Chiesa dei peccatori, Chiesa dei santi

Chiesa dei peccatori, Chiesa dei santi Anche se si preferisce evitare parole grosse, la rivelazione nelle scorse settimane di molti casi di abusi costituisce una profonda crisi in particolare per la Chiesa cattolica.
Anche se sono implicati molti fattori esterni alla Chiesa, non ha alcun senso puntare il dito prima su altri.
Altrimenti si potrebbe dare l’impressione di voler distogliere l’attenzione dalla responsabilità propria o relativizzare ciò che è accaduto.
Come Chiesa neppure ci dobbiamo meravigliare se veniamo giudicati severamente – certo talvolta anche con malignità e malevolenza – con gli stessi criteri con cui la Chiesa in altre situazioni presenta le sue convinzioni morali, in particolare in riferimento alla sessualità.
I casi di abusi scoperti funzionano qui come un boomerang.
Certo non dobbiamo lasciarci tappare la bocca e dobbiamo dire con nettezza che si tratta chiaramente di un malcostume sociale, di cui la maggior parte di noi non aveva sospettato l’entità.
Lentamente vengono scoperti comportamenti negativi anche in luoghi finora poco sospetti.
Le indicazioni numeriche relative ai casi conosciuti e le stime dei casi presunti si differenziano di molto.
Anche se è doloroso, si può comunque esprimere sollievo per il fatto che ora molti casi vengano a galla.
E non ci si deve meravigliare che ci siano opportunisti di vario tipo che sfruttano l’onda sulla scia dei media.
Perché c’è voluto così tanto tempo prima che si parlasse pubblicamente e in modo così esteso di simili delitti? Già negli anni novanta una suora americana psicoterapeuta e professionalmente molto esperta mi disse qualcosa che all’inizio mi spaventò, e che però più tardi mi ha molto aiutato a trattare il fenomeno in maniera obiettiva: “Bisogna sempre fare i conti col fatto che i colpevoli tacciono fino alla fine, molto più di qualsiasi alcolista.” Molte cose non hanno potuto essere chiarite – e devo dire questo per i 27 anni nei quali ho avuto la responsabilità della diocesi di Magonza – perché ha continuato ad esserci questo silenzio impenetrabile.
Ho spesso brancolato a lungo nel buio, anche quando ho fatto enormi sforzi per avere chiarimenti.
L’interesse e l’attenzione alle vittime reali o possibili devono stare inequivocabilmente al primo posto in questo lavoro di chiarificazione.
Tuttavia, fino a prova contraria, non si deve passar sopra alla presunzione di innocenza di un sospettato, considerandolo personalmente responsabile.
Anche una calunnia, che in seguito si rivela infondata, può recare danno per tutta la vita.
Chi imprudentemente parla di “insabbiamento”, non ha alcuna idea di quanto sia difficile trovarsi a lungo in una situazione poco chiara.
A ciò si aggiunge la abissale intimidazione delle vittime.
Offese nell’ambito dell’abuso sessuale vivono il tutto come un tabù.
È molto difficile per le persone colpite confidarsi con qualcuno.
Anche nelle famiglie spesso non si desiderava ammettere tali mancanze.
Questo silenzio ha per le vittime delle conseguenze gravi.
Non potendo raccontare nulla, non possono neanche rielaborare i danni, che spesso continuano ad avere un effetto nel tempo.
In molti casi è soprattutto lo sviluppo sessuale ad essere pregiudicato.
Esperienze traumatiche nell’infanzia e nella giovinezza possono influire negativamente e gravemente su futuri rapporti di coppia.
Un’intera vita può quindi venire profondamente distrutta.
Un’altra cosa mi è diventata più chiara negli anni e nei decenni scorsi.
Non è da molto che in un certo senso si può definire chiaramente il fenomeno della pedofilia.
In manuali della medicina sessuale e dei disturbi sessuali si possono trovare fino a 23 diverse definizioni e descrizioni di “abuso sessuale”.
Anche esperti psicologi mi hanno continuamente assicurato, che occorre una specifica formazione ed esperienza per emettere una diagnosi differenziata di pedofilia con la necessaria certezza.
Da quando però il fenomeno della pedofilia, che effettivamente viene limitato alla inclinazione per bambini in una fase di sviluppo prepuberale, può essere meglio definito o delimitato, si apre un’altra, dapprima spaventosa constatazione: la pedofilia in questo stretto senso non ha nulla a che fare con un’occasionale “scivolata” morale, ma corrisponde ad una inclinazione profonda e radicale, che molti professionisti ritengono non curabile.
Questa cognizione si è diffusa solo negli ultimi decenni.
Anche a causa di ciò proprio da parte ecclesiale si è sopravvalutata la capacità dei colpevoli al cambiamento e alla guarigione.
In buona fede ci siamo spesso affidati alla dichiarata buona volontà.
Per questo si è giunti anche alle pratiche sbagliate e da lungo tempo certo imperdonabili, semplicemente di trasferire un colpevole, talvolta anche con sentenza passata in giudicato, ad un altro posto.
Si doveva riconoscere una cosa che un pastore d’anime non può facilmente accettare, e che mi aveva comunicato la succitata suora sulla base della sua esperienza: “Vescovo, non si faccia illusioni, l’uomo non deve in nessun caso più tornare alla cura d’anime, perché vi troverà ovunque dei bambini.” Gli equivoci, che erano legati ad un atteggiamento che si presumeva comprensivo nei confronti di un colpevole, sono grazie a Dio tutti crollati.
Ma anche altre illusioni si sono dissolte.
La sessualità umana non è così innocentemente romantica, come spesso si pensava – di fronte a tutte le demonizzazioni del sessuale.
Essa può condurre come stimolo generale dell’essere umano ad altezze meravigliose, che possono costituire la felicità terrena della persona, presenta però anche delle bassezze abissali, che mostrano una perversione dell’umano.
L’arte illustra entrambi gli aspetti.
Chi nega una di queste dimensioni, mente.
Di questi estremi abissi fanno parte le violenze sessuali su bambini e adolescenti.
Sono così negative anche per il fatto che in questo spesso l’autore nasconde la sua forza.
Infatti non è, come alcuni movimenti di pedofili suggeriscono, che le vittime bambine o adolescenti nel silenzio accondiscendano.
Ma piuttosto che le naturali inibizioni e resistenze vengono superate con perfida raffinatezza.
Non si deve nascondere la differenza di potere proprio tra adulti e bambini.
Non è necessario l’uso della forza fisica là dove possono essere sfruttate la debolezza e la dipendenza infantili dovute ad affettività e devozione.
In questo contesto sta anche il giusto modo di intendere l’educazione.
Quest’ultima vive sempre di una mescolanza di vicinanza e distanza.
Una distanza assoluta può accompagnarsi ad una spietata sete di potere.
Per questo la cattiva pedagogia degli scorsi decenni, nella quale non raramente si giungeva a insopportabili castighi e punizioni corporali, viene giustamente fustigata.
Ma non bisogna considerare alla stessa stregua questi eventi e gli abusi sessuali.
A tale riguardo, avevano fatto bene certi rami della pedagogia moderna (non era solo la “pedagogia della riforma”), ad accentuare nell’educazione più fortemente la vicinanza tra adulti e bambini.
A cui si lega però sempre anche una grande disinvoltura.
Ma vicinanza non deve significare nascondere distanza e differenza, né mancare di rispetto per la personalità dei bambini.
Non si può infatti negare che il movimento dei pedofili abbia cercato di istigare ad un’irresponsabile dimestichezza coi bambini (“Lust am Kind”).
Vi si aggiungeva una esaltazione “abbellita” dell’antica pederastia.
Grazie a Dio tutto questo negli ultimi vent’anni ha perso influenza.
Ma comunque sia, non si può mai offrire la minima scusa per azioni che in ogni caso sono criminali e peccaminose.
Tali scuse potrebbero indebolire le resistenze in qualcuno che potesse sentire in sé tali forti inclinazioni.
Ed è anche vero che specialmente in area europea si è sempre cercato di liberalizzare le leggi relative a contatti sessuali con minorenni.
È tragico che la dottrina della Chiesa mai ammettesse un dubbio sul fatto che ogni forma di abuso sessuale fondamentalmente sia e rimanga riprovevole, e che però i responsabili della Chiesa nel proprio contesto non abbiano in alcuni casi gestito con estrema meticolosità ed indipendenza una ricognizione completa.
In questo possono aver svolto un ruolo molti motivi e certi atteggiamenti e mentalità.
Il peggiore era l’atteggiamento di doversi preoccupare più degli autori che delle vittime.
È anche vergognoso, che in alcuni casi si sia cercato di proteggere l’istituzione Chiesa e anche suoi dipendenti da una macchia attraverso un veloce respingimento o copertura di un sospetto o addirittura di una colpa.
Certamente poteva esserci in questo anche un certo rapporto tra persone, come è possibile che si instauri in alcuni “sistemi chiusi” nei quali nessuno dall’esterno riesce a vedere chiaramente.
È ad ogni modo spaventoso che qui la sensibilità della coscienza, che proprio per persone religiosamente ed ecclesialmente impegnate deve essere quotidianamente curata, non abbia saputo emergere da tutte le coperture.
Ma proprio ammettendo questo, si deve però anche osservare, che la Chiesa, pur con tanta perplessità ha adottato, dopo una migliore comprensione psicologica della pedofilia, adeguate contromisure.
Quando, verso la fine del millennio e immediatamente dopo, sono venuti alla luce alcuni casi di abusi, la Conferenza episcopale tedesca ha cercato delle vie per coordinare un corretto modo di procedere.
La prassi corrente era che ogni diocesi completamente indipendente si occupasse dei casi e non dovesse mettere a conoscenza di questo nessun altro organismo ecclesiale, né la segreteria della Conferenza episcopale, né le autorità vaticane.
Questo sarebbe cambiato in parte solo nel 2002.
Fino a quel momento la mancanza di chiarezza e il deficit di informazioni, anche in considerazione dello scalpore mediatico del momento, erano molto alti.
Specialmente in seguito ai fatti avvenuti negli Stati Uniti divenne inoltre chiaro che occorreva un ammodernamento e che si dovevano percorrere vie nuove, con un fondamentale accompagnamento critico di professionisti.
Così si arrivò al primo congresso mondiale sulla pedofilia, che ebbe luogo a Roma nel 2003 con una molteplicità di professionisti non legati all’ambito ecclesiale.
L’anno successivo furono pubblicati in inglese gli atti del congresso (“Sexual Abuse in the Catholic Church.
Scientific and Legal Perspetives”, editi da R.
K.
Hanson, F.
Pfäffin e M.
Lütz, Vaticano 2004).
Già tempo addietro i vescovi tedeschi avevano fatto i primi passi e formulato le linee guida “Zum Vorgehen bei sexueller Missbrauch Minderjähriger durch Geistliche im Bereich der Deutschen Bischofskonferenz” (Del modo di procedere in casi di abusi sessuali su minorenni da parte di religiosi nell’ambito della Conferenza episcopale tedesca).
In queste linee guida, che furono pubblicate il 26 settembre 2002 sugli organi ufficiali di tutte le diocesi, si è giunti anche a riconoscere che, per i colpevoli, l’inclinazione pedofila fosse “strutturale e non modificabile”.
