Quaresima-Pasqua: “Ritornate a me con tutto il cuore”

E’ disponibile in tutte le librerie cattoliche d’Italia e nel sito dell’Ufficio liturgico nazionale www.chiesacattolica.it/liturgia il Sussidio liturgico-pastorale della CEI per il tempo di Quaresima- Pasqua 2010 dal titolo “Ritornate a me con tutto il cuore” (Gioele 2,12) è edito dalla San Paolo.
«Il presente sussidio – scrive nell’introduzione S.
E.
Mons.
Mariano Crociata, Segretario Generale della CEI – a partire dalla Parola di Dio annunciata e ascoltata nella liturgia offre indicazioni e stimoli per articolare in precisi itinerari le dimensioni fondamentali che la Parola ci indica, favorendo il recupero di una interiorità rinnovata, un annuncio sincero e convinto.
La Quaresima è tempo della conversione del cuore, occasione favorevole per ritrovare identità.
La Pasqua è il tempo della gioia della risurrezione, che non può essere tenuta nascosta nel chiuso del cenacolo, ma si apre alla proclamazione gioiosa: “Cristo è risorto!”.
Per tutto il mondo c’è possibilità di salvezza, di perdono, di vita nuova»

La pastorale della Scuola di fronte alla sfida educativa

“La pastorale della scuola di fronte all’istanza educativa” è il tema del convegno promosso dall’Ufficio nazionale per l’e ducazione, la scuola e l’università della CEI.
Si terrà dal 18 al 20 febbraio a Roma, presso il Summit Hotel.
Dopo la presentazione di don Maurizio Viviani, Direttore dell’Ufficio nazionale per l’educazione, la scuola e l’università e il saluto di S.E.
Mons.
Michele Pennisi, Vescovo di Piazza Armerina e Segretario della Commissione episcopale per l’educazione cattolica, la scuola e l’università, è prevista la relazione del Dott.
Ernesto Diaco, Vice responsabile del Servizio Nazionale per il progetto culturale.
Nella seconda parte del pomeriggio gli interventi di Don Edmondo Lanciarotta, Don Filippo Morlacchi e Don Giuseppe Lombardo, faranno il punto sulla pastorale nella scuola rispettivamente al Nord, Centro e Sud Italia.
Al termine della giornata S.
E.
Mons.
Mariano Crociata, Segretario Generale della CEI, presiederà la celebrazione eucaristica.
Nella mattinata di venerdì 19 sono previste le relazioni di Don Riccardo Tonelli (“La sfida educativa interpella la pastorale”)e Don Cesare Bissoli (“La figura dell’educatore nei Vangeli”), entrambi docenti emeriti presso l’Università Pontificia Salesiana, mentre il pomeriggio sarà dedicato ai lavori di gruppo e la Celebrazione Eucaristica delle 19.00 sarà presieduta da S.E.
Mons.
Lino Fumagalli, membro della Commissione Episcopale per l’educazione cattolica, la scuola e l’università.
L’ultima mattinata di lavori, sabato 20, prevede infine l’intervento del Dott.
Sergio Govi, Dirigente del Ministero della Pubblica Istruzione, su “Lo status quaestionis del sistema scolastico in Italia”.

Quaresima 2010

Quaresima 2010 Un tempo per apprezzare l’essenziale Per la preghiera di ragazzi e giovani.
Pagine 96 a colori – euro 2,80 Il sussidio per la preghiera dei ragazzi e dei giovani nel tempo di Quaresima, per guidare il cammino verso la Pasqua.
Per ogni giorno, si può trovare: • un passo della prima lettura proposta dalla Liturgia del tempo di Quaresima; • una breve riflessione, che aiuta ad interiorizzare la Parola del Signore; • una preghiera, per rivolgersi a Dio con le parole della fede.
Il venerdì e la domenica, oltre al mercoledì delle ceneri, viene proposta soltanto una preghiera/riflessione.
Guarda qualche pagina…

