“Modernità e ambivalenza”

ZYGMUNT BAUMAN, Modernità e ambivalenza, Bollati Boringhieri, Torino 2010, ISBN: 8833920496, pp.350,  € 25,00 “Ogni volta che diamo un nome a qualcosa, dividiamo il mondo in due: da un lato le entità che rispondono a quel nome; dall’altro tutte quelle che non lo fanno”.
Dare un nome equivale dunque a cercare di ordinare, classificare, archiviare, controllare: null’altro ha fatto la modernità, se non coltivare il progetto di imprimere un ordine artificiale al mondo, per contrastare l’ambivalente, l’oscuro, l’indistinto o l’indefinibile, di cui percepiva la minaccia.
Compito votato al fallimento, secondo Bauman, perché è l’ambivalenza, e non l’univocità, la condizione normale del linguaggio.
Se si ammette soltanto l’alternativa rigida tra l’ordine e il caos, ci si condanna a essere inadeguati, aprendo la strada all’intolleranza.
Ma l’ambivalenza può anche costituire una trappola.
Accadde, tra Otto e Novecento, con il percorso di integrazione degli ebrei di lingua tedesca, ossia con la loro fuoriuscita sociale e culturale dal ghetto; la modernizzazione estirpò stili di vita, parlate, costumi, e produsse la categoria ambivalente degli ebrei assimilati, estranei sia alla comunità di provenienza sia alle élite nazionali.
Tra rischi e rivincite, l’ambivalenza attraversa gli ultimi due secoli e invade la postmodernità.
Dobbiamo imparare a convivere con questo scandalo della ragione.
l’autore Zygmunt Bauman (Poznán, 1925), di origine ebraica, all’invasione tedesca della Polonia è fuggito con la famiglia in Unione Sovietica.
Rientrato in patria alla fine della guerra, ha studiato sociologia e filosofia all’Università di Varsavia, dove poi ha insegnato fino al 1968.
In quell’anno ha perso l’insegnamento, in seguito alla sua presa di distanza dalle posizioni antisemite del Partito comunista polacco, ed è riparato all’estero.
Ha ottenuto la cattedra di Sociologia all’Università di Leeds, di cui è dal 1990 professore emerito.
Gran parte della sua opera è tradotta in italiano.
Presso le nostre edizioni ha pubblicato La decadenza degli intellettuali.
Da legislatori a interpreti (1992).
Nel 1989 ha vinto il Premio Amalfi e nel 1998 l’Adorno – Preis.

Ragionando con Martini di peccato e Resurrezione

Il dialogo “Lei ha scritto un libro di recente”.
“Sì, un viaggio nella modernità.
Temo che, se avrà voglia di leggerlo, non sarà d’accordo su molte cose”.
“Non ne sia così sicuro: tra un credente come me e un non credente come lei i punti d’incontro sono molti, l’abbiamo già verificato”.
“È vero  –  ho risposto  –  lei però me ne ha proposto uno, la Resurrezione, che ha più l’aria d’una sfida che di un terreno d’incontro.
Chi come me non crede nell’oltremondo, tantomeno crede nella Resurrezione di Gesù e nella nostra.
Lei però vede nel Resurrecturis il fulcro della sua vita spirituale.
Può spiegarmene la ragione? In fondo si tratta di un miracolo.
Pensavo che lei fosse piuttosto scettico sui miracoli”.
“La Resurrezione del Cristo non è un miracolo.
Il Dio che attraverso il Figlio ha assunto natura umana, dopo la morte sulla croce riassume la sua natura divina e immortale”.
“Capisco.
Ma la Resurrezione dei morti? Quello è un miracolo”.
“È un mistero, un mistero della fede.
Lei mi ha chiesto perché rappresenta, per me e per tutta la comunità dei fedeli, il fulcro della nostra vita.
Cercherò di spiegarlo.
La Resurrezione dei morti è un fatto storicamente positivo.
Lo Spirito risorge in tutti noi.
Risorge ogni giorno, risorge quando preghiamo, quando ci comunichiamo mangiando il pane e bevendo il vino del Signore, quando risorgono in noi la carità e la speranza del futuro, quello terreno e quello extraterreno.
La storia del mondo non sarebbe quella che è se la speranza non alimentasse i nostri sforzi e la carità non illuminasse la nostra vita quotidiana.
La Resurrezione dello Spirito è la fiamma che spinge le ruote del mondo.
Lei può immaginare un mondo senza carità e senza speranza?”.
“Non lo immagino infatti.
Ma speranza e carità illuminano anche la vita dei non credenti o almeno di molti di essi.
Noi non abbiamo bisogno della fede, l’amore del prossimo, secondo me, deriva da un istinto che opera in ciascuno di noi.
È l’istinto della vita, l’istinto della socievolezza, l’istinto della sopravvivenza della specie”.
“Lei pensa che quell’istinto sia sempre presente in ogni individuo?”.
“Penso che sia sempre latente, ma sempre in contrasto con l’amore di sé.
La vita non è che un eterno contrasto tra questi due elementi.
La natura umana poggia sulla dinamica di questi due elementi”.
“Ogni volta che l’amore del prossimo vince sull’egoismo dell’amore di sé, quello è il momento in cui lo Spirito risorge.