Nello stesso periodo o ancora prima almeno sei grandi conferenze episcopali della Chiesa cattolica hanno attuato proprie linee guida.
In Germania non c’erano per queste linee guida né precursori né esempi.
Esse furono verificate nel 2005 dopo le prime esperienze e ancora una volta nel 2008.
Secondo l’opinione dominante esse hanno superato bene la prova del fuoco.
Tuttavia le linee guida possono essere ulteriormente migliorate.
Veramente ora nella Chiesa sono spesso quelli che le hanno appena lette o – peggio – le hanno poco niente attuate, che gridano chiedendo un miglioramento.
In una ulteriore revisione delle linee guida prima di tutto c’è da considerare il fatto, se le inchieste interne alla Chiesa debbano essere poste in mani neutrali e se la collaborazione con le autorità che si occupano dell’azione penale debba diventare un obbligo in ogni singolo caso.
Nel passato del resto tale collaborazione è già avvenuta in molti casi.
Certamente le migliori linee guida non servono se non vengono seguite severamente e senza riguardo alla persona e all’istituzione.
Nell’attuale discussione su abusi sessuali su bambini colpisce una particolarità: la richiesta di responsabilità e riparazione, non ultima anche per risarcimenti, si rivolge molto spesso solo alle istituzioni.
Riguardo all’entità delle rivelazioni avvenute nelle passate settimane, essa è in un certo modo comprensibile.
L’accumulo dei casi riguarda indubbiamente anche l’istituzione Chiesa, in molte dimensioni.
Tuttavia sorprende quanto poco si parli del singolo autore e della sua responsabilità.
Almeno in ambito ecclesiale sa infatti ogni pederasta in quale misura egli faccia del male.
Non è comprensibile che nella discussione pubblica non si parli della responsabilità, della garanzia di singoli autori per i danni da loro causati.
Ma già da molto tempo si cerca la colpa prima nel collettivo e quasi sempre nel “sistema”.
Specialmente all’inizio della discussione si sostenne non raramente in modo generico che ci fosse un rapporto causale tra il celibato del prete e le violenze su bambini ed adolescenti.
Professionisti di diverse discipline hanno nel frattempo contraddetto tali supposizioni.
Però certamente c’è qualcosa da ripensare nel problema di possibili rapporti tra celibato e casi di abuso: innanzitutto la Chiesa, comprendendo preti e molte altre professioni, si occupa come poche istituzioni della nostra società (eccetto scuole di ogni tipo) quotidianamente di un grandissimo numero di bambini ed adolescenti.
Questo aumenta indubbiamente le possibilità di contatto e di conflitto.
Io spero che l’attuale discussione, che è inevitabile, non tolga a molte donne e uomini in innumerevoli istituti della Chiesa la loro piena disinvoltura nelle relazioni con bambini e adolescenti.
La Chiesa deve certamente riflettere obiettivamente fino a che punto la forma di vita presbiterale possa attirare in più alta misura uomini di tendenze pedofile, soprattutto in vista di un impegno in istituti ecclesiali.
In tali istituti non esiste solo la possibilità di incontrare molti bambini in uno spazio protetto, ma anche la probabilità di non venire scoperti per la discrezione pastorale e la tabuizzazione sociale.
I responsabili dei nostri luoghi di istruzione hanno riconosciuto questo pericolo da molto tempo.
Ma anche colloqui con professionisti ed informazioni adeguate non sempre possono escludere con tutta la vigilanza valutazioni sbagliate nel singolo caso.
Indubbiamente c’è bisogno in questa direzione di ancora maggiore attenzione e di risolutezza nel prendere decisioni.
Tutto questo è importante e rimane da considerare.
La rivelazione di casi di abuso significa senza dubbio una crisi della Chiesa.
Non si riferisce però solo al presente e a reati che non sono ancora prescritti.
Nella discussione sono state scoperte molte colpe tabuizzate, che ebbero luogo spesso decenni fa.
Sarebbe sconsiderato promettere di chiarire completamente tutti i casi del passato.
Quasi sempre i responsabili di allora sono morti.
Testimonianze scritte spesso non si trovano, indicazioni retrospettive possono essere molto incomplete.
Questo conferma in maniera dolorosa, quanto profondi siano i solchi scavati dall’abuso su un lungo periodo nella storia di una vita, ma anche la spaventosa tabuizzazione a tutti i livelli.
Proprio per questo non dobbiamo fingere di non vedere questo palo del passato piantato nella carne del presente.
Come Chiesa non siamo solo di oggi, ma – che sia comodo o scomodo – ci poniamo anche di fronte alle debolezze della nostra storia.
Sarebbe meschino semplicemente nascondersi.
Papa Benedetto XVI ha mostrato coraggiosamente con la sua lettera alla Chiesa d’Irlanda del 19 marzo, come i casi di abusi abbiano a che fare anche con fenomeni e trasformazioni legate a crisi nella Chiesa di oggi.
In questo c’è da considerare l’intreccio delle singole Chiese con la storia dei rispettivi paesi.
Ma c’è anche un rapporto che va al di là della particolare situazione e porta l’intera istituzione a doversi assumere la responsabilità.
In questo rientra anche la situazione della Chiesa dopo il Concilio Vaticano II.
La mia critica non si riferisce al Vaticano II, ma agli sforzi non riusciti della successiva ricezione.
Era necessaria una rinnovata attenzione al mondo moderno.
Ma si era ancora molto sottovalutata l’azione di risucchio di questo mondo.
Sono cadute delle inibizioni, ha potuto diffondersi una falsa tolleranza.
Il “mondo” si è dimostrato più potente.
La spiritualità, la forza interiore e l’autoconsapevolezza, diventate ancora più importanti per l’attenzione prestata al mondo, sono invece diminuite.
Si sono anche sopravvalutate le possibilità di organizzazione della Chiesa, in sé feconde, in un mondo secolare, e non si sono presi in sufficiente considerazione i deficit.
Purtroppo questo ha anche portato al fatto che la Chiesa nei problemi di impostazione della sessualità umana non ha trovato la via d’uscita da queste tensioni e specialmente nell’annuncio e nell’insegnamento della fede è rimasta come paralizzata.
Anche per questo essa non ha più potuto essere sufficientemente d’aiuto.
Così non si sono sufficientemente accolte certe sfide poste dal Concilio Vaticano II.
Per me sta in questo l’affermazione sulla santità e peccaminosità della Chiesa.
Proprio alla luce del peso oggi duramente avvertito per eventi peccaminosi nella Chiesa, l’aspetto della santità non deve essere nascosto.
Deve rimanere garantito il fatto che la vita divina liberante, che la Chiesa riceve solo da Gesù Cristo, passi veramente attraverso la santità della Chiesa anche all’umanità, e cioè proprio fino al limite del perdersi.
Senza la santità della Chiesa non ci sarebbe alla fine neppure salvezza del mondo.
È del resto un problema dell’intera storia della Chiesa e della teologia, ciò che si afferma sulla tensione tra la santità e la peccaminosità della Chiesa e come si mantiene questa tensione.
Il concilio non si è (ancora) potuto imporre su una univoca affermazione, che la Chiesa stessa non è solo santa ma anche peccatrice.
A questo riguardo si è espresso con una formula molto prudente, affermando che la Chiesa “comprende nel suo seno i peccatori.
È santa e insieme ha sempre bisogno di purificazione, perciò si dà alla penitenza e al rinnovamento” (Costituzione della Chiesa articolo 8).
Questa ammissione è stata un grande passo – e nonostante alcuni buoni inizi, è ben lungi dall’essere ancora stata sufficientemente accettata nella teologia e nella spiritualità del quotidiano.
Già decenni fa sono rimasto impressionato dalle grandi elaborazioni dei teologi Karl Rahner e Hans Urs von Balthasar, come del francese Henri de Lubac.
Con le citazioni sconvolgenti sulla Chiesa “casta meretrice”, che essi trovarono negli scritti dei Padri della Chiesa, mi hanno incoraggiato a parlare, insieme alla difesa della santità, anche di una Chiesa peccatrice.
Questo discorso dialettico ha notevoli conseguenze anche per il nostro argomento.
La Chiesa non è separata dalla vita e dal comportamento dei suoi membri, né si limita a questo.
Anche come istituzione viene colpita nell’intimo quando noi ricusiamo la testimonianza vissuta del vangelo di Gesù Cristo.
Altrimenti si arriva facilmente alla tentazione di attribuire esclusivamente al singolo peccatore le mancanze nella Chiesa, risparmiandole così ogni macchia.
Una tale mentalità ha certamente contribuito a favorire le peggiori pratiche di copertura o di trasferimento del colpevole da luogo a luogo.
Indubbiamente abbiamo fatto poca attenzione alla spiritualità di una chiesa rinnovata, proprio mentre essa osa una maggiore attenzione al mondo.
Per questo c’è talmente tanto deficit e insufficiente sensibilità, prima di tutto anche tra i pederasti e i conniventi.
Qui il “mondo” inteso in senso biblico ha fatto irruzione profondamente nella Chiesa.
Per questo è necessario ora – Papa Benedetto XVI lo dice chiaramente – una autopurificazione incondizionata a tutti i livelli.
Il Papa ha condannato l’abuso sessuale di bambini con estrema chiarezza come crimine abominevole” e “grave peccato” non solo nella lettera alla Chiesa irlandese.
Chi riesce qui a superarlo in chiarezza e risolutezza? Noi abbiamo parlato di abuso sessuale come un malcostume e un’emergenza sociale, e tale si mostra sempre più.
Tavole rotonde e incaricati speciali a tutti i livelli possono aiutare fino ad un certo punto a risvegliare, affinare e soprattutto a tener desta una coscienza responsabile.
La “cultura dell’osservazione attenta” che viene sempre richiesta, deve infatti essere in vari modi ancora costruita.
Anche altrove manca il coraggio civile per questo.
Proprio i più convinti e i più convincenti sono coloro che hanno maggior bisogno di aiuto.
Perciò io ho fiducia, nonostante tutti gli errori che sono stati fatti, nelle energie spirituali e morali della Chiesa.
Essa non ha affatto solo dei falliti e dei criminali nelle sue fila, come certi critici pensano di poter affermare.
Alla Chiesa appartengono, fino al momento attuale, anche dei santi e degli eroi del quotidiano, molto coraggiosi e incorruttibili.
Tuttavia la crisi ci rende umili, tanto più che in futuro ci possono essere ancora delusioni: “Chi quindi pensa si essere in piedi, stia attento a non cadere” (1Cor 10,12).
Per tutto c’è un nuovo inizio, ma nessuna grazia a buon mercato.
Nell’incontro con l’adultera, che spesso è stata indicata dai padri della Chiesa come figura simbolo della Chiesa peccatrice, Gesù dice: “Anch’io non ti condanno.
Va e non peccare più!” (Giov 8,11).
Questo però passa attraverso la Croce.
È necessario un cambiamento di rotta.
Allora anche a Pasqua, più umilmente e più modestamente, possiamo dire un deciso e coraggioso “Nonostante tutto” e, con lo sguardo rivolto al Signore risorto, sperare fiducia e futuro.
di Karl Lehmann in “Frankfurter Allgemeine Zeitung” del 1° aprile 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)