I desideri nel tempo della fretta

È stato Stephen Bertman a coniare i termini «cultura del momento» e «cultura della fretta» per definire il nostro modo di vivere in questa società.
Sono definizioni idonee e che risultano particolarmente comode ogni volta che cerchiamo di cogliere la natura della condizione umana liquido-moderna.
La mia tesi è che tale condizione si caratterizza principalmente per la sua tendenza (un caso fin qui unico) a rinegoziare il significato del tempo.
Il tempo, nell’era liquido-moderna della società dei consumatori, non è né ciclico né lineare, com’era normalmente per le altre società note della storia moderna o premoderna.
Direi che è invece puntinista, frantumato in una moltitudine di pezzetti distinti, ognuno ridotto a un punto che si avvicina sempre di più alla sua idealizzazione geometrica di non dimensionalità.
Come ricorderete sicuramente dalle lezioni di geometria a scuola, i punti non hanno lunghezza, larghezza o profondità: esistono, si sarebbe tentato di dire, prima dello spazio e del tempo; sia lo spazio che il tempo ancora non sono cominciati.
Ma come quell’unico punto che, secondo quanto ipotizzano le teorie cosmogoniche più avanzate, precedeva il big bang che diede inizio all’universo, ogni punto si presume contenga un infinito potenziale di espansione e un’infinità di possibilità che attendono di esplodere se adeguatamente innescate.
E ricordiamo che nel «prima» che precedette l’eruzione dell’universo non vi era nulla che potesse fornire la benché minima avvisaglia che stava avvicinandosi il momento del big bang.
I cosmogonisti ci dicono un mucchio di cose su quello che avvenne nelle prime frazioni di secondo dopo il big bang; ma conservano un odioso silenzio sui secondi, i minuti, le ore, i giorni, gli anni o i millenni prima.
Ogni punto-tempo (ma non c’è modo di sapere in anticipo quale) potrebbe – soltanto potrebbe – recare in sé la possibilità di un altro big bang, anche se questa volta su scala ben più modesta, da «universo individuale», e i punti successivi continuerebbero a essere visti come punti recanti tale possibilità, indipendentemente da ciò che sarebbe potuto succedere con i punti precedenti e nonostante l’esperienza accumulata dimostri che la maggior parte delle possibilità di solito è predetta in modo errato, trascurata o mancata, che la maggior parte dei punti si è rivelata infruttuosa e che la maggior parte dei sommovimenti è morta sul nascere.
Una mappa della vita puntinista, se mai venisse tracciata, assomiglierebbe a un camposanto di possibilità immaginarie o irrealizzate.
O, a seconda del punto di vista, come un cimitero di occasioni sprecate: in un universo puntinista, i tassi di mortalità infantile e di gravidanze abortite della speranza sono molto elevati.
È proprio per questa ragione che una vita «del momento» normalmente è una vita «della fretta».
La possibilità che potrebbe essere contenuta in ogni punto lo seguirà nella tomba: per quell’unica, particolare possibilità non ci sarà una «seconda possibilità».
Ogni punto può essere vissuto come un nuovo inizio, ma spesso e volentieri il traguardo arriverà poco dopo la partenza, e in mezzo sarà accaduto ben poco.
Solo una moltitudine, in inarrestabile espansione, di nuovi inizi può – semplicemente può – compensare la profusione di false partenze.
Solo le vaste distese di nuovi inizi che siamo convinti ci aspettino più avanti, solo una moltitudine sperata di punti le cui potenzialità da big bang ancora non sono state messe alla prova, e che perciò ancora non sono state screditate, possono salvare la speranza dalle macerie delle conclusioni premature e degli inizi abortiti.
Come ho detto prima, nella vita «adessista» dell’avido consumatore di nuove Erlebnisse (esperienze vissute), la ragione di affrettarsi non è acquisire e collezionare il più possibile, ma rottamare e sostituire più che si può.
C’è un messaggio latente dietro a ogni spot che promette una nuova opportunità inesplorata di beatitudine: non ha senso piangere sul latte versato.
O il big bang avviene proprio ora, in questo esatto momento e al primo tentativo, oppure attardarsi in quel particolare punto non ha più senso: è tempo di spostarsi su un altro punto.
Nella società dei produttori che ormai sta scomparendo dalla memoria (almeno nella nostra parte del pianeta), il consiglio, in un caso simile, sarebbe stato: «insisti».
Ma non nella società dei consumatori: qui, gli utensili inefficaci devono essere abbandonati, non affilati e rimessi alla prova con più competenza, più impegno e migliori risultati.
E si lascino perdere anche quegli elettrodomestici che non sono riusciti a fornire la «piena soddisfazione» promessa a quelle relazioni umane che hanno prodotto un «bang» meno «big» di quanto ci si aspettava.
La fretta dev’essere massima quando si tratta di correre da un punto (che ha deluso, che sta deludendo o che sta cominciando a deludere) a un altro (ancora non collaudato).
Si dovrebbe rammentare l’amara lezione del Faust di Christopher Marlowe: finire all’inferno per aver desiderato che il momento – solo perché piacevole – potesse durare per sempre.
Data l’infinità di opportunità promesse e presunte, a trasformare in «punti» sbriciolati la più attraente novità del tempo, una novità che si può star sicuri che verrebbe abbracciata avidamente ed esplorata con passione, è la doppia aspettativa o speranza di prevenire il futuro e neutralizzare il passato.
Riuscire a mettere a segno un doppio successo di questo tipo, dopo tutto, è l’ideale della libertà.
(…) Partiamo dalla straordinaria impresa della neutralizzazione del passato.
Essa si riduce a un unico cambiamento nella condizione umana, ma un cambiamento realmente miracoloso: la possibilità di «rinascere» con facilità.
D’ora in poi, non sono solo i gatti a poter avere nove vite.
Durante quel lasso di tempo terribilmente breve che trascorriamo sulla terra, deplorato non troppo tempo fa per la sua detestabile brevità e che da allora non si è prolungato più di tanto, gli esseri umani – come i proverbiali gatti – ora hanno la capacità di spremere molte vite, una serie infinita di «nuovi inizi».
Rinascere significa che la/e nascita/e precedente/i, insieme alle relative conseguenze, viene o vengono annullata/e: sembra l’avvento dell’onnipotenza di tipo divino, sempre sognata ma fino ad ora mai sperimentata.
Il potere di determinazione causale può venire disarmato, e il potere del passato di limitare le opzioni del presente può venire drasticamente contenuto, forse addirittura abolito del tutto.
Ciò che eri ieri non preclude più la possibilità di diventare qualcuno di totalmente diverso oggi.
Dal momento che ogni punto nel tempo, ricordiamolo, è pieno di potenziale, e che ogni potenziale è diverso e unico, si può essere diversi in modi realmente innumerevoli: è qualcosa che oscura perfino la sbalorditiva molteplicità di permutazioni e la strabiliante varietà di forme e sembianze che gli incontri casuali di geni sono riusciti finora e probabilmente continueranno a produrre in futuro nella specie umana.
Si avvicina a quella capacità di eternità che sgomenta, in cui, considerando la sua infinita durata, ogni cosa può/deve, prima o poi, succedere, e in ogni caso potrà essere/sarà, prima o poi, fatta.
Ora quella mirabile potenza dell’eternità sembra essere stata compressa nel tutt’altro che eterno intervallo di tempo di una singola vita umana.
Di conseguenza, l’impresa di disinnescare e neutralizzare la capacità del passato di limitare le scelte successive, e quindi di circoscrivere pesantemente le occasioni di «nuove nascite», deruba l’eternità della sua attrattiva più seducente.
Nel tempo puntinista della società liquido-moderna, l’eternità non è più un valore e un oggetto di desiderio, o per meglio dire, quello che era il suo valore e che la rendeva un oggetto di desiderio è stato espunto e trapiantato nel momento presente.
Di conseguenza, la «tirannia del momento» della tarda modernità, con il suo precetto del carpe diem, gradualmente ma costantemente, e forse inarrestabilmente, rimpiazza la tirannia premoderna dell’eternità, con il suo motto del memento mori.
Traduzione di Fabio Galimberti in “la Repubblica” del 15 febbraio 2010