Il fatto che lei lo chiami istinto non cambia la tessitura della vita: per me è la Resurrezione”.
“Ma non la Resurrezione dei morti”.
“Quello è un mistero della fede, un di più che ci aiuta.
Io non lo chiamo miracolo, lo chiamo necessità.
La necessità di vivere con carità e speranza”.
“Cardinal Martini lei ha conosciuto il teologo Hans Küng? Conosce la sua teologia?”.
“Eravamo tutti e due nel Concilio Vaticano II.
Abbiamo la stessa età, eravamo molto giovani allora, della stessa età di papa Wojtyla.
Poi l’ho incontrato varie volte, abbiamo discusso spesso, abbiamo un buon rapporto”.
“Küng fa un’affermazione molto netta nel suo ultimo libro.
Dice che la fede illumina la vita ma che per raggiungere la fede occorre una condizione preliminare: bisogna innanzitutto amare la vita.
Amarla d’un amore profondo.
L’amore per la vita è una condizione non sufficiente ma necessaria per la maturazione della coscienza.
Lei è d’accordo con questa posizione?”.
“Sì, sono d’accordo con Küng.
Penso anch’io che bisogna amare profondamente la vita per essere poi illuminati dalla grazia e dalla fede”.
“Tutto sta nel capire che cosa s’intenda quando si dice “amare profondamente la vita””.
“Lei che cosa ne pensa? Che cosa vuol dire?”.
“Penso a un amore responsabile.
Penso a una vita che non umilii la vita degli altri, non le rechi danno ma anzi l’arricchisca di sentimenti e maturi l’umanità che è in ciascuno di noi”.
“Questo è anche il mio pensiero di cristiano.
L’amore per la vita concepito in questo modo è appunto la condizione necessaria anche se insufficiente che può condurre alla fede.
Oppure fermarsi a quella tappa iniziale”.
“Una tappa imperfetta? Non perfettamente matura”? Capii che gli costava molto rispondere a questa mia domanda.
Poi disse con un soffio di voce: “Una stilla di divino c’è in ogni uomo.
Siamo le foglie dissimili di un unico albero.
Non spetta a me distinguere le foglie meglio riuscite.
Cristo ha detto: non giudicate”.
Pioveva a scroscio fuori dalla finestra.
Portarono le pillole per il cardinale e una tazza di tè per me.
Le tendine sui vetri erano orlate con un ricamo che mi ricordò la mia casa di bambino e l’immagine di mia madre.
Le preghiere che mi faceva recitare la sera prima del sonno.
Pensai che i credenti, quelli veri, erano rimasti un po’ bambini, ma poi scacciai subito quel pensiero.
Ti senti superiore? Mi dissi.
Sei polvere e polvere tornerai, perciò lui ha ragione: non giudicare.
Gli dissi: “Alla Resurrezione non credo, ma credo nel Golgota”.
“Stavo appunto per domandarglielo.
Mi dica”.
“Credo nel Golgota perché lì fu celebrato il sacrificio di un giusto, di un debole, di un povero.
Quel sacrificio si ripete ogni giorno ed è il vero ed unico peccato del mondo: il sacrificio, la sopraffazione, l’umiliazione del povero, del debole, del giusto.
Il Golgota raffigura il peccato del mondo”.
Il cardinale mi guardò come si guarda un catecumeno, uno sguardo che mi parve una carezza.
Notai che aveva un tic frequente all’occhio sinistro, spesso lo chiudeva ma quando lo riapriva era ancor più espressivo dell’altro.
Credo fosse l’effetto della sua sindrome parkinsoniana, la stessa malattia di papa Wojtyla.
Poi mi disse: “Sì, il Golgota rappresenta il peccato del mondo.
A volte la Chiesa si occupa di troppi peccati e non tutti nella Chiesa sanno e sentono che quello è il solo, vero peccato: la sopraffazione, l’umiliazione, il disconoscimento del proprio simile tanto più se è debole se è povero se è escluso.
E se è un giusto.
Uno che non farebbe mai cose che umiliano la dignità della persona.
Il Golgota dovrebbe essere l’inizio di un percorso penitenziale che dura tutta la vita”.
Questa frase mi colpì; non avevo pensato ad un percorso penitenziale.
Chi era coinvolto in quel percorso di penitenza? Glielo chiesi.
Rispose: “Tutto il mondo”.
“Ma il vostro Cristo non era venuto per annunciare la salvezza? Un patto rinnovato tra il Signore e gli uomini?”.
“Appunto.
Portò la consapevolezza del peccato che era stato commesso e la necessità di espiarlo attraverso la penitenza”.
“In un altro nostro incontro lei mi parlò della necessità per la Chiesa di rivisitare il sacramento della confessione.
C’è un nesso fra quel suo desiderio e quanto mi ha appena detto?”.
“La confessione dev’essere per i cristiani l’inizio di un percorso penitenziale che dura tutta la vita.
Se il peccato è quello che abbiamo definito come il vero peccato del mondo, l’espiazione non richiede soltanto il risarcimento materiale del danno; l’espiazione comporta molto di più: comporta la rieducazione del peccatore, la scoperta da parte sua di una vita diversa.
È la scoperta della gioia e del gaudio che quella vita nuova e diversa si effonde nella sua anima”.