Solitudine da tradimento

«Pensi al Getsemani, signor pastore.
Tutti i discepoli si erano addormentati.
Non avevano capito nulla.
Ma non era ancora il peggio.
Quando il Cristo fu inchiodato alla croce e vi rimase, tormentato dalle sofferenze, esclamò: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Il Cristo fu preso da un grande dubbio nei momenti che precedettero la sua morte.
Dovette essere quella la più crudele delle sue sofferenze.
Voglio dire il silenzio di Dio».
A parlare così al protagonista, un pastore luterano di una comunità svedese, è un uomo semplice, il sagrestano.
Eppure egli è di fronte all’uomo di Chiesa come un cristiano autentico, mentre il suo interlocutore sta piombando nel baratro dell’incredulità.
La moglie amata gli è stata portata via da un male inesorabile e la sua fede si è disciolta come neve al sole.
I parrocchiani sentono il tono falso dei suoi sermoni e, uno dopo l’altro, disertano il tempio che, così, si trasforma in un deserto.
Quando il pastore avrà raggiunto il nadir infernale del suo ateismo, anche la chiesa sarà totalmente vuota come il suo cuore; eppure egli celebrerà lo stesso il culto in piena solitudine e forse questo atto sarà – più che un gesto estremo di desolazione – l’avvio della risurrezione.
Abbiamo evocato un intenso film che Ingmar Bergman, il regista-teologo agnostico svedese, girò nel 1962 coi suoi attori preferiti, Gunnar Björnstrand, Ingrid Thulin e Max von Sydow.
L’abbiamo citato proprio per le parole di quel sagrestano e perché l’intera opera è una parabola della fede come itinerario su cui può addensarsi la cupa ombra della prova, un po’ come era accaduto a quel «padre della fede», che è Abramo, durante i tre giorni tenebrosi della sua ascesa lungo le pendici sassose del monte Moria per immolare il figlio Isacco, dono divino, a quel Dio incomprensibile, amato e crudele (Genesi 22).
Ebbene anche Gesù, nell’autenticità della sua umanità, attraversa tutta la galleria oscura della sofferenza, consapevole che «il Figlio dell’uomo deve molto soffrire, essere respinto e poi essere ucciso» (Marco 8,31).
È significativo notare come il racconto della sua Passione e Morte – registrato da tutti gli evangelisti – si trasformi in un vero e proprio campionario del dolore umano in tutte le sue tetre iridescenze.
Si parte dalla paura della morte, quando egli è sotto le fronde degli ulivi del Getsemani che stormiscono in quella notte drammatica: «Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice!», implora per due volte (Matteo 26, 39.42), e il calice nel linguaggio biblico è il simbolo del destino finale di un’esistenza.
C’è la solitudine degli amici che sonnecchiano prima e poi fuggono, anzi, sono pronti a tradire (e non il solo Giuda, ma anche il capo dei discepoli, Pietro, che cede subito di fronte all’incalzare delle domande di una domestica o di un cittadino qualsiasi di Gerusalemme).
Ma ad attendere Cristo c’è poi la “via dolorosa” vera e propria, “via crucis” del dolore fisico in tutta la sua gamma lacerante: dal sudore di sangue alle torture della guarnigione romana, fino all’insopportabile pena dell’esecuzione capitale per crocifissione, col suo macabro rituale agonico.
Tuttavia, come suggeriva quel sagrestano svedese, non era ancora colma la coppa della desolazione.
Alla fine, infatti, incombe il silenzio del Padre divino.
Egli, come già aveva riconosciuto lo stesso Gesù durante il suo arresto nel Getsemani, non mette a disposizione del Figlio «più di dodici legioni di angeli» per salvarlo (Matteo 26, 53).
Se il regno annunziato da Cristo – come egli ribadirà davanti al governatore romano Pilato – «fosse di questo mondo, i suoi servitori avrebbero combattuto per non consegnarlo ai Giudei» (Giovanni 18, 36).
Nessuno muove un dito, neppure il Padre celeste con l’efficacia della sua parola e Gesù s’inoltra lungo la via stretta dell’agonia e della morte.
In quell’istante estremo egli è veramente fratello dell’umanità ed è sulla vetta del Golgota che si celebra l’atto supremo di ogni fede e fiducia in Dio, come canta David M.
Turoldo: «No, credere a Pasqua non è / giusta fede: / troppo bello sei a Pasqua! / Fede vera / è al venerdì santo / quando Tu non c’eri / lassù /.
Quando non una eco / risponde / al suo altro grido / e a stento il Nulla / dà forma / alla tua assenza».
Nell’assenza muta di Dio, Cristo incontra quella che si potrebbe definire persino una “brutta morte”: «Gesù gridò a gran voce: Elì, Elì, lemà sabactàni? Che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?…
Gridò di nuovo a gran voce ed emise lo spirito» (Matteo 27, 46.50).
Commentava Giuseppe Berto nel suo particolare «vangelo secondo Giuda», La Gloria (1978): «Non c’è risposta.
Allora con un urlo, rendi lo spirito.
O Eterno, io grido a te da luoghi troppo profondi: Signore, non ascoltare la mia voce».
Alla fine ecco Gesù divenuto un cadavere manipolabile, sul quale può persino infierire la pattuglia romana incaricata della verifica dell’avvenuta esecuzione capitale e del relativo decesso: di solito essi applicavano una brutale forma di eutanasia, spezzando gli arti inferiori dei crocifissi così da accelerare il soffocamento per asfissia; su Gesù, palesemente morto, infieriscono trapassandogli con una lancia il cuore.
In tutta questa sequenza di sofferenze e di morte la finalità fondamentale del racconto evangelico è quella di marcare il centro stesso della fede cristiana, ossia l’Incarnazione.
Per usare la celebre espressione del prologo del Vangelo di Giovanni, il Verbo divino diventa veramente sarx, “carne”, cioè umanità fragile, caduca, limitata.
Nel soffrire e morire del Figlio, Dio assume la nostra comune carta d’identità che a lui non appartiene: il dolore e la fine.
Anzi, san Paolo andrà oltre ricordando non solo che «Cristo morì per i nostri peccati e fu sepolto» (1 Corinzi 15, 3-4), ma persino che «Dio lo fece peccato in nostro favore» (2 Corinzi 5,21).
Se vogliamo ricorrere a un paradosso, Dio si fa non solo il non-Dio (morte), ma anche l’anti-Dio (peccato) per entrare veramente nella nostra realtà creaturale.
Come annotava il teologo Dietrich Bonhoeffer il 16 luglio 1944 nel lager di Flossenburg, nelle pagine del suo diario Resistenza e resa: «Dio è impotente e debole nel mondo e così e soltanto così rimane con noi e ci aiuta.
Cristo non ci aiuta in virtù della sua onnipotenza, ma in virtù della sua sofferenza».
È questo lo «scandalo della croce» proclamato da Paolo; è questa la kénosis, lo “svuotamento”, una sorta di grado zero a cui si vota Dio per incontrare veramente la sua creatura, come lo stesso Apostolo ribadirà nel famoso inno incastonato nel capitolo 2 della Lettera ai Filippesi.
È per questo che una delle prime eresie, quella gnostica, cercherà di edulcorare e stemperare questo scandalo ricorrendo a una morte solo apparente di Cristo in croce, tesi ereditata dal Corano che introdurrà un sosia sul legno della crocifissione per evitare una simile umiliazione del Profeta Gesù.
In realtà, è proprio qui l’originalità del cristianesimo che va ben oltre l’idea del Dio compassionevole che si china sulla sua creatura – necessariamente finita e caduca – dall’alto del cielo dorato della sua trascendenza per offrire qualche sollievo miracoloso.
No, Dio scende e s’incarna, s’innerva Lui, infinito, nello spazio, Lui, eterno, nel tempo e nella finitudine, Lui, assoluto, nel relativo e nel contingente.
Ma proprio perché Cristo rimane sempre Dio – anche quando soffre, muore ed è sepolto come cadavere – in quella realtà umana e creaturale egli lascia l’impronta della sua divinità, vale a dire la trasforma e la trasfigura, deponendo in essa un seme di eternità, un germe di salvezza e redenzione.
È proprio questo il senso della successiva risurrezione che non è una mera rianimazione di un corpo; è, invece, una vita piena e perfetta che si irradia da Cristo all’umanità intera.
Il transito autentico di Dio nell’essere umano, il suo divenire uomo tra gli uomini, spalla a spalla con noi, incide una scia di luce nella creaturalità, nello stesso essere fisico e nella storia.
Quella di Cristo è stata un’immersione e un’irruzione vera e totale nell’intero arco dell’esistere umano per fecondarlo e trasfigurarlo, redimendolo così dalla schiavitù della corruzione, della morte, del peccato.
Di fronte a questa sorprendente concezione teologica si riesce a comprendere la reazione dell’ebreo Kafka che all’amico Gustav Janouch a proposito di Gesù di Nazaret dichiarava: «È un abisso di luce.
Bisogna chiudere gli occhi per non precipitarvi».
Abbiamo condotto una riflessione sulla cristologia, còlta nel suo nodo capitale, nel suo apice tematico.
L’abbiamo fatto, prescindendo dall’accoglienza o meno che ogni nostro lettore può compiere, ma solo perché ciascuno cerchi di avere almeno un quadro generale della concezione che ha generato una vastissima porzione della nostra stessa civiltà occidentale, senza la quale – come affermava Thomas S.
Eliot – è impossibile comprendere lo stesso Voltaire o Nietzsche (che considerava Gesù come l’unico vero cristiano, finito però in croce), ma anche il nostro stesso volto nella sua identità culturale o spirituale.
Vorremmo adesso concludere con un breve excursus nella contemporaneità e nell'”attualità” attraverso un poco noto, ma suggestivo poemetto, Pasqua a New York, composto nel 1912 da Blaise Cendrars, poeta, narratore, sceneggiatore di film, reporter internazionale, nato nel 1887 in Svizzera da madre scozzese e da padre svizzero e morto a Parigi nel 1961.
Ecco alcuni versi da lui pronunziati davanti al Cristo crocifisso in una città “laica” come la metropoli americana, una città che non sembra conoscere il riscatto della sofferenza e della morte nella risurrezione: «È oggi, Signore, il giorno del tuo Nome, / ho letto in un vecchio libro le gesta della tua passione / e la tua angoscia e i tuoi travagli e le tue buone parole / Conosco tutti i Cristi appesi nei musei; / ma tu cammini, Signore, stasera accanto a me.
/ Il tuo costato aperto è come un grande sole, / le tue mani tutt’intorno palpitano di scintille / Fu a quest’ora, verso l’ora nona, / che cadde, Signore, sul petto la tua testa / Forse la fede mi manca, Signore, e la bontà / per vedere l’irradiarsi della tua Beltà…».
Uomo vagabondo, combattente della Prima guerra mondiale ove perse una mano (La mano mozza è il titolo di un suo romanzo), maestro dell’avanguardia, Cendrars si lascia per un momento conquistare da quel crocifisso, contemplato prima solo su vecchi libri o nei musei.
E mentre passa per le vie distratte di New York, in mezzo a prostitute e affaristi, egli sente accanto a sé una presenza.
È lui, quel Cristo dal costato aperto, che irradia luce dalle ferite dei chiodi delle mani.
È lui che all’ora nona, cioè le tre pomeridiane, reclina il capo nel sonno della morte.
«Signore» continua il poeta «sono nel quartiere dei ladri, dei vagabondi, dei pezzenti, dei ricettatori.
/ Penso ai due ladroni ch’erano con te suppliziati, / so che ti degni di sorridere a questi sventurati…».
E la poesia prosegue in una miscela di dubbio e di fede, di ordinaria miseria metropolitana e di antica speranza cristiana: «Signore, la Banca illuminata è come una cassaforte / dove si è coagulato il Sangue della tua morte / Signore, rientro stanco, solo e molto triste.
/ La mia camera nuda è come una tomba.
/ Signore, sono troppo solo.
Ho freddo.
Ti invoco» in “Il Sole 24 Ore” del 28 marzo 2010

