Nato a Casal di Principe il 4 luglio 1958, Diana entra giovanissimo – più per poter continuare a studiare che per vocazione – nel seminario di Aversa, dove frequenta la scuola media e il liceo.
Poi, dopo una brevissima parentesi romana, si iscrive alla Facoltà teologica meridionale di Napoli, retta dai gesuiti, al tempo guidati dallo spagnolo progressista Pedro Arrupe, e lì, grazie ad alcuni professori, respira l’aria della teologia della Liberazione e la predisposizione alla lettura critica della realtà sociale.
Sono gli anni a cavallo del 1980, quando in Salvador viene ucciso dagli squadroni della morte del regime militare, mentre sta celebrando la messa, Oscar Romero, il “vescovo fatto popolo” di San Salvador: un destino che sarà anche quello di don Diana.
Nel marzo del 1982 viene ordinato sacerdote e torna a Casal di Principe, dove inizia a seguire gli scout dell’Agesci.
Pochi mesi dopo, un avvenimento che segnerà profondamente la vita di don Diana: l’episcopato della Campania, il 29 giugno 1982, pubblica il documento Per amore del mio popolo non tacerò, una riflessione e un atto d’accusa contro la camorra, un appello ai credenti a partecipare attivamente alla vita civile, un’autocritica affinché la Chiesa vinca paure e convenienze e si schieri contro la criminalità organizzata.
È la prima volta che una Conferenza episcopale, benché regionale, pronuncia la parola “camorra”, infrangendo una mentalità e una prassi che la faceva considerare estranea alle preoccupazioni e alla prassi pastorale.
La nota dei vescovi campani resterà lettera morta per tanti, compresa la Cei che solo nel 1989 pubblicherà un documento ufficiale dedicato al mezzogiorno (Sviluppo nella solidarietà.
Chiesa italiana e Mezzogiorno) senza tuttavia mai scrivere “mafia” o “camorra”.
Non per don Diana però che, nominato viceparroco a Casal di Principe, alla pastorale ordinaria affianca un forte impegno sociale sul territorio che gli varrà l’etichetta di “prete anticamorra” e le accuse da una parte del clero e dei cittadini di essere un “prete comunista”, oltre che le intimidazioni della criminalità: una notte dell’autunno 1987, all’indomani di un convegno e di una marcia antiviolenza organizzati insieme ad altri due parroci di Casal di Principe, vengono sparati dei colpi di pistola alla finestra di casa sua.
Che però non fermano don Diana il quale anzi, insieme ad altri due preti di Casal di Principe, don Broccoletti e don Aversano, e ad alcuni giovani e gruppi di base, dà vita ad un comitato permanente anticamorra.
«È una seconda conversione provocata dal dolore e dalla violenza che lo circondavano», spiega Rosario Giuè, autore dell’unica biografia pubblicata di don Diana (Il costo della memoria, Paoline, 2007).
«Si è trovato dentro una situazione dura e non si è girato dall’altra parte, la vita reale lo ha cambiato più di ogni altra cosa.
Si è speso nel tentativo di fare prendere coscienza alla comunità dell’aversano che la camorra è una dittatura e voleva che tutta la Chiesa campana si coinvolgesse in un processo di liberazione e di profezia».
Nel 1989 viene nominato parroco di San Nicola, a Larino, uno dei quartieri più difficili di Casale, dove dà il via ad una piccola rivoluzione: il consiglio pastorale viene democraticamente eletto fra tutti i fedeli, le feste patronali esterne vengono abolite – anche per evitare sprechi di denaro e inquinamenti camorristici – viene aperto un centro di accoglienza per gli immigrati.
Intanto la guerra fra gli Schiavone e i De Falco si intensifica, anche in seguito alla scomparsa dei vecchi boss Antonio Bardellino e Mario Iovine: si moltiplicano i morti ammazzati, anche innocenti (un giovane testimone di Geova ucciso per sbaglio durante una sparatoria in strada fra camorristi nell’estate del 1991), i De Falco organizzano un corteo con decine di uomini armati e a volto scoperto che sfilano per le vie del paese fin sotto le finestre dei nemici, emerge il potere di Francesco Schiavone “Sandokan”.
In questa situazione don Diana riprende l’iniziativa e nel Natale del 1991 convince i parroci e i preti della foranìa di Casal di Principe a firmare e a diffondere nelle parrocchie un documento che condanna la camorra, denuncia della latitanza dello Stato e critica il silenzio della Chiesa.
«La camorra oggi è una forma di terrorismo che incute paura e impone le sue leggi», scrivono i preti.
«Il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli.
La Camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche è caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi».
La Chiesa deve recuperare il suo «ruolo profetico affinché gli strumenti della denuncia e dell’annuncio si concretizzino nella capacità di produrre nuova coscienza nel segno della giustizia».
Il testo ha una grande risonanza, e Casal di Principe finisce sotto i riflettori: aumenta la polizia, arrivano gli arresti, il Consiglio comunale viene sciolto per infiltrazioni mafiose e rimane commissariato per due anni e mezzo, fino al novembre 1993, quando le elezioni amministrative vengono vinte da una lista civica con una forte presenza del volontariato parrocchiale che tuttavia avrà vita breve.
Il confine è stato passato.
Bisogna dare un segnale, così come hanno fatto a Palermo i Graviano, ordinando l’omicidio di don Puglisi.
A Casal di Principe si colpisce don Giuseppe Diana, nel giorno del suo onomastico, in chiesa.
E si tenta di ucciderlo anche da morto, infangando il suo nome, distruggendo la sua immagine per demolire la sua azione di risveglio delle coscienze.
“Don Diana a letto con due donne”, “Don Diana era un camorrista”, titolano il Corriere di Caserta e altri giornali locali, imboccati dai soliti professionisti della disinformazione.
Poi i tribunali diranno come sono andate le cose: il prete è stato ucciso per il suo impegno antimafia.
E condanneranno esecutori materiali e mandante, Nunzio De Falco, difeso dall’avvocato berlusconiano Gaetano Pecorella, oggi presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, che ancora la scorsa estate metteva in dubbio la verità giudiziaria storica.
«Gli assassini di don Diana sono stati condannati ma restano impuniti i mandanti morali dell’omicidio», dice Sergio Tanzarella, docente di Storia della Chiesa e vicepresidente della Fondazione don Giuseppe Diana.
«I mandanti di allora e di oggi sono gli stessi.
Sono i sostenitori in giacca e cravatta di una mentalità camorristica che alimenta e sostiene la camorra che dicono a parole di combattere quando non ne negano l’esistenza.
Sono quelli che isolarono di fatto don Diana facendolo diventare un comodo bersaglio.
Ancora oggi occupano le istituzioni e dirigono l’economia.
Decine di migliaia di manifesti con le loro facce sorridenti presidiano con arroganza il territorio in vista delle elezioni.
E oggi come allora molti di loro saranno eletti in nome di un dominio assoluto verniciato da democrazia».
E monsignor Raffale Nogaro, vescovo emerito di Caserta assai vicino a don Diana (e presidente della Fondazione), chiede la beatificazione del prete “martire” della camorra: «Giuseppe Diana è il riscatto delle nostre terre sempre oppresse, è l’anima pulita delle nostre Chiese meridionali» che «non hanno voluto combattere il male della camorra» ma «si sono rassegnate a forme di convivenza e di opportunismo».
Ora «è giunto il momento di proclamarlo beato» perché «la Chiesa non potrà mai assumere il volto della purezza evangelica se non presenta i suoi martiri della libertà contro le presenze massacranti della camorra».
in “il manifesto” del 19 marzo 2010 Una Fiat Uno rossa si ferma davanti alla parrocchia di San Nicola, a Casal di Principe, poco dopo le sette del mattino.
Due uomini scendono, entrano in chiesa, si dirigono verso la sacrestia.
«Chi è don Peppe?», chiedono.
Poi sparano, quattro colpi di pistola e il parroco, don Giuseppe Diana, cade, ucciso.
È il 19 marzo 1994, Casal di Principe è il campo di battaglia su cui i De Falco e gli Schiavone si combattono per conquistare l’egemonia sul clan dei casalesi, e don Diana è un giovane parroco di 36 anni che parla, scrive, denuncia, incoraggia i fedeli e gli altri preti ad uscire dalla sacrestia, ad alzare la voce e a lottare contro il sistema della camorra per il riscatto sociale dei loro territori.
Per questo, 16 anni fa, viene ammazzato.
È la seconda volta in sei mesi che le mafie uccidono un prete che non abbassa la testa: a settembre era toccato a don Pino Puglisi, a Palermo, del quartiere Brancaccio dei fratelli Graviano.
Adesso tocca al parroco casertano.
Colpevoli, entrambi, di aver abbandonato il recinto del sacro, di aver preso la parola rompendo il muro di omertà e la cappa di rassegnazione, di aver organizzato la resistenza e la speranza.
«Non sono un prete anticamorra», diceva don Diana poco prima di essere ucciso, ma «un uomo di Chiesa che si limita a lottare, accanto alla gente che abita questi luoghi, nel tentativo di affermare quei diritti negati che il malgoverno e la camorra hanno sempre negato».
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Nicola Mazza: un educatore nella Verona ottocentesca
Dal punto di vista politico, l’Ottocento – segnato dalla fine del potere temporale, dalla rottura con il liberalismo e la modernità, dall’avanzare dell’incredulità e della miscredenza – fu per la Chiesa cattolica il secolo forse più tragico di tutta la sua storia.
Una sequenza di sconfitte, di ritirate, di chiusure che isolarono la Santa Sede e la misero in rotta di collisione con tutto e con tutti.
Ma se consideriamo quel periodo sotto il profilo religioso e non politico, la prospettiva cambia e dobbiamo parlare di uno dei periodi più felici e innovativi di tutta la storia cristiana.
Fu nel corso dell’Ottocento, infatti, che la carità cristiana ebbe modo di esprimersi attraverso una straordinaria esplosione di creatività, se mi è permessa quest’espressione, di fronte ai nuovi, inediti bisogni materiali, morali ed educativi della civiltà postrivoluzionaria, caratterizzata anche in Italia, sia pure in ritardo rispetto al resto dell’Europa, dall’inizio dell’industrializzazione, dal cambiamento del volto delle città, dalla nascita del mondo borghese e di un nuovo pauperismo, dall’aumento della domanda di assistenza, di cultura e di istruzione.
Da Giovanni Bosco a Giuseppe Cottolengo, da Antonio Rosmini a Giuseppe Cafasso a Lodovico Pavoni a Ferrante Aporti, furono innumerevoli i religiosi, alcuni noti ma molti ancora sconosciuti o semisconosciuti, che nel campo educativo, pedagogico e assistenziale, trasformarono le tradizionali forme caritative del cattolicesimo, fondando istituzioni e nuovi ordini che vennero incontro, molto più di quanto non si immagini, ai bisogni sociali del nostro Paese negli anni precedenti e successivi all’unificazione.
