido accogliente” e portare al mondo, fuori, l’amore di Cristo.
Dove i rapporti nuovi non si vedono, anche fra errori e ricadute, si vive una fede ancora troppo abitudinaria, stancamente ereditata…
I figli si mandano in Parrocchia perché si tratta comunque di un “luogo sano”, i Sacramenti sono soltanto un segno di appartenenza sociale…
e la forza dello Spirito viene ignorata, come un dono meraviglioso chiuso in un armadio.
Il Cristiano “tiepido” si riduce al nulla; non cambia nulla, non lascia realmente spazio all’agire del Risorto nella propria vita; il “mondo”, fuori, non ha nulla di diverso da vedere.
Non si vede la “carità” dell’Inno di San Paolo, che è paziente, che non si gonfia di orgoglio, che controlla l’ira, che cerca nei rapporti la verità…
essa è totalmente assente quando un ragazzino torna mogio mogio dal catechismo per essere stato preso in giro pesantemente proprio come è successo, il giorno prima, ai giardinetti sotto casa.

Classe terza – Febbraio

Unità di Lavoro possibilmente interdisciplinare (Irc, Lettere, Scienze) di educazione all’affettività Seconda parte OSA di riferimento  IRC Conoscenze – La fede, alleanza tra Dio l’uomo, vocazione e progetto di vita.
– Il “comandamento nuovo” di Gesù.
Abilità – Descrivere l’insegnamento cristiano sui rapporti interpersonali, l’affettività e la sessualità.
– Motivare le risposte del Cristianesimo ai problemi della società di oggi.
– Confrontare criticamente comportamenti e aspetti della cultura attuale con la proposta cristiana.  Obiettivi Formativi ipotizzabili Conoscenze e abilità – Conoscere e saper descrivere l’insegnamento della Chiesa cattolica in merito alla funzione della sessualità e alle caratteristiche di un autentico amore di coppia, del matrimonio, della famiglia.
– Esprimere opinioni motivate.
Obiettivi Formativi di educazione alla Convivenza Civile Conoscenze – Cambiamenti fisici e situazioni psicologiche.
– Aspetto culturale e valoriale della connessione tra affettività-sessualità-moralità.  Abilità – Riconoscere e descrivere il rapporto tra affettività, sessualità e moralità.
– Condurre discussioni argomentate su esperienze di relazioni interpersonali significative e sui problemi dei diversi momenti della vita.  Competenze di riferimento dell’allievo in prospettiva triennale:  – Saper prendere in considerazione il progetto di vita cristiano e la visione cristiana dell’esistenza come ipotesi di interpretazione della realtà sociale e individuale; – voler indagare su bene e male, saper ricercare una “verità”; – avviare processi introspettivi, in vista di una migliore conoscenza di sé e dello sviluppo di opinioni personali.    1) Una cosa sola Il concetto di sessualità indica innanzitutto l’identità maschile e femminile: due modi diversi di esprimersi, due diverse “strutture” del pensiero e dell’emotività…
con uguale dignità.
Le due metà del genere umano sono splendidamente complementari.
L’interiorità femminile è tendenzialmente più complessa e sfumata: accoglie, analizza affetti e idee; “slancio vitale”, linearità e sintesi caratterizzano in maggior misura l’interiorità maschile, senza voler generalizzare.
Il termine “sessualità” indica anche il modo di esprimere l’amore in quanto uomo e in quanto donna.
La nostra “dimensione fisica” è il nostro irrinunciabile mezzo espressivo: se fossimo “nuvolette incorporee”, come esprimeremmo l’ira, la gioia, il dolore, la simpatia? Un sorriso, un abbraccio rendono comunque “bello” il nostro corpo…
perché esso esprime la ricchezza dei pensieri e dei sentimenti.
Il gesto più significativo che si possa compiere tra esseri umani è il rapporto sessuale.
In esso, nei fatti, si promette a un’altra persona di voler divenire con essa una cosa sola, e le emozioni e le sensazioni in gioco contribuiscono, vissute con la giusta intenzione, a cementare l’unione, a realizzare una totale vicinanza, una totale intimità e condivisione, senza riserva, delle reciproche vite.
Il vero “rapporto” sessuale è totale accoglienza dell’altro nel proprio mondo ed è totale dono di sé.
Una visione seria e responsabile dell’amore ammette l’incontro fisico unicamente come espressione di un tale amore, autentico impegno per l’esistenza Si tratta di un gesto “oggettivamente” importante: da esso si origina il miracolo della vita! Il suo valore è dunque “unitivo” e “procreativo”.
Seconda fase dell’attività  Questionario e dibattito conclusivo riguardanti la prima e seconda parte dell’Unità (Domande per l’Irc e domande trasversali per l’Educazione alla Convivenza Civile) – Quali possono essere gli aspetti fondamentali di un amore autentico? (Trasversale) – Oltre che di sentimento, l’amore autentico ha bisogno…
di volontà e uso della ragione.
In che senso? Sei d’accordo? (trasversale) – L’amore che finisce…
non è amore.
Trovi giusta questa affermazione? (Trasversale) – Quali aspetti “in più” ritrovi nel rapporto d’amore tra uomo e donna basato sulla fede? (Irc) – Come definiresti la sessualità? Qual è il valore della sua espressione fisica, in un’ottica seria e responsabile? E in un’ottica cristiana specifica? (Irc) – Quali danni personali e sociali può provocare un uso impoverito e addirittura separato dalla dimensione dell’amore dell’incontro sessuale? Qual è la tua opinione? (Trasversale) – L’eventuale precocità delle esperienze sessuali può rappresentare un impoverimento? (Trasversale) – Qual è la fisionomia specifica di una famiglia cristiana? (Irc) – Nel documento “Famiglia e società”, quali collegamenti fa Chiara Lubich tra compiti della famiglia e un possibile miglioramento della società? Spiega in sintesi.
(Trasversale) (Per l’inserimento dell’argomento in Unità di Apprendimento articolate, vedere Tiziana Chiamberlando, Sentinelle del Mattino, SEI, Volume per la classe terza e Guida) 3) Un gioco a termine  «L’amore è un cammino di liberazione.
Lungo, lento, difficile.
Fortunati i giovani quando incontrano un “lui” o una “lei” che hanno capito che l’amore è qualcosa di profondamente religioso, perché fa parte, pur nella sua precarietà, dell’immensa realtà dell’amore di Dio svelato a noi attraverso Cristo.
Voler bene “anima e corpo” vuol dire essere tesi verso qualcosa che ci supera con la ricchezza del mistero che l’esperienza amorosa racchiude.
Certo, ci vuole impegno, tenerezza, fedeltà, responsabilità, dono.
Ma questa è la vera “liberazione” che il cristianesimo annuncia per promuovere la pienezza umana e divina dell’amore» (Carlo Fiore).
La componente istintiva che suscita l’attrazione sessuale e le emozioni sostengono, facilitano attraverso la tenerezza la dimensione spirituale dell’amore, che conduce al dono generoso di sé e all’impegno di accogliere totalmente l’altro.