De Rita: il protagonismo? Ai cattolici non piace

L’intervista «Sono state le elezioni meno politiche degli ultimi anni.
Perché nessuno ha veramente parlato di “politica”, di scelte, di prospettive.
Il risultato finale? Da una parte un fortissimo localismo, una gran voglia di radicamento nel territorio: lo dimostra la differenza tra il pesante astensionismo alle elezioni regionali rispetto a quello più basso registrato per le provinciali e le comunali.
Dall’altra c’è il clamoroso protagonismo di Berlusconi, che ha rivendicato la propria dimensione carismatica, il suo essere l’uomo giusto al momento giusto…».
Giuseppe De Rita, sociologo e da sempre analista delle abitudini degli italiani, sintetizza così questo risultato elettorale: «Per aggiungere altri dati rispetto a ciò che ho appena detto, mi sembrano evidenti altre due tendenze.
La prima, chiarissima a tutti: la Lega è radicata ovunque al Nord, ben salda proprio in virtù del localismo.
E l’altra è che si va, se continua così, verso il partito dei cacicchi, cioè dei capetti locali ben riconoscibili dalla base.
È accaduto per Roberto Formigoni in Lombardia.
Lo stesso è successo, specularmente, per Nichi Vendola in Puglia.
Saranno questi “cacicchi”, in futuro e se si prosegue in questa direzione, ad attirare consensi.
Altro che i discorsi politici che non si sentono più».
Ma dove si trovano le radici profonde dell’astensionismo, professor De Rita? «Purtroppo il mondo politico italiano sta vivendo una stagione strettamente legata al protagonismo, ovviamente Berlusconi è il primo.
Per comprenderne gli sbocchi, basta seguire L’isola dei famosi o Il grande fratello.
Allora si verifica un fenomeno molto semplice.
Passi per un duello, che so, Berlusconi-Prodi.
Ma quando c’è il duello tra due mini-protagonisti regionali, magari inventati lì per lì negli ultimi sei mesi, allora non si va a votare perché la garetta tra minori non appassiona, non interessa.
È come assistere a una partitella di serie B o addirittura C dopo aver visto un grande match di serie A, o come passare dall’attico al pianterreno».
E così, spiega il professor De Rita, va a votare solo chi ha interesse specifico: «La gente “normale” diserta, va chi è legato alla formazione politica o ad altre questioni che lo interessano.
Si sopporta, invece, il protagonismo del piccolo sindaco locale: perché sanno chi è, lo considerano uno di loro, ne conoscono pregi e difetti personali».
Professor De Rita, secondo alcune analisi il mancato voto cattolico avrebbe contribuito a nutrire il fenomeno dell’astensionismo.
Pensa che sia così? «Tenderei ad escludere che il voto cattolico abbia deciso le sorti della Bresso o della Bonino, per capirci.
Penso invece che gli elettori di fede cattolica mal sopportino per temperamento la personalizzazione della politica: proprio quel fenomeno del protagonismo di cui parlavo».
E perché? «Perché i cattolici, da De Gasperi in poi passando per un protagonista naturale come Fanfani, ha sempre visto al potere personalità forti ma mai “leader soli al comando”.
Anche Fanfani, robusto decisionista, doveva fare i conti con le correnti e gli altri capi, mettersi a capire le loro istanze…».
Secondo De Rita anche la recente posizione della Conferenza episcopale non ha deciso le sorti del voto: «Il cattolicesimo più autentico, quello che riempie le parrocchie e le messe domenicali, non fa militanza di vertice ma di base.
Si occupa della comunità, la vive.
Hanno una cultura di gran rispetto nei confronti degli altri.
Non sono mai centrati su se stessi».
Ma lei sostiene che il voto cattolico, dopo il discorso di Bagnasco, non ha deciso nemmeno nel caso Polverini-Bonino? «Sinceramente non credo.
L’astensionismo nel Lazio si deve, a mio avviso, nella mancanza della gamba principale per la Polverini e nel quesito irrisolto della Bonino».
E quale sarebbe? «La Bonino ha corso da solista radicale slegata dalla coalizione o invece, semplicemente, la coalizione proprio non c’era e la Bonino era l’unica realtà visibile di qualcosa che non esisteva? Un bel problema…
Bersani ha parlato di Bonino fuoriclasse.
Ma non è detto che i fuoriclasse siano destinati alla vittoria».
E quindi, arrivando alla sintesi, a una conclusione? «Mi viene in mente una meravigliosa espressione di Gianni Brera, quando parlava di calciatori e diceva: puoi anche avere i piedi più belli di questa terra, ma se non sai correre, figlio mio…».
in “Corriere della Sera” del 31 marzo 2010

«Valori non negoziabili Criterio-guida per il voto»

«Consiglio permanente Cei in piena sintonia con Bagnasco» Piena sintonia tra i membri del Consiglio permanente sugli argomenti trattati nella prolusione del Cardinale presidente Angelo Bagnasco.
Lo afferma il portavoce della Cei, monsignor Domenico Pompili in una dichiarazione rilasciata nel pomeriggio di ieri.
«I vescovi del Consiglio permanente – afferma la nota – hanno condiviso pienamente la lettura del momento sociale e culturale offerta dal presidente della Cei nella sua prolusione».
In particolare, aggiunge Pompili, «si sono ritrovati nei “valori non negoziabili”, che il magistero di Benedetto XVI ha chiaramente indicato nella sua recente Enciclica “Caritas in veritate” e che il Presidente ha puntualmente richiamato».
Perciò la nota riproduce in toto il passaggio della prolusione in cui quei valori erano elencati: «La dignità della persona umana, incomprimibile rispetto a qualsiasi condizionamento; l’indisponibilità della vita, dal concepimento fino alla morte naturale; la libertà religiosa e la libertà educativa e scolastica; la famiglia fondata sul matrimonio fra un uomo e una donna».
Quindi la prolusione aggiungeva: «È solo su questo fondamento che si impiantano e vengono garantiti altri indispensabili valori come il diritto al lavoro e alla casa; la libertà di impresa finalizzata al bene comune; l’accoglienza verso gli immigrati, rispettosa delle leggi volta a favorire l’integrazione; il rispetto del creato; la libertà dalla malavita, in particolare quella organizzata».
Pompili fa inoltre riferimento al comunicato dei vescovi liguri.
«Ciò posto – afferma infatti – riesce francamente impossibile ipotizzare toni divaricanti tra quanto detto ieri nella prolusione e quanto scritto oggi» nel comunicato di cui riferiamo a parte.
«A meno che – conclude il portavoce della Cei – ci si affidi ad interpretazioni di volta in volta parziali e limitanti».
Nei lavori di ieri ampio spazio è stato dedicato anche alla “Lettera ai cattolici d’Irlanda”.
Unanime la condanna della pedofilia «crimine odioso».
I vescovi, ricorda Pompili, «hanno riaffermato l’esigenza di compiere una selezione accurata dei candidati al sacerdozio, vagliando la loro maturità umana ed affettiva oltre che la loro maturità spirituale e pastorale».
Inoltre hanno concordato sul fatto che «il celibato non costituisce un impedimento o una menomazione della sessualità, ma una forma alternativa e umanamente arricchente di vivere la propria identità in una radicale donazione a Cristo e alla Chiesa».
Dopo aver riconfermato «fiducia e gratitudine» ai sacerdoti che compiono ogni giorno il loro dovere, il Consiglio ha «preso in esame la bozza degli Orientamenti pastorali del prossimo decennio, sulla sfida educativa.
<+_Nero>( Mimmo Muolo  Sono i «valori non negoziabili», da assumere «nel loro insieme», «il criterio guida per un sapiente discernimento» al momento del voto.
Lo affermano i vescovi della Liguria in un comunicato pubblicato ieri in vista delle elezioni regionali.
Comunicato che giunge il giorno dopo la prolusione con cui il presidente della Cei aveva aperto lunedì il Consiglio permanente e che sottolinea (né poteva essere diversamente) i medesimi concetti.
«Il criterio guida per un sapiente discernimento tra le diverse rappresentanze – si legge nel comunicato – è l’impegno programmatico, chiaramente assunto, di assicurare il pieno rispetto di quei valori che esprimono le esigenze fondamentali della persona umana e della sua dignità, valori che sono la condizione e il fondamento di una società veramente solidale».
Questi valori sono esattamente gli stessi contenuti nella prolusione del cardinale Bagnasco e “guidati” dal valore prioritario della intangibilità della vita umana.
«Si tratta – prosegue il testo del vescovi liguri – di valori chiaramente e ripetutamente ribaditi dal magistero conciliare, postconciliare e pontificio e che possono essere sinteticamente richiamati: fra tutti, il rispetto della vita umana, dal concepimento fino alla morte naturale; la tutela e il sostegno della famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna; il diritto di libertà religiosa, la libertà della cultura e dell’educazione».
È questo il non negoziabile «fondamento» del «complesso indivisibile», come ha ribadito lunedì il cardinal Bagnasco, degli altri valori meritevoli di tutela, «e quindi il diritto al lavoro e alla casa; l’accoglienza degli immigrati, rispettosa delle leggi e volta a favorire l’integrazione; la promozione della giustizia e della pace; la salvaguardia del creato».
Tali valori, sottolineano gli otto presuli che hanno firmato la nota, «non possono essere selezionati secondo la sensibilità personale, ma vanno assunti nella loro integralità».
Solo nel loro insieme, infatti, quegli stessi valori «esprimono una concezione dell’uomo, della comunità e del bene comune, che costituisce il centro della Dottrina Sociale della Chiesa, e rivelano quel collegamento tra etica della vita ed etica sociale che Papa Benedetto XVI ha più volte sottolineato».
A tal proposito il comunicato riprende una frase della Caritas in Veritate.
«Non può avere basi solide una società che – mentre afferma valori quali la dignità della persona, la giustizia e la pace – si contraddice radicalmente accettando e tollerando le più diverse forme di disistima e violazione della vita umana, soprattutto se debole ed emarginata».
Perciò il vescovi della Liguria confidano che «il tempo della Quaresima, così propizio per la conversione dei cuori, possa aiutare tutti a testimoniare la profonda ragionevolezza di questa concezione e a favorirne il riconoscimento condiviso».
Il comunicato contiene anche l’auspicio che si possa «favorire la riconciliazione degli animi, che appare sempre più urgente non solo a livello individuale e interpersonale, ma anche a livello collettivo e pubblico».
Per questo la nota ricorda che «un’effettiva coesione tra i diversi componenti dell’intera comunità nazionale rappresenta la condizione imprescindibile per realizzare quel principio di solidarietà che deve animare la convivenza civile e orientare l’agire politico a servizio del bene comune».
Un altro concetto in totale sintonia con la prolusione del cardinale Bagnasco.
Mimmo Muolo

«Lasciatevi riconciliare con Dio»