Anche la storiografia accademica sta scoprendo questo mondo semisommerso ma vivacissimo, dal quale uscì trasformato soprattutto il ruolo femminile, con la nascita della figura della suora, cioè di un nuovo modello di donna consacrata: attiva, autonoma, presente nel secolo e attenta ai suoi infiniti bisogni, mentre prima esisteva quasi soltanto la monaca di clausura.
Il vecchio giudizio di Benedetto Croce, che nella Storia d’Europa (Editore Laterza, 1938) definiva il cattolicesimo ottocentesco “prevalentemente politico e incapace di generare nuove forme e persino nuovi ordini religiosi” non ha davvero nessun fondamento e deve essere non solo rivisto ma addirittura capovolto.
Verona è una delle città italiane in cui questo nuovo cattolicesimo dalla carità attiva e operosa fu più incisivo.
Tutti gli stranieri che vi transitarono non mancarono di notarlo, da Goethe, che fece in riva all’Adige la prima tappa del suo viaggio in Italia, all’austriaco Alois Schlör, che scrisse attorno al 1840 un libro intero sulla religiosità veronese e i suoi protagonisti, intitolandolo Filantropia della fede (Editrice Mazziana, Verona, 1992).
Una delle figure più caratteristiche di questa Verona ottocentesca ancora poco conosciuta fu don Nicola Mazza (1790-1865), il fondatore dei due istituti scolastici, uno maschile e uno femminile, che avevano l’obiettivo di fornire ai capaci e meritevoli, come diremmo oggi, ma sprovvisti di denaro, quella preparazione che da soli non avrebbero mai potuto raggiungere.
Cominciò nel 1828 con le ragazze e cinque anni dopo allargò l’iniziativa ai “soli giovinetti poveri” forniti di ingegno, moralità e buona volontà, con l’obiettivo di portarli fino ai gradi più alti dell’istruzione, cioè al titolo universitario da conseguirsi all’ateneo di Padova.
Mazza era uomo dell’Ottocento e viveva in una città compatta, ben lontana da quella che oggi chiamiamo interculturalità.
Pensando ad una missione in Africa sognava la cristianizzazione di un continente ancora vergine e non si poneva i problemi che sorgeranno dopo, quando i missionari cominciarono ad operare sul campo: lo sbalzo di civiltà fra l’Europa e l’Africa primitiva, il rapporto con l’islam, la difficoltà di comunicazione con popoli che usavano lingue sconosciute e senza una codificazione scritta, la difficoltà di trasmettere il cristianesimo a chi non l’aveva mai conosciuto.
Ma è indubbio che dalla sua intuizione nacquero impensabili e duraturi sviluppi, non solo in termini di cristianizzazione missionaria ma anche di scambio di civiltà, di culture, di conoscenze.
I missionari di Mazza entrarono in Africa – siamo a metà dell’Ottocento – attraverso l’unica “strada” allora percorribile: il corso del Nilo, che attraversava l’Egitto.
E così impattarono nell’islam.
L’islam egiziano ottomano non era certo quello fondamentalista e orgoglioso di oggi, ma i nostri missionari, che furono fra i primi europei a stabilire contatti stabili con il mondo islamico, ebbero ugualmente l’impressione di trovarsi di fronte ad una montagna tetragona e inespugnabile.
Nei rapporti che mandarono a Verona e alla Santa Sede – dove si avverte che in Africa la Chiesa cattolica deve “far presto”, altrimenti perderà definitivamente la partita africana, perché dove arriva l’islam non arriva più la croce – in questi rapporti c’è l’intuizione di un grandioso problema di incontro-scontro di civiltà e di culture di cui oggi, e solo oggi, siamo in grado di avvertire tutte le implicazioni.
Ma l’intuizione africana di Mazza portò ad un’altra imprevista conseguenza.
I missionari furono autorizzati dal governo egiziano a svolgere il loro proselitismo solo al di fuori dell’area islamizzata, cioè verso le popolazioni nere dell’attuale Sudan a sud di Khartoum.
Per raggiungerle dovettero improvvisarsi esploratori lungo il corso dell’Alto Nilo.
Percorsero così migliaia di chilometri nella regione che oggi sta a cavallo fra Sudan e Uganda proprio negli anni in cui in Europa esplodeva la febbre del Nilo e l’affannosa ricerca delle sue sorgenti ancora misteriose, che si pensava fossero la porta d’accesso al cuore dell’Africa nera.
Il mistero del Nilo divenne la più appassionante questione geografica del tempo, il porro unum degli infiniti misteri africani. Come si sa saranno gli inglesi a risolvere per primi il mistero giungendo alle sorgenti del fiume, ma ciò che non si sa, o che pochi sanno, è che furono i missionari del Vicariato apostolico dell’Africa Centrale, la circoscrizione ecclesiastica fondata dalla Santa Sede nel 1846 e nella quale si inserirono i sacerdoti mazziani, che fornirono all’Europa, con i rapporti dei loro viaggi di esplorazione lungo il fiume e sulle sue sponde, le informazioni di cui si avvarranno gli inglesi per arrivare alle sorgenti del fiume.
Furono in particolare i rapporti scritti da Ignaz Knoblecher (1819-1958), un missionario sloveno responsabile del vicariato, di cui esiste nel Museo etnologico di Lubiana un ricco fondo di reperti relativi alle popolazioni nilotiche, e da Angelo Vinco (1819-1853), il primo missionario mazziano giunto in Sudan, che diedero all’Europa le chiavi d’accesso alle mitiche sorgenti del Nilo.
Nelle memorie di Speke e Grant, i due ufficiali inglesi cui si attribuisce il merito della scoperta, il debito nei confronti dei due sacerdoti è ammesso, come è ampiamente riconosciuto in un celebre romanzo ottocentesco, Cinque settimane in pallone di Jules Verne, che nelle pagine iniziali sintetizza con grande precisione la questione della scoperta delle sorgenti del fiume.
E fra i missionari mazziani che si conquistarono fama e prestigio fra gli africanisti della prima ora va annoverato Giovanni Beltrame (1824-1906), uno dei pochissimi che riuscirono a sopravvivere al micidiale clima delle regioni nilotiche, che scrisse libri e rapporti allora molto apprezzati sulle sue esplorazioni ed esperienze d’Africa e che poi divenne, qualche anno prima di morire, superiore generale dell’Istituto mazziano.
Ma il più celebre e meritevole fra gli allievi di Mazza, fra i figli della sua pionieristica intuizione della missione in Africa, fu Daniele Comboni (1831-1881), il vero fondatore della missione in Sudan, nonché fondatore della congregazione missionaria tuttora prospera e attiva in ogni continente, soprattutto fra le popolazioni più diseredate e abbandonate.
Comboni fu interamente plasmato da Mazza, ma in Africa, di fronte ai mille problemi concreti cui dovette far fronte, ripensò e rivide l’idea del fondatore, spogliandola dei suoi aspetti romantici e utopici e trasformandola in un progetto concreto, sostenibile, realizzabile.
Negli ultimi anni della sua vita collaborò attivamente con il più celebre fra gli europei operanti allora in Sudan, Charles Gordon, il mitico Gordon pascia, allora funzionario del governo egiziano ma in realtà battistrada del colonialismo britannico, il quale, pur se frenato da pregiudizio anticattolico della sua rigida educazione anglicana, ebbe grande stima dell’operato di Comboni, benché fosse un sacerdote romano, ne favorì le opere e avrebbe voluto avvalersi dell’aiuto delle sue suore, se Comboni ne avesse avute a disposizione in numero sufficiente da poterne cedere all’amico inglese.
Un progetto, quello di Comboni, che ha superato la sfida del tempo, è sopravvissuto alla rivolta islamica della Mahdia, che infiammò il Sudan nell’ultimo quindicennio dell’Ottocento e poi al colonialismo anglo-egiziano, e ha dato vita all’attuale Chiesa sudanese.
Oggi in Sudan, una delle terre d’elezione, come ben sappiamo, del moderno fondamentalismo islamico, non esiste più nulla del passato coloniale, solo ricordi in via di estinzione.
L’unica istituzione giunta in quel Paese dall’Europa che è riuscita a sopravvivere, trasformandosi e incarnandosi fino a diventare una realtà locale, cioè un’istituzione interamente sudanese, con un episcopato nero, è la Chiesa.
Ciò è frutto della duttilità dell’istituzione ecclesiastica, un’istituzione che per sopravvivere ha dovuto, nel corso dei secoli, imparare a mutare conservando sempre lo stesso volto.
(©L’Osservatore Romano – 14 marzo 2010 Il suo metodo pedagogico, caratterizzato da una specie di classismo alla rovescia, largamente in anticipo sui tempi, per l’intransigente preferenza accordata al povero sul ricco, si fondava su una disciplina severa e su una straordinaria ampiezza culturale, che faceva largo posto alle lingue straniere – francese, inglese, tedesco, spagnolo, con l’obbligo per gli studenti di parlare tra di loro nella lingua che stavano studiando – e alle discipline geografiche. Perché la geografia? Perché gli anni in cui Mazza fonda i suoi istituti non sono soltanto quelli della Restaurazione, cioè del ritorno all’ordine e alla disciplina, che a Verona significavano il regno del Lombardo-Veneto incorporato nell’Austria asburgica.
Sono anche quelli in cui inizia la scoperta del mondo extraeuropeo e in particolare dell’Africa, che poi diventerà il mito di almeno tre generazioni di italiani.
Mito che all’inizio, con l’avvio dei primi grandi viaggi di esplorazione nelle remote regioni della Nigrizia, come si chiamava allora l’Africa nera, a sud del deserto, fu esplorativo, favolistico, avventuroso, ma che diventa poi una realtà ben più concreta, economica e commerciale, attraverso il progetto del taglio dell’istmo di Suez, cui si appassionò tutta l’Europa e, negli anni a cavallo della metà del secolo, soprattutto il governo viennese, ben consapevole del vantaggio che ne sarebbe derivato ai porti di Trieste e di Venezia.
Oggi nessuno ricorda più che il progetto esecutivo del taglio di Suez, l’opera tecnicamente più grandiosa compiuta nell’Ottocento, non si deve al francese Ferdinand de Lesseps ma ad un ingegnere veneto, direttore delle ferrovie austriache, Luigi Negrelli, che si avvalse dell’aiuto di Pietro Paleocapa, ingegnere padovano e anch’egli pubblico funzionario a Venezia, prima di emigrare a Torino e di diventare ministro dei Lavori pubblici del governo subalpino.
Di Suez, dell’Egitto che si stava modernizzando e aprendo all’Europa e dell’Africa che cominciava a svelare i suoi misteri si parlava molto, insomma, negli ambienti colti del Lombardo Veneto.
E se ne parlava anche a Verona, città molto meno chiusa e provinciale di quanto si potrebbe credere, pensando che sotto l’Austria fu trasformata nel perno del sistema militare e difensivo asburgico, diventando in pratica una città fortificata, una grande caserma.