il mondo di domani sarà anche piú bello di quello di oggi

Pubblichiamo il discorso di Giovanni Bachelet in ricordo del padre Vittorio, assassinato 30 anni fa dalle Brigate Rosse, pronunciato il 12 febbraio nell’Aula Magna dell’Università La Sapienza di Roma, in occasione del convegno «Vittorio Bachelet testimone della speranza», cui ha partecipato il presidente della Repubblica Napolitano.
“Saluto e ringrazio il Presidente della Repubblica, il Magnifico Rettore, le tre associazioni che hanno promosso questa commemorazione di papà, i vecchi colleghi della Sapienza e i nuovi colleghi della Camera: vorrei ringraziarli uno per uno.
Nella disgrazia è una fortuna avere tanti amici che anche dopo trent’anni vogliono ricordare papà.
Non tutti hanno la stessa fortuna.
Di alcuni morti di quegli anni lontani è rimasto solo un nome una foto e una data, come testimonia il libro che il Presidente della Repubblica ha curato due anni fa, in occasione della prima giornata della memoria dedicata alle centinaia di vittime del terrorismo e delle stragi.
Nel ricordare mio padre torna sempre alla mente la folla di vittime di quegli anni, che meriterebbero di essere ricordate una per una; solo qui alla Sapienza, oltre ai docenti elencati dal Rettore, ho per esempio davanti agli occhi il maresciallo Oreste Leonardi: sorridente, bello, giovane, in attesa di Moro davanti a un’aula, insieme a papà che aspetta perché deve farci lezione nell’ora successiva.
Si può godere di maggiore o minore memoria e, come dirò fra un momento, si può anche discutere il testo di una lapide; ben piú drammatico è poi il caso in cui, dopo l’assassinio di un giovane disarmato, i suoi condomini rifiutino per decenni il permesso di usare il muro per la lapide; che poi, affissa ad un palo, viene periodicamente rimossa o sfregiata.
E’ successo anche questo.
L’ho appreso due anni fa, collaborando al progetto memoria di un gruppo di studenti trentini che ha prodotto il volume “Sedie vuote”; alcuni brani sono stati letti lo scorso maggio al Quirinale, nella seconda giornata della memoria dedicata alle vittime del terrorismo e delle stragi.
La lapide ricordava Graziano Giralucci, pioniere del rugby in Italia (due squadre da lui fondate sono oggi in serie A), papà di una bambina di tre anni, morto nel 1974.
Sembra incredibile, ma solo da poco le istituzioni civili sono riuscite a sottrarre la sua memoria all’odio di parte e restituirla alla città di Padova, dove Giralucci, prima vittima delle Brigate Rosse, aveva l’unica colpa di aver simpatizzato per il Movimento Sociale e di trovarsi in una sua sezione nel momento sbagliato.
In quel tempo terribile si poteva uccidere senza pietà un innocente solo perché simbolo di un partito o dello Stato, ma anche allora i piú erano contro la violenza e la guerra.
Una canzone di Luigi Tenco che piaceva a papà diceva E se ci diranno che per rifare il mondo c’è un mucchio di gente da mandare a fondo, noi che abbiamo troppe volte visto ammazzare per poi sentire dire che era un errore, noi risponderemo, noi risponderemo: no no no no! Oggi quel tempo terribile è definitivamente finito.
Non solo molti, ma praticamente tutti sottoscriverebbero la canzone di Tenco: grazie al cielo fra chi studia e lavora non si trova piú traccia, nemmeno ultraminoritaria, di furore idelogico e simpatia per chi spara che, all’epoca dei miei vent’anni, convogliò ragazzi sprovveduti verso la violenza politica.
Nell’Italia di oggi ci sono certo molti altri guai; ma non quello.
Stasera a me spettano ricordi personali e familiari di papà; pensavo di illustrarne alcuni attraverso poesie e brani di autori a lui cari, ma grazie ai saluti iniziali me ne sono venuti in mente due fuori programma, che però illustrano un aspetto importante di papà: la capacità di ridere, anzitutto di se stesso e del proprio mondo.
Nel salutare il Magnifico Rettore mi sono ricordato che al momento della mia iscrizione alla Sapienza avevo chiesto a papà: che senso hanno, ormai, appellativi come “Magnifico”? Non è ridicolo per lo stesso Rettore? Non sarebbe ora di abolire questa roba medievale? Mi rispose: non so, secondo me alcuni Rettori si fanno eleggere, anche oggi, proprio per farsi chiamare Magnifico.
Risi di cuore con lui.
Il secondo ricordo ridanciano me l’ha stimolato la varietà dei mondi qui presenti o rappresentati: successori di papà alla presidenza dell’azione cattolica e molti dirigenti e soci, successori di papà alla vicepresidenza del Consiglio Superiore, magistrati e giuristi, universitari.
Una volta papà mi disse: nella vita associativa e professionale ho avuto a che fare con preti, professori universitari, e da ultimo anche magistrati; a volte mi chiedo in quale dei tre gruppi accada piú rapidamente che, quando qualcuno si allontana, gli altri comincino a parlar male di lui.
Papà me lo diceva ridendo, come se con i mondi in cui era vissuto prendesse in giro un po’ anche se stesso.
Ma non amava il potere e non l’ho mai sentito parlar male di nessuno.
Una volta, su mia richiesta, mi disse che il segreto per non parlar male degli altri era semplice: bastava non pensare male degli altri.
Bastava ammettere onestamente che in analoghe condizioni ci comportiamo spesso nello stesso modo, e a volte peggio.
Il terzo ricordo riguarda l’importanza del lavoro.
L’ultima volta che vidi papà fu il 3 agosto 1979, quando partii per andare a lavorare nel New Jersey, ai laboratori di ricerca Bell.
Né lui né io lo sapevamo, ma quella fu l’ultima volta che ci parlammo.