“Cardinale, ha presente il romanzo Resurrezione di Tolstoj?”.
“Ha ragione di richiamarlo.
Quel romanzo racconta esattamente questo percorso.
Il protagonista era un ricco e giovine signore che approfitta e stupra una minorenne.
Passano gli anni e alla fine il protagonista ha perso tutto il suo patrimonio ed è condannato e deportato in Siberia, ma nella sua coscienza si è fatta strada la sofferenza per quanto ha commesso e la necessità di espiarlo.
Quando l’espiazione tocca il culmine la sua anima si apre alla consolazione e alla gioia”.
“Lei ha richiamato Tolstoj; anche Manzoni racconta un processo analogo e la gioia che viene dall’espiazione”.
“L’Innominato, il suo pentimento, l’affanno di espiare e la pace dell’anima che provoca l’espiazione”.
“La pedofilia è uno di quei peccati?”.
Non avevo ancora introdotto quel tema, mi pareva che fosse imbarazzante per un porporato affrontarlo in un colloquio con chi fa professione di giornalismo.
Ma in un certo senso era lui che mi ci aveva portato.
Infatti rispose senza esitazione.
“La pedofilia è il più grave dei peccati, non umilia soltanto la persona e il debole, ma viola addirittura l’innocente.
Aggiungo: nei casi che si sono verificati nella Chiesa i colpevoli sono addirittura sacerdoti e vescovi che hanno come primo compito quello di educare i giovani e i giovanissimi e quindi debbono frequentarli per adempiere il loro magistero.
Ci può essere peccato più grave di questo?”.
“La Chiesa però condanna il peccato ma perdona il peccatore.
Non c’è contraddizione? Il Papa ha assunto un atteggiamento assai rigoroso in questi ultimi mesi e ha anche imposto un criterio di trasparenza invitando i vescovi e i parroci a informare l’autorità giudiziaria distinguendo il reato dal peccato.
Vorrei capire se tutto ciò rappresenta un’innovazione del diritto canonico”.
“Non mi occupo di diritto canonico perché in questo caso ha ben poco rilievo.
Quanto alla denuncia del reato all’autorità giudiziaria, direi che si tratta di un atto assolutamente dovuto, la pedofilia è un grave reato in tutti i codici del mondo e va perseguito.
Ma, trattandosi di solito di persone avanti negli anni, è lecito prevedere che la pena inflitta dall’autorità giudiziaria avrebbe un’esecuzione relativamente breve.
Comunque non è quello il punto.
Ritorno al tema della penitenza e dell’espiazione.
Si perdona il peccatore che compia un percorso penitenziale che durerà quanto dura la sua vita terrena.
L’espiazione dev’essere così intensa da colmare quell’anima e da farle assumere il compito di risarcire chi ha subito il sopruso.
Dico risarcire ma non mi riferisco a risarcimenti materiali che pure sono dovuti.
Mi riferisco a un rapporto di anime.
L’anima del peccatore non avrà altro fine che redimersi, risarcire i sentimenti violati, risorgere.
Solo in quel modo ritroverà la pace e la gioia”.
Aveva parlato tutto d’un fiato gesticolando e agitandosi sulla sua poltrona; anche la voce era salita di tono, tanto che poi si abbandonò affannato e socchiuse per un momento gli occhi.
Il suo assistente, un giovane prete con un volto intelligente e modi pieni di premura, fece capolino per la seconda volta: quella pausa nella nostra conversazione lo aveva forse allarmato.
“Forse è stanco”, dissi, ma a quel punto il cardinale fece un gesto per dire che non era affatto stanco e voleva continuare.
Gli chiesi se c’erano stati nella storia della Chiesa dei santi che prima erano stati peccatori.
“Molti” rispose.
“Il fatto più significativo della loro vita è stata appunto la loro conversione dal peccato alla grazia della fede insieme all’inizio di quel percorso penitenziale che li ha accompagnati fino alla morte”.
Gli chiesi qualche nome.
“Gliene dico uno per tutti, il fondatore della nostra Compagnia, Sant’Ignazio.
Lo ha raccontato lui stesso, peccò a lungo e fortemente, per dirla con Lutero; la sua conversione fu totale, la sua espiazione lunghissima, accompagnata da un amore per la vita e per le opere tra le quali appunto la fondazione d’una Compagnia che dopo quattrocent’anni è ancora uno dei pilastri della nostra Chiesa”.
Era passata più di un’ora e capii che il nostro incontro si avviava alla fine ma avevo ancora molte cose da chiedere.
In particolare c’era un tema che mi stava a cuore: il rapporto tra la missione pastorale della Chiesa e la sua organizzazione istituzionale e gerarchica.
Insomma la Chiesa come missione e la Chiesa come centro di potere.
“Ricorda, cardinal Martini? Lei mi raccontò, in un nostro precedente incontro, che all’inizio del Conclave che elesse cinque anni fa l’attuale Pontefice lei ricordò ai suoi confratelli riuniti nella Sistina che il Conclave doveva eleggere il Vescovo di Roma.
Il Papa infatti ha quella funzione in quanto Vescovo di Roma e tale deve sempre rimanere.