Si può scegliere l’impegno in amore anche se non si è credenti; oggi, però, una mentalità egocentrica e superficiale riguardante i rapporti umani sembra diventata “mentalità comune”, evidente nei mass-media.
L’amore che non è più progetto diviene semplicemente un gioco di emozioni, un gioco da adulti che a un certo punto può stancare; l’altro deve “farmi stare bene”: lo uso come oggetto di consumo, anche sul piano sessuale.
Si arriva a scindere atto sessuale e amore: nel “gioco dei corpi”, l’atto viene degradato, svuotato di significato; diviene semplicemente un mezzo per procurarsi sensazioni fisiche piacevoli…
alla stregua di una buona cena, di un bicchiere di birra.
L’“essere uno” non esiste, il gesto diviene una menzogna e, fatalmente, un mezzo di sfruttamento nei confronti di chi non è più persona…
ma soltanto un corpo che fa “divertire”.
«…
Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore» (Mt 5,27): Gesù condanna ogni sfruttamento, anche soltanto fantastico, dell’immagine della donna.
Nella dimensione della pornografia un egoismo vuoto e infantile fa perdere all’altro ogni identità: è una cosa da usare senza riguardi né complicazioni.
Questa gelida assenza di rapporto diviene il contrario del rispetto: nei fatti, è disprezzo.
Banalizzare le cose grandi della vita può essere estremamente distruttivo e pericoloso: chi si abitua all’amore-gioco, magari già in età molto giovane, non riuscirà facilmente a cambiare prospettiva quando avvertirà il vuoto della solitudine; imparare davvero a relazionarsi è il risultato di un faticoso cammino, fatto anche di autocontrollo, di sacrificio.
La posta in gioco è la pienezza dell’esistenza.
Seconda fase dell’attività  L’insegnante di religione presenta agli allievi, dopo i testi-guida riguardanti le caratteristiche dell’amore tra uomo e donna in un’ottica soprattutto cristiana, quelli riguardanti l’etica sessuale e la famiglia.  2) Sessualità e Bibbia  In un’ottica di fede, l’incontro sessuale ha senso come segno di un’unione indissolubile e aperta alla vita, nell’ambito di un progetto definitivo, il matrimonio cristiano sostenuto dalla forza di Dio.
Per la Bibbia, l’uomo è unità profonda di anima e corpo, entrambi preziosi; il linguaggio del corpo riveste un’immensa importanza.
La nudità innocente, nella Genesi, di Adamo e Eva, prima delle complicazioni causate dal peccato di egoismo, indica la “verità” senza maschere della loro personalità e anche della loro femminilità e mascolinità; indica la bellezza della persona “integrale”, anche nell’espressione sessuale e nella fisicità creata da Dio, destinata a un “recupero” e a una “glorificazione”, con la resurrezione dei corpi, alla fine dei tempi…
«Tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna» (Gen 2,25) Nel Cantico dei Cantici, tradizionalmente attribuito a Salomone, il travolgente rapporto amoroso di due sposi racconta in realtà il rapporto tra l’anima e Dio…
«Adamo, unendosi a Eva e diventando una sola carne con lei, indica che l’unione sessuale sarà espressione di una comunione profonda.
Con l’avvento dei profeti (Isaia, Geremia, Ezechiele, Osea, ecc.) la sessualità è interpretata come espressione dei rapporti tra Dio e il Suo popolo (“Israele, ti farò mia sposa…”), tra Dio e l’umanità intera.
Nel Nuovo Testamento, l’unione dell’uomo e della donna nel matrimonio prefigura il mistero dell’amore nuziale tra Cristo e la Sua Chiesa» (C.
Fiore).
Famiglia e società Siamo alle soglie del terzo millennio.
La famiglia, ogni famiglia può divenire un protagonista di questa era.
Congegnata da Dio come capolavoro dell’amore, la famiglia può ispirare delle linee per contribuire a cambiare il mondo di domani.
Se noi infatti osserviamo la famiglia, se facciamo quasi una radiografia di essa, possiamo scoprirvi dei valori immensi e preziosissimi, che proiettati e applicati all’umanità possono trasformarla in una grande famiglia.
La famiglia è fondata sull’amore, un legame che ha tutti i sapori: amore tra gli sposi, tra genitori e figli, tra nonni, zii e nipoti, tra fratelli.
Un amore che cresce e si supera di continuo.
Così l’amore degli sposi genera nuova vita e la fraternità diventa amicizia.
Autorità e ruoli, perché espressioni d’amore, sono riconosciuti naturalmente.
Nella famiglia è spontaneo mettere tutto in comune, condividere ogni bene, avere un’unica cassa.
Il risparmio non è accumulo, ma previdenza.
È normale sovvenire alle necessità di chi ancora non è produttivo e di chi non lo è più.
Nella famiglia persone di tutte le età abitano insieme.
È naturale vivere per l’altro, amarsi reciprocamente.
Anche l’educazione avviene in modo spontaneo: pensiamo ai primi passi e alle prime parole del bambino.
Si castiga e si perdona solo per il bene della persona.
Il senso della giustizia è normale nella famiglia, così come sentirsi addosso la colpa e la vergogna dell’altro.
Soffrire, sacrificarsi per gli altri, portare i pesi gli uni degli altri è naturale.
Spontanea è la solidarietà, la fedeltà alla propria famiglia.
Nella famiglia la vita dell’altro è preziosa quanto la propria, talvolta più preziosa della propria; ci si preoccupa della salute di tutti e ci si fa carico di chi non sta bene.
È lì che naturalmente si accende e si spegne la vita, che trovano accoglienza, affetto e cura l’handicappato, l’anziano e il malato terminale.
Nella famiglia si vestono e si nutrono i membri secondo le loro necessità.
La casa è creata e curata insieme, con la partecipazione di tutti.
Nella famiglia si insegna e si impara: tutto contribuisce alla maturazione delle persone.
I suoi membri possono avere valori culturali diversi, ma ogni diversità diventa ricchezza per tutti.
Anche la comunicazione è spontanea in famiglia; ciascuno partecipa di tutto e condivide tutto.
Ora, compito di ogni famiglia è vivere talmente alla perfezione la propria vocazione di famiglia da poter divenire modello per l’intera famiglia umana, trasferendo in essa i suoi valori con il loro tipico modo di essere.
Così la famiglia diventerà seme di comunione per l’umanità del terzo millennio.
Nella famiglia è naturale mettere tutto in comune? Ecco il seme che può far crescere nella società un’economia per l’uomo; ecco il seme di una cultura del dare, di una economia di comunione.
Nella famiglia è spontaneo vivere l’uno per l’altro, vivere l’altro? Ecco il seme dell’accoglienza tra gruppi, popoli, tradizioni, razze e civiltà, che apre alla reciproca inculturazione.
Nella famiglia la trasmissione di valori avviene spontanea, di generazione in generazione? Può essere allora d’incentivo ad una nuova valorizzazione dell’educazione nella società, e la maniera di correggere e perdonare nella vita di famiglia può essere di luce al modo di condurre la giustizia.