Papà richiamò la centralità del lavoro come vocazione primaria, come modo principale, per un cittadino e per un cristiano, di contribuire al bene comune e alla costruzione di un mondo piú libero e piú giusto.
Mi disse con chiarezza che le tante cose buone di cui mi ero occupato fino alla laurea –associazionismo cattolico, musica, politica– erano importantissime, ma avrebbero perso ogni valore se fossero servite a mascherare o compensare una scarsa capacità, o, peggio, diligenza nel proprio lavoro.
Mi consigliava dunque, almeno per qualche anno, di occuparmi esclusivamente e con tutte le energie della mia vocazione professionale, la fisica, affinare le mie capacità: solo in questo modo i miei ideali sarebbero rimasti credibili.
Questa esortazione, per lui davvero rara (non credo mi abbia fatto piú di due o tre prediche in tutta la mia vita) veniva rafforzata dalla citazione di due autori a lui molto cari.
Uno era Gandhi: Se quando si immerge la mano nel catino dell’acqua, se quando si attizza il fuoco col soffietto, se quando si allineano interminabili colonne di numeri al proprio tavolo di contabile, se quando, scottati dal sole, si è immersi nella melma della risaia, non si realizza la stessa vita religiosa di quando ci si trova in preghiera in un monastero, il mondo non sarà mai salvo.
L’altro brano l’ho da poco citato rispondendo a un articolo del Tempo, che criticava l’assenza dell’indicazione dei colpevoli dalla lapide di papà che è qui alla Sapienza.
L’articolo trovava riduttiva la frase “ucciso nell’adempimento del proprio dovere”; a me invece, ricordando questo brano di Martin Luther King caro a papà, sembrava per lui il migliore degli epitaffi.
Il brano diceva: Noi siamo sfidati da ogni parte a lavorare instancabilmente per raggiungere l’eccellenza nel nostro lavoro.
Non tutti gli uomini sono chiamati a lavori specializzati o professionali; anche meno sono quelli che si elevano alle altezze del genio nelle arti e nelle scienze: la maggior parte è chiamata a lavorare nei campi, nelle fabbriche o sulle strade.
Ma nessun lavoro è insignificante.
Ogni lavoro che fa crescere l’umanità ha la sua dignità e la sua importanza, e dovrebbe essere intrapreso con diligenza e perfezione.
Se un uomo è chiamato ad essere uno spazzino, egli dovrebbe pulire le strade proprio come Michelangelo dipingeva, o Beethoven componeva musica, o Shakespeare scriveva poesia.
Dovrebbe pulire le strade cosí bene che tutte le legioni del cielo e della terra dovrebbero fermarsi per dire: qui è vissuto un grande spazzino, che faceva bene il suo lavoro.
Il quarto ricordo di papà riguarda la capacità di ascoltare di papà come padre, di guardare e rispettare noi figli, di considerare insomma la libertà come l’unico terreno nel quale potesse davvero crescere il bene e la verità.
Diceva che la nostra Chiesa aveva variamente interpretato il difficile rapporto fra verità e libertà; con l’ultima enciclica di Giovanni XXIII, Pacem in Terris, ne aveva da ultimo riscoperto la centralità (la pace tra tutte le genti è fondata sulla verità, sulla giustizia, sull’amore e sulla libertà), e poi, soprattutto col Concilio, la cifra stessa del rapporto di Dio con le sue creature e di Gesú con i suoi discepoli: amare, accompagnare, aiutare i figli a rialzarsi, ma rispettandone la libertà e godendo della loro progressiva autonomia.
Ci ho ripensato quando Giovanni Paolo II a Parigi, nel 1996, dichiarò solennemente che libertà, uguaglianza e fraternità erano valori evangelici.
Papà amava la libertà di noi figli.
Io come padre temo di essere molto meno bravo nell’ascolto e nella discrezione della guida e degli interventi educativi.
Mi resta almeno un modello cui tentare di assomigliare un po’.
L’ atteggiamento educativo di papà è ben espresso da una poesia che gli piaceva molto, tratta dal libro “Il Profeta”, di Khalil Gibran.
I vostri figli non sono i vostri figli: essi sono i figli e le figlie della vita che anela a proseguire.
Essi vengono attraverso voi, ma non da voi, e anche se sono con voi, non vi appartengono.
Voi potete dar loro il vostro amore, ma non i vostri pensieri, perché essi hanno i loro pensieri.
Voi potete dare una casa al loro corpo, ma non alla loro anima, perché la loro anima abita nella casa del domani, che voi non potrete visitare, nemmeno nei vostri sogni.
Voi siete gli archi da cui i vostri figli, come frecce viventi, sono lanciati.
L’Arciere vede la mira sulla via dell’infinito, ed Egli vi piega con la sua forza perché le sue frecce vadano veloci e lontane.
Che la vostra curvatura, nella mano dell’Arciere, sia gioiosa: perché, come ama la freccia che vola, Egli ama l’arco che è stabile.
E’ difficile indovinare quel che direbbe oggi papà: dell’Italia, della Chiesa, del mondo.
Aver privato l’Italia e la Chiesa di voci come la sua le ha rese decisamente piú brutte, e rende piú difficile il nostro discernimento.
Tuttavia, in un un tempo nel quale anche molti progressisti e molti cristiani hanno indossato l’abito dei profeti di sventura cui Giovanni XXIII invitava a non dar retta aprendo quasi cinquant’anni fa il concilio, io sono quasi sicuro che papà non si unirebbe al coro delle cornacchie; che ci inviterebbe, invece, a notare in quanti aspetti il mondo di oggi sia piú ricco, piú comunicativo e piú libero di quello di ieri e l’altroieri, e ad essere certi che, col nostro impegno e con l’aiuto di Dio, il mondo di domani sarà anche piú bello di quello di oggi”.
13 febbraio 2010 in “www.unità.it” del 14 febbraio 2010