Non è un caso se pochi anni dopo si sbriglierà proprio a Verona la fantasia dello scrittore Emilio Salgàri, che ambientò in Africa un intero ciclo dei suoi romanzi.
Mazza era certamente filoaustriaco – austriacante, si sarebbe detto una volta – ma era uomo complesso, ricco di fermenti e di intuizioni, interiormente libero.
Era amico di patrioti che sono entrati nella storia nazionale, alcuni dei quali saranno fra i martiri di Belfiore, era molto legato ad Antonio Rosmini.
Recepiva le idee nuove che circolavano nella città, una delle quali era appunto l’Africa, il continente del futuro, secondo le ottimistiche previsioni di allora dove, al Cairo, lavorava come diplomatico del governo viennese il figlio di una delle figure più in vista della Verona del tempo, il conte Carlo Scopoli.
E così il suo progetto educativo e culturale a favore dei giovani capaci e meritevoli ma privi di mezzi, come diremmo oggi, si arricchì di un capitolo nuovo: il capitolo che prevedeva l’apertura di una missione in Africa.
Non abbiamo tempo di seguire la complicata vicenda attraverso la quale quest’idea passò dalla fantasia alla realtà.
Basterà dire che Mazza, un uomo che sapeva esercitare sui suoi allievi un carisma fortissimo, convinse alcuni di essi che avevano scelto il sacerdozio – il suo collegio era aperto a laici che sceglievano le professioni liberali e a chierici che optavano per il sacerdozio – a farsi missionari in Africa.
È allora che lo studio della geografia divenne sistematico, mentre alle quattro lingue già insegnate si aggiunse l’arabo, che Mazza affidò ad un docente di madrelingua, cioè ad un egiziano reclutato a Milano.
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Mons. Rino Fisichella: «Lettera del Papa sulla pedofilia»
intervista a mons.
Rino Fisichella, a cura di Gian Guido Vecchi Sugli scandali dei casi di pedofilia nella Chiesa «tra poco uscirà la lettera del Papa agli irlandesi e credo sarà un ulteriore esempio della sua voce chiara e decisa, senza alcuna dissimulazione», dice al Corriere l’Arcivescovo Rino Fisichella, presidente della pontificia Accademia per la vita.
E aggiunge: «Ci fosse anche un solo caso in Europa, e ahimè non è così, sarebbe troppo.
Questi fatti gettano ombre e dubbi su tutta la Chiesa: la tolleranza zero per noi non è un optional, è un obbligo morale».
Eccellenza, in piena tempesta pedofilia c’è chi descrive il Papa come perso tra i suoi libri, ignaro, in preda a un’angoscia paralizzante…
«Ma figuriamoci! Papa Benedetto XVI è una persona chiara, netta, determinata ed estremamente lucida nella sua analisi.
Una lucidità che lo porta, primo, a saper distinguere le cose e, secondo, a prendere i provvedimenti necessari…».
L’arcivescovo Rino Fisichella, presidente della pontifica Accademia per la vita nonché consultore della Congregazione per la dottrina della fede, non è tipo da sopire o eludere.
Tre anni fa, quando la Rai trasmise il documentario della Bbc Sex, crimes and the Vatican, fu lui a metterci la faccia e andare in studio a rappresentare la Chiesa.
L’anno scorso intervenne sulla vicenda d’una bimba brasiliana di 9 anni stuprata dal patrigno e rimasta incinta di due gemelli: pesava 30 chili, i medici la fecero abortire, e mentre il vescovo locale annunciava scomuniche lui ricordò che la piccola andava anzitutto «difesa e abbracciata con dolcezza», attirandosi strali integralisti.
Ora premette: «A costo d’essere frainteso, come nel caso di quella bimba, sui casi di pedofilia voglio essere molto chiaro: io starò sempre dalla parte delle vittime.
Sempre, e in ogni caso.
Perché una simile violenza grida vendetta al cospetto di Dio».
Contro i pedofili, il Papa ha evocato le parole di Gesù, «sarebbe meglio per lui che gli mettessero al collo una mola e lo buttassero in mare»…
«Certo.
Tra poco uscirà la lettera del Papa agli irlandesi e credo sarà un ulteriore esempio della sua voce chiara e decisa, senza alcuna dissimulazione.
Ci fosse anche un solo caso in Europa, e ahimè non è così, sarebbe troppo.
Questi fatti gettano ombre su tutta la Chiesa, soprattutto noi vescovi dobbiamo considerarli con la massima serietà: la tolleranza zero voluta da Benedetto XVI non è un optional, è un obbligo morale».
Parlava dei provvedimenti necessari.
Ad esempio? «Ora mi trovo negli Usa, per tre giorni sono stato in uno dei seminari più importanti del Paese e posso dire che dieci anni dalle vicende di abusi su minori non sono passati invano: considerato ciò che accade ora in Europa, l’esperienza americana può insegnare parecchio».
E cioè? «Ho visto discernimento molto più attento nella selezione dei candidati, e un impegno nella formazione accademica e spirituale senza precedenti, 130 seminaristi che fanno pensare a una generazione nuova di sacerdoti seriamente impegnati».
Cos’è accaduto, prima? «Paghiamo anni nei quali per diversi preti e religiosi è venuta meno l’identità sacerdotale: si è persa per strada la spiritualità.
Almeno dagli Anni Sessanta si è diffusa una cultura che ritiene tutto sia ammissibile e ha compreso tutti, non solo la Chiesa».
E il celibato? «Noi non siamo dei repressi: siamo persone che hanno fatto una scelta libera di dedizione e amore per la Chiesa e coloro che ci vengono affidati.
I pochi che vi attentano creano un danno enorme alla stragrande maggioranza di preti che vive questa dimensione con gioia e serietà».
Non solo la Chiesa? «Basta vedere le cronache, purtroppo.
Se pensiamo che in Olanda c’è un partito che sostiene la pedofilia…
Ognuno deve fare i conti in casa propria, ma qui c’è un fenomeno generalizzato e la società nel suo complesso è chiamata a risolverlo.
L’essenziale è saper distinguere.
Ed essere onesti».
In che senso? «Coinvolgere il Papa e l’intera Chiesa è una violenza ulteriore e un segno di inciviltà.
L’accanimento contro il pontefice, in particolare, è insensato: parlano per lui tutta la sua storia, la sua vita, i suoi scritti.
Ciò che disse negli Usa, due anni fa, è stato di una chiarezza cristallina come ciò che dirà all’Irlanda».
E l’abolizione della prescrizione per i pedofili? «Da mesi si stanno studiando queste cose: la Chiesa non agisce sotto pressione degli eventi ma per il bene di tutti».
C’è una «cultura del silenzio» in Italia? «I rari casi che si sono verificati sono diventati pubblici.
La nostra cultura mi sembra ci allontani da tutto ciò.
E non penso né vedo che i vescovi in Italia vogliano usare il silenzio come nascondimento: piuttosto, bisogna avere il tempo di valutare per non rischiare di rovinare un innocente».
L’«accanimento» contro il Papa che effetto ha? «Il Santo Padre non si fa intimorire.
Proprio perché ha una visione profonda della vita e del servizio che deve rendere a tutta la Chiesa e al mondo, saprà ancora una volta farci compiere un balzo in avanti.
Attentare all’autorità morale del pontefice e della Chiesa è una strategia tendenziosa che può creare un danno permanente alla società.
Ma non ci riusciranno».
Dire Dio in contesto multiculturale e plurireligioso
Il link al contributo su Il volto di Dio nella Canzone del Prof.
Fabio Pasqualetti .
http://www.youtube.com/view_play_list?p=A72550A1AEF7F4CA
Il dialogo tra un ateo e un credente
Sono curiosi l’uno dell’altro e diventano amici fin dall’incontro d’esordio, nel 1978, frequentandosi poi al di là dei vincoli di protocollo.
Pranzi segreti.
Telefonate dirette.
Colloqui privati e abbracci in pubblico.
Con schermaglie giocose, persino, tanto che in una visita di Stato li si vede baloccarsi su chi abbia la precedenza a varcare le porte dei saloni apostolici: «Prego, prima lei»; «No, prima lei… ubi maior, minor cessat»; «L’ospite è sempre maior, avanti».
Una familiarità che li spinge a scappare insieme dai rispettivi palazzi per una gita in montagna, come due studenti che marinano la scuola.
«Presidente, vuol venire a sciare con me?».
«Santità, non so sciare, mi spiace».
«Venga lo stesso, l’aria buona le farà bene».
Tre giorni dopo sono sull’Adamello, a tremila metri di altezza, e il vecchio ex partigiano grida al Papa che scende dalle piste: «Ma lei volteggia come una rondine».
Ecco come sono i rapporti tra Sandro Pertini e Giovanni Paolo II quando, tra il 31 marzo e l’8 aprile 1983, i due che hanno reso «più strette le sponde del Tevere» si scambiano un saluto pasquale.
L’iniziativa la prende il capo dello Stato, un ateo che, nella memoria della cattolicissima madre, ha «la tentazione della fede».
Prende carta e penna e prepara una lettera dove a ogni riga echeggia la questione polacca, aperta dalla prova di forza tra Solidarnosc e il regime comunista, e nella quale pesa molto l’Ostpolitik vaticana.
I suoi auguri sono un esorcismo.
Infatti, la ricorrenza che si avvicina, diversamente dalla promessa della Pasqua come «liberazione» (dalla schiavitù per gli ebrei d’Egitto, dalla morte a una vita nuova per i cristiani), sembra offrire allora solo incognite e paure.
Specie a Varsavia e dintorni.
Pertini scrive di getto, con poche correzioni: «Santità, sia pace all’animo suo, sempre proteso verso quanti soffrono perché privi del necessario per vivere o perché giacciono inermi sotto la prepotenza altrui.
Sia pace al suo coraggioso popolo, che tanto io amo e che oggi non è libero come liberi dovrebbero essere tutti i popoli e tutte le umane creature.
Non servi in ginocchio siano, ma uomini liberi, in piedi, padroni dei propri pensieri e dei propri sentimenti.
Sia pace, Santità, all’umanità intera: fratelli si sentano tutti i popoli, legati ormai dallo stesso destino: o vivere affratellati insieme da comune aiuto reciproco o insieme perire nell’olocausto nucleare…».
Risponde il Pontefice, una settimana più tardi, colpito dagli «accenti di intensa commozione » nel ricordo delle «persone e popoli che soffrono perché privi di questo bene umano fondamentale» che è la pace.
Quell’augurio, dice Karol Wojtyla, «ha suscitato in me eco profonda.
Ancora una volta nelle sue parole ho sentito vibrare la nobiltà di un animo che sa interpretare le ansie e le speranze insieme condivise.
Le sono grato per la sua sincera amicizia, che vivamente apprezzo.
E la ringrazio altresì per i sentimenti di simpatia e stima per la mia Patria…».
Il Papa sa che quella di Pertini, espressa con la retorica un po’ rétro dell’umanesimo socialista, è una vicinanza vera.