La prolusione del presidente della Cei ha aperto a Roma i lavori del Consiglio permanente.
L’impegno educativo e nel sacerdozio, l’imperativo dell’onestà, i valori non negoziabili guida al voto. Sono alcuni capi saldi irrinunciabili da tutelare e promuovere.
Il testo integrale della Prolusione Un primo commento Riconoscere il male e non farsi incantare di Marco Taquinio «Riconciliamoci con la Verità» “Vi supplico in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio”: questo versetto della seconda Lettera di S.
Paolo ai Corinti fa da pensiero unificante della prolusione che il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, ha presentato oggi ai partecipanti al Consiglio permanente dei vescovi, che proseguirà fino a giovedì 25 marzo a Roma.
Tutto il testo è segnato dalla “consapevolezza di una conversione necessaria e irrevocabile”, in riferimento a molteplici fattori ed eventi che segnano la vita della Chiesa come quella della società nel suo complesso.
Il cardinale fa riferimento anzitutto agli attacchi a quel “mistagogo formidabile del nostro tempo che è Benedetto XVI”, notando come “quanto più, da qualche parte, si tenta inutilmente di sfiorare la sua limpida e amabile persona, tanto più il popolo di Dio a lui guarda commosso e fiero”.
Circa il ruolo e il comportamento di vescovi e preti, aggiunge, “non ci sono incarichi o ruoli da interpretare come ‘un privilegio personale’, o da trasformare in occasioni per ‘una brillante carriera’, quando c’è solo ‘un servizio da rendere con dedizione e umiltà’”.
Il presidente cita, a questo proposito, recenti parole del Papa: “Le cose nella società civile e, non di rado, nella Chiesa, soffrono per il fatto che molti di coloro ai quali è stata conferita una responsabilità, lavorano per se stessi e non per la comunità”.
La Lettera ai cattolici d’Irlanda.
Nei passaggi iniziali della sua prolusione, il card.
Bagnasco dedica ampio spazio alla Lettera ai Cattolici d’Irlanda scritta dal Papa nei giorni scorsi, dopo l’esplodere dello scandalo della pedofilia, notando come questi fatti rappresentino un “crimine odioso, ma anche peccato scandalosamente grave che tradisce il patto di fiducia iscritto nel rapporto educativo”.
“Senza dubbio la pedofilia è sempre qualcosa di aberrante – prosegue – e, se commessa da una persona consacrata, acquista una gravità morale ancora maggiore.
Per questo, insieme al profondo dolore e ad un insopprimibile senso di vergogna, noi Vescovi ci uniamo al Pastore universale nell’esprimere tutto il nostro rammarico e la nostra vicinanza a chi ha subìto il tradimento di un’infanzia violata”.
Il cardinale nota quindi che “Benedetto XVI non lascia margini all’incertezza o alle minimizzazioni” e prosegue citando passi della Lettera del Papa: “nonostante l’indegnità, ‘i peccati, i fallimenti di alcuni membri della Chiesa, particolarmente di coloro che furono scelti in modo speciale per guidare e servire i giovani’”, rimane la verità che “‘è nella Chiesa che voi troverete Gesù Cristo, che è lo stesso ieri, oggi e sempre’”.
Chiede quindi ai Vescovi italiani un “intensificato sforzo educativo dei candidati al sacerdozio, il rigore del discernimento, la vigilanza per prevenire situazioni e fatti non compatibili con la scelta di Dio, una formazione permanente del nostro clero adeguata alle sfide”.
Strategie di discredito generalizzato.
Dopo aver notato come “non da ora il fenomeno della pedofilia appaia tragicamente diffuso in diversi ambienti e in varie categorie di persone”, il cardinale afferma che “questo, però, non significa subire – qualora ci fossero – strategie di discredito generalizzato.
Dobbiamo in realtà tutti interrogarci, senza più alibi, a proposito di una cultura che ai nostri giorni impera incontrastata e vezzeggiata, e che tende progressivamente a sfrangiare il tessuto connettivo dell’intera società, irridendo magari chi resiste e tenta di opporsi: l’atteggiamento cioè di chi coltiva l’assoluta autonomia dai criteri del giudizio morale e veicola come buoni e seducenti i comportamenti ritagliati anche su voglie individuali e su istinti magari sfrenati”.
Secondo il presidente dei Vescovi “l’esasperazione della sessualità sganciata dal suo significato antropologico, l’edonismo a tutto campo e il relativismo che non ammette né argini né sussulti fanno un gran male perché capziosi e talora insospettabilmente pervasivi”.
“Conviene allora – afferma il presidente della Cei – che torniamo tutti a chiamare le cose con il loro nome sempre e ovunque, a identificare il male nella sua progressiva gravità e nella molteplicità delle sue manifestazioni, per non trovarci col tempo dinanzi alla pretesa di una aberrazione rivendicata sul piano dei principi”.
L’interesse religioso nella popolazione.
“Sacerdoti di convinzione, capaci di autonomia pensante”: è quanto il presidente dei Vescovi chiede al clero, per essere all’altezza dei tempi, senza “indulgere in ingenua condiscendenza allo spirito del tempo”, rilevando tra l’altro un crescente interesse religioso nella popolazione, come ad esempio nel caso delle “ostensioni” (quella di Sant’Antonio, a Padova, e presto quella della Sindone a Torino).
Rilancia quindi l’esigenza dell’ “educazione”, che sarà oggetto degli orientamenti pastorali per il prossimo decennio, discussi nel Consiglio permanente, richiamando a questo proposito la XXV Giornata Mondiale della Gioventù che verrà celebrata la Domenica delle Palme.
Il cardinale Bagnasco passa poi a trattare i temi internazionali, a partire dai due recenti terremoti di Haiti e del Cile, notando l’esigenza di “attrezzarsi per rispondere in modo non improvvisato né episodico alle tragedie che si presentano” e anche la generosità della risposta della popolazione italiana.
Un altro tema all’attenzione è quello degli attacchi alla “libertà religiosa” e in particolare “la recrudescenza degli attacchi ai cattolici”.
Su questo argomento nota come “la mitezza che contrassegna in generale la risposta cattolica non può essere fraintesa: nessuno ha il diritto di farsi padrone degli altri in nome di Dio”.
Italia, società vivace.
Passando a riflettere sulla situazione italiana, il card.
Bagnasco ha sottolineato che “la nostra è una società vivace, che in vari campi ha delle punte di eccellenza” anche se con venature di pessimismo.
Ha infatti affermato: “Da più parti si parla di un declino che sarebbe incombente sul nostro amato Paese.
Perché nei paragoni, che talora si avanzano, dove l’Italia è messa per l’uno o l’altro dei suoi parametri a confronto con altri contesti nazionali, si finisce puntualmente per concludere – magari con un sottile compiacimento intellettuale – che siamo in svantaggio?”.
Il presidente dei Vescovi si pone le domande: “Si tratta di irriducibile pessimismo o di cronico snobismo? Rimestare sistematicamente nel fango, fino a far apparire l’insieme opaco, se non addirittura sporco, a cosa serve? E a sospingere verso analisi fin troppo crudeli, è l’amore per la verità o qualcos’altro di meno confessabile?”.
Si interroga anche su un altro fenomeno, legato alla crisi economica: quello dei suicidi di dipendenti e anche di imprenditori, “in particolare del Nordest, che nell’impossibilità a far fronte agli impegni”, “disperatamente non scorgono alternative diverse dal tragico gesto”.
Di fronte a questi fatti, il presidente dei Vescovi afferma che “la crisi la si supera sforzandosi di immaginare il nuovo”.
Difesa della vita e valori non negoziabili.
Gli ultimi argomenti affrontati dal card.
Bagnasco nella prolusione al Consiglio permanente dei Vescovi, hanno riguardato i temi della difesa della vita, della riaffermazione dei “valori non negoziabili” in politica e della esigenza che a rappresentare i cittadini ci siano cittadini onesti e possibilmente pervasi dei valori cristiani.
Circa il primo aspetto ha rilevato che in Europa nel solo 2008 “quasi tre milioni di bambini non sono nati” a causa dell’aborto, “ossia uno ogni undici secondi”.
Ha collegato questa tendenza alla introduzione nel nostro Paese della pillola Ru486, che “banalizzerà l’aborto (…) giacché l’idea di pillola è associata a gesti semplici”.
Quanto alle imminenti elezioni ha ricordato valori quali “dignità della persona umana”, “indisponibilità della vita dal concepimento alla morte naturale”, “libertà educativa e scolastica”, “famiglia fondata sul matrimonio fra un uomo e una donna”, come anche “accoglienza verso gli immigrati”, “libertà dalla malavita”.
“Si tratta – ha detto – di un complesso indivisibile di beni, dislocati sulla frontiera della vita e della solidarietà”.
Quanto, infine, alla onestà nella vita politica, ha ammonito: “non è vero che tutti rubano”, ma se anche ciò accadesse “non si attenuerebbe in nulla l’imperativo dell’onestà”.