Lei non mi spiegò allora il senso di quel suo discorso, vuole dirmelo adesso?”.
“Il senso può risultare oscuro per chi non opera nella Chiesa e per la Chiesa, ma per noi è chiarissimo.
I Vescovi sono i successori degli apostoli e ad essi Gesù dettò una sola missione: andate e predicate alle genti la verità e la carità, diffondete il Verbo, indicate la via.
Questa è la missione dei Vescovi, pastori di anime.
Ma Gesù sapeva anche che quella missione doveva essere racchiusa entro una guaina che ne proteggesse l’essenza e la preservasse nel corso dei secoli e dei millenni.
Quella che lei chiama istituzione è appunto la guaina organizzativa, le Congregazioni, la Curia, la finanza, i tribunali ecclesiastici.
Servono a preservare la missione pastorale che rappresenta l’essenza della Chiesa”.
“Il Papa è il Vescovo di Roma ed è il capo della missione pastorale e dell’istituzione.
E così?”.
“Il Papa è il Vescovo che siede sulla sedia che fu di Pietro.
La missione pastorale è il suo compito prevalente.
Il fatto che sia anche un teologo o un diplomatico o un organizzatore è secondario.
È e dev’essere soprattutto un pastore di anime che esercita quella vocazione insieme a tutti gli altri Vescovi”.
“Tuttavia per gran parte della sua storia la Chiesa è stata soprattutto dominata dal potere dell’istituzione, i Papi sono stati dei capi di Stato e perfino dei guerrieri.
Il potere temporale ha soverchiato la missione pastorale”.
“Non penso che l’abbia soverchiata, ma certo spesso è accaduto che il potere e la sua conservazione abbiano avuto un’importanza eccessiva e la missione pastorale ne abbia subito i contraccolpi”.
“È ancora così anche oggi?”.
“Questi difetti sussistono ancora, il potere temporale, in altre forme, è ancora una tentazione all’interno della Chiesa.
Ma quello che noi chiamiamo il popolo di Dio, i fedeli, il clero con cura di anime, le associazioni e il volontariato cattolico, costituiscono la vera guaina di custodia della nostra essenza”.
“Le faccio un’ultima domanda perché sto abusando del suo tempo.
La Chiesa per compiere la sua missione deve avere contatti con i poteri pubblici che incontra nel suo cammino.
Talvolta incontra regimi di dittatura e tirannide, altre volte regimi democratici.
Sono forme politiche indifferenti per la Chiesa oppure essa è chiamata a fare una scelta tra di loro?”.
“La Chiesa deve fare una scelta anche se deve includere sistemi politici estranei alla sua concezione.
Anzi è proprio nei territori dove la libertà e l’eguaglianza sono negate che la testimonianza della Chiesa diventa preziosa.
Ma per me non c’è dubbio: la Chiesa che rivendica la libertà religiosa, per ciò stesso condivide principi di libertà, di eguaglianza, di inclusione, di rispetto della dignità delle persone.
Questi principi valgono, debbono valere, anche all’interno della Chiesa dove il Papa esercita la sua missione insieme all’Episcopato e al popolo di Dio, nelle varie forme conciliari che la nostra organizzazione prevede”.
L’incontro era finito.
Il giovane sacerdote era rientrato per aiutare il cardinale ad alzarsi.
Io gli dissi: “La prossima volta voglio vederla saltare alla corda”.
Mi guardò sorridendo e disse: “Torni presto”.
Poi mi accarezzò il viso con un tocco leggero.
Feci altrettanto con lui.
Eravamo tutti e due un po’ commossi.
Fuori continuava a piovere.
in “la Repubblica” del 13 maggio 2010 QUANDO fissammo la data del nostro incontro il cardinale Carlo Maria Martini mi disse che il tema sul quale desiderava si svolgesse la conversazione era la Resurrezione.
Ne rimasi un po’ stupito e anche preoccupato; gli feci osservare che su quell’argomento avremmo avuto assai poco da dirci.
Se c’è un punto sul quale il non credente non ha alcuna possibilità di contatto con un cristiano doc come Martini è proprio quello.
Ma il cardinale insistette.
“Vedrà – mi disse – avremo tutti e due molte idee da scambiarci su quell’argomento.
Del resto la Resurrezione è da tempo il fulcro della mia vita e ho molta voglia di discuterne con lei”.
Ci siamo incontrati il 10 maggio scorso a Gallarate, nella casa di riposo della Compagnia di Gesù dove Martini alloggia da qualche anno dopo i mesi passati a Gerusalemme.
In due anni questa è la terza volta che vado a trovarlo.
Nel frattempo ci siamo scritti e sentiti, ormai siamo in confidenza.
Io gli voglio bene e credo che me ne voglia anche lui.
Il tempo, è vero, passa con grande rapidità, ma lui non mi è parso cambiato.
La voce si è affievolita, quella sì, è meno sonora o io son più duro d’orecchio; abbiamo avvicinato di più le poltrone sulle quali eravamo seduti.

Il viaggio apostolico in Portogallo

Se il Papa usa un aggettivo come «terrificante», di sicuro non lo fa a cuor leggero.
Soprattutto se, con quello, intende far echeggiare nelle coscienze di credenti e non credenti la dolente consapevolezza che alle persecuzioni dei «nemici di fuori» si è aggiunta quella «più grande» che «nasce dal peccato nella Chiesa».