Nella famiglia la vita dell’altro è preziosa quanto la propria? Ecco il seme di quella cultura della vita che deve informare le leggi e le strutture sociali.
La famiglia cura la propria casa e vi riflette la sua armonia? Ecco il seme per una rinnovata attenzione all’ambiente e all’ecologia.
Nella famiglia lo studio è finalizzato alla maturazione della persona? Ecco il seme che può dare alla ricerca culturale, scientifica e tecnologica di scoprire via via il misterioso disegno di Dio sull’umanità e di operare per il bene comune.
Nella famiglia la comunicazione è disinteressata e costruttiva? Ecco il seme per un sistema di comunicazioni sociali a servizio dell’uomo, che esalti e diffonda il positivo e sia uno strumento di pace e di unità planetaria.
Nella famiglia l’amore è il legame naturale tra i membri? Ecco il seme per strutture e istituzioni che cooperino al bene della comunità e dei singoli, fino alla fratellanza universale, valorizzando ogni singolo popolo.
Nel mondo esistono già strutture e istituzioni, a livello locale, nazionale e internazionale: ministeri, ospedali, scuole, tribunali, banche, associazioni, organismi vari.
Ma occorre umanizzare queste strutture, dar loro un’anima, in modo che lo spirito di servizio raggiunga quell’intensità, quella spontaneità e quella spinta di amore per la persona che si respira nella famiglia.
Dio ha creato la famiglia come segno e tipo di ogni altra convivenza umana.
Ecco quindi il compito delle famiglie: tenere sempre acceso nelle case l’amore, ravvivando così quei valori che sono stati donati da Dio alla famiglia, per portarli ovunque nella società, generosamente e senza sosta.                                                       (Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari) 4) Famiglia, piccola Chiesa  Per i Cristiani, il termine “vocazione” indica la chiamata di Dio a vivere l’amore: per ciascuno, in modo originale.
Nel matrimonio cristiano, si è chiamati a riconoscersi l’uno come il completamento dell’altro; si è chiamati a vivere insieme il progetto di vita cristiano imitando il Cristo nell’amore “carità”, un amore da vivere nella coppia, trasmettere ai figli, testimoniare al mondo.
Il matrimonio è un Sacramento celebrato dagli stessi sposi: il Sacerdote prende atto come testimone della comunità ecclesiale della loro volontà di formare una nuova famiglia.
È la loro realtà di amore radicato in Cristo che apre le porte allo Spirito Santo donato dal Risorto, Dio come Forza che sosterrà la promessa indissolubile di fedeltà reciproca, simboleggiata dagli anelli scambiati; che sosterrà la promessa di aprirsi alla vita, di accogliere i figli.
Il matrimonio cristiano è un progetto impegnativo: sceglierlo non ha realmente senso per chi lo fa soltanto per compiacere le famiglie di origine, o per avere un’atmosfera più “romantica” e tradizionale, magari affermando, tra gli auguri di amici e parenti: «…
Speriamo che duri!».
I matrimoni che la Chiesa dichiara “nulli”, da un punto di vista religioso in realtà non sono mai avvenuti, non sono basati sull’intenzione di mantenere promesse fatte in coscienza di fronte a Dio e al mondo.
La famiglia autenticamente cristiana è chiamata a essere “Chiesa domestica”: gli sposi “fanno evangelizzazione” trasmettendo la fede ai figli e vivendo con coerenza i valori che insegnano, come primi testimoni di Cristo (che davvero occupa il posto d’onore in famiglia, a cui ci si riferisce per ogni scelta) per loro e per il mondo…
fanno “promozione umana” accogliendo amici in difficoltà, assistendo i malati e gli anziani della famiglia, talvolta facendo volontariato, o aprendosi all’adozione o all’affidamento, per aiutare altre famiglie e bambini soli; fanno talvolta catechesi esplicita lavorando nelle Parrocchie come laici impegnati; attingono forza dalla preghiera e dai Sacramenti.
Il Vangelo viene vissuto in mezzo alle normali difficoltà di tutte le esistenze: lavoro stressante, troppe commissioni, sentirsi “diversi” e un po’ incompresi se si è davvero coerenti…
E i figli? Bisogna aiutarli a trovare la loro strada, nel rispetto della loro libertà, garantendo loro per prima cosa la sicurezza affettiva.
E i genitori? Anche loro hanno bisogno di sostegno morale, di aiuto pratico, di dialogo e gratitudine.
Non si finisce mai di crescere insieme.
«Figlio, soccorri tuo padre nella vecchiaia, non contristarlo durante la sua vita.
Anche se perdesse il senno, compatiscilo e non disprezzarlo, mentre sei nel pieno vigore.
Poiché la pietà verso il padre non sarà dimenticata» (Sir 3,12-14).
«Figli, obbedite ai vostri genitori nel Signore, perché questo è giusto.
E voi, padri, non inasprite i vostri figli…» (Ef 6,1-4).

“L´eterna battaglia contro i negazionisti”

L’intervista «Io, Elie Wiesel, sopravvissuto e testimone, ricordo ancora oggi ogni singolo momento.
Quando fummo chiusi nel Ghetto, quando vennero a prenderci, quando ci caricarono sui treni, quando arrivammo ad Auschwitz, quando vidi mia madre, mio padre e mia sorella portati a morire».
Così Elie Wiesel, Nobel per la pace, attivista di primo piano per la pace e i diritti umani nel mondo, racconta l´Olocausto.
Oggi, nella Giornata della Memoria, terrà un discorso al Parlamento italiano.
Ascoltiamolo.
Professor Wiesel, come rammenta quegli anni tremendi? «Rivedo ancora oggi ogni episodio.
L´arresto in massa, la deportazione.
Il viaggio atroce nei carribestiame fino ad Auschwitz.
Ricordo cosa voleva dire sentirsi improvvisamente trattati come “Untermenschen”, come subumani da eliminare.
Ricordo quando, io ancora piccolo, restai solo ad Auschwitz.
Fu terribile, è difficile descrivere cosa vuol dire restare solo, senza più la famiglia che hai visto sterminare, e al tempo stesso sentire che non sei solo, che non lo saresti stato mai più.
Perché eri insieme a migliaia e migliaia di persone, trattati da subumani da eliminare come te, e al loro fianco sentivi la vicinanza della Morte.
Ognuno di noi la sentiva, e al tempo stesso non vivevamo accanto alla Morte, vivevamo nella Morte».
Com´era possibile sopravvivere a questo sentimento? «Penso ancora oggi che quando entrammo ad Auschwitz entrammo in un´altra Creazione, una dimensione speculare, parallela, opposta e negativa.
Nella Creazione che conoscevamo la Germania era il cuore della cultura, la patria di una letteratura straordinaria espressa da una grande lingua, la terra dei migliori ingegneri.
Ma là entrammo come in un mondo parallelo, fatto solo di “to kill and to die”, di chi uccide e di chi muore».