Da tempo il Quirinale, incurante delle prudenze diplomatiche, ha messo in mora il cosiddetto socialismo reale: lo testimoniano un’aspra missiva a Breznev in favore dei dissidenti sovietici e il messaggio di «deplorazione» alla Polonia per il golpe di Jaruzelski.
Così come è autentico il pacifismo del presidente, testimoniato dai suoi appelli per il disarmo («si svuotino gli arsenali, si colmino i granai»), a cavallo della crisi per gli euromissili.
Entrambi hanno visto il celebre film di Andrzej Wajda L’uomo di marmo, e ne hanno discusso considerandolo una premonizione per i Paesi dell’Est sotto il giogo di Mosca: «Un giorno saranno liberi».
Il Pontefice gli ha raccontato la sua esperienza di operaio e poi di sacerdote e vescovo perseguitato.
Il presidente la sua vicenda di antifascista, esiliato, incarcerato e condannato a morte.
Ora insieme si impegnano, ognuno dal proprio versante, a gettare ponti per dialoghi quasi impossibili tra Est e Ovest.
Grandi comunicatori, si battono per allargare i margini di speranza che la storia in quel momento concede.
E sarà anche questo modo di affrontare a viso aperto le tragedie dei totalitarismi a farli percepire dalla gente come due autorità morali.
A renderli icone del Novecento.
Al punto che un intellettuale abrasivo e fuori dal coro come Guido Ceronetti ironizza sulla «papagiovannificazione » del presidente della Repubblica eletto con la più larga maggioranza mai registrata: 832 voti su 995.
Calore umano, vitalità, fierezza, intransigenza e capacità di resistere, commuoversi e indignarsi.
Sentimenti che, nel caso di Pertini, riaffiorano oggi, a vent’anni dalla morte (24 febbraio 1990), da quell’inedito scambio epistolare conservato presso l’Associazione che porta il suo nome.
Alle soglie del nuovo millennio, un sondaggio Doxa lo aveva indicato come «l’italiano del XX secolo», con il triplo dei consensi attribuiti al suo persecutore Mussolini, che un certo revisionismo vorrebbe riabilitare alla stregua di un «buon dittatore».
In realtà, come spiegò lo scrittore argentino Osvaldo Soriano, «non è necessario essere italiani per essere orgogliosi di lui.
Basta appartenere al genere umano».
Francesco «cataro»? Anzi, era il contrario
Ln realtà, al di là dell’impostazione esoterica della presentazione del cristianesimo, si tratta di un elenco di rilievi estrapolati senza ordine alcuno dalle fonti e dalla bibliografia francescane e riordinate arbitrariamente in modo da consentire all’autore dell’escamotage di rispondere affermativamente alla questione se Francesco fosse cataro o se la sua dottrina avesse punti di contatto con quella catara (il che, palesemente, non è la stessa cosa).
Il tutto alla luce d’una conoscenza erudita piuttosto generica e schematica del catarismo e di pochissimi dati su Francesco, la sua personalità, il suo tempo, il contesto storico nel quale egli si mosse.
Oggi sappiamo bene – e su ciò v’è un’ampia concordia degli specialisti – che il catarismo fu il complesso risultato dell’incontro tra movimenti religiosi a carattere evangelico e sette cristiane d’origine balcanica (i «bogomili»), a loro volta eredi di una tradizione che attraverso il paulicianesimo anatomico si riallacciava al manicheismo.
I predicatori catari, che verso la metà del XII secolo ebbero un grande successo in un’ampia area tra Provenza, Renania, Lombardia e Toscana, si presentavano come buoni cristiani che proponevano una riforma morale della Chiesa e giungesse a rifondare la pura comunità delle origini.
Il catarismo corrispondeva però a una setta iniziatica, fondamentalmente basata su due livelli: al primo, quello dei «credenti», s’insegnava la «pura dottrina cristiana» soprattutto attraverso il Vangelo di Giovanni; al secondo, quello dei «perfetti», si riceveva una sorta di rito di iniziazione, il consolamentum (un «battesimo spirituale»).
Gli eretici «consolati» o «perfetti» erano obbligati a mostrarsi in pubblico austeramente vestiti di nero, a non assumere cibi carnei o derivanti dall’accoppiamento animale (uova, latte, eccetera) e – quando lo ritenevano opportuno – si suicidavano lasciandosi morire di fame («endura»).
Data la durezza della dottrina nella sua fase più alta, la maggior parte dei «credenti» riceveva il consolamentum solo in punto di morte.
La teologia catara, che ci è nota attraverso testi recentemente ripubblicati anche in Italia dal filologo Francesco Zambon, sosteneva che l’universo assiste a una lotta eterna tra Bene e Male, che Dio è sostanza spirituale purissima dal quale emanano il Cristo e gli angeli, che la materia è totale dominio del Male ed è stata creata da un Demiurgo corrotto che si può identificare con il satana dei cristiani.
L’uomo, in cui Spirito e Materia coabitano, deve liberare in sé il primo dalla seconda. Questa dottrina, di evidente origine manichea, ha difatti rapporti strettissimi con il mazdaismo persiano e con lo stesso buddismo, ma non ha nulla a che vedere con il cristianesimo.
D’altronde, dal momento che i catari avevano conquistato la Provenza, fu necessaria per sradicarli una vera e propria crociata (la «crociata degli albigesi», 1209-44), che fu episodio d’inaudita violenza.
Francesco visse appunto in questo periodo e fu pellegrino a Santiago de Compostela proprio negli anni in cui la crociata era in atto, attraversandone i luoghi.
Non ci dice nulla di ciò.
Egli non era certo un cataro «perfetto», in quanto sappiamo che mangiava tutto quel che gli veniva posto dinanzi, come recita anche la sua regola.
Poteva essere cataro «credente», o simpatizzante per i catari? No, in quanto sappiamo che tratto comune al catarismo era l’avversione al sacerdozio e alla Chiesa «corrotta»: Francesco, al contrario, raccomanda di rispettare i preti anche quando si sa che sono peccatori.
Tutta la sua predicazione è imperniata su temi che appaiono anche di propaganda anti-catara: non che lo facesse espressamente, ma quello era il suo tempo e quelli gli interlocutori che doveva contrastare.
Il Cantico delle creature è un vero e proprio manifesto anti-cataro, in cui la potenza e la misericordia di Dio si manifestano nel creato e tutte le creature tendono a Dio: se per Francesco è insensata l’accusa di «panteismo», ancora più lo è il sospetto di «catarismo».
Da dove risulta che Francesco ritenesse il creato un male, e vedesse in Satana il creatore dell’universo? Parimenti ridicole le altre argomentazioni.
«Disprezzo del corpo», detto «frate asino»? Siamo nella più semplice tradizione mistico-ascetica cristiana, e del resto Francesco disprezzava tanto poco il suo corpo che il suo ultimo pensiero, in punto di morte, fu di mangiare dei dolci…
Preferenza per la preghiera del Pater? Ma è la preghiera più comune di tutti i cristiani.
Predilezione per la vita eremitica e la tradizione itinerante: siamo nella più assoluta ortodossia! Scelta di non farsi sacerdote? Un atto di umiltà, che in ogni modo non gl’impedì di essere diacono, quindi inserito nella gerarchia ecclesiastica.
Assoluto rifiuto della ricchezza? Siamo ancora nella tradizione ascetico-mistica cristiana, con il fatto nuovo che Francesco non impedì mai a chi non appartenesse al suo ordine di arricchirsi e non parlò mai della ricchezza come di un male assoluto.
E così via.
I punti di contatto, se ci sono, sono tra catarismo e cristianesimo, non tra catarismo e Francesco.
Anche per l’immagine «serafica» del Cristo delle stimmate, portata come prova di adesione alla dottrina catara per cui Cristo era in realtà un angelo, anzitutto le fonti presentano l’episodio in vario modo e in secondo luogo il rapporto tra il Cristo e le forme angeliche ha una lunga tradizione nell’angelologia cristiana.
E quanto all’uso francescano dei vangeli apocrifi, come nell’episodio del presepio di Greccio, l’iconografia cristiana del medioevo è largamente ispirata agli apocrifi, mentre sono semmai proprio i catari che usano il solo Vangelo di Giovanni.
Ultimi e decisivi punti.
Primo: l’autore ignora quasi tutti gli scritti di Francesco, escluso il Cantico, e in particolare le sue preghiere e i piccoli trattati che rispettano la più rigorosa ortodossia latina.
Secondo: Francesco non ha mai disobbedito alla Chiesa; e questo è il suo tratto decisamente e definitivamente anti-cataro.
Non basta insomma conoscere qualche elemento di teologia e di filosofia per affrontare un tema come quello proposto da questo libro, l’assunto del quale è improponibile.
Si tratta di un lavoro senza fondamento scientifico e senza valore.
in “Avvenire” del 2 febbraio 2010 Che Francesco fosse vicino al catarismo, o simpatizzasse per i catari, o fosse addirittura cataro egli stesso, sono temi che ogni tanto riemergono in una letteratura che – senz’ombra di disprezzo – non solo non è specialistica (vale a dire non ha alcun connotato di specializzazione scientifica relativa ai temi che affronta), ma che in genere parte da una tesi: quella del «mistero», della «parola perduta», o semplicemente dell’«inganno» messo in atto dalla Chiesa per appropriarsi di qualcuno o di qualcosa.
Che poi tale letteratura possa annoverare tra i suoi esempi anche casi di libri ben scritti, frutto della fatica e dell’impegno di persone appassionate e dotate di buon livello di cultura generale, è abbastanza raro: ma può capitare.
Solo che non aggiunge nulla al fatto che si tratta di voci scientificamente irrilevanti.
Davanti a un libro di storia di un personaggio del primo Duecento importante sotto il profilo religioso, chi si trova tra le mani un nuovo libro deve anzitutto controllare se l’autore conosce tre cose: le fonti specifiche dell’argomento, la letteratura scientifica relativa, il contesto storico in cui collocare personaggio e vicenda di cui si parla.
Tali competenze non risultano dall’esame de L’albero del Bene, recente libro di Giuseppe A.
Spadaro che azzarda nel sottotitolo addirittura la definizione di «san Francesco teologo cataro» (Arkeios, pp.
292, euro 24,90).
I
Padre
Che cosa sta succedendo? I motivi indicati da monsignor Camisasca sono molteplici.
C’è la crisi della famiglia, c’è l’insicurezza diffusa, con la paura della vita e la fuga dal rischio, ci sono i richiami di una cultura fondata sull’apparire e sull’effimero.
Ma soprattutto mancano esempi credibili.
Per questo, scrive l’autore, il primo compito di un seminario dovrebbe essere quello di aiutare i ragazzi a riscoprire la positività della vita, il valore delle cose, la concretezza degli incontri, compreso l’incontro con se stessi e con il proprio corpo.