Il cielo capovolto

 CENTRO EUROPEO RISORSE UMANE – MULTIMEDIA SAN PAOLO, Il cielo capovolto (su testi di Primo Mazzolari),  San Paolo, Cinisello Balsamo, 2010, libro + cd, pag.
56, euro 22,90    Quarto volume del Progetto Culturale ed Educativo PhonoStorie dedicato a grandi personaggi del XX secolo (Vedi la scheda del precedente audiolibro, su testi di Madre Teresa).
Un audiolibro dedicato alla figura, al pensiero e agli scritti di don Primo Mazzolari letti e interpretati da attori con musiche originali.
Fusione di arti diverse, letteratura, recitazione e musica, dove ognuna con il proprio posto e la propria specificità, si lega alle altre per costituire un unico discorso senza soluzione di continuità.
“Il cielo capovolto” mette in risalto la figura di Mazzolari, protagonista fra i più significativi del mondo cattolico e della vita politica del Novecento che, per il suo «umanesimo in prima linea» rappresenta ancor oggi un luminoso esempio per tutti, al di là di ogni orientamento religioso o politico.
Benedetto XVI nell’udienza generale dell’1 aprile 2009 ricordando il cinquantesimo della morte di don Mazzolari ha tra l’altro auspicato che «… il suo profilo sacerdotale limpido, di alta umanità e di filiale fedeltà al messaggio cristiano e alla Chiesa, possa contribuire a una fervorosa celebrazione dell’Anno sacerdotale» tuttora in corso.
Questo audiolibro vuole anzitutto essere un contributo e uno strumento utile a quanto auspicato dal Papa.
I testi più significativi di don Primo Mazzolari sono qui legati da un filo conduttore ispirato a un suo libro, “Tra l’argine e il bosco”, e inseriti in una narrazione declamata da noti artisti.
Le prefazioni dell’audiolibro sono affidate a S.E.
Mons.
Gianfranco Ravasi, presidente del pontificio consiglio della Cultura, e al prof.
Mino Martinazzoli, politico, già ministro della Repubblica italiana e profondo conoscitore di don Primo Mazzolari.
Il volume gode dell’apprezzamento e del sostegno della Fondazione don Primo Mazzolari di Bozzolo (Mn).
  Prefazione 2 Don Mazzolari fu un capostipite.
Fu l’iniziatore di quella stagione di modernizzazione della presenza cristiana che maturò alla vigilia del concilio Vaticano ii.
La sua predicazione e i suoi scritti, già in vita, irradiavano ben al di là della sua piccola parrocchia e costituiranno, insieme ad altre avanguardie, una traccia per l’avvenire.
La sua era la capacità di stare sull’argine – per citare uno dei suoi libri più noti – non per costruire una difesa ma per attraversarlo:  uno sguardo del cristianesimo oltre la frontiera.
Un cristiano fino in fondo, ma senza sacrificare la libertà di coscienza, senza tacere sulle cose che non condivideva, per il quale vale più che mai l’affermazione in veritate libertas.
Ma anche o soprattutto il suo ribaltamento in libertate veritas.
 In questo senso, anche l’antifascismo gli fu naturale.
Mazzolari, come Bevilacqua, Gobetti e altri, identificò immediatamente la natura del regime.
E non era facile in quegli anni.
Fu un resistente della prima, non dell’ultima ora.
Compì gesti di rifiuto che lo resero pericoloso agli occhi della polizia del fascismo.
Non per niente negli ultimi anni, quando la guerra civile incrudelì, quando gli orizzonti si addensarono, la vita di Mazzolari fu in pericolo.
Poi nel secondo dopoguerra, Mazzolari che aveva immaginato, da sacerdote qual era, di dover stare lontano dalla politica, si impegna allo spasimo dentro il fuoco della politica, pagandone spesso gli alti costi.
Ma il suo interesse non è immediatamente politico:  la politica è la proiezione del suo credo religioso, della sua opzione evangelica nella storia degli uomini.
È il tempo de La rivoluzione cristiana (altro libro famoso) o della nuova cristianità; concetti che si ritrovano anche in Maritain e in Bonhoeffer, che Mazzolari ben conosceva.
Ma è anche l’idea di Rossetti o di La Pira – grande amico di Mazzolari – cioè l’idea di un cristianesimo storicamente capace di permeare ogni giuntura della società civile.
La posizione di don Primo ha, però, una sua originalità, perché la rivoluzione cristiana di cui parla Mazzolari non è la pretesa di un’egemonia, di una imposizione.
Non pretende di cambiare il mondo.
Tutte le volte che si è voluto questo, si è illuso, ingannato, ucciso l’uomo.
La nostra rivoluzione, sostiene Mazzolari, è che vogliamo cambiare noi stessi.
In questo contesto nasce anche la difficile, costosa e appassionante operazione del suo settimanale “Adesso”, con un programma che è già tutto nell’intestazione e nella tremenda didascalia:  “Ma adesso chi non ha una spada, venda il mantello e ne compri una”.
Era la spada della provocazione di un cristianesimo di battaglia, di combattimento.
Mazzolari è lì, sta sugli spalti della storia, nella fornace sempre incandescente della lotta per la libertà religiosa e civile.
Ma il suo ricordo sarà tanto più importante se accanto all’uomo della battaglia, della controversia, collocheremo l’uomo, il sacerdote della pietà.
Uno dei luoghi evangelici che Mazzolari frequentava con abitudine erano le beatitudini.
E la beatitudine più indagata fu senza dubbio quella dei giusti:  giustizia è una parola che da sola potrebbe definire il pensiero e l’opera di Mazzolari.
Ma c’è un’altra beatitudine che forse ancor meglio rappresenta lo stigma, l’impronta che Mazzolari ha lasciato nella sua e nella nostra storia.
Fu un mite, non nel senso di accomodante, o accondiscendente, anzi.
Fu un mite come vuole il vangelo, perché sapeva che si può combattere contro l’errore, ma lo si deve fare in modo tollerante, perché al fondo della nostra radice, della nostra condizione umana, sta un’irriducibile incompiutezza, la quale non può non portare che alla pietà per la tribolazione fraterna.
Conosceva don Primo le pieghe amare della condizione umana e proprio per questo diceva:  noi non andiamo né a sinistra né a destra; guardiamo in alto.
C’era in Mazzolari una eccedenza del cuore che molto spesso lo portava ad accettare un carico di sofferenza che non fu mai risarcito.
C’è insieme l’idea del cristiano che provoca e del cristiano che ha pietà della condizione umana.
Il talento che il cristiano può portare in questa storia altrimenti atroce della nostra umanità è proprio questa pietà, che nasce dalla profonda e consapevole accettazione della sua imperfezione, dell’impossibilità di un suo compimento totale e sereno.
(©L’Osservatore Romano – 24 marzo 2010)  Prefazione 1 “Il cinquantesimo anniversario della morte di don Mazzolari sia occasione opportuna per riscoprirne l’eredità spirituale e promuovere la riflessione sull’attualità del pensiero di un così significativo protagonista del cattolicesimo italiano del Novecento.
Auspico che il suo profilo sacerdotale limpido di alta umanità e di filiale fedeltà al messaggio cristiano e alla Chiesa, possa contribuire a una fervorosa celebrazione dell’Anno sacerdotale”.
Mentre stava chiudendo la sua vita terrena il 12 aprile 1959, mai don Primo avrebbe immaginato che il suo nome sarebbe risuonato cinquant’anni dopo in piazza San Pietro sulla bocca di un Papa con parole così intense, in occasione dell’udienza generale di mercoledì 1° aprile 2009.
Certo, quando egli era ancora in vita, Giovanni xxiii lo aveva definito “tromba dello Spirito Santo”.
Una tromba che era echeggiata non solo nella sua parrocchia di Bozzolo e nella terra lombarda, ma in tutta l’Italia.
Ma in passato su don Mazzolari era spesso sceso il giudizio aspro e severo di varie autorità ecclesiastiche.
Questo, però, non aveva scalfito la sua obbedienza, anche se condotta “in piedi”, come amava dire.
Anzi, egli era convinto che “più il convoglio marcia rapido, più sicuri e docili occorrono i freni, i quali non sono fatti per non far camminare il convoglio, ma per evitare che deragli”.
Certe resistenze possono rallentare semplicemente il passo della Chiesa impedendole di percepire l’urgenza dei tempi e dei loro segni; ma altre reazioni sono necessarie, come accade ai freni, indispensabili se ben calibrati.
Con i “freni” si impedisce, infatti, la frenesia scalpitante che non solo non conduce prima alla meta, ma talvolta la perde per sempre, facendo deragliare dalla via maestra e dal suo approdo finale.
Tuttavia, non è possibile procedere tenendo sempre il freno tirato, impedendo alla vitalità dello spirito di agire.
In don Mazzolari si intrecciavano in modo mirabile due virtù apparentemente antitetiche:  l’audacia profetica e la fedeltà evangelica.
Esclamava infatti:  “Guai a chi ha paura della novità, di trovare un mezzo di apostolato più rispondente e più vivo! Santo quel cuore che serve le cause di Dio con audacia! Abbiate questa santa audacia che è espressione di fede!”.
Ma anche insegnava che “la forza della religione è la stabilità e solo le ininterrotte fedeltà generano i grandi amori e le grandi opere”.
Per ragioni cronologiche non ho mai incontrato questo straordinario sacerdote della diocesi di Mantova, anticipatore dello spirito del concilio Vaticano ii; l’ho conosciuto, però, in profondità attraverso i suoi amici più cari che sono diventati poi anche miei amici, come padre David Maria Turoldo, lo scrittore Luigi Santucci, padre Nazareno Fabbretti.
Da loro ho avuto la rappresentazione viva ed emozionante di un’esistenza costellata di prove soprattutto intra-ecclesiali, ma sempre condotta con intensità, libertà e fedeltà.
Suggestiva era la sua immagine della testa del Battista che parla ben più forte e ha più ragione quando è sul vassoio del martirio che non quando era sul suo collo.
Scriveva (e queste righe sono anche un emblema della sua prosa e dello stile della sua predicazione):  “Non ci guadagna niente:  anzi, ci perde tutto, il profeta.
In casa è guardato male; fuori, benché a volte lo citino, è temuto più degli altri.
E come gli costa ogni parola! Talora, proprio per superare questo costo, la fatica del dover dire, la parola può diventare un grido.
E c’è chi lo accusa di mancanza d’amore, quando egli grida per amore”.
È facile intuire in queste parole l’autoritratto stesso di don Primo, sia nell’esaltazione della testimonianza libera e disinteressata sia nella celebrazione dell’amore, consapevole com’era che “il cuore indurisce alla svelta, se non si dispone a dare”.
In questa luce è naturale che una delle attenzioni primarie egli le abbia riservate ai miseri, agli ultimi, ai peccatori sulla scia di Cristo.
Memorabile è la sua predica su Giuda, “prediletto di Gesù e nostro fratello”.
In un’altra occasione, alludendo al brano evangelico di Zaccheo (Luca, 19, 1-10), Mazzolari scriveva:  “I poveri sono dappertutto e hanno il volto del Signore…
Ci si può arrampicare sopra un sicomoro per vedere il Cristo che passa, non sulle spalle della povera gente, come fa qualcuno, per darsi una statura che non ha”.
E qui entra in scena anche la giustizia.
Don Primo, infatti, ammicca a un altro “arrampicarsi”, quello che ha dato origine proprio al termine spregiativo “arrampicatori” sociali, coloro che senza decenza e umanità prevaricano sugli altri, usandoli per il loro successo e potere.
Il loro sicomoro è fatto di creature più deboli sulle quali si insediano per salire più in alto e dominare.
La parola di don Mazzolari si è sempre levata chiara e forte, anche in tempi rischiosi, per la denuncia di ogni ingiustizia, prevaricazione e arroganza.
Ma la sua evangelica apertura di cuore lo conduceva sempre all’appello, al dialogo e il suo messaggio diventa particolarmente significativo ai nostri giorni in cui impera lo scontro, il duello verbale e fisico con l’altro e col diverso, la chiusura integralistica e fondamentalistica.
Scriveva:  “In ogni pensiero c’è un raggio di verità; in ogni ricerca un palpito di sincerità; in ogni strada un avviamento verso Dio.
Nulla è fuori del cristianesimo.
La redenzione ha acceso nel mondo una invincibile speranza che neanche l’inferno può spegnere”.
Egli era convinto, sulla scia delle stesse parole del Cristo giovanneo, che “il Calvario trascina l’umanità e la conduce verso l’infinito dei cieli”.
Ed è con tale spirito che don Primo ha percorso le strade di questo mondo e della storia:  “Io cammino, cantando e piangendo, uomo libero tra uomini liberi, fratello tra fratelli verso la casa dell’Eterno”.
E tutta la sua esistenza umana e spirituale era da lui racchiusa autobiograficamente tra due estremi, in una confessione che potrebbe essere la sua ideale epigrafe:  “La mia vita si svolge tra questi due momenti, come tra due poli opposti:  la mia povertà e la tua sovrabbondante misericordia.
Donde il mio sospiro e il mio grido:  Veni Domine, et noli tardare”.
(©L’Osservatore Romano – 24 marzo 2010)

don Peppe Diana

Nato a Casal di Principe il 4 luglio 1958, Diana entra giovanissimo – più per poter continuare a studiare che per vocazione – nel seminario di Aversa, dove frequenta la scuola media e il liceo.
Poi, dopo una brevissima parentesi romana, si iscrive alla Facoltà teologica meridionale di Napoli, retta dai gesuiti, al tempo guidati dallo spagnolo progressista Pedro Arrupe, e lì, grazie ad alcuni professori, respira l’aria della teologia della Liberazione e la predisposizione alla lettura critica della realtà sociale.
Sono gli anni a cavallo del 1980, quando in Salvador viene ucciso dagli squadroni della morte del regime militare, mentre sta celebrando la messa, Oscar Romero, il “vescovo fatto popolo” di San Salvador: un destino che sarà anche quello di don Diana.
Nel marzo del 1982 viene ordinato sacerdote e torna a Casal di Principe, dove inizia a seguire gli scout dell’Agesci.
Pochi mesi dopo, un avvenimento che segnerà profondamente la vita di don Diana: l’episcopato della Campania, il 29 giugno 1982, pubblica il documento Per amore del mio popolo non tacerò, una riflessione e un atto d’accusa contro la camorra, un appello ai credenti a partecipare attivamente alla vita civile, un’autocritica affinché la Chiesa vinca paure e convenienze e si schieri contro la criminalità organizzata.
È la prima volta che una Conferenza episcopale, benché regionale, pronuncia la parola “camorra”, infrangendo una mentalità e una prassi che la faceva considerare estranea alle preoccupazioni e alla prassi pastorale.
La nota dei vescovi campani resterà lettera morta per tanti, compresa la Cei che solo nel 1989 pubblicherà un documento ufficiale dedicato al mezzogiorno (Sviluppo nella solidarietà.
Chiesa italiana e Mezzogiorno) senza tuttavia mai scrivere “mafia” o “camorra”.
Non per don Diana però che, nominato viceparroco a Casal di Principe, alla pastorale ordinaria affianca un forte impegno sociale sul territorio che gli varrà l’etichetta di “prete anticamorra” e le accuse da una parte del clero e dei cittadini di essere un “prete comunista”, oltre che le intimidazioni della criminalità: una notte dell’autunno 1987, all’indomani di un convegno e di una marcia antiviolenza organizzati insieme ad altri due parroci di Casal di Principe, vengono sparati dei colpi di pistola alla finestra di casa sua.
Che però non fermano don Diana il quale anzi, insieme ad altri due preti di Casal di Principe, don Broccoletti e don Aversano, e ad alcuni giovani e gruppi di base, dà vita ad un comitato permanente anticamorra.
«È una seconda conversione provocata dal dolore e dalla violenza che lo circondavano», spiega Rosario Giuè, autore dell’unica biografia pubblicata di don Diana (Il costo della memoria, Paoline, 2007).
«Si è trovato dentro una situazione dura e non si è girato dall’altra parte, la vita reale lo ha cambiato più di ogni altra cosa.
Si è speso nel tentativo di fare prendere coscienza alla comunità dell’aversano che la camorra è una dittatura e voleva che tutta la Chiesa campana si coinvolgesse in un processo di liberazione e di profezia».
Nel 1989 viene nominato parroco di San Nicola, a Larino, uno dei quartieri più difficili di Casale, dove dà il via ad una piccola rivoluzione: il consiglio pastorale viene democraticamente eletto fra tutti i fedeli, le feste patronali esterne vengono abolite – anche per evitare sprechi di denaro e inquinamenti camorristici – viene aperto un centro di accoglienza per gli immigrati.
Intanto la guerra fra gli Schiavone e i De Falco si intensifica, anche in seguito alla scomparsa dei vecchi boss Antonio Bardellino e Mario Iovine: si moltiplicano i morti ammazzati, anche innocenti (un giovane testimone di Geova ucciso per sbaglio durante una sparatoria in strada fra camorristi nell’estate del 1991), i De Falco organizzano un corteo con decine di uomini armati e a volto scoperto che sfilano per le vie del paese fin sotto le finestre dei nemici, emerge il potere di Francesco Schiavone “Sandokan”.
In questa situazione don Diana riprende l’iniziativa e nel Natale del 1991 convince i parroci e i preti della foranìa di Casal di Principe a firmare e a diffondere nelle parrocchie un documento che condanna la camorra, denuncia della latitanza dello Stato e critica il silenzio della Chiesa.
«La camorra oggi è una forma di terrorismo che incute paura e impone le sue leggi», scrivono i preti.
«Il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli.
La Camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche è caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi».
La Chiesa deve recuperare il suo «ruolo profetico affinché gli strumenti della denuncia e dell’annuncio si concretizzino nella capacità di produrre nuova coscienza nel segno della giustizia».
Il testo ha una grande risonanza, e Casal di Principe finisce sotto i riflettori: aumenta la polizia, arrivano gli arresti, il Consiglio comunale viene sciolto per infiltrazioni mafiose e rimane commissariato per due anni e mezzo, fino al novembre 1993, quando le elezioni amministrative vengono vinte da una lista civica con una forte presenza del volontariato parrocchiale che tuttavia avrà vita breve.
Il confine è stato passato.
Bisogna dare un segnale, così come hanno fatto a Palermo i Graviano, ordinando l’omicidio di don Puglisi.
A Casal di Principe si colpisce don Giuseppe Diana, nel giorno del suo onomastico, in chiesa.
E si tenta di ucciderlo anche da morto, infangando il suo nome, distruggendo la sua immagine per demolire la sua azione di risveglio delle coscienze.
“Don Diana a letto con due donne”, “Don Diana era un camorrista”, titolano il Corriere di Caserta e altri giornali locali, imboccati dai soliti professionisti della disinformazione.
Poi i tribunali diranno come sono andate le cose: il prete è stato ucciso per il suo impegno antimafia.
E condanneranno esecutori materiali e mandante, Nunzio De Falco, difeso dall’avvocato berlusconiano Gaetano Pecorella, oggi presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, che ancora la scorsa estate metteva in dubbio la verità giudiziaria storica.
«Gli assassini di don Diana sono stati condannati ma restano impuniti i mandanti morali dell’omicidio», dice Sergio Tanzarella, docente di Storia della Chiesa e vicepresidente della Fondazione don Giuseppe Diana.
«I mandanti di allora e di oggi sono gli stessi.
Sono i sostenitori in giacca e cravatta di una mentalità camorristica che alimenta e sostiene la camorra che dicono a parole di combattere quando non ne negano l’esistenza.
Sono quelli che isolarono di fatto don Diana facendolo diventare un comodo bersaglio.
Ancora oggi occupano le istituzioni e dirigono l’economia.
Decine di migliaia di manifesti con le loro facce sorridenti presidiano con arroganza il territorio in vista delle elezioni.
E oggi come allora molti di loro saranno eletti in nome di un dominio assoluto verniciato da democrazia».
E monsignor Raffale Nogaro, vescovo emerito di Caserta assai vicino a don Diana (e presidente della Fondazione), chiede la beatificazione del prete “martire” della camorra: «Giuseppe Diana è il riscatto delle nostre terre sempre oppresse, è l’anima pulita delle nostre Chiese meridionali» che «non hanno voluto combattere il male della camorra» ma «si sono rassegnate a forme di convivenza e di opportunismo».
Ora «è giunto il momento di proclamarlo beato» perché «la Chiesa non potrà mai assumere il volto della purezza evangelica se non presenta i suoi martiri della libertà contro le presenze massacranti della camorra».
in “il manifesto” del 19 marzo 2010 Una Fiat Uno rossa si ferma davanti alla parrocchia di San Nicola, a Casal di Principe, poco dopo le sette del mattino.
Due uomini scendono, entrano in chiesa, si dirigono verso la sacrestia.
«Chi è don Peppe?», chiedono.
Poi sparano, quattro colpi di pistola e il parroco, don Giuseppe Diana, cade, ucciso.
È il 19 marzo 1994, Casal di Principe è il campo di battaglia su cui i De Falco e gli Schiavone si combattono per conquistare l’egemonia sul clan dei casalesi, e don Diana è un giovane parroco di 36 anni che parla, scrive, denuncia, incoraggia i fedeli e gli altri preti ad uscire dalla sacrestia, ad alzare la voce e a lottare contro il sistema della camorra per il riscatto sociale dei loro territori.
Per questo, 16 anni fa, viene ammazzato.
È la seconda volta in sei mesi che le mafie uccidono un prete che non abbassa la testa: a settembre era toccato a don Pino Puglisi, a Palermo, del quartiere Brancaccio dei fratelli Graviano.
Adesso tocca al parroco casertano.
Colpevoli, entrambi, di aver abbandonato il recinto del sacro, di aver preso la parola rompendo il muro di omertà e la cappa di rassegnazione, di aver organizzato la resistenza e la speranza.
«Non sono un prete anticamorra», diceva don Diana poco prima di essere ucciso, ma «un uomo di Chiesa che si limita a lottare, accanto alla gente che abita questi luoghi, nel tentativo di affermare quei diritti negati che il malgoverno e la camorra hanno sempre negato».