Il genocidio pianificato con precisione industriale fu un crimine speciale, tutto tedesco? «Vede, una delle cose più terribili che la Storia ci ha riservato è questa: nella prima guerra mondiale i tedeschi si comportarono bene, combatterono contro i pogrom zaristi all´Est.
Per il popolo ebraico, la Germania era terra di cultura, di alta tecnologia, di grandi talenti letterari.
Non ce lo aspettavamo.
I nazisti riuscirono a mobilitare tutto il talento dei tedeschi – talento in ogni forma, di psicologi, scienziati, ingegneri, giornalisti – per l´Olocausto.
Per questo quel crimine senza pari fu così atrocemente efficiente».
Lei oggi si fida dei tedeschi? «Io non credo nella colpa collettiva.
Solo i colpevoli sono colpevoli.
Sono testimone, non giudice.
Certo, purtroppo la Resistenza, l´opposizione al nazismo e alla Shoah, furono minoritari.
Ma insisto, la colpa collettiva per me non esiste.
E ammiro moltissimo Angela Merkel, perché lei che oggi guida la Germania sa parlare e agire nel mondo giusto: in nome della Memoria, e del diritto di Israele all´esistenza».
Qual è il significato della giornata della Memoria? «Sono lieto di tenere un discorso al Parlamento italiano.
E´ una giornata importante per tutto il mondo civile.
Perché è fondamentale non solo ricordare, ma anche capire come e perché l´orrore assoluto accadde.
E perché dimenticare è un grande pericolo, perché l´oblìo significa tradimento.
Chi oggi chiede di dimenticare deve sapere che non sfugge a questa responsabilità: insisto, dimenticare vuol dire tradire la memoria delle vittime.
E dai tradimenti non può mai derivare il bene».
E´ anche il pericolo posto dal negazionismo? «Il più grande, pericoloso e attivo negazionista del mondo è Ahmadinejad, per questo conduco una campagna contro le sue posizioni.
E´ il negazionista numero uno: nega in pubblico l´Olocausto, dichiara di volere bombe atomiche per distruggere Israele.
Dovrebbe essere arrestato, dovrebbe venire tradotto davanti a un tribunale internazionale e processato dal mondo per incitamento a crimini contro l´umanità e all´odio razziale».
Una specie di Processo di Norimberga? «Esiste già il Tribunale internazionale dell´Aja».
Lei è soddisfatto o no di come il mondo ricorda l´Olocausto? «In Europa la situazione è migliorata.
Gli Stati Uniti sono all´avanguardia: i due massimi memoriali sono a Washington e in Israele.
In tutto il mondo percepisco più sensibilità di prima al tema.
Forse perché alcuni di noi sopravvissuti sono ancora in vita.
Il mondo comincia a pensare che un giorno, presto, non ci saremo più, e che è doveroso ricordare mentre siamo ancora in vita.
Perché i sopravvissuti aiutano a tenere viva la Memoria, la comunicano al mondo di dopo l´Olocausto».
Ma quanto è grande il pericolo che, con sempre meno superstiti della Shoah ancora in vita, opinioni pubbliche e leader cedano alla tentazione di dimenticare, di “voltare pagina”? «Io vedo che in molti paesi i giovani che studiano l´Olocausto sono più numerosi che mai.
In America, e non solo, non c´è una scuola in cui la Shoah non sia materia d´insegnamento.
Mai come oggi ho visto tanti corsi, seminari, mostre, programmi tv.
Sono ottimista sulla capacità di ricordare.
Ma c´è sempre da chiedere che uso si fa della Memoria, quanto la si usa per capire».
L´antisemitismo è vivo e spesso in ascesa, per esempio in Europa.
Quanto è grave la minaccia? «Sono trend pericolosi.
Anche perché si manifestano spesso su uno sfondo d´indifferenza.
Nel 2009, in tutto il mondo ma specie in Europa, si è registrato il numero più alto di manifestazioni di antisemitismo dal 1945.
Recentemente sono stato in Ungheria, ho visto un aumento preoccupante dell´antisemitismo.
E anche altrove, gli antisemiti conquistano nuove tribune.
Come dico da decenni, spesso siamo di fronte a un antisemitismo senza ebrei, cioè a correnti antisemite in società dove quasi non vivono più ebrei.
Poi c´è un violento, ingiusto odio verso Israele.
Il bisogno di un capro espiatorio non è morto.
E tocca sempre agli ebrei.
Intanto, per esempio, dell´eccezionale efficienza dell´aiuto umanitario israeliano a Haiti si parla poco o nulla».
Le élite in Europa sono conosce della minaccia dell´antisemitismo e dell´oblìo o no? «Lo spero.
In alcuni paesi – l´Ungheria, l´Ucraina, ma anche paesi dell´Europa occidentale – vediamo trend pericolosi.
Umori antisemiti, il sorgere di partiti filonazisti.
Alle leadership politiche toccano anche doveri e considerazioni morali.
Non possiamo separare la politica dalla morale.
Serve una visione etica del mondo, e deve venire dai leader».
L´antisemitismo come ricerca del capro espiatorio è un male europeo? «L´antisemitismo è il più antico pregiudizio di gruppo della Storia.
Ed è presente tuttora, nel nostro quotidiano.
Dobbiamo combatterlo, non illuderci che la lotta sia finita».
Tra i negazionisti ci sono anche esponenti religiosi, come il vescovo Williamson.
Quanto sono pericolosi? «Sono pericolosi prima di tutto per la Chiesa cattolica.
Il fatto che papa Benedetto non abbia revocato la revoca della scomunica è al di là della mia comprensione.
Parliamo di un negazionista dell´Olocausto, predica odio verso gli ebrei e Israele, come può essere ancora un vescovo? Scomunicato o perdonato, come può essere ancora vescovo? Angela Merkel ha avuto ragione a criticare il Papa su questo tema».
in “la Repubblica” del 27 gennaio 2010

Il Dottore Angelico

Nacque sotto Papa Onorio III (1216-1227), quando Federico II, figlio di Enrico II, svevo, e di Costanza d’Altavilla, normanna, era imperatore di Germania e Italia e re di Sicilia.
Esponente della nobiltà germanica era il padre di Tommaso, figlio di Francesca di Svevia sorella di Federico Barbarossa, mentre da una casata di principi normanni di Sicilia discendeva la madre Teodora.
 L’intreccio tedesco/normanno accomuna il rappresentante del Sommo potere e quello della Somma teologia:  Eusebio di Cesarea avrebbe letto questa coincidentia come segno della provvidenza divina, analogo a quello della nascita di Gesù sotto Augusto, al sorgere di quell’impero che Costantino avrebbe sacralizzato.
“Segni” del suo futuro compaiono già prima della sua nascita:  un eremita esorta Teodora, prossima al parto, a rallegrarsi perché il nascituro nella vita avrebbe brillato di tale sapienza e santità, che nessuno l’avrebbe eguagliato:  “Buono di nome ma più buono ancora per la vita santa”.
È il dodicesimo figlio – anche la numerologia ha un rilievo – come Beniamino, il figlio più amato da Giacobbe, dalla cui tribù discese l’Apostolo delle genti.