Sono venuti meno i formatori capaci di «condurre i giovani seminaristi alla conoscenza di sé e alla confidenza in Dio», «abbiamo preferito creare dei patiti della liturgia, degli specialisti della preghiera, dei professionisti dell’azione sociale, ma non dei veri uomini, uomini maturi, uomini di Dio».
L’analisi è impietosa, ma è, secondo Camisasca, l’unica utile se si vuole andare al cuore del problema.
Le risposte non vanno cercate all’esterno, ma dentro la Chiesa, troppo spesso non più capace di educare «persone autenticamente affascinate dal silenzio, dalla lettura, dallo studio», e di creare «intelligenze adulte», cioè in grado di attuare una sintesi insieme rigorosa e libera tra filosofia e teologia.
Il prete oggi «è ucciso» dalle cose da fare, dai convegni, dall’attivismo, dai documenti, dalle tecnologie, dalle competenze che gli vengono richieste.
Ma tutto ciò è superficialità, è contorno.
Ciò che occorre è invece il ritorno al silenzio e allo studio serio, per alimentare il «fuoco nascosto» che motiva e sostiene.
«Silenzio e studio non si oppongono, non si escludono.
Anzi, nascono l’uno dall’altro».
La vita del prete è certamente una vita sulle strade, in mezzo alle persone, ma se c’è soltanto questo il prete si perde.
Coraggiosa è l’analisi dei problemi affettivi.
La questione affettiva, centrale in ogni uomo, lo è anche nella vita del prete, segnata dalla scelta di non avere una propria famiglia carnale.
«Uno dei pericoli più gravi per il sacerdote – scrive Camisasca – è il vuoto affettivo».
I preti spesso non hanno una vita affettiva matura perché anche in questo caso non si sono confrontati con testimoni credibili.
Senza un padre, non c’è vera vita affettiva.
«I vescovi devono dedicare più tempo ai loro sacerdoti e ai seminaristi.
I preti devono fare l’esperienza di essere figli per poter diventare padri del loro popolo ».
E ancora: «Alla radice della solitudine del prete c’è spesso un’agenda del vescovo troppo occupata da convegni, riunioni, incontri».
C’è stata è c’è «una divaricazione tra la figura del padre e quella dell’autorità».
Negli ultimi decenni i vescovi sono stati scelti soprattutto per le loro doti amministrative, mentre devono tornare a essere padri.
Nella Chiesa, osserva Camisasca, c’è poi poca amicizia.
Anzi, se ne ha paura.
E invece, «non si arginano le patologie se non si aiuta lo sviluppo di una vita sana».
Proprio l’amicizia è in grado di riempire il vuoto affettivo.
Non bisogna nascondere i «legami di preferenza».
Circa il celibato, l’autore dice che consentire ai preti di sposarsi non risolverebbe il problema della carenza di vocazioni e ridurrebbe la capacità di testimonianza.
Oltretutto, osserva con un pizzico di sarcasmo, dato che la vita familiare è così difficile, perché dovremmo aggiungere anche questa difficoltà alle tante con cui il prete deve già fare i conti? «Le ragioni del celibato si trovano in maniera radicale nella scelta che Gesù stesso ha fatto».
Nella cultura ebraica era una scelta dissennata perché non avere figli era considerata una maledizione.
Eppure Gesù scelse questa strada perché «riteneva che essa esprimesse, più di ogni altra, il suo cuore indiviso nell’amore del Padre e degli uomini».
Un altro punto centrale nel libro riguarda la liturgia.
«Se il sacerdote non ritrova il senso vero della liturgia nella sua vita, non può ritrovare se stesso».
La liturgia non è un’azione, non è uno spettacolo, non è un luogo nel quale esibire la creatività personale.
Camisasca non nega la positività del Concilio Vaticano II, ma riconosce che negli anni c’è stato un impoverimento da cui la Chiesa deve sollevarsi.
«Il protagonista della liturgia è Cristo, e solo accettando il suo protagonismo possiamo diventare a nostra volta protagonisti».
La liturgia non può essere vissuta né come un «esilio in Dio che ci allontana dagli uomini» né come «un piegarsi sugli uomini che ci allontana da Dio».
Per questo Benedetto XVI insiste sulla bellezza della celebrazione liturgica: attraverso la bellezza si entra in Dio che è comunione e dono di sé, perché «la vera bellezza è l’amore di Dio che si è definitivamente a noi rivelato nel mistero pasquale».
Sulle tesi dell’autore si può concordare o meno, ma certamente gli vanno riconosciute chiarezza e sincerità. di Aldo Maria Valli in “Europa” del 2 marzo 2010 Ci saranno ancora sacerdoti nel futuro della Chiesa? Monsignor Massimo Camisasca se lo chiede nel libro Padre (San Paolo, 221 pagine, 16 euro) e mette la domanda addirittura nel sottotitolo.
Da venticinque anni superiore della Fraternità San Carlo, società missionaria che conta oggi circa cento preti e quaranta seminaristi, l’autore conosce il problema grazie al rapporto diretto, e non ci gira attorno.
I dati sono impietosi.
In continua diminuzione in Europa e nell’America del Nord, in aumento in America Latina, Asia e Africa, i preti sono comunque sempre di meno rispetto alla popolazione, e sono sempre più in difficoltà.
Se trenta o quarant’anni fa i problemi erano soprattutto di ordine ideologico, adesso la crisi riguarda di più la sfera affettiva.
Molti hanno perso il gusto della vocazione, moltissimi si sentono soli, il rischio dell’abbandono avanza.
Gli alberi della quaresima
Mercoledì, dopo la messa delle Ceneri nella valle, sono tornata a casa di notte, immersa nella nebbia.
La mia lampada illuminava appena quanto bastava per fare un passo dopo l’altro nella neve onnipresente.
Piccola e sola in questa lunga strada deserta che sale attraverso la foresta bianca e nera.
Per quaranta minuti, avanzando con passo regolare nel cuore del grande silenzio, con il rumore della slitta carica di viveri che trascino.
A questa altitudine, sono in una nuvola, una massa opaca e densa di minuscole gocce che mi inzuppano quanto la mia felice traspirazione, cancellando il segno delle ceneri sulla fronte.
Solitudine abitata, piena fede, azione di grazia del corpo che traccia con tutto se stesso il suo percorso nella notte, piedi solidi a terra, cammino verso il cielo, salendo pazientemente verso la casa: concreta penitenza, spogliazione incarnata, buon inizio di quaresima.
E la quaresima, è la festa.
Tra i suoi tre alberi: dono, digiuno, preghiera, sistemo, da ramo a ramo, la mia capanna tra cielo e terra, dove vegliare in una raddoppiata intimità con il cielo e la terra.
Donare, digiunare e pregare fanno parte di uno stesso movimento: privarsi, far posto dentro di sé grazie alla privazione, lo spazio intimo in cui può dispiegarsi la vita, l’incontro reale.
Un po’ come, nello tzsimtzum, Dio si ritira per permettere lo sviluppo del mondo.
Se mi dono, se mi privo, se mi affido, non faccio che offrirmi più che nuda all’amore che mi raggiunge, si dona, si priva, si affida, nel tu per tu donato, privato, offerto.
Se mi spoglio di ciò che non è essenziale, realizzo il mio cammino di essere umano, la mia gioia: andare all’Essenziale.
Come qualcuno che, nella notte e nella nebbia, avanza coraggiosamente verso la sua casa, e vede la notte e la nebbia trasformarsi in grazia.
Lassù, non ci sono né internet né televisione.
A volte mi dico: bisognerà che accenda la radio per le informazioni.
Ma mi dimentico sempre.
Perché mai essere sempre collegati con le miserie del mondo? Le miserie del mondo sono il divertimento nascosto dell’uomo moderno.
E nei divertimenti che manifesta, scoppia la miseria.
Non ho bisogno di riempirmi di informazioni per trovare il mondo, sentirlo, conoscerlo.
Al contrario, più mi riempio di informazioni, più esse fanno schermo ad una percezione profonda, ad una compassione reale.
Parlo di me o di voi, lo faccio per parlare di noi, al nostro cuore, dove siamo uguali.
Al nostro cuore troppo spesso nascosto o addirittura spento sotto mucchi di realtà ingombranti di cui la quaresima ci invita a liberarci.
Denudarci nei nostri rapporti con le cose, con i fatti, con gli uomini.
Nell’ascesi si impara ad accontentarsi.
Accontentarsi di poco, saggezza universale.
Ma non solo.
L’ascesi di quaresima, in particolare, è tesa verso un compimento, un incontro, una resurrezione dell’essere.
È un cammino, un movimento, un desiderio di progressione.
Si tratta di essere capaci di andare al vero, e non di spegnere il desiderio né di morire di fame.
L’abbondanza e la facilità ci divertono e ci paralizzano, ci rendono incapaci di andare fino al fondo dell’amore.
L’ascesi ci libera dalla nostra impotenza liberandoci dalla paura del rischio.
Privarsi, per un po’, di divertimenti, di carni, di dolciumi, di alcolici, si crede che sia difficile, ma basta abbandonare questa credenza, abbandonarsi a farlo, per accorgersi che non è niente.
Per accorgersi che si è guadagnato molto in libertà, e quindi in possibilità di amare veramente.
Ogni mattina, alzandomi, getto nella neve la cenere del giorno prima.
Scia nera nella china bianca sotto la mia casa, che la prossima neve cancellerà.
Quel che è passato è passato, ma già la brace rosseggia di nuovo, tutta la notte il fuoco cova sotto la cenere in fondo alla stufa, tutto il giorno si leva e brucia: allo stesso modo l’amore cova sotto l’ascesi, poi, purificato, si innalza e brucia.
Di giorno cammino, porto la spesa, metto in casa la legna, tolgo la neve davanti alla casa, rompo il ghiaccio…
L’ascesi è fisica – ed è per questo che anche l’amore fisico può essere un’ascesi, se è vissuto come umile, bruciante e innamorata intimità con Dio.
Non c’è spiritualità senza ascesi, non c’è ascesi senza fisico, non c’è amore compiuto senza spiritualità fisica.
“Non sono piccolo, sono lontano”, dice uno dei miei amici montanari.
L’ascesi, è il prendere la giusta distanza.
Distanza necessaria al desiderio, che simultaneamente si annulla e si esaudisce nell’estrema vicinanza che è l’intimità con l’essenziale.
Con l’esercizio della mancanza, l’ascesi abolisce la mancanza.
Abolisce la separazione tra il desiderio e il suo compimento.
Nell’ascesi il mio desiderio non è ciò che mi possiede o ciò che io domino – in un caso come nell’altro ne sarei sempre schiavo.
È ciò che sono: non un essere che gode del suo desiderio (sia che lo idolatri, sia che si applichi a dominarlo, questa situazione è un abisso), ma un essere nella gioia, il cui desiderio è ad immagine del desiderio e della parola di Dio: proprio mentre si esprime, si realizza, come nel Fiat lux! Imparare questo nell’ascesi, questa relazione di desiderio e d’amore con Dio, significa imparare a viverla anche nelle relazioni umane, e nella relazione amorosa.