Era martedì scorso, e Benedetto XVI stava volando verso il Portogallo; gli era stato chiesto se, nel messaggio di Fatima sulle sofferenze dei Papi, fosse possibile anche inquadrare quelle provocate dagli abusi che alcuni sacerdoti hanno compiuto nell’ultimo mezzo secolo sui più piccoli, sui bambini, e dalle ondate violente contro la Chiesa e al successore di Pietro che da questi «tradimenti» hanno preso forza.
E il Papa ha detto una parola forte di dolore.
Un dolore che in cinquecentomila, sul grande sagrato di Fatima, sono poi accorsi a lenire.
Tutto il viaggio apostolico che si è concluso ieri è stato, a ben vedere, una risposta alle domande che Fatima si porta dietro da sempre.
Nella chiave di un futuro che la Chiesa può affrontare solo con la testimonianza di fede limpida resa dai suoi figli, senza cadere nella tentazione – quasi si trattasse di un capitolo esaurito – di affidare alla «fine della storia» il messaggio consegnato dalla Vergine a Lucia, Francesco e Giacinta.
Non per niente, in modi diversi ma con identico senso, Papa Ratzinger ha sottolineato a più riprese che «si illuderebbe chi pensasse che la missione profetica di Fatima sia conclusa» e ci ha ricordato che in essa «rivive quel disegno di Dio che interpella l’umanità sin dai suoi primordi».
La tentazione, l’insidia vera, è quella che nascerebbe all’interno di una Chiesa “rilassata”, preoccupata di molto e attenta a poco, magari presa dalle forme organizzative e singolarmente restìa a servire con fedeltà la forza del Vangelo, dimentica dell’essenziale, del centro della sua missione: l’annuncio della Parola.
Non è un’idea di oggi, nel magistero di Benedetto XVI.
Dove «terrificante», certamente, è la colpa umana e il peccato cristiano della pedofilia che persone consacrate hanno compiuto, facendo violenza a minori e dando scandalo alla comunità dei credenti e armi ai nemici della Chiesa.
Ma terrificante sarebbe soprattutto la perdita di prospettiva riguardo alla missione.
È diventato via via più chiaro, sulla strada di Fatima, perché Papa Ratzinger abbia voluto così strettamente ed esplicitamente legare questa sua visita all’Anno Sacerdotale.
Perché la Chiesa «ha profondo bisogno di rimparare la penitenza, accettare la purificazione, imparare perdono ma anche la necessità della giustizia».
Questo già accade, ma deve continuare ad accadere attraverso preti autenticamente convinti della grandezza del ministero a cui sono stati chiamati.
E per questo che Benedetto ha voluto affidare alla Vergine di Fatima i 400mila sacerdoti del mondo, perché essi «rinnovino la Chiesa…
trasfigurati dalla grazia di Colui che fa nuove tutte le cose».
Questo pellegrinaggio in terra portoghese, in un momento delicato e difficile, s’è così fatto “porta”: una porta spalancata sul futuro della Chiesa.
Che, ogni giorno, avrà bisogno del sostegno della Madre del Signore per far «rifiorire il deserto delle nostre solitudini e brillare il sole sulle nostre oscurità…
tornare la calma dopo la tempesta, affinché ogni uomo veda la salvezza del Signore, che ha il nome e il volto di Gesù».
Avvenire 15 maggio 2010 LE PAROLE DEL PAPA: Messa a Porto | Incontro con la Pastorale sociale | Incontro con i vescovi | Omelia al santuario di Fatima

Ma i cristiani sono gente «felice»?

Che senso ha oggi leggere le beatitudini? Perché meditare su queste paradossali parole di Gesù? Innanzitutto, credo, per una ragione umanissima.
Nel contesto socioculturale in cui viviamo, noi cristiani siamo chiamati, oggi più che mai, a mostrare con la nostra vita cammini di umanizzazione e di salvezza percorribili da tutti gli uomini.
Ora, la maniera più efficace per scoprire questi cammini consiste nel praticare la ricerca del senso, esercizio che ai nostri giorni pare sempre più raro: è diventato difficile, soprattutto per le nuove generazioni, dare senso alla vita e alle realtà che la costituiscono, tanto che da più parti si levano voci che denunciano la «crisi del senso».
In questa situazione noi cristiani dovremmo saper mostrare a tutti gli uomini, umilmente ma risolutamente, che la vita cristiana non solo è buona, segnata cioè dai tratti della bontà e dell’amore, ma è anche bella e beata, è via di bellezza e di beatitudine, di felicità.
Chiediamocelo con onestà: il cristianesimo testimonia oggi la possibilità di una vita felice? Noi cristiani ci comportiamo come persone felici oppure sembriamo quelli che, proprio a causa della fede, portano fardelli che li schiacciano e vivono sottomessi a un giogo pesante e oppressivo, non a quello dolce e leggero di Gesù Cristo (cfr.