Troveremo analogia tra alcuni episodi della vita di Paolo e quella di Tommaso.
Un segno nel cielo, secondo una fonte tarda, fa coincidere la nascita del santo nello stesso giorno di Ambrogio di Siena e Iacopo di Bevagna:  in pieno giorno a Bevagna si videro tre mezze lune con assisi i tre dottori mentre i bambini gridavano ad scholas, annunciandone la grandezza.
Il segno, di stampo cristologico come la cometa su Betlemme, è predizione che Tommaso avrebbe abbandonato l’ordine benedettino per entrare in quello domenicano.
Ancora, Tommaso ha pochi mesi e una tempesta si abbatte sul castello di Roccasecca.
Un fulmine colpisce il torrione, proprio nella stanza dove dorme il piccolo con una domestica e la sorellina, che resta uccisa, mentre Tommaso rimane incolume.
Il fulmine poi raggiunge la stalla uccidendo i cavalli.
Il padre di Tommaso, leggendo l’evento come un segno divino, affida il figlio come oblato ai benedettini del vicino monastero di Montecassino.
La simbologia è duplice, l’incolumità che preserva l’uomo di Dio e il complesso segno dei cavalli uccisi.
Diretto a Damasco a perseguitare i cristiani, dal fulmine è colpito Paolo che cade da cavallo divenendo da soldato in armi cavaliere spirituale di Cristo.
Anche a Tommaso è indicata la via di una milizia mistica e di sapienza insieme alla rinuncia alla superbia e all’onore mondano, di cui il cavallo è figura secondo Agostino.
Lo confermano alcuni episodi.
Per fargli indossare le vesti di monaco benedettino o di nobile cavaliere e impedire la sua adesione all’ordine domenicano, il padre ridurrà a brandelli il suo abito, ma Tommaso si riavvolgerà nelle sue vesti lacere lieto di subire quell’ingiuria in nome di Cristo.
Rinuncerà anche all’ordinazione di arcivescovo di Napoli offertagli da Clemente IV, preferendo la vita monacale a onori e ricchezze.
Invitato a cena da re san Ludovico insieme al priore, nel periodo della sua lotta contro il manicheismo, durante il convito batte ripetutamente la mano sul tavolo, continuando a pensare e a parlare dell’eresia, dimenticandosi, novello san Martino, di essere alla corte di un re.
D’altronde, l’ingresso nella sua ultima dimora, l’abbazia di Fossanova, avviene non a cavallo, ma in groppa a un asino, a perfetta imitazione di Cristo, che entra trionfalmente in Gerusalemme per esservi crocifisso, come il martire e vescovo Policarpo in groppa a un asino è condotto al martirio.
Tommaso avrebbe pronunciato queste parole:  “Se il Signore verrà a prendermi, è meglio che mi trovi in una casa di religiosi che in un castello”.
Il cavallo ha anche simbologia positiva:  Girolamo e Ambrogio rappresentano la quadriga della virtù che conduce al cielo, le virtù cardinali con cui Orcagna personifica il santo (Santa Maria Novella, Firenze).
Nella storia di Tommaso appare anche il “segno” del libro ingoiato.
Ancora in fasce è ai bagni pubblici di Napoli, dove la madre l’ha condotto perché le truppe papali hanno invaso Roccasecca.
Tommaso stringe nella manina un pezzetto di pergamena e lo porta alla bocca.
Invano la nutrice cerca di aprirgli il pugno chiuso e deve immergerlo nell’acqua con quella carta nella mano.
Quando la madre riesce a farsi dare la pergamena vede che vi è scritta l’Ave Maria.
Fonti più tarde raccontano che il bambino ingoiò la pergamena.
Tommaso, come Giovanni nell’Apocalisse, ingoia il libro, dolce come il miele nella bocca e amaro come il fiele nello stomaco.
In lui entra la sapienza del Verbo incarnato in Maria, con le verità dolci per chi crede e amare per gli increduli.
Con la benedizione della Vergine, quasi a ricevere un secondo battesimo, Tommaso è immerso nell’acqua in modo prodigioso.
Il santo è tale fin dalla nascita, è puer senex, bambino senza infanzia, secondo la definizione di Curtius:  Tommaso rifiuta il divertimento dell’acqua per tenere stretta la pergamena, come Antonio non frequentava i coetanei per recarsi in chiesa, come Ilario dalla culla alzava le due piccole dita per benedire e come Ambrogio da piccolo giocava a fare il vescovo.
Fin da bambino, Tommaso avrebbe dato prova di carità.
La famiglia era solita recarsi a Chieti nella stagione autunnale.
Una tradizione locale lo descrive mentre distribuisce pane ai poveri.
Uscito dalla dispensa col grembo colmo di scorte, si imbatte nel padre che severamente gli impone di aprire la veste, da cui il pane era prodigiosamente scomparso per lasciare il posto a petali e fiori, medesimo miracolo attribuito alla contemporanea santa Zita.
Il pane è il simbolo della carità, dell’eucaristia, di Gesù vita disceso dal cielo (Giovanni, 6, 15) partorito da Maria, secondo gli apocrifi da bambina nutrita da cibo angelico e nel Cantico dei Cantici sposa di Cristo nel giardino fiorito.
La pergamena ingoiata e il pane tramutato in fiori si chiariscono nella simbologia mariana.
Alla vocazione dei santi spesso si oppongono uno o entrambi i genitori, fin nei primi Atti dei Martiri, quando il cristianesimo era oppresso dal paganesimo, e poi in successive realtà storico-geografiche in fase di evangelizzazione.
È il caso di Martino e dell’ostilità del padre che voleva per il figlio il successo della carriera militare.
Analogo il caso di Tommaso, che però sceglie di abbandonare un ordine, quello benedettino filoimperiale, per quello dei mendicanti-predicatori.
Il santo è figura eccezionale e il suo essere straordinario sorge in primo luogo dal modo in cui emerge in un gruppo di appartenenza:  Martino è un soldato, Benedetto è studente, Ambrogio è magistrato.
Quando cresce il desiderio della virtù, il santo lascia questo gruppo, vi ritornerà dopo avere superato una prova.
Antonio apre la porta della tomba in cui si era rinchiuso e rientra nel mondo, Martino e Ambrogio sono chiamati all’episcopato, Benedetto entra in una nuova comunità, come Tommaso, dopo la prova della prigionia.
Si trovava bene nell’abbazia di Montecassino ma, verso i quattordici anni, fu costretto a lasciarla, perché nel 1239 fu occupata dalle truppe di Federico ii, allora in contrasto con il Papa Gregorio ix, che scacciò tutti i monaci.
L’abate accompagnò personalmente l’adolescente Tommaso dai genitori, raccomandando loro di farlo studiare presso l’università di Napoli, allora sotto la giurisdizione dell’imperatore.
A Napoli conobbe, nel vicino convento di san Domenico, i frati predicatori e restò conquistato dal loro stile di vita e dalla loro profondità dottrinale; quasi ventenne, decise di entrare nell’Ordine domenicano, nel 1244; i suoi superiori, intuito il talento del giovane, decisero di mandarlo a Parigi per completare gli studi.