Accompagniamo Cristo verso la resurrezione.
Veramente, si tratta di tenere a distanza le forze della morte che dobbiamo attraversare.
Quelle forze di divertimento, quelle forze seduttrici, quelle forze falsamente consolatrici, che vogliono farci dimenticare l’uccisione che operano su di noi, solo una grande intimità con Dio può permetterci di tenerle a distanza, anche nel momento in cui si abbattono su di noi, gelose della nostra ribellione alla loro potenza.
Ecco come le affronteremo fino in fondo, ecco come sembreranno vincerci esponendoci nudi e morti d’amore, ecco come ci lasceranno in verità imbattuti, ecco come ci resusciteranno con Cristo.
Vinti, lo siamo, non dagli uomini, ma da Dio in noi stessi.
“Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me” (San Paolo).
in “Le Monde” del 28 febbraio 2010 (traduzione: www.finesettimana.org) Alina Reyes, autrice di “Souviens-toi de vivre” (Presses de la Renaissance, 2010) e di “Boucher” (Points, 1997)
Perché esistono gli angeli?
Il Card.
Carlo Maria Martini risponde sul “Corriere della Sera” alle domande dei lettori Eminenza, perché esistono gli angeli? Michele Toriaco – Torremaggiore (Foggia) Una lettera brevissima, ma che apre un campo assai vasto di riflessioni, di ipotesi e di ricerche.
Anzitutto il mio interlocutore sembra avere la certezza che gli angeli esistano, in quanto domanda sul loro perché.
Non sarei così sicuro che egli possa trovare tutti consenzienti sulla esistenza degli angeli.
Succede un po’ agli angeli come ad altre realtà: per un certo tempo sono come di moda e molti ne parlano; in un altro tempo sono come relegati nel limbo della dimenticanza.
Il nostro momento storico, salvo alcune eccezioni, è piuttosto un tempo di dimenticanza.
Non è sempre stato così.
Per esempio san Tommaso nella sua Summa Theologiae dedicava ben quindici delle sue «Questioni» agli angeli.
Molti autori riformati rifiutano la venerazione degli angeli e non pochi dubitano della loro esistenza.
I razionalisti, come è ovvio, la negano del tutto, mentre il grande teologo protestante Karl Barth riconosce agli angeli un ruolo straordinario nel piano di Dio.
Io ritengo che noi ne sappiamo poco sugli angeli: tuttavia essi esistono e la Scrittura ne parla più volte come di esseri celesti e messaggeri di Dio.
Perché esistono? Appare conveniente che ci siano, oltre all’uomo, che è un essere corporeo, anche altri esseri che siano come intermediari tra l’uomo e l’infinità assoluta di Dio.
Come dice il Salmo 8,8: «hai fatto l’uomo poco meno degli angeli di gloria e di onore lo hai coronato».
La realtà degli angeli è anzitutto una realtà di fede e il motivo ultimo della loro esistenza è, come per noi uomini, la bontà di Dio che vuole comunicarsi a esseri capaci di dialogare con lui.
Scrive Paolo che senza la risurrezione di Cristo la nostra fede è vana.
Ma Gesù risorto, anziché mostrarsi al popolo e convincere tutti della sua divinità, appare ai discepoli, già convinti che egli fosse il Cristo: dunque, una testimonianza «sospetta».
Il pagano Celso aveva notato l’aporia: «Quando in carne ed ossa non era creduto, senza posa annunciava a tutti la sua novella, quando invece risuscitando dai morti avrebbe offerto una sicura garanzia, allora apparve di nascosto ad una sola donnetta e a quelli della sua confraternita» (Discorso sulla verità, II 70b).
Antonio Zandonati – Rovereto (Trento) Le dirò sinceramente che per qualche tempo sono stato anch’io turbato da questo fatto, che è esposto chiaramente in un discorso di Pietro negli Atti degli Apostoli (10, 40-42): «Dio lo ha risuscitato, al terzo giorno e volle che apparisse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua resurrezione dai morti.
E ci ha ordinato di annunziare al popolo e di attestare che egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio».
Dicevo a Gesù: «Tu hai voluto morire davanti a tutto il popolo, così che ogni persona che entrava o usciva da Gerusalemme potesse vederti nei tuoi ultimi istanti.
Perché quando sei risorto non sei apparso a tutto il popolo, così che tutti ti potessero vedere?».
Ho superato questo turbamento riflettendo su quattro cose.
Primo, che non si era trattato, di un’apparizione a una donnetta, ma a testimoni diffidenti e increduli.
I racconti dopo la risurrezione mostrano chiaramente che i discepoli non si lasciarono convincere facilmente che quell’uomo apparso a loro era davvero Gesù vivo e vero.
Secondo: ho riflettuto sulle parole e sui gesti straordinari di Gesù durante il suo ministero pubblico.
Sono parole e gesti che superano il tempo e hanno un sapore di eternità.
Parole che nessun uomo oserebbe pronunciare, gesti di cui la gente dice: «Non abbiamo mai visto nulla di simile» (Mc 2,12).
Terzo, le profezie che facilitarono anche agli apostoli l’accettazione della risurrezione di Cristo e della sua missione nella storia.
Quarto: l’anelito alla permanenza oltre la morte che è in ciascuno di noi.
Mi pare che il Signore ci abbia dato motivi sufficienti per la ragionevolezza del nostro credere, ma non ce li abbia dati così schiaccianti da costringere in qualche modo la nostra libertà.
La fede è sempre un fidarsi di Dio e un buttarsi nelle sue braccia.
Sto leggendo il libro «Perché è Santo» di Slawomir Oder e sono rimasto turbato e amareggiato dalla notizia che Papa Wojtyla si flagellasse.
Perché infliggere punizioni al proprio corpo, dono di Dio? Bernardo Colussi – San Vito al Tagliamento (Pordenone) Nessuno che abbia un po’ di conoscenza della storia dell’ascetica si stupirà di piccole afflizioni corporali, (digiuni, cilici ecc.) motivate dal fatto che, come diceva un asceta del buon tempo antico «il corpo sappia che deve servire».
V’era anche il desiderio di riparare per tutti i peccati che si commettevano nel mondo.
È forse improprio parlare di «flagellazione», perché si pensa a quella dolorosissima che dovette subire Gesù e che veniva praticata senza risparmio per i condannati a morte.
Nella ascesi si trattava piccole penitenze, che non erano dannose per il corpo.
Non si deve quindi pensare a una sorta di autolesionismo o di masochismo.
Il corpo è, come lei dice, dono di Dio, ma si deve anche tener conto della sua propensione alla comodità e alla golosità.
Oggi l’ascetica insiste meno su queste pratiche, benché esse siano ancora esercitate.
Si è preso maggiormente coscienza del fatto che già il vivere con un certo ordine in questa società disordinata e caotica è in sé una penitenza.
Eminenza, ho un dubbio: che la preghiera «Requiem aeternam dona eis Domine et lux perpetua luceat eis, requiescant in pace» sembri poco cristiana.
Mi fa pensare al Paradiso come a un grande dormitorio.
Non sarebbe meglio se suonasse così: «Gaudium aeternum dona eis Domine et lux perpetua luceat eis, gaudeant in pace et in laetitia».
Augusto Colonnelli – San Donato (Milano) La preghiera proposta è certamente bella e chi vuole la può recitare così.
Ma anche la preghiera tradizionale è bella perché secondo la pregnanza biblica del termine «Requies» va intesa non come un sonno, ma come il giusto riposo che segue alle battaglie della vita.
La «luce eterna» è lo splendore del Verbo che illumina ogni cosa (cfr.
Apocalisse 21.23: «La città non ha bisogno della luce del sole né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello»).
Similmente il «requiescant in pace» è l’augurio di entrare con pienezza nello shalom, che è, secondo la Scrittura, la sintesi di tutti i doni di Dio.
Ascoltavo con attenzione il prologo in forma breve del Vangelo secondo Giovanni quando ho avuto un «tonfo» al cuore nel sentire: «La luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta».
Nella mia mente e nel mio cuore giravano le parole ascoltate e conosciute da sempre: «La luce splende nelle tenebre ma le tenebre non l’hanno accolta».
Un completo ribaltamento del rapporto luce tenebre dopo circa duemila anni? Antonio Cerino – Roma Del verbo greco sottostante si può dare una duplice versione: «vinta» o «accolta».
La gran parte degli esegeti greci, a partire da Origene, stanno per la prima interpretazione.
Negli esegeti moderni si trova piuttosto la seconda.
È quella che è stata seguita anche dai revisori della Bibbia in italiano.
Si può oscillare tra le due tradizioni, ma non si ha un ribaltamento del rapporto «luce/tenebre» bensì una duplice possibilità di intesa dell’azione delle tenebre.
in “Corriere della Sera” del 28 febbraio 2010
II DOMENICA DI QUARESIMA (Anno C).
Preghiere e Racconti La Trasfigurazione L’icona della Trasfigurazione ci rimanda al tema della divinizzazione dell’uomo, tanto caro alla tradizione dell’ Oriente cristiano.
I colori usati emanano e rivelano la luce taborica.
Questa immagine manifesta lo splendore divino e rispecchia il principio per cui un’icona non si guarda, ma si contempla.
Anticamente, questa era la prima icona che un allievo iconografo scriveva per apprendere il segreto della sua missione: penetrare nel Mistero di Dio e dischiudere gli occhi alla sua luce, al fine di rendere gli altri partecipi di questa grazia.
Nell’episodio della Trasfigurazione Gesù prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li porta sopra il monte alto dove Dio si fa conoscere dall’uomo.
Al centro dell’icona Gesù risplende, è avvolto in vesti candide ed è circondato da una nube luminosa.
Egli benedice i discepoli e li introduce nell’esodo pasquale che compirà a Gerusalemme.
In basso, quasi alle falde del monte, gli apostoli, costretti al suolo e incapaci di sostenere il bagliore della divinità, sono estasiati e turbati spettatori della Gloria di Dio.
Lo splendore e la magnificenza di Gesù ci rendono consapevoli della nostra meschinità e dell’infinita distanza che ci separa da Lui; possiamo, però, essere fiduciosi e sereni: la sua luce accompagna i nostri passi mentre scendiamo dal monte e riprendiamo il quotidiano cammino.
L’evento della Trasfigurazione, custodito e meditato in cuore, ci aiuterà ad affrontare le difficoltà della strada: la Gloria che gli apostoli hanno visto è la meta bellissima che ci attende! Lasciare che il mio cuore si sciolga alla dolce tua presenza, contemplare il tuo volto e perdermi…
La tua bellezza mi trasfiguri la tua luce mi invada il tuo amore mi trasformi così potrò percorrere le strade della terra irradiando Te.
Così sarà meno duro vivere nell’attesa di essere con te per sempre.
La Trasfigurazione di Gesù Gesù voleva che i suoi discepoli in particolare quelli che avrebbero avuto la responsabilità di guidare la Chiesa nascente facessero un esperienza diretta della sua gloria divina per affrontare lo scandalo della croce.