Nicola Mazza: un educatore nella Verona ottocentesca

Dal punto di vista politico, l’Ottocento – segnato dalla fine del potere temporale, dalla rottura con il liberalismo e la modernità, dall’avanzare dell’incredulità e della miscredenza – fu per la Chiesa cattolica il secolo forse più tragico di tutta la sua storia.
Una sequenza di sconfitte, di ritirate, di chiusure che isolarono la Santa Sede e la misero in rotta di collisione con tutto e con tutti.
Ma se consideriamo quel periodo sotto il profilo religioso e non politico, la prospettiva cambia e dobbiamo parlare di uno dei periodi più felici e innovativi di tutta la storia cristiana.
Fu nel corso dell’Ottocento, infatti, che la carità cristiana ebbe modo di esprimersi attraverso una straordinaria esplosione di creatività, se mi è permessa quest’espressione, di fronte ai nuovi, inediti bisogni materiali, morali ed educativi della civiltà postrivoluzionaria, caratterizzata anche in Italia, sia pure in ritardo rispetto al resto dell’Europa, dall’inizio dell’industrializzazione, dal cambiamento del volto delle città, dalla nascita del mondo borghese e di un nuovo pauperismo, dall’aumento della domanda di assistenza, di cultura e di istruzione.
Da Giovanni Bosco a Giuseppe Cottolengo, da Antonio Rosmini a Giuseppe Cafasso a Lodovico Pavoni a Ferrante Aporti, furono innumerevoli i religiosi, alcuni noti ma molti ancora sconosciuti o semisconosciuti, che nel campo educativo, pedagogico e assistenziale, trasformarono le tradizionali forme caritative del cattolicesimo, fondando istituzioni e nuovi ordini che vennero incontro, molto più di quanto non si immagini, ai bisogni sociali del nostro Paese negli anni precedenti e successivi all’unificazione.
Anche la storiografia accademica sta scoprendo questo mondo semisommerso ma vivacissimo, dal quale uscì trasformato soprattutto il ruolo femminile, con la nascita della figura della suora, cioè di un nuovo modello di donna consacrata:  attiva, autonoma, presente nel secolo e attenta ai suoi infiniti bisogni, mentre prima esisteva quasi soltanto la monaca di clausura.
Il vecchio giudizio di Benedetto Croce, che nella Storia d’Europa (Editore Laterza, 1938) definiva il cattolicesimo ottocentesco “prevalentemente politico e incapace di generare nuove forme e persino nuovi ordini religiosi” non ha davvero nessun fondamento e deve essere non solo rivisto ma addirittura capovolto.
Verona è una delle città italiane in cui questo nuovo cattolicesimo dalla carità attiva e operosa fu più incisivo.
Tutti gli stranieri che vi transitarono non mancarono di notarlo, da Goethe, che fece in riva all’Adige la prima tappa del suo viaggio in Italia, all’austriaco Alois Schlör, che scrisse attorno al 1840 un libro intero sulla religiosità veronese e i suoi protagonisti, intitolandolo Filantropia della fede (Editrice Mazziana, Verona, 1992).
Una delle figure più caratteristiche di questa Verona ottocentesca ancora poco conosciuta fu don Nicola Mazza (1790-1865), il fondatore dei due istituti scolastici, uno maschile e uno femminile, che avevano l’obiettivo di fornire ai capaci e meritevoli, come diremmo oggi, ma sprovvisti di denaro, quella preparazione che da soli non avrebbero mai potuto raggiungere.
Cominciò nel 1828 con le ragazze e cinque anni dopo allargò l’iniziativa ai “soli giovinetti poveri” forniti di ingegno, moralità e buona volontà, con l’obiettivo di portarli fino ai gradi più alti dell’istruzione, cioè al titolo universitario da conseguirsi all’ateneo di Padova.
Mazza era uomo dell’Ottocento e viveva in una città compatta, ben lontana da quella che oggi chiamiamo interculturalità.
Pensando ad una missione in Africa sognava la cristianizzazione di un continente ancora vergine e non si poneva i problemi che sorgeranno dopo, quando i missionari cominciarono ad operare sul campo:  lo sbalzo di civiltà fra l’Europa e l’Africa primitiva, il rapporto con l’islam, la difficoltà di comunicazione con popoli che usavano lingue sconosciute e senza una codificazione scritta, la difficoltà di trasmettere il cristianesimo a chi non l’aveva mai conosciuto.
Ma è indubbio che dalla sua intuizione nacquero impensabili e duraturi sviluppi, non solo in termini di cristianizzazione missionaria ma anche di scambio di civiltà, di culture, di conoscenze.
I missionari di Mazza entrarono in Africa – siamo a metà dell’Ottocento – attraverso l’unica “strada” allora percorribile:  il corso del Nilo, che attraversava l’Egitto.
E così impattarono nell’islam.
L’islam egiziano ottomano non era certo quello fondamentalista e orgoglioso di oggi, ma i nostri missionari, che furono fra i primi europei a stabilire contatti stabili con il mondo islamico, ebbero ugualmente l’impressione di trovarsi di fronte ad una montagna tetragona e inespugnabile.
Nei rapporti che mandarono a Verona e alla Santa Sede – dove si avverte che in Africa la Chiesa cattolica deve “far presto”, altrimenti perderà definitivamente la partita africana, perché dove arriva l’islam non arriva più la croce – in questi rapporti c’è l’intuizione di un grandioso problema di incontro-scontro di civiltà e di culture di cui oggi, e solo oggi, siamo in grado di avvertire tutte le implicazioni.
Ma l’intuizione africana di Mazza portò ad un’altra imprevista conseguenza.
I missionari furono autorizzati dal governo egiziano a svolgere il loro proselitismo solo al di fuori dell’area islamizzata, cioè verso le popolazioni nere dell’attuale Sudan a sud di Khartoum.
Per raggiungerle dovettero improvvisarsi esploratori lungo il corso dell’Alto Nilo.
Percorsero così migliaia di chilometri nella regione che oggi sta a cavallo fra Sudan e Uganda proprio negli anni in cui in Europa esplodeva la febbre del Nilo e l’affannosa ricerca delle sue sorgenti ancora misteriose, che si pensava fossero la porta d’accesso al cuore dell’Africa nera.
Il mistero del Nilo divenne la più appassionante questione geografica del tempo, il porro unum degli infiniti misteri africani.  Come si sa saranno gli inglesi a risolvere per primi il mistero giungendo alle sorgenti del fiume, ma ciò che non si sa, o che pochi sanno, è che furono i missionari del Vicariato apostolico dell’Africa Centrale, la circoscrizione ecclesiastica fondata dalla Santa Sede nel 1846 e nella quale si inserirono i sacerdoti mazziani, che fornirono all’Europa, con i rapporti dei loro viaggi di esplorazione lungo il fiume e sulle sue sponde, le informazioni di cui si avvarranno gli inglesi per arrivare alle sorgenti del fiume.
Furono in particolare i rapporti scritti da Ignaz Knoblecher (1819-1958), un missionario sloveno responsabile del vicariato, di cui esiste nel Museo etnologico di Lubiana un ricco fondo di reperti relativi alle popolazioni nilotiche, e da Angelo Vinco (1819-1853), il primo missionario mazziano giunto in Sudan, che diedero all’Europa le chiavi d’accesso alle mitiche sorgenti del Nilo.
Nelle memorie di Speke e Grant, i due ufficiali inglesi cui si attribuisce il merito della scoperta, il debito nei confronti dei due sacerdoti è ammesso, come è ampiamente riconosciuto in un celebre romanzo ottocentesco, Cinque settimane in pallone di Jules Verne, che nelle pagine iniziali sintetizza con grande precisione la questione della scoperta delle sorgenti del fiume.
E fra i missionari mazziani che si conquistarono fama e prestigio fra gli africanisti della prima ora va annoverato Giovanni Beltrame (1824-1906), uno dei pochissimi che riuscirono a sopravvivere al micidiale clima delle regioni nilotiche, che scrisse libri e rapporti allora molto apprezzati sulle sue esplorazioni ed esperienze d’Africa e che poi divenne, qualche anno prima di morire, superiore generale dell’Istituto mazziano.
Ma il più celebre e meritevole fra gli allievi di Mazza, fra i figli della sua pionieristica intuizione della missione in Africa, fu Daniele Comboni (1831-1881), il vero fondatore della missione in Sudan, nonché fondatore della congregazione missionaria tuttora prospera e attiva in ogni continente, soprattutto fra le popolazioni più diseredate e abbandonate.
Comboni fu interamente plasmato da Mazza, ma in Africa, di fronte ai mille problemi concreti cui dovette far fronte, ripensò e rivide l’idea del fondatore, spogliandola dei suoi aspetti romantici e utopici e trasformandola in un progetto concreto, sostenibile, realizzabile.
Negli ultimi anni della sua vita collaborò attivamente con il più celebre fra gli europei operanti allora in Sudan, Charles Gordon, il mitico Gordon pascia, allora funzionario del governo egiziano ma in realtà battistrada del colonialismo britannico, il quale, pur se frenato da pregiudizio anticattolico della sua rigida educazione anglicana, ebbe grande stima dell’operato di Comboni, benché fosse un sacerdote romano, ne favorì le opere e avrebbe voluto avvalersi dell’aiuto delle sue suore, se Comboni ne avesse avute a disposizione in numero sufficiente da poterne cedere all’amico inglese.
Un progetto, quello di Comboni, che ha superato la sfida del tempo, è sopravvissuto alla rivolta islamica della Mahdia, che infiammò il Sudan nell’ultimo quindicennio dell’Ottocento e poi al colonialismo anglo-egiziano, e ha dato vita all’attuale Chiesa sudanese.
Oggi in Sudan, una delle terre d’elezione, come ben sappiamo, del moderno fondamentalismo islamico, non esiste più nulla del passato coloniale, solo ricordi in via di estinzione.
L’unica istituzione giunta in quel Paese dall’Europa che è riuscita a sopravvivere, trasformandosi e incarnandosi fino a diventare una realtà locale, cioè un’istituzione interamente sudanese, con un episcopato nero, è la Chiesa.
Ciò è frutto della duttilità dell’istituzione ecclesiastica, un’istituzione che per sopravvivere ha dovuto, nel corso dei secoli, imparare a mutare conservando sempre lo stesso volto.
(©L’Osservatore Romano – 14 marzo 2010 Il suo metodo pedagogico, caratterizzato da una specie di classismo alla rovescia, largamente in anticipo sui tempi, per l’intransigente preferenza accordata al povero sul ricco, si fondava su una disciplina severa e su una straordinaria ampiezza culturale, che faceva largo posto alle lingue straniere – francese, inglese, tedesco, spagnolo, con l’obbligo per gli studenti di parlare tra di loro nella lingua che stavano studiando – e alle discipline geografiche.  Perché la geografia? Perché gli anni in cui Mazza fonda i suoi istituti non sono soltanto quelli della Restaurazione, cioè del ritorno all’ordine e alla disciplina, che a Verona significavano il regno del Lombardo-Veneto incorporato nell’Austria asburgica.
Sono anche quelli in cui inizia la scoperta del mondo extraeuropeo e in particolare dell’Africa, che poi diventerà il mito di almeno tre generazioni di italiani.
Mito che all’inizio, con l’avvio dei primi grandi viaggi di esplorazione nelle remote regioni della Nigrizia, come si chiamava allora l’Africa nera, a sud del deserto, fu esplorativo, favolistico, avventuroso, ma che diventa poi una realtà ben più concreta, economica e commerciale, attraverso il progetto del taglio dell’istmo di Suez, cui si appassionò tutta l’Europa e, negli anni a cavallo della metà del secolo, soprattutto il governo viennese, ben consapevole del vantaggio che ne sarebbe derivato ai porti di Trieste e di Venezia.
Oggi nessuno ricorda più che il progetto esecutivo del taglio di Suez, l’opera tecnicamente più grandiosa compiuta nell’Ottocento, non si deve al francese Ferdinand de Lesseps ma ad un ingegnere veneto, direttore delle ferrovie austriache, Luigi Negrelli, che si avvalse dell’aiuto di Pietro Paleocapa, ingegnere padovano e anch’egli pubblico funzionario a Venezia, prima di emigrare a Torino e di diventare ministro dei Lavori pubblici del governo subalpino.
Di Suez, dell’Egitto che si stava modernizzando e aprendo all’Europa e dell’Africa che cominciava a svelare i suoi misteri si parlava molto, insomma, negli ambienti colti del Lombardo Veneto.
E se ne parlava anche a Verona, città molto meno chiusa e provinciale di quanto si potrebbe credere, pensando che sotto l’Austria fu trasformata nel perno del sistema militare e difensivo asburgico, diventando in pratica una città fortificata, una grande caserma.
Non è un caso se pochi anni dopo si sbriglierà proprio a Verona la fantasia dello scrittore Emilio Salgàri, che ambientò in Africa un intero ciclo dei suoi romanzi.
Mazza era certamente filoaustriaco – austriacante, si sarebbe detto una volta – ma era uomo complesso, ricco di fermenti e di intuizioni, interiormente libero.
Era amico di patrioti che sono entrati nella storia nazionale, alcuni dei quali saranno fra i martiri di Belfiore, era molto legato ad Antonio Rosmini.
Recepiva le idee nuove che circolavano nella città, una delle quali era appunto l’Africa, il continente del futuro, secondo le ottimistiche previsioni di allora dove, al Cairo, lavorava come diplomatico del governo viennese il figlio di una delle figure più in vista della Verona del tempo, il conte Carlo Scopoli.
E così il suo progetto educativo e culturale a favore dei giovani capaci e meritevoli ma privi di mezzi, come diremmo oggi, si arricchì di un capitolo nuovo:  il capitolo che prevedeva l’apertura di una missione in Africa.
Non abbiamo tempo di seguire la complicata vicenda attraverso la quale quest’idea passò dalla fantasia alla realtà.
Basterà dire che Mazza, un uomo che sapeva esercitare sui suoi allievi un carisma fortissimo, convinse alcuni di essi che avevano scelto il sacerdozio – il suo collegio era aperto a laici che sceglievano le professioni liberali e a chierici che optavano per il sacerdozio – a farsi missionari in Africa.
È allora che lo studio della geografia divenne sistematico, mentre alle quattro lingue già insegnate si aggiunse l’arabo, che Mazza affidò ad un docente di madrelingua, cioè ad un egiziano reclutato a Milano.
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Mons. Rino Fisichella: «Lettera del Papa sulla pedofilia»