La scelta provocò l’ira dei suoi familiari, soprattutto della madre Teodora, rimasta vedova, che riponeva in Tommaso speranze per gestire gli affari del casato.
Teodora chiese all’imperatore di dare una scorta ai figli, ufficiali nell’esercito, perché questi potessero bloccare Tommaso, già in viaggio verso Parigi, con il padre generale dell’ordine, Giovanni di Wildeshausen detto il Teutonico.
Viene fermato e praticamente rapito dai fratelli nei pressi di Acquapendente; ritrovato in un prato, presso una fonte, è strappato dal locus coelestis della vita monacale per essere rinchiuso nel locus horridus del castello di Monte San Giovanni, di proprietà della famiglia.
Il sequestro dura un anno, durante il quale la famiglia cerca in tutti i modi di farlo desistere da una scelta ritenuta non consona alla dignità della casata:  arriva a introdurre nella sua cella una fanciulla vestita con abiti provocanti.
Tommaso scaccia fuori della stanza la prostituta con un tizzone ardente, e disegna il segno della croce sulla parete con la punta annerita.
Prostrato a terra, prega il Signore di preservare la sua castità:  appaiono due angeli che gli stringono una stretta cintura ai reni.
Come Gesù, il santo è assalito e resiste alle tentazioni; l’archetipo della seduzione femminile è, nella Vita Antonii, uno dei tanti travestimenti del demonio.
Dopo due anni, temendo l’ira del Signore, la madre infine cede, in coincidenza anche con la deposizione di Federico ii (17 luglio 1245), e consente ai domenicani di riprendersi Tommaso, che viene fatto fuggire, calato dalla finestra in una cesta.
È condotto a Napoli dove prende i voti monastici e da qui a Roma.
La fuga è un tòpos paolino:  l’apostolo, venuto a conoscenza della congiura ordita contro di lui dagli ebrei di Damasco, nottetempo viene fatto calare dalle mura dai cristiani suoi amici in una cesta (II Corinzi, 11, 32-33).
I precedenti veterotestamentari sono nella fuga dei due ebrei inviati da Giosuè come spie a Gerico, aiutati dalla prostituta Raab, e in Davide, ricercato a morte da Saul, fatto fuggire da Mikal.
Studente a Colonia, alla scuola di Alberto Magno (Dante, Paradiso, x, 97-99, “frate e maestro fummi”; Beato Angelico, Scuola di Alberto Magno, ritratto ai piedi del maestro), suscita la curiosità dei compagni.
C’era una certa attesa nei confronti di questo ragazzo del sud che aveva combattuto per farsi domenicano.
Racconta Guglielmo di Tocco che divenne straordinariamente silenzioso, assiduo nello studio, devoto nella preghiera.
I confratelli cominciarono a chiamarlo “bue muto”, ignorando ancora l’irrompente muggito e l’armonia del canto teologico della sua dottrina.
È un caso di nomen/omen.
Il referente testamentario è I Corinzi, 9, 9 (Deuteronomio, 25, 4):  non mettere la museruola al bue che trebbia, che già nei primi Padri della Chiesa significa che non si possono mettere a tacere gli Apostoli e tutti coloro che annunciano la verità.
Si cercò di farlo tacere, quando a Parigi, a causa della contestazione degli ordini mendicanti, fu scacciato dall’università insieme a san Bonaventura.
Tommaso continuò a predicare e a scrivere fino a quando Papa Alessandro non ricompose la controversia.
“Bue muto” è dunque nomen del silenzioso rimuginare del lògos da parte di Tommaso (la pergamena ingoiata) che avrebbe proferito una delle più alte parole teologiche.
Conversava con gli Apostoli, così testimonia un altro episodio.
Immerso nella comprensione di un difficile passo di Isaia, restò per tre giorni digiuno e in preghiera.
Cominciò quindi a dettare il suo commento con una rapidità eccezionale, mentre sembrava parlare con qualcuno:  riferì che Pietro e Paolo e la Vergine gli avevano suggerito l’interpretazione di passi oscuri.
Dunque l’epiteto indica la santità della sua parola ispirata:  san Bonaventura, entrato nello studio di Tommaso mentre scriveva, vide la colomba dello Spirito accanto al suo volto.
Ultimato il trattato sull’eucaristia, lo depose sull’altare davanti al crocifisso per ricevere dal Signore un segno.
Subito fu sollevato da terra e udì le parole:  Bene scripsisti, Thoma, de me quam ergo mercedem accipies? E rispose Non aliam nisi te, Domine.
Anche Paolo fu rapito al terzo cielo, e poi Antonio e tutta una serie di santi fino a Caterina; il volo, il levarsi in aria indica la vicinanza con il cielo e con Dio, con archetipo nelle figure di Enoch e Elia.
Nonostante le precarie condizioni di salute, Tommaso ricevette l’ordine di recarsi al Concilio che si sarebbe aperto a Lione per la riconciliazione fra Chiesa greca d’Oriente e la Chiesa di Roma.
Dovette fermarsi al monastero cistercense di Fossanova.
Già sul letto di morte volle lasciare ai fratelli una expositio sul Cantico dei cantici.
Quando arrivò al commento del versetto veni, dilecte mi, esalò l’anima (7 marzo 1274), come Gesù, come tutti i santi, Tommaso muore recitando la Scrittura.
Un religioso vide l’apostolo Pietro sollevare  in  cielo Tommaso (Zurbaran, Trionfo di san Tommaso, Siviglia); sant’Alberto Magno, che si trovava a tavola nel convento di Colonia, in lacrime ne annunciò la morte.
Ritroviamo lo stesso episodio nella Vita Antonii:  l’eremita percepì la morte del monaco Paolo a molte miglia di distanza.
Le ricognizioni delle reliquie di Tommaso portano alla luce un corpo pressoché intatto che emana quel profumo di fiori caratteristico già della prima letteratura agiografica, simbolo delle virtù, della santità, della partecipazione del santo allo spirito divino.
L’inviolabilità è il segno visibile dell’incontro tra divino e umano, dimensione sacrale che ha come referente centrale l’incarnazione-morte-resurrezione del Verbo.
Come uno dei miracoli in vita, la guarigione dell’emorroissa, anche i miracoli di Tommaso post mortem sono cristologici (restituisce la vista al cieco e la vita al morto, libera molti indemoniati).
Guglielmo di Tocco, riferendosi ai numerosi prodigi avvenuti attraverso la reliquia della mano di Tommaso afferma che quella mano, con il dito dell’intelletto, aveva aperto il libro ricevuto da Colui che siede alla destra del trono:  la pergamena ingoiata dal piccolo Tommaso aveva restituito la Parola divina.
(©L’Osservatore Romano – 28 gennaio 2010) Èdifficile presentare una breve biografia di Tommaso.
Le fonti sono spesso contraddittorie e il santo, al contrario di Agostino, non parla quasi mai di sé, tranne alcuni cenni.