In effetti quando verrà l’ora del tradimento e Gesù si ritirerà a pregare nel Getsemani terrà vicini gli stessi Pietro Giacomo e Giovanni chiedendo loro di vegliare e pregare con Lui (cfr Mt 26 38).
Essi non ce la faranno, ma la grazia di Cristo li sosterrà e li aiuterà a credere nella Risurrezione.
Mi preme sottolineare che la Trasfigurazione di Gesù è stata sostanzialmente un’esperienza di preghiera (cfr.
Lc 9, 28-29).
La preghiera infatti raggiunge il suo culmine e perciò diventa fonte di luce interiore quando lo spirito dell’uomo aderisce a quello di Dio e le loro volontà si fondono quasi a formare un tutt’uno.
Quando Gesù salì sul monte si immerse nella contemplazione del disegno d’amore del Padre che l’aveva mandato nel mondo per salvare l’umanità.
[…] Cari fratelli e sorelle vi esorto a trovare in questo tempo di Quaresima prolungati momenti di silenzio possibilmente di ritiro per rivedere la propria vita alla luce del disegno d’amore del Padre celeste.
Lasciatevi guidare in questo più intenso ascolto di Dio dalla Vergine Maria maestra e modello di preghiera.
Lei anche nel buio fitto della passione di Cristo non perse ma custodì nel suo animo la luce del Figlio divino.
Per questo la invochiamo Madre della fiducia e della speranza.
(Benedetto XVI, Parole prima dell’Angelus, 08.
03.
2009).
Per fondare la nostra speranza Era necessario che gli apostoli concepissero con tutto il cuore quella forte e beata fermezza e non tremassero davanti all’asprezza della croce che dovevano prendere; era necessario che non arrossissero del supplizio di Cristo, né che stimassero vergognosa per lui la pazienza con la quale doveva subire le sofferenze della passione senza perdere la gloria del suo potere.
Così Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, suo fratello (Lc 9,28), salì con loro su una montagna in disparte e manifestò loro lo splendore della sua gloria […] Senza dubbio la trasfigurazione aveva quale primo scopo quello di rimuovere dal cuore dei suoi discepoli lo scandalo della croce, affinché l’umiltà della Passione liberamente subita non turbasse la fede di coloro ai quali era stata rivelata la sublimità della dignità nascosta.
Ma con non minore previdenza veniva fondata la speranza della santa chiesa, in modo che l’intero corpo di Cristo conoscesse quale trasformazione avrebbe ricevuto in dono e i mèmbri si ripromettessero di partecipare all’onore che aveva rifulso sul capo del corpo.
A questo proposito il Signore stesso aveva detto, parlando della maestosità della sua venuta: Allora i giusti risplenderanno come il sole nel regno del Padre loro (Mt 13,43), e il beato Paolo afferma la stessa cosa quando dice: «Io ritengo, infatti, che le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi (Rm 8,18) […] Pietro disse: Signore, è bello per noi stare qui.
Se vuoi, facciamo tre tende, una per te, una per Mosè, una per Elia» (Mt 17,4).
Il Signore non risponde a tale proposta, volendo mostrare non che era cattiva, ma che era fuori luogo, perché il mondo non poteva essere salvato se non dalla morte di Cristo e la fede dei credenti era chiamata dall’esempio di Cristo a comprendere che, senza giungere a dubitare della felicità promessa, dobbiamo tuttavia in mezzo alle tentazioni di questa vita, chiedere la pazienza prima della gloria, perché la felicità del regno non può precedere il tempo della sofferenza.
(LEONE MAGNO, Discorsi 38,2-3.5, SC 74, pp.
16-19).
Il Tabor e il Getsemani Quanto più la preghiera diventa preghiera del cuore tanto più si ama e si soffre, si vedono più luce e più tenebre, più grazia e più peccato, più Dio e più umanità.
Quanto più si scende nel profondo del cuore estendendosi di laggiù fino a Dio, tanto più la solitudine parlerà alla solitudine, l’abisso all’abisso, il cuore al cuore.
Laggiù amore e dolore si fondono. Per due volte Gesù invitò gli amici più cari, Pietro, Giovanni e Giacomo, a condividere la sua preghiera più segreta.
La prima volta li portò sulla vetta del monte Tabor e lassù essi videro il suo volto brillare come il sole e le sue vesti divenire candide come la luce (Mt 17,2).
La seconda volta egli li condusse nel giardino di Getsemani dove essi videro il suo volto angosciato e il sudore fluire come gocce di sangue che cadevano a terra (Lc 22,44).
La preghiera del cuore conduce al Tabor ma anche al Getsemani.
Dopo aver visto Dio nella gloria lo si vedrà anche nel tormento e dopo aver sentito l’abiezione della sua umiliazione si sperimenterà la bellezza della sua trasfigurazione.
(Henri J.M.
NOWEN, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo, Brescia,1980,140).
Ancora e sempre sul monte di luce Ancora e sempre sul monte di luce Cristo ci guidi perché comprendiamo il suo mistero di Dio e di uomo, umanità che si apre al divino. Ora sappiamo che è il figlio diletto in cui Dio Padre si è compiaciuto; ancor risuona la voce: «Ascoltatelo», perché egli solo ha parole di vita. In lui soltanto l’umana natura trasfigurata è in presenza divina, in lui già ora son giunti a pienezza giorni e millenni, e legge e profeti. Andiamo dunque al monte di luce, liberi andiamo da ogni possesso; solo dal monte possiamo diffondere luce e speranza per ogni fratello. Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo gloria cantiamo esultanti per sempre: cantiamo lode perché questo è il tempo in cui fiorisce la luce del mondo.
(D.M.
Turoldo).
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo di Quaresima e Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2010.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
– J.M.
NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino.
Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003. Lectio Anno c Prima lettura: Genesi 15,5-12.17-18 In quei giorni, Dio condusse fuori Abram e gli disse: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle» e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza».
Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia.
E gli disse: «Io sono il Signore, che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questa terra».
Rispose: «Signore Dio, come potrò sapere che ne avrò il possesso?».
Gli disse: «Prendimi una giovenca di tre anni, una capra di tre anni, un ariete di tre anni, una tortora e un colombo».
Andò a prendere tutti questi animali, li divise in due e collocò ogni metà di fronte all’altra; non divise però gli uccelli.
Gli uccelli rapaci calarono su quei cadaveri, ma Abram li scacciò.
Mentre il sole stava per tramontare, un torpore cadde su Abram, ed ecco terrore e grande oscurità lo assalirono.
Quando, tramontato il sole, si era fatto buio fitto, ecco un braciere fumante e una fiaccola ardente passare in mezzo agli animali divisi.
In quel giorno il Signore concluse quest’alleanza con Abram: «Alla tua discendenza io do questa terra, dal fiume d’Egitto al grande fiume, il fiume Eufrate».
Nella seconda domenica di quaresima la liturgia ci propone nell’anno A la chiamata, nell’anno B il sacrificio di Isacco e nell’anno C l’alleanza.
La vita di Abramo era completamente cambiata dopo che aveva sentito la chiamata del Signore (Gn 12).
Si era fidato della sua parola.
Era partito per una terra che non conosceva fidandosi di Dio che gli aveva promesso un figlio.
Il tempo però era passato e la promessa non sembrava realizzarsi.
Abramo sperimenta l’incertezza, l’oscurità della fede per il silenzio prolungato di Dio.
Ma ora il Signore stesso prende l’iniziativa e gli parla: Guarda in cielo e conta le stelle(v.
5).
Nonostante la sterilità avrà una discendenza come le stelle del cielo.
Abramo ancora una volta credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia (v.
6).
È l’”amen” della fede proclamata dai profeti.
La fede è un “credente in” prima ancora di un “credere che”.
È fondare la propria vita sulla parola del Signore.
Come i sacerdoti usavano pronunciare un giudizio a riguardo della perfezione della vittima sacrificale (cf.
Lv 7,18), ora il giudizio viene pronunciato da Dio a riguardo della decisione di fede di Abramo.
Era quello il giusto rapporto della creatura con il suo creatore.
Anche i profeti dicevano: “obbedire è meglio del sacrificio” (cf.
1Sam 15,22).
Nell’interpretazione paolina “giustizia” è l’atto ultimo della storia della salvezza.
Abramo diventa il primo dei credenti a sperimentare la giustizia di Dio, la riconciliazione con lui, a prescindere da ogni opera della legge, in quanto la circoncisione gli verrà chiesta solo più tardi.
(c.
17).
Il Signore con un rito tradizionale in cui si tagliavano le bestie a metà, sigilla con Abramo un’alleanza: Io sono il Signore, che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questa terra (v.
7).
Con essa egli gli rinnova la promessa della terra.
I contraenti dovevano secondo l’uso passare attraverso gli animali tagliati imprecando la stessa sorte se venissero meno alla parola.
Dio non permette ad Abramo di passare.
Lui solo passa in mezzo agli animali come braciere fumante (v.
17), impegnandosi da solo a mantenere le promesse. Seconda: Filippesi 3,17-4,1 Fratelli, fatevi insieme miei imitatori e guardate quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi.
Perché molti – ve l’ho già detto più volte e ora, con le lacrime agli occhi, ve lo ripeto – si comportano da nemici della croce di Cristo.
La loro sorte finale sarà la perdizione, il ventre è il loro dio.
Si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra.
La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose.
Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete in questo modo saldi nel Signore, carissimi! Paolo in questa lettera parla alla comunità di Filippi della propria esperienza di Gesù Cristo, come sia stato lui afferrato sulla via di Damasco e come ora tutta la sua vita non sia altro che un correre dietro a lui, in attesa di stare sempre con lui in cielo.
Allora si capisce come il brano della lettura odierna inizi con questa frase dell’apostolo: Fratelli, fatevi insieme miei imitatori (v.
17).
Paolo era stato un giudeo praticante, ma ora tutte le pratiche ebraiche sono diventate una spazzatura di fronte all’esperienza dell’amore salvifico di Cristo manifestatosi nella sua croce.
Anche i cristiani si mettano nello stesso cammino che sta dando la vita all’apostolo che ha portato loro la fede.
Molti si comportano da nemici della croce di Cristo (v.
18).
Molti non seguono il suo esempio.
Il peccato continua a manifestarsi come potenza efficace.
Il fallimento dei cristiani è l’abbandono della croce di Cristo.
Nonostante la redenzione si dà ancora tiepidezza, tentazione, tradimento, perciò è importante stare attenti non solo alla predicazione dell’apostolo, ma anche al suo esempio.
Alcuni preferiscono salvarsi con i propri sforzi, non accettando l’amore preveniente di Dio manifestatesi nel volto di Cristo in croce. Ma il cammino della croce è l’unico che conduce al cielo: La nostra cittadinanza infatti è nei cieli (v.
20).
La comunità cristiana tiene lo sguardo rivolto all’abitazione celeste.