“La nuova scuola spiegata ai genitori”

Epocale.
Che l’aggettivo sia riferibile alla riforma della scuola secondaria superiore, come è stato utilizzato dal ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, o al taglio dei finanziamenti alla scuola pubblica, come è stato riattribuito dal segretario del PD Pierluigi Bersani, non c’è dubbio che le famiglie si trovano di fronte a novità rilevanti,  anche in base alle quali devono iscrivere i loro figli al prossimo anno scolastico.
Queste novità però sono state oggetto da parte dei media di una trattazione giornalistica incentrata sullo scontro politico, sugli obiettivi di risparmio o sui tagli, e non sulle informazioni necessarie alle famiglie per effettuare scelte di studio consapevoli per i figli che si iscrivono alle prime classi di ogni grado di scuola.
Ma adesso la scelta non è più differibile: entro il 27 febbraio 2010 occorre procedere alle iscrizioni alla scuola dell’infanzia, alla scuola primaria e alla scuola secondaria di I grado; entro il 26 marzo alla scuola secondaria di II grado.
Tuttoscuola, la rivista da oltre 35 anni al fianco di insegnanti, genitori e studenti, dà una risposta a queste esigenze con la Guida “La nuova scuola spiegata ai genitori” edizione 2010, integralmente rinnovata, che quest’anno sarà distribuita in maniera innovativa, in formato elettronico, direttamente ed esclusivamente dal sito www.tuttoscuola.com, ad un prezzo compreso tra i 3 e i 5 euro.
La presentazione dell’opera è disponibile a questo link LA nuova SCUOLA spiegata ai genitori – Edizione 2010, mentre fin da ora è possibile acquistare (dalla pagina dedicata, o dal catalogo dei nostri prodotti editoriali) le Guide ai tre gradi (infanzia, primaria, secondaria di primo grado) di scuola, le cui iscrizioni terminano in febbraio.
Dalla prossima settimana sarà disponibile anche la Guida alla scuola secondaria di secondo grado, e la Guida nella versione integrale, comprendente tutti i gradi di scuola.
Per genitori, scuole, quattordicenni, e per tutti coloro che vogliono sapere di più sulla scuola che ci aspetta dal prossimo settembre, si tratta di un’opportunità imperdibile per avere un’informazione semplice, sintetica, precisa, aggiornata ed economica.
In più, se si sottoscrive un nuovo abbonamento ai nostri servizi (completo, solo rivista o solo Web), o se lo si rinnova o se ne anticipa il rinnovo, l’edizione completa dell’opera sarà in omaggio!