Ma sfogliando la fonte principale e altre più tarde (Guglielmo di Tocco, Historia beati Thomae de Aquino; Raimondo Spiazzi, Vita di san Tommaso d’Aquino.
Biografia documentata, 1995), appare una costellazione di segni della sua futura santità.
Cominciamo dai suoi natali:  patria, stirpe, educazione sono i tre elementi nodali delle biografie pagane, i cui valori sono destrutturati nella vita di un santo, il cui modello, come già quello del martire, è Gesù, figlio di un falegname, che ha nobilitato e eletto a popolo di Dio proprio i diseredati e gli umili.
Tommaso è però monaco e nobile, unendo l’antico esempio cenobitico a quello tardo e celebrativo di epoca merovingia e carolingia.

Che cosa vuol dire morire

Chi dovesse leggere le sei interviste curate da Daniela Monti con il titolo Che cosa vuol dire morire (Einaudi Stile Libero, pagg.
120, euro 14) in prossimità di un telegiornale di questi ultimi giorni potrebbe essere colto da un leggero senso di vertigine.
Apprendere che la morte è sempre personale, che nel giro di un paio di generazioni sarà autogestita dall´uomo o che, addirittura, non è mai esistita, come sostengono alcuni dei filosofi intervistati, davanti alle immagini dei mucchi di morti in putrefazione nelle strade di Port-au-Prince non è boccone facile da ingoiare anche per palati molto sofisticati.
Ma ciò non vuol dire si tratti di discorsi inutili o astratti.
Al contrario, le riflessioni di Aldo Schiavone, Giovanni Reale, Remo Bodei, Roberta de Monticelli, Vito Mancuso ed Emanuele Severino, sollecitate dalle intelligenti domande della curatrice, rispondono ad un´esigenza fortemente sentita.
Che è quella di liberare la discussione sulla morte dai limiti specialistici del lessico medico o giuridico, situandola in un più ampio orizzonte di pensiero.
Vero è che fin dalla sua origine la filosofia, anche quando si è orientata sui problemi della vita, non ha mai smesso di riflettere su quella morte che ne costituisce non solo la pagina finale, ma anche la cornice inevitabile.
E tuttavia neanche questo ricchissimo patrimonio può bastare nel momento in cui il fenomeno della morte – come del resto quello della nascita – sperimenta una radicale mutazione dovuta alla straordinaria capacità della tecnica a penetrarne i confini prima ermeticamente sigillati.
Naturalmente tutto ciò, piuttosto che chiudere il problema, lo apre a una serie di domande e di conflitti di cui anche la cronaca recente, con i casi Welby ed Englaro, ha recato tragica testimonianza.
Come prima Nietzsche e poi Foucault avevano precocemente intuito, l ´oggetto centrale dello scontro, etico e politico, del nostro tempo è, e sempre più sarà, costituito precisamente dal corpo vivente, e morente, degli uomini.
Qual è la frontiera tra la vita e la morte e chi è deputato a fissarla? Come si incrociano, su di essa, libertà individuale e interesse collettivo, diritto e medicina, teologia e politica? La filosofia non poteva mancare di dire la sua – senza pretendere di risolvere questioni costitutivamente irresolubili, ma almeno cercando di fare chiarezza su di esse.
Naturalmente, come sempre avviene in questi casi, provocando altri interrogativi ed aprendo nuove contraddizioni.
Proverei a raggrupparle all´interno di tre bipolarità concettuali, seguendo il filo dei ragionamenti svolti nel libro.
La prima è costituita dal rapporto tra storia e destino, al centro degli interventi di Schiavone e Bodei.
Dire – come fanno entrambi – che il prodigioso sviluppo tecnologico spinge la vita, e dunque la morte, in un´orbita non più naturale, ma intensamente storica, perché aperta all ´intervento umano, vuol dire che una lunghissima epoca, iniziata con la comparsa dell´uomo sulla terra, si va concludendo.
Senza poter sapere cosa ci riserva il futuro, e senza sottovalutare i rischi che tale trasformazione comporta, per i due autori il percorso verso la liberazione della specie umana dai vincoli della natura è ormai segnato.
Nonostante il suo fascino, il problema di fondo che vedo in simile prospettiva non sta tanto nella perdita della dimensione naturale a favore di quella storica, quanto, piuttosto, in una concezione troppo fluida della stessa storia – e cioè in una possibile sottovalutazione dei traumi, o delle fughe di senso, che troppe volte l´hanno trascinata indietro quando si è illusa di fuggire verso il futuro, dimenticando la propria origine opaca.
Il secondo binomio che emerge dal libro è quello della relazione, altrettanto problematica, tra tecnica e fede.
Certo, i processi di secolarizzazione che caratterizzano il mondo occidentale tendono a spostare il loro confronto a favore della prima.
Le religioni perdono terreno, o si attestano sulla difensiva, davanti all´incalzare della conoscenza scientifica.
Dopo aver perso sia la battaglia con Galileo sia quella con Darwin, la Chiesa cattolica rischia di perdere la guerra.
La intangibilità della vita costituisce per essa l´ultima frontiera su cui attestarsi.
Proprio qui, tuttavia, si determina un singolare rovesciamento di campo.
Come osserva anche Reale, nell´uso di terapie sempre più aggressive volte a trattenere in vita corpi cerebralmente morti, è proprio la Chiesa a sostenere le ragioni della tecnica rispetto alla spontaneità dei processi naturali.
Ma, all´altro capo del binomio, come da tempo insegna Severino, la tecnica a sua volta è diventata una fede, nel senso che ha sostituito la credenza in Dio come argine nei confronti del nulla che ci circonda.
L´ultima coppia bipolare – al centro delle risposte della de Monticelli e di Mancuso – è la relazione tra persona e corpo.
Entrambi vedono nell´idea di persona ciò che riconduce il fenomeno della vita, nel suo rapporto con la morte, dal piano di una falda biologica indifferenziata a quello, individuale, del singolo essere vivente.
Che solo nell´esperienza irripetibile di ciascun uomo e di ciascuna donna la vita sperimenti il suo valore irrinunciabile è una verità indubitabile.
Così come il riferimento alla pari dignità di ogni essere umano.
Meno certo, mi pare, che ad affermarla possa essere proprio quel dispositivo, filosofico e giuridico, della persona che, dalla sua origine romana e cristiana, è sempre servito a dividere il genere umano, e lo stesso corpo vivente, in categorie fornite di diverso valore.
Come che sia, si tratta di sollecitazioni e di dubbi che attestano di per sé tutto l´interesse e il rilievo del libro.
di Roberto Esposito in “la Repubblica” del 26 gennaio 2010 DANIELA MONTI,  Che cosa vuol dire morire, Einaudi Torino 2010,  pp.
120, Euro 14 Finalmente, in questo libro, a parlare di morte non sono medici, politici, cardinali: ma filosofi.
La morte moderna, ospedalizzata e tecnologica, ci è stata sottratta.
L’esperienza della morte non appartiene più, come la percepivamo una volta, agli eventi naturali della vita.
E abbiamo bisogno allora di fermarci a pensare.
Nelle sei interviste di questo libro, la filosofia riprende la parola.