È lì che ci aspetta Cristo risorto.
Egli trasfigurerà il nostro misero corpo (v.
21).
In cielo ci sarà una nuova esistenza per l’uomo intero.
L’uomo vivrà, non sarà più nella bassezza, ma nella gloria, configurato al corpo di risurrezione di Cristo, assiso alla destra di Dio.
Vi è un evidente legame di questo passo con il vangelo odierno. Vangelo: Luca 9,28-36 In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare.
Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante.
Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elìa, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme.
Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui.
Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi essere qui.
Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elìa».
Egli non sapeva quello che diceva.
Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra.
All’entrare nella nube, ebbero paura.
E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!».
Appena la voce cessò, restò Gesù solo.
Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.
Esegesi Il ministero di Gesù in Galilea stava per concludersi con esito deludente.
Inizia l’ultima parte dell’esodo di Gesù al Padre che si compirà a Gerusalemme sul monte Calvario.
Il monte Tabor, che secondo la tradizione è il monte della trasfigurazione di Gesù, si sovrappone al Calvario per interpretare il senso della passione: La croce è gloriosa.
Osserviamo chi partecipa a questa esperienza.
Innanzitutto Gesù, che salì sul monte a pregare (v.
28).
L’evento è così inserito totalmente nella sfera di Dio.
L’unione con il Padre si manifesta anche visibilmente nel volto di Gesù che cambiò d’aspetto (v.
29).
Come nella preghiera del Getsemani gli appare un angelo a confortarlo, anche ora appaiono due personaggi dell’Antico Testamento, Mosè ed Elia (v.
30), che parlavano con lui del suo esodo (v.
31).
Un esodo non è una fine, ma una pasqua, un passaggio dalla sofferenza alla gioia, da questo mondo al Padre, un passaggio che dirà al mondo che egli è sempre vissuto in unione con il Padre.
I discepoli non ci sono tutti, ma solo Pietro, Giovanni e Giacomo (v.
28).
Tre sono sufficienti per dare una legittima testimonianza.
Come nell’orto degli Ulivi essi sono oppressi dal sonno (v.
32).
È un sonno che manifesta anche l’incomprensione del mistero di Gesù Cristo.
Per questo in quei giorni, cioè durante la vita terrena di Gesù, non riferirono a nessuno ciò che avevano visto (v.
36).
Dopo Pasqua tutto sarà chiaro e potranno testimoniare la gloria di Gesù.
Hanno bisogno degli occhi del cuore per capire il senso della croce.
Pietro cerca di rendere eterno quel momento paradisiaco, che forse gli ricordava la gioia della festa delle capanne.
Invece Mosè ed Elia si separavano da lui (v.
33); l’antico si ritirava per far posto alla novità.
Venne una nube e li coprì con la sua ombra (v.
34).
La nube è un segno della presenza di Dio, che conferma in questo caso di essere dalla parte di Gesù, cioè che la salvezza si realizza mediante il suo esodo.
La voce divina interpreta il significato della trasfigurazione di Gesù.
Questi è il Figlio mio, l’eletto (=scelto), parola che evoca la figura del servo di JHWH (Is 42,1).
Il Messia è legato alla sofferenza e alla croce.
Il comando: ascoltatelo (v.
35) si rifà a Dt 18,15, che invita ad ascoltare il profeta definitivo di Dio, che porta a compimento la Legge (Mosè) e i profeti (Elia). Meditazione Ogni anno liturgico ci fa ascoltare, nella seconda domenica di Quaresima, il racconto della Trasfigurazione del Signore.
Il cammino quaresimale sembra così interrompersi, o meglio giungere già alla sua meta, facendoci contemplare la gloria pasquale che traspare dal corpo luminoso del Signore trasfigurato.
Dopo il cammino nel deserto della prova (nella prima domenica di Quaresima) oggi saliamo con Gesù e i suoi tre discepoli più intimi sul Tabor.
Anche noi probabilmente saremmo tentati con Pietro di arrestare qui la nostra sequela costruendo tre tende, ma di fatto l’esperienza del Tabor non costituisce la meta finale del cammino; ci suggerisce piuttosto quali siano le condizioni e gli atteggiamenti interiori che consentono a Gesù, come a ogni suo discepolo, di proseguire il viaggio – l’esodo lo definisce Luca nel suo racconto – verso Gerusalemme e verso la Pasqua.
Più che interrompere il cammino quaresimale, la Trasfigurazione ce ne svela il significato più nascosto, permettendoci di assaporare già il suo frutto.
Il brano della lettera ai Filippesi che ascoltiamo come seconda lettura ci suggerisce un angolo prospettico in cui rileggere l’esperienza del Tabor.
Paolo polemizza con coloro che «si comportano da nemici della croce di Cristo» (3,18).
Probabilmente allude a quanti pretendono che l’obbligo della circoncisione e dell’osservanza integrale della Legge di Mosè venga imposto anche ai cristiani provenienti dal mondo pagano.
Se per l’autentica esperienza di Dio sono ancora indispensabili i precetti della Torah, allora viene svuotata di significato la Croce, che per Paolo è invece la rivelazione luminosa di una salvezza che ci raggiunge gratuitamente, non in forza delle nostre opere, ma dell’amore di Dio che nel Figlio crocifisso ci libera dal peccato e dalla morte.
Noi oggi avvertiamo come molto distanti da noi queste tematiche: non abbiamo più il problema della circoncisione o dell’osservanza della legge mosaica.
Eppure le parole di Paolo conservano la loro attualità, perché dietro la posizione di chi si comporta da nemico della croce di Cristo, egli scorge l’atteggiamento di chiunque, in vario modo, presume di potersi salvare in forza delle proprie opere, confidando in se stesso e nelle proprie pratiche religiose.
Paolo definirebbe questo atteggiamento un confidare nelle «opere della carne», anziché gloriarsi, o vantarsi di Gesù Cristo, confidando in lui e nella sua grazia.
Infatti, all’atteggiamento dei nemici della croce di Cristo, Paolo contrappone quello di coloro che aspettano «come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose» (Fil 3, 20-21).
Anziché confidare in una salvezza da conquistare con l’opera delle proprie mani, occorre attendere colui che nel suo amore ha la possibilità di trasfigurare la nostra vita rendendola conforme alla sua.
Tale è anche la fede di Abramo di cui ci parla la prima lettura tratta dal libro della Genesi.
«Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia» (v.
6).
Abramo crede al Signore e si fida del segno che gli viene donato: «poi lo condusse fuori e gli disse: “Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle”; e soggiunse: “Tale sarà la tua discendenza”» (v.
5).
La garanzia della promessa di Dio è un cielo stellato.
Ad Abramo che chiede un erede, Dio promette molto di più: una discendenza numerosa come le stelle del cielo.
Dio sottolinea l’‘eccesso’ della sua promessa con l’espressione «se riesci a contarle», che sembra anzitutto mostrare quanto il progetto di Dio sia infinitamente più grande dell’attesa di Abramo.
Sovrasta la sua speranza quanto il cielo sovrasta la terra.
Inoltre, questo cielo stellato che nessuno può contare ricorda ad Abramo che egli dovrà fidarsi della promessa senza poterla verificare.
Contare una realtà significa poter esercitare un controllo su di essa.
Abramo, al contrario, deve contemplare le stelle senza poterle contare; deve cioè fidarsi del-la promessa senza cercare di dominarla.
In una parola, deve semplicemente credere.
Ed è ciò che Abramo fa, come afferma il v.
6: «Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia».
A rendere l’uomo giusto non sono le opere della carne – il confidare in se stessi e nelle proprie possibilità – ma è la fede, come disponibilità ad affidarsi all’opera che Dio compie in noi.
Non pretendendo peraltro di avere altra certezza se non quella offerta dalla Parola stessa.
In altri termini, non avendo altra garanzia che un cielo stellato, che non puoi contare.
Si tratta sempre della garanzia di un affidamento, non di un possesso.
Questa è la fede che anche Pietro, Giacomo, Giovanni devono ricevere dall’esperienza che vivono sul Tabor.
Pietro vorrebbe costruire tre capanne, in qualche modo per bloccare l’esperienza di Dio in ciò che può personalmente dominare, edificare con le proprie mani, tenere sotto il controllo dei propri occhi.
Al contrario, Pietro viene rinviato, dalle parole del Padre, all’affidamento dell’ascolto e alla perseveranza della sequela.
«Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!» (v.
35).
Queste parole risuonano sul Tabor «circa otto giorni dopo questi discorsi», come precisa l’evangelista introducendo il racconto (v.
28).
Il riferimento non può che andare a ciò che Gesù ha iniziato a dire ai discepoli subito prima, annunciando il suo destino di passione e invitando Pietro e i suoi compagni a seguirlo lungo la stessa via: «se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (9,23).
L’imperativo dell’ascolto è l’imperativo della sequela: si devono ascoltare le parole di Gesù per seguirlo lungo la stessa strada che conduce a Gerusalemme, dove Gesù vivrà l’esodo pasquale del quale conversa con Mosè ed Elia, cioè con la Legge e i Profeti, con tutte le Scritture.
È nella luce della parola di Dio che Gesù comprende il significato del suo cammino e trova il sostegno per viverlo.
Ed è nella luce delle stesse Scritture che possono farlo anche i discepoli.
La gloria di Gesù la si contempla non tentando di circoscriverla nelle tre capanne costruite da mani di uomo, ma seguendolo fino a Gerusalemme, fino ai piedi della croce.
Solo lì si manifesterà pienamente la gloria del Figlio di Dio di cui la Trasfigurazione rimane un’anticipazione profetica.
Anche per Gesù e i suoi discepoli, dopo l’esperienza straordinaria del Tabor, riprende il cammino nella discesa dal monte, forse con la stessa fatica di prima, anzi con una fatica che si fa ancora più grave, giacché ora la via si precisa sempre più come orientata verso Gerusalemme e verso la croce.
Ma ora diviene un cammino che può essere vissuto con un cuore trasfigurato dall’incontro con Dio.
Questo è stato vero innanzitutto per l’esperienza di fede che ha vissuto Gesù stesso.
La scena della Trasfigurazione ci rivela infatti la gloria e la luce in cui Gesù ha potuto vivere fino in fondo, nella fedeltà e nella perseveranza, nell’ascolto della Parola e nell’obbedienza al Padre, il suo cammino esodico e pasquale.
Rivela non semplicemente la gloria e la luce che lo attendevano al termine del cammino, ma la gloria nella cui luce ha potuto egli stesso camminare verso la Pasqua.
Mentre attorno a lui tutto si oscurava, egli aveva la sorgente della luce dentro di sé, e proprio questa luce intima, segreta, gloriosa, ha continuato a illuminare i suoi passi anche nella notte.
E l’aveva dentro di sé, ci ricorda il racconto di Luca, perché ha vegliato nella preghiera e ha conversato con le Scritture.
Chi non prega e non ascolta la parola di Dio, come inizialmente accade a Pietro, rimane nella notte e viene sopraffatto dal sonno.