Mt 11,30)? In realtà mi pare che spesso ci meritiamo ancora il rimprovero rivolto ai cristiani da Friedrich Nietzsche oltre un secolo fa: [I cristiani] dovrebbero cantarmi canti migliori perché io impari a credere al loro redentore: più gioiosi dovrebbero sembrarmi i suoi discepoli! Certamente la via cristiana è esigente, richiede fatica e sforzo al fine di «entrare attraverso la porta stretta» (Lc 13,24; cfr.
Mt 7,13) ed essere conformi alla chiamata ricevuta.
Non serve ricordare le tante esortazioni pronunciate da Gesù in questo senso, condensate nel suo monito: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mc 8,34 e par.).
D’altra parte, secondo l’insegnamento di Gesù e, ancor prima, secondo il suo esempio, la vita di chi si pone alla sua sequela non solo vale la pena di essere abbracciata ma è causa di beatitudine, è fonte di felicità.
È proprio qui che si situa l’annuncio delle beatitudini, che potremmo definire il cuore dell’etica cristiana: un’etica – va detto con chiarezza – che non è tanto una legge o, peggio, una morale da schiavi, quanto uno spirito e uno stile, quello annunciato e vissuto da Gesù nella libertà e per amore, quello in cui Gesù ha trovato la felicità.
Sì, le beatitudini sono una chiamata alla felicità.
Sappiamo bene che solo quando gli uomini conoscono una ragione per cui vale la pena perdere la vita, cioè morire, essi trovano anche una ragione per spendere quotidianamente la vita e, di conseguenza, sono felici.
Ebbene, le beatitudini aiutano a scoprire questa ragione e così consentono di dare un senso alla vita, anzi conducono al «senso del senso»: Gesù proclama beati uomini e donne i quali vivono alcune precise situazioni in grado di rendere pieno di senso il loro cammino umano sulla terra e, per quanti hanno il dono della fede, in grado di facilitare il loro cammino verso la comunione con Dio.
Ma il primo e più elementare senso delle beatitudini – lo ribadisco – è la felicità, la gioia di scoprire che grazie all’assunzione consapevole di un atteggiamento, di un comportamento, si può vivere un’esistenza che, pur a caro prezzo, ha i tratti di una vera e propria opera d’arte: la povertà in spirito, il pianto, la mitezza, la fame e la sete di giustizia, la misericordia, la purezza di cuore, l’azione di pace, la persecuzione subìta a causa della giustizia, sono situazioni capaci di produrre beatitudine già qui, in questa vita, e poi nel «mondo che verrà», quello in cui Dio regna definitivamente.
Insomma, per rendere realtà la buona notizia del Vangelo occorre vivere le beatitudini.
A tale riguardo, lungo i secoli c’è sempre stato chi si è interrogato sull’attuabilità delle beatitudini, sull’effettiva possibilità che queste fossero qualcosa di più di semplici parole utopiche, prive cioè di un «luogo», di una realizzazione storica, a livello personale o comunitario.
Vi è chi ha affermato che le beatitudini valevano solo per i contemporanei di Gesù e per la prima generazione cristiana, ossia per coloro che hanno vissuto in modo irripetibile l’urgenza escatologica; vi è chi, in seguito alla svolta costantiniana e poi con particolare insistenza nel secondo millennio, ha letto le beatitudini come «consigli» riservati solo ai monaci e ai religiosi, coloro che «abbandonano il mondo»; e potremmo continuare nell’elenco di queste interpretazioni riduttive.
Oggi, come in ogni generazione, siamo chiamati a lasciar risuonare la nuda domanda: è possibile vivere le beatitudini qui e ora? A mio avviso tale interrogativo ha sempre ricevuto e può ancora ricevere una risposta positiva, non però in modo trionfale o sovraesposto, non attraverso forme eclatanti che si impongano agli occhi degli altri uomini, bensì nelle vite quotidiane, sovente nascoste, di tanti uomini e donne: persone che, nonostante le loro contraddizioni e il loro peccato, hanno cercato e cercano di seguire il Signore Gesù vivendo il suo stesso stile di vita, lo stile «scandaloso » delle beatitudini.
Sì, è sempre stato e sempre sarà possibile vivere le beatitudini.
  in “Avvenire” del 5 maggio 2010

Accettare il denudamento

  Sì, la Chiesa perde influenza, ed è una notizia bellissima! E’ anzitutto una buona notizia per me che sono una donna.
Ho constatato a suffiecienza a mie spese e a spese delle mie sorelle in umanità a qual punto la chiesa ha gravato e grava tuttora con tutto il suo peso per mantenere per quanto è possibile una logica patriarcale, ossia il dominio degli uomini sul corpo delle donne, e oltre il loro corpo, sul loro spirito, sulla loro libertà.
L’ultima trovata è stata il discorso della differenza, una fregatura intellettuale che si riassume alla fin fine nella risaputa battuta di Coluche secondo la quale «alcuni sono più uguali degli altri».
Questo motivo sarebbe sufficiente per rallegrarmi, ma ne ho anche altri.
Perché non sono tra coloro che coltivano la nostalgia di una cristianità ideale, bella come un’immagine pia, in cui la Chiesa, potenza di pace e di carità, istituisce la Tregua di Dio, porta soccorso ai poveri e ai malati e guida con sapienza degna di Salomone.
Senza risalire alle crociate, senza puntare sui roghi, io mi interrogo.