intervista a mons.
Rino Fisichella, a cura di Gian Guido Vecchi Sugli scandali dei casi di pedofilia nella Chiesa «tra poco uscirà la lettera del Papa agli irlandesi e credo sarà un ulteriore esempio della sua voce chiara e decisa, senza alcuna dissimulazione», dice al Corriere l’Arcivescovo Rino Fisichella, presidente della pontificia Accademia per la vita.
E aggiunge: «Ci fosse anche un solo caso in Europa, e ahimè non è così, sarebbe troppo.
Questi fatti gettano ombre e dubbi su tutta la Chiesa: la tolleranza zero per noi non è un optional, è un obbligo morale».
Eccellenza, in piena tempesta pedofilia c’è chi descrive il Papa come perso tra i suoi libri, ignaro, in preda a un’angoscia paralizzante…
«Ma figuriamoci! Papa Benedetto XVI è una persona chiara, netta, determinata ed estremamente lucida nella sua analisi.
Una lucidità che lo porta, primo, a saper distinguere le cose e, secondo, a prendere i provvedimenti necessari…».
L’arcivescovo Rino Fisichella, presidente della pontifica Accademia per la vita nonché consultore della Congregazione per la dottrina della fede, non è tipo da sopire o eludere.
Tre anni fa, quando la Rai trasmise il documentario della Bbc Sex, crimes and the Vatican, fu lui a metterci la faccia e andare in studio a rappresentare la Chiesa.
L’anno scorso intervenne sulla vicenda d’una bimba brasiliana di 9 anni stuprata dal patrigno e rimasta incinta di due gemelli: pesava 30 chili, i medici la fecero abortire, e mentre il vescovo locale annunciava scomuniche lui ricordò che la piccola andava anzitutto «difesa e abbracciata con dolcezza», attirandosi strali integralisti.
Ora premette: «A costo d’essere frainteso, come nel caso di quella bimba, sui casi di pedofilia voglio essere molto chiaro: io starò sempre dalla parte delle vittime.
Sempre, e in ogni caso.
Perché una simile violenza grida vendetta al cospetto di Dio».
Contro i pedofili, il Papa ha evocato le parole di Gesù, «sarebbe meglio per lui che gli mettessero al collo una mola e lo buttassero in mare»…
«Certo.
Tra poco uscirà la lettera del Papa agli irlandesi e credo sarà un ulteriore esempio della sua voce chiara e decisa, senza alcuna dissimulazione.
Ci fosse anche un solo caso in Europa, e ahimè non è così, sarebbe troppo.
Questi fatti gettano ombre su tutta la Chiesa, soprattutto noi vescovi dobbiamo considerarli con la massima serietà: la tolleranza zero voluta da Benedetto XVI non è un optional, è un obbligo morale».
Parlava dei provvedimenti necessari.
Ad esempio? «Ora mi trovo negli Usa, per tre giorni sono stato in uno dei seminari più importanti del Paese e posso dire che dieci anni dalle vicende di abusi su minori non sono passati invano: considerato ciò che accade ora in Europa, l’esperienza americana può insegnare parecchio».
E cioè? «Ho visto discernimento molto più attento nella selezione dei candidati, e un impegno nella formazione accademica e spirituale senza precedenti, 130 seminaristi che fanno pensare a una generazione nuova di sacerdoti seriamente impegnati».
Cos’è accaduto, prima? «Paghiamo anni nei quali per diversi preti e religiosi è venuta meno l’identità sacerdotale: si è persa per strada la spiritualità.
Almeno dagli Anni Sessanta si è diffusa una cultura che ritiene tutto sia ammissibile e ha compreso tutti, non solo la Chiesa».
E il celibato? «Noi non siamo dei repressi: siamo persone che hanno fatto una scelta libera di dedizione e amore per la Chiesa e coloro che ci vengono affidati.
I pochi che vi attentano creano un danno enorme alla stragrande maggioranza di preti che vive questa dimensione con gioia e serietà».
Non solo la Chiesa? «Basta vedere le cronache, purtroppo.
Se pensiamo che in Olanda c’è un partito che sostiene la pedofilia…
Ognuno deve fare i conti in casa propria, ma qui c’è un fenomeno generalizzato e la società nel suo complesso è chiamata a risolverlo.
L’essenziale è saper distinguere.
Ed essere onesti».
In che senso? «Coinvolgere il Papa e l’intera Chiesa è una violenza ulteriore e un segno di inciviltà.
L’accanimento contro il pontefice, in particolare, è insensato: parlano per lui tutta la sua storia, la sua vita, i suoi scritti.
Ciò che disse negli Usa, due anni fa, è stato di una chiarezza cristallina come ciò che dirà all’Irlanda».
E l’abolizione della prescrizione per i pedofili? «Da mesi si stanno studiando queste cose: la Chiesa non agisce sotto pressione degli eventi ma per il bene di tutti».
C’è una «cultura del silenzio» in Italia? «I rari casi che si sono verificati sono diventati pubblici.
La nostra cultura mi sembra ci allontani da tutto ciò.
E non penso né vedo che i vescovi in Italia vogliano usare il silenzio come nascondimento: piuttosto, bisogna avere il tempo di valutare per non rischiare di rovinare un innocente».
L’«accanimento» contro il Papa che effetto ha? «Il Santo Padre non si fa intimorire.
Proprio perché ha una visione profonda della vita e del servizio che deve rendere a tutta la Chiesa e al mondo, saprà ancora una volta farci compiere un balzo in avanti.
Attentare all’autorità morale del pontefice e della Chiesa è una strategia tendenziosa che può creare un danno permanente alla società.
Ma non ci riusciranno».