La nuova SCUOLA spiegata ai genitori

Tuttoscuola presenta “La nuova scuola spiegata ai genitori” – edizione 2010, la Guida alle iscrizioni scolastiche.
Dopo il grande successo dell’anno scorso, con la distribuzione in tutte le edicole con il “Corriere della sera”, proponiamo la nuova edizione, aggiornata alle ultimissime novità, con una formula innovativa e di immediata disponibilità: scaricabile online dal nostro sito.
Con pochi click potrete ricevere e leggere comodamente la Guida sul vostro computer.
“La nuova scuola spiegata ai genitori” sarà infatti venduta esclusivamente in formato elettronico (in formato pdf) e spedita immediatamente all’email dell’acquirente al ricevimento del prezzo di acquisto (effettuabile con carta di credito con transazione sicura, o bollettino postale o bonifico bancario).
“La nuova scuola spiegata ai genitori” in formato elettronico ha un prezzo di soli euro 3,00 per le versioni specifiche per ogni grado di scuola (scuola dell’infanzia, scuola primaria, scuola secondaria di I grado, scuola secondaria di II grado) e di euro 5,00 per la versione integrale della Guida, che raggruppa tutti e quattro i gradi di scuola.
Per procedere subito all’acquisto, cliccare qui, o andare al catalogo dei nostri prodotti editoriali.

Cacciari: no al servilismo, la fede vera è quella dei martiri

L’intervista «Il fatto religioso, la fede in ogni sua accezione sono fatti culturali di straordinario rilievo.
Una laicità malamente concepita che intenda il fatto religioso come superstizione è una pessima laicità».
Massimo Cacciari, oggi docente di estetica all’Università Vita-Salute San Raffaele, è da tempo protagonista attivo dello scambio intellettuale tra chi crede e chi resta sulla soglia della fede.
Il Papa chiede un nuovo dialogo con chi non crede.
Da filosofo, cosa pensa di questo invito? «Mi piace ricordare un’iniziativa pionieristica su questo tema, ovvero la Cattedra dei non credenti istituita a metà anni Ottanta a Milano dal cardinale Martini, una scelta audace.
Quanto a chi non crede, bisogna distinguere».
Ovvero? «Ci sono tre versioni di ateismo: una posizione risolutiva, per cui Dio è un puro nome senza contenuto semantico.
E questa è la forma di ateismo che va per la maggiore e per la quale la posizione del credente è insensata.
Questa visione aleggia in un certo illuminismo e nei suoi nipotini quali Piergiorgio Odifreddi e un certo giornalistume, sebbene abbia padri nobili e domini la filosofia analitica.
Vi è poi l’ateo che crede, che è ‘abbandonato’ da Dio, e che però non sa se questo abbandono sia definitivo.
È una posizione di assoluto dubbio sul fatto che Dio abbia ancora o meno una relazione con lui.
L’ateo che crede non sa se questo ‘abbandono di Dio’ dipenda da lui o da Lui, da se stesso o da Dio.
Ho trovato tale condizione in tanti autentici credenti: la loro fede combatte con questo dubbio, che è il grido di Gesù al Padre sulla croce.
È lo stesso ateismo di Giobbe e il segreto della grandezza del cristianesimo, ovvero il credente in lotta con Dio».
Il ‘terzo ateismo’? «È quello che ritiene che il proprio pensiero debba svolgersi finché manca la strada e non vuole fermarsi prima.
Non vuole solo deno- minare la cosa, vuole andare oltre la dialettica delle idee: è un pensiero rivolto costantemente all’ultimo, intrinsecamente legato alle idee teologiche ma non pensa che Dio ‘è’, perché se così fosse, si penserebbe Dio come ente.
Tale posizione dialoga con la tradizione mistica cristiana per cui Dio non è un ente ed è superiore allo stesso pensarlo: in pratica, Sant’Anselmo d’Aosta».
Il Papa afferma poi che vi sono quegli atei che vogliono avvicinare Dio come Sconosciuto.
«Vorrei un confronto che superi l’onto-teologia del tomismo e conduca a una filosofia che va verso la cosa ultima.
È possibile un confronto con una posizione filosofica che veda la trascendenza come una parte costitutiva del nostro essere uomini ».
Ma non è l’ateismo che pare preoccupare i credenti, oggi, quanto piuttosto l’indifferenza… «La cosa più pericolosa non è l’ateismo da mercato, quello di chi prende in giro i credenti.
Il dato più rischioso che come non credente vedo è la religione come ‘instrumentum regni’, così come la concepiva Spinoza o Machiavelli: il credo come strumento di conservazione.
È una tentazione da cui la Chiesa deve stare attenta, e che è molto presente nell’islam.
È la religione ridotta a forma politica, cioè Mosè e Maometto condottieri militari e politici.
È qui che sta la grandezza di Cristo e la forza della sua denuncia rispetto all’ebraismo del suo tempo.
Nel Novecento si è visto il pericolo delle religioni pronte a mettersi a disposizione di poteri politici in cambio di favori.
Mentre c’è stato, e fu importante, il fenomeno dei martiri dei grandi totalitarismi, soprattutto in ambito protestante».
E al mondo del pensiero cosa chiederebbe? «Vorrei che si pensasse in maniera più ‘difficile’.
Penso ancora alla Cattedra dei non credenti di Milano: riapriamo spazi e rifacciamo gesti di quell’audacia».
in “Avvenire” dell’11 febbraio 2010