Cosa diceva la Chiesa quando tanti uomini, tante donne e tanti bambini erano gettati nella tormenta disumanizzante della indrustrializzazione nel XIX secolo? Che faceva quando migliaia di schiavi erano trattati peggio delle bestie? Ha assunto il rischio di protestare contro la sorte riservata agli ebrei dalla follia nazista? Oh, certamente, ci sono cristiani che si sono opposti in nome dell’evangelo, santi e eroi: S.
Vincenzo de Paoli, S.
Giovanni Battista de la Salle, Anne Marie Javouhey, il padre Damien, Albert de Mun, l’ Abbé Pierre e Madeleine Debrêl, per citarne solo alcuni tra la folla innumerevole di coloro che hanno messo la carità prima di ogni altra cosa.
Si ha buon gioco, a cose fatte, nel mettere a credito della Chiesa le opere dei suoi figli e delle sue figlie migliori, che tuttavia sono stati quasi sempre considerati, al loro tempo, come dei fautori di disordine.
La Chiesa, nella sua espressione istituzionale, è un potere che naturalmente si allea con i poteri.
Gli esempi storici sono così numerosi, così convergenti che è impossibile citarli.
Tutt’al più è possibile segnalare qualche raro e piccolo contro-esempio, come quello della Chiesa brasiliana, che fu, durante una ventina d’anni, risolutamente a fianco dei più poveri, sino a che Roma «ha rimesso le cose a posto».
Allora se la Chiesa perde influenza non esito a ripetere che me ne rallegro.
E io temo che alcuni vogliano trasformare la Chiesa in una lobby la cui prima funzione sarebbe la difesa degli interessi della «comunità» cattolica, la promozione della propria identità e la lotta per i propri valori.
La prima funzione della Chiesa non è quella di essere una comunità chiusa, ma una comunione.
Una comunine non difende i propri interessi, ma si apre, accoglie, incorpora.
Non promuove un «essere all’interno di sé» ma «un essere insieme» il più esteso possibile (sino all’estremità della terra e attraverso i secoli).
Quanto ai «valori», perché occorrerebbe ad ogni costo inscriverli nella legge civile al posto di poterli incidere nei cuori? Riascoltiamo i nostri predecessori, i discepoli, che avevano le stesse nostre illusioni: «Quando restaurerari il Regno di Israele?» Anche loro sognavano maggiore influenza e posizioni di forza.
Per tutta risposta ebbero il Cristo nudo, in croce.
Sogno, spero, prego perché venga il giorno in cui la Chiesa accetti il denudamento.
Quando non sarà più in nessun modo una potenza, forse potrà sperare di essere fedele al suo Signore.
Con lui e in lui sarà una semplice presenza.
Sarà al suo posto, in ginocchio ai piedi del mondo, secondo il comandamento che il Cristo le affida.
Ma questo non avverrà senza che noi anzitutto, i fedeli di Cristo, saremo umilmente al servizio dei nostri fratelli e delle nostre sorelle in umanità.
Allora, noi potremo dire in verità: la Chiesa, siamo noi.
di Christine Pedotti (editrice e cofondatrice della Conferenza dei Battezzati/e di Francia)  in “Témoignage chrétien” n.
3394 del 29 aprile 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)

Perché sono cristiano?

Nella misura in cui la fede della mia infanzia è diventata adulta, cioè consapevole di se stessa e del proprio contenuto al di là della ingenua spontaneità, è diventata per ciò stesso “critica”.
Non soltanto ho cercato di discernere i motivi del mio credere, ma ho provato piacere a nutrire la mia fede d’intelligenza, in modo tale che essa si tendesse fra due poli: un acconsentire amorevole alla Parola di Dio e un rimettere sempre tutto in questione.
La fede genera allora una “teologia”, cioè una conoscenza del mistero nella quale la ricerca s’intreccia alla certezza, in una dialettica permanente.
Più sono affascinato dal mio acconsentire, più la mia curiosità è stimolata dall’amore del mistero che così mi ha conquistato.
Questa strana forma di conoscenza si esercita in tutto il campo dell’economia giudeo-cristiana, in un messianismo che comincia con la vocazione di Abramo e continua giorno dopo giorno a partire dalla resurrezione di Cristo, che lo prolunga al di là di ogni previsione per opera dello Spirito inviato da Lui.
Il centro nevralgico di questo “mistero” si trova, non in una qualche verità eterna, ma in un “evento”: Dio entra nella storia, ma in un modo tale che l’oggetto della mia comunione divinizzante non è direttamente Dio in se stesso, nella sua trascendenza, ma un Uomo-Dio.
All’intervistatore che gli domandava chi era Dio per lui, l’arcivescovo ortodosso d’Inghilterra rispose categoricamente: È un uomo, fin nella sua dimensione politica, secondo la stessa logica dell’incarnazione.
Così, è un uomo che m’insegna come l’uomo può diventare Dio (Clemente d’Alessandria, III sec.).
Se dunque io sono cristiano, non è perché credo in un Dio-Dio, come un essere assoluto, eterno, immutabile, inconoscibile.
Il limite degli enunciati del Concilio Vaticano I è quello di essere completamente guidati dall’ossessione di provare l’esistenza di Dio con motivazioni che avrebbero dovuto confutare l’ateismo allora agli inizi.