Aldo Schiavone descrive un futuro in cui si sceglierà come, quando e se morire, Giovanni Reale invoca la giusta misura dei Greci, Remo Bodei giunge ad ammettere eutanasia ed eugenetica, Roberta De Monticelli intreccia morte e libertà, Vito Mancuso traccia una terza via tra indisponibilità della vita e autodeterminazione dell’individuo, Emanuele Severino giunge alla vertigine di negare la negazione e ad affermare l’eternità dell’uomo.
Se non ritorneremo a concepire la morte, finiremo per dimenticarci di essere vivi.

«Irrinunciabile la riconciliazione degli animi»

La vicinanza al popolo di Haiti, così duramente colpito dal terremoto.
E poi il ricordo del Sinodo africano, con la sottolineatura della necessità di una riconciliazione a ogni livello della società, i fatti di Rosarno, la crisi e la condizione delle imprese e del Paese, l’importanza di una nuova generazione di cattolici e di italiani che interpretino la cosa pubblica come un impegno alto e fondamentale per difendere e propagare i valori non negoziabili della vita e della famiglia.
Sono i temi toccati dal cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, nella prolusione al Consiglio episcopale permanente.
Eccone alcuni passaggi chiave.    L’emergenza di Haiti e il dovere della solidarietà.
«Nella giornata di ieri, domenica 24 gennaio, in tutte le nostre parrocchie si è svolta una raccolta straordinaria di aiuti per la popolazione di Haiti durissimamente colpita dal tragico terremoto del 12 gennaio.
Una prima cifra, com’è noto, è stata immediatamente erogata dalla Presidenza della Cei, ma molto di più si deve ora fare attraverso la Caritas che è già sul posto.
Siamo certi che i cattolici italiani vorranno come sempre corrispondere al dovere della generosità verso un popolo la cui tragedia lascia senza fiato.
Non abbiamo la pretesa di saper placare i quesiti più profondi ed inquietanti che sono suggeriti da questo genere di prove nella vita dei popoli, ma sappiamo che nella pronta solidarietà e nella genuina condivisione vi è già la traccia di ogni possibile risposta.
I missionari che da tempo operano nell’isola caraibica, i volontari stabili e quelli che si sono aggiunti in queste settimane sono i testimoni di una vicinanza che non verrà meno, dovendosi trovare le strade più rispettose ed efficaci per arrecare sollievo alle popolazioni colpite, in particolare ai bambini rimasti orfani e alle persone variamente segnate dalla tragedia».
La riconciliazione.
«Mi ha colpito, per restare ancora sull’importante discorso che il Santo Padre ha tenuto alla Curia romana alla vigilia di Natale, il significativo capitolo dedicato alla riconciliazione, alla giustizia e alla pace, che gli era stato suggerito dal tema del recente Sinodo sull’Africa e dagli argomenti in esso vivacemente trattati.
Ma lo spettro della riflessione effettuata non era in modo vincolante circoscritto a quel continente, verso il quale peraltro sono ancora intatte tutte le responsabilità proprie del Nord del Mondo.
Di qui l’esame del concetto di riconciliazione quale compito della Chiesa di oggi, e come interpellanza diretta agli uomini del nostro tempo che hanno bisogno di apprendere nuovamente lo stile del riconciliarsi e i gesti che lo pongono in essere.
A cominciare dal sacramento della Riconciliazione: «Il fatto che esso in gran parte sia scomparso dalle abitudini esistenziali dei cristiani è un sintomo di una perdita di veracità nei confronti di noi stessi e di Dio; una perdita che mette in pericolo la nostra umanità e diminuisce la nostra capacità di pace» (ib).
Parole che suonano indubbiamente incalzanti per i popoli dell’Africa e le loro relazioni interne, spesso difficili e segnate da conflitti, ma anche per ogni altro popolo, dunque anche per noi e per la verità del nostro apporto di credenti alla costruzione dell’edificio comune che coincide anzitutto con il nostro Paese».
I fatti di Rosarno.
«Gli episodi di contestazione sociale che, attorno al fenomeno degli immigrati, hanno recentemente avuto luogo in Calabria, e specialmente a Rosarno e nella Piana di Gioia Tauro, potrebbero in una certa misura essere anch’essi ricondotti alla difficile crisi economica che l’Italia come gli altri Paesi si è trovata ad affrontare.
Ritengo che l’opinione pubblica nazionale abbia con l’occasione potuto avviare una riflessione che nessuna ruspa può facilmente rimuovere.
Voci sagge si sono alzate per dire cose importanti, da non scordare.
Io vorrei riprendere le parole essenziali che il Pontefice ha usato per centrare «il cuore del problema»: «Bisogna ripartire dal significato della persona.
Un immigrato è un essere umano, differente per provenienza, cultura e tradizioni, ma è una persona da rispettare e con diritti e doveri, in particolare, nell’ambito del lavoro, dove è più facile la tentazione dello sfruttamento, ma anche nell’ambito delle condizioni concrete di vita» (Saluto all’Angelus, 10 gennaio 2010).
Niente può farci dimenticare questa verità: l’immigrato è uno di noi; noi italiani siamo stati a nostra volta immigrati, e prima di noi lo è stato Gesù.
Bisogna partire da qui, e mai staccarsi da questa consapevolezza che va incardinata nei pensieri personali e collettivi degli adulti, come dei giovani e dei bambini».
Il sogno di una nuova generazione di cattolici.
«Confido in un sogno, di quelli che si fanno ad occhi aperti, e che dicono una direzione verso cui preme andare.
Mentre incoraggiamo i cattolici impegnati in politica ad essere sempre coerenti con la fede che include ed eleva ogni istanza e valore veramente umani, vorrei che questa stagione contribuisse a far sorgere una generazione nuova di italiani e di cattolici che, pur nel travaglio della cultura odierna e attrezzandosi a stare sensatamente dentro ad essa, sentono la cosa pubblica come importante e alta, in quanto capace di segnare il destino di tutti, e per essa sono disposti a dare il meglio dei loro pensieri, dei loro progetti, dei loro giorni.
Italiani e credenti che avvertono la responsabilità davanti a Dio come decisiva per l’agire politico.
So che per riuscire in una simile impresa ci vuole la Grazia abbondante di Dio, ma anche chi accetti di lasciarsi da essa investire e lavorare.
Ci vuole una comunità cristiana in cui i fedeli laici imparino a vivere con intensità il mistero di Dio nella vita, esercitandosi ai beni fondamentali della libertà, della verità, della coscienza.
Cresce l’urgenza di uomini e donne capaci, con l’aiuto dello Spirito, di incarnare questi ideali e di tradurli nella storia non cercando la via meno costosa della convenienza di parte comunque argomentata, ma la via più vera, che dispiega meglio il progetto di Dio sull’umanità, e perciò capaci di suscitare nel tempo l’ammirazione degli altri, anche di chi è mosso da logiche diverse».
Prolusione del (25 gennaio 2010) «Auspico il sorgere di una nuova generazione di italiani e di cattolici» .