Testimoni del nostro tempo: Vittorio Bachelet

Ad “avere attenzione alla realtà dell’uomo di oggi senza chiudersi nell’alterigia del fariseo (…) ed essere non fazione tra fazioni, non organizzazione di potere, ma sale e luce del mondo”, come diceva nel 1966 ai presidenti diocesani, lo aiutava la piena intesa col Papa e con l’assistente nazionale, monsignor Franco Costa, ispiratori di un’intera generazione di preti e laici innamorati della libertà e della democrazia e, dopo la guerra e la Resistenza, della Repubblica, della Costituente e della Costituzione.
Solo a un presidente e un assistente tanto concordi nella distinzione di compiti fra clero e laici, quanto refrattari a ogni faziosità e favoritismo, poteva riuscire il miracolo di accompagnare l’emersione di diversi punti di vista, fisiologicamente associati all’avvento della democrazia associativa, con la “continua crescita di uno stile di fraternità e di libertà, di uno sforzo di costruzione”, che mio padre registrava con gioia nel suo ultimo discorso all’Azione cattolica nel 1973.
Molte di queste cose le ho capite meglio dopo.
Allora, fra elementari e liceo, don Costa era per me un prete genovese col quale si andava in montagna insieme ad altre famiglie; un vescovo che scherzava volentieri e, per esempio, impediva a noi bambini di baciargli la mano, improvvisando un esilarante, inatteso braccio di ferro.
Sapevo che era assistente nazionale dell’Azione cattolica e che c’era un concilio in fase di attuazione; tuttavia in quel gruppo di montanari cambiare lingua dal latino all’italiano e introdurre tre letture, il segno della pace o la chitarra, parevano cose altrettanto naturali che il mio passaggio dalle elementari alle medie al liceo; solo da grande mi resi conto che, altrove, quegli stessi passaggi conciliari erano stati vissuti con minor naturalezza e talora con forti resistenze.
Solo da grande, grazie ai racconti di mamma, appresi ad esempio che Bruno Paparella, segretario generale dell’Azione cattolica mentre mio padre era presidente, spesso a pranzo a casa nostra e noto a noi bambini soprattutto per i suoi scherzi, non era proprio entusiasta del nuovo cammino conciliare.
Evidentemente in quegli anni, dietro il fraterno e pacifico cammino conciliare dell’Azione cattolica (e con essa gran parte della Chiesa italiana), c’era molta fede, ma anche molta capacità di ascolto, intesa coi pastori, umiltà nell’accettare un progresso fatto di piccoli passi.
La consegna era quella di portarsi appresso tutti:  trasferire gradualmente e senza strappi all’intero popolo di Dio “privilegi” anticamente riservati al clero e, fino al concilio, accessibili al massimo a universitari o laureati cattolici, come la preghiera delle ore, la lettura e il commento della Bibbia, la comprensione e la partecipazione piena alla liturgia eucaristica.
Il senso dell’umorismo spingeva spesso mio padre a sorridere, anziché piangere, sulla lentezza e l’ansietà nella realizzazione del dettato conciliare.
Sorrideva quando un vecchio parroco concluse l’omelia con una postilla a sorpresa, del tutto avulsa dalle letture del giorno:  “Io la moglie per i preti non ce la vedo! Sia lodato Gesù Cristo”.
Sorrideva nel ricordare sommessamente a un amico vescovo che “in democrazia non basta aver ragione, ma occorre anche farsela dare dal 51 per cento degli elettori”.
Sorrideva anche quando i vescovi italiani fissavano una riunione plenaria della loro conferenza proprio alla vigilia di una scadenza elettorale, malgrado la distinzione conciliare fra comunità politica e Chiesa:  dopo secoli di trono e altare – diceva – ci vuole almeno qualche decennio a cambiare abitudini…
Sulla centralità della competenza e della conoscenza, sulla legittima pluralità di vedute in molti campi dell’agire umano, sulla chiara distinzione di ruoli fra comunità politica e Chiesa della Gaudium et spes si basava la “scelta religiosa” dell’Azione cattolica.
“Nel momento in cui l’aratro della storia scavava a fondo rivoltando profondamente le zolle della realtà sociale italiana che cosa era importante? Era importante gettare seme buono”, diceva papà.
Dunque la Chiesa, e con essa l’Azione cattolica, dovevano concentrarsi sulla propria missione primaria:  evangelizzare o rievangelizzare il mondo in rapido mutamento.
Ma questa scelta non implicava affatto il ritorno dei laici nelle sacrestie e il disprezzo per la politica:  al contrario, si fondava sul rispetto della sua autonomia e sull’apprezzamento della sua insostituibile funzione, tanto che Paolo VI la definì addirittura “la più alta forma della carità”.
Per carattere e vocazione, però, mio padre amava molto l’università e l’Azione cattolica, meno la politica e la Democrazia Cristiana.
Certo votava per quel partito, convinto che “i pochi che ci assomigliano sono lì”, ma credo che, pur non immaginando che quattro anni dopo gli sarebbe costata la vita, nel 1976 papà abbia vissuto la candidatura nella “nuova Dc” di Moro e Zaccagnini più come dovere che come piacere.
Fu eletto al Comune di Roma e poco dopo il Parlamento lo designò per il Consiglio Superiore della Magistratura, dove fu eletto vicepresidente.
In quegli anni alcuni politici, tuttora vispi e attivi, avevano coniato lo slogan “né con lo Stato né con le Brigate Rosse”; c’era anche chi tramava nell’ombra, fra logge e bombe sui treni.
Stare con la magistratura richiedeva coraggio.
Come poi si vide.
Don Abbondio sosteneva che il coraggio, uno, non se lo può dare.
Il cardinale Borromeo lo sgridava chiedendo:  “Non pensate che (…) c’è Chi ve lo darà infallibilmente, quando glielo chiediate? Credete voi che tutti que’ milioni di martiri avessero naturalmente coraggio?” (I promessi sposi, xxv).
Mio padre trovava coraggio e forza nel Signore, come Gedeone, come Bonhoeffer da lui citato all’ultima assemblea del 1973:  “Io credo che Dio, in ogni situazione difficile, ci concederà tanta forza di resistenza quanta ne avremo bisogno.
Egli però non la concede in anticipo, affinché ci abbandoniamo interamente in lui e non in noi stessi.
Ogni paura per il futuro dovrebbe essere superata con questa fede”.
Questa fede a noi figli è apparsa, fin da piccoli, nella preghiera dei genitori, papà e mamma insieme.
In loro la preghiera appariva un bisogno primario come il cibo o il sonno:  preghiera antica e moderna, salmi e rosario e compieta, italiano e latino.
La mattina, la sera, prima di mangiare, in viaggio.
In uno dei ricordi più dolci dell’infanzia ci sono papà e mamma inginocchiati vicino al mio letto e, prima che il sonno prevalga, sento le parole di una delle loro preghiere della sera:  Oremus pro pontifice nostro Ioanne…
da allora abbiamo pregato per Paolo, per Giovanni Paolo, e, oggi, per Benedetto; abbiamo amato e amiamo il Papa non perché, come disse una volta papà, si chiama Giovanni o Paolo, ma perché si chiama Pietro.
Qualche giorno fa mamma mi ha detto di aver trovato in casa un libretto che in trent’anni non aveva mai notato:  Fede e futuro, che Papa Benedetto ha scritto da giovane, pochi anni dopo la fine del concilio.
Due brani erano sottolineati a matita da papà.
Il primo diceva:  “Solo chi dà se stesso crea futuro.
Chi vuol semplicemente insegnare, cambiare solo gli altri, rimane sterile”.
L’altro brano, nell’ultimo paragrafo intitolato Il futuro della Chiesa, diceva:  “Il futuro della chiesa (…) non verrà da coloro che prescrivono ricette (…) o invece si adeguano al momento che passa (…) o criticano gli altri e ritengono se stessi una misura infallibile (…) o dichiarano sorpassato tutto ciò che impone sacrifici all’uomo (…) Anche questa volta, come sempre, il futuro della chiesa verrà dai nuovi santi”.
La fede, l’amore e l’obbedienza risultano purtroppo incomprensibili a molti di quelli che guardano alle vicende della Chiesa dal di fuori e credono di vederci dentro solo una gigantesca partita a scacchi.
Papà era invece convinto che “cristiani franchi e liberi possano vivere nella Chiesa di oggi e di domani nell’obbedienza e nella pace, proprio come Angelo Roncalli, prete, vescovo e Papa libero e fedele, perché ha avuto fede non nella sua forza ma in quella dello Spirito che guida la Chiesa”.
Ne sono convinto anch’io, e, a trent’anni dalla morte di mio padre, chiedo al Signore per me e per i miei figli, per i laici e per i preti della mia Chiesa fede e coraggio, obbedienza e pace.
(©L’Osservatore Romano – 12 febbraio 2010) ”Il Signore disse a Gedeone:  “La gente che è con te è troppo numerosa, perché io metta Madian nelle sue mani; Israele potrebbe vantarsi dinanzi a me e dire:  La mia mano mi ha salvato.
Ora annunzia davanti a tutto il popolo:  Chiunque ha paura e trema, torni indietro”” (Giudici, 7, 1-3).
Con mia madre e mia sorella scegliemmo questi versetti, molto cari a papà, per accompagnare la sua foto.
Gedeone, seguendo le istruzioni del Signore, rimanda a casa trentaduemila uomini e ne tiene con sé solo trecento.
Con loro, armati di brocche, trombe e fiaccole accese – e grande coraggio, fondato sulla parola del Signore – irrompe di notte nel campo dei madianiti, che, presi dal panico, fuggono in disordine.
 Ci voleva coraggio e fede per accettare a trentatré anni, da Giovanni xxiii, e a trentotto, da Paolo VI, la vicepresidenza e poi la presidenza dell’Azione cattolica, col formidabile mandato di attuare in Italia il concilio.
Per far entrare la Bibbia e la nuova liturgia in ogni famiglia e in ogni parrocchia.
Per trasformare l’Azione cattolica in un laboratorio della Chiesa di domani, un’inedita combinazione di democrazia interna (con capi eletti dai soci e non rinnovabili per più di due mandati) e serena fedeltà ai Pastori (titolari anche nel nuovo statuto di un ruolo decisivo nelle scelte importanti).
Per concentrarsi sul Vangelo e sulla formazione cristiana, restituendo l’impegno politico – e lo sport, e altre cose buone per le quali l’Azione cattolica aveva fino a quel momento svolto una preziosa opera di supplenza – all’autonoma responsabilità dei laici.
Per voltare pagina rispetto a quelli che Mario Rossi aveva definito “i giorni dell’onnipotenza”, al prezzo di una dolorosa cura dimagrante numerica e finanziaria.
Ci volevano il coraggio e la fiducia che nel Signore aveva avuto Gedeone.