In quella metafisica sacra si sviluppava un deismo autoritario, nel quale la religione cristiana difficilmente poteva evitare di trasformarsi in un apparato ideologico, in contrasto con la storia e con l’autonomia dell’uomo.
Lo si vide presto: Dio diventava insopportabile agli uomini, se non si faceva uomo.
Indizio di questo mutamento di prospettiva: non si parlava più di teologia, ma di “teodicea”, una teologia senza mistero, se così si può dire.
Il Concilio Vaticano II ritrova la presenza umana di Dio; questo è senz’altro il comune denominatore di tutte le sue posizioni, a cominciare dalla sua stessa costituzione.
La resistenza che la sua ispirazione e il suo dinamismo, ancor più dei suoi decreti, incontrano oggi in alcune forme di integralismo, viene proprio da questo imperialismo, sotteso alla Chiesa, a partire da Costantino fino alla Santa Alleanza.
Ecco che ritorna il Vangelo, la buona notizia dell’Uomo-Dio; la parola ritorna più di 200 volte nei testi, mentre nel Vaticano I era pronunciata solo 2 volte.
Si realizza l ‘annuncio del profeta Sofonia che mette nella bocca di Jahvè queste parole: Mi sono innamorato di voi, e voglio venire a vivere con voi: allora danzerò di gioia.
Che scompaia, secondo la decisione di Giovanni XXIII, la Chiesa degli anatemi! Se l’istituzione è necessaria, anche con la sua dimensione politica, secondo la logica stessa dell’incarnazione, allora essa non sarà altro che un servizio, un insieme di “ministeri”.
Ecco perché e come io sono cristiano, adepto di un Dio coinvolto nei mutamenti del mondo, nel nodo del mistero di Dio e del mistero dell’uomo, in una Chiesa che traccia la sua strada nell’uomo.
(Giovanni Paolo II).
in “Koinonia” n.
352 del maggio 2010

Parlare oggi dei preti

Tre impasse   In numerose pubblicazioni, interventi e manifestazioni contemporanee a proposito del presbiterato, colpiscono tre silenzi od omissioni: l’isolamento del soggetto interessato, il (falso) dibattito fra sacerdozio e presbiterato e il problema della mancanza di preti.
Dobbiamo esaminarli.
  L’isolamento come promozione   In pieno XVI secolo, quando la Scuola di Meaux, intorno al suo vescovo Briçonnet, studiava i ministeri dei preti insistendo sui loro tradizionali ruoli di pastori di un popolo e predicatori della Parola, le Chiese della Riforma conferivano ai loro animatori gli stessi titoli di “pastore” e di “predicante”.
Per mascherare questa concorrenza, la Sorbona favorì un altro approccio, ma a prezzo di una mutilazione.
Infatti, l’espressione di Rm 1,1: “Paolo…
prescelto per il Vangelo di Dio” fu amputato delle parole “per il Vangelo di Dio”.
Non restò che il “prescelto”.
Il prete diventò un “prescelto”, un “separato”, ma da cosa? Dal mondo, come un monaco, dalla sua stessa comunità da cui lo distinguevano lo stile di vita e la quotidiana ascesi del celibato.
Il progetto era nobile.
Era una reazione contro evidenti abusi di un clero poco formato (o molto letterato), pletorico e molto viaggiatore.
Le conseguenze di questa separazione furono evidenti.
Resta però da chiedersi quale ne fu il prezzo.
Questa posizione favorì decisamente lo stabilirsi di un clero come “primo ordine del Regno”.
Esso traeva la sua identità dalla propria sacralizzazione, in competizione con la nobiltà (che sottrasse le alte cariche e le finanze della Chiesa) e il terzo stato.
Due secoli dopo, le conseguenze furono drammatiche e in alcune regioni così dette scristianizzate, esse non sono ancora cessate.
Soprattutto, questa posizione prolungava la separazione medioevale fra eucarestia (che diventa il Corpo reale) e la Chiesa (società del Corpo mistico), separazione che portava all’allontanamento dei preti dal loro popolo, della Chiesa dalla Città.
Non è quindi da criticare tanto la separatezza dei preti quanto il modo di viverla, cioè i postulati impliciti che la orientano.
Osserviamo infatti che i vangeli non parlano mai del posto, né della posizione dei discepoli, ma parlano invece molto del loro comportamento: la povertà (Mc 6,8), l’umile servizio (Gv 13, 15-17), in una parola il rifiuto del potere (Lc 22, 24-27).
L’identità del prete non sta nel mettersi su di un piedistallo, ma nasce da una fraternità condivisa.
Da quel messaggio, la storia ha derivato un ordine di potenti specialisti, capi solitari della comunità.
L’uso non percepito, né criticato della categoria del sacro ha sovvertito quello della santità.
La santità distingue per unire: l’Assolutamente Altro fa un’alleanza.
Il sacro divide per regnare: esso comanda al profano.
Una cosa buona della secolarizzazione è che ci chiede di fare la distinzione.
Ora, in margine al Concilio Vaticano II, ecco un manifesto che propone una sessione per i preti.
Sei foto, tra le quali le inevitabili mani del prete che innalza l’ostia (chi fa la promozione dell’altro?): nessun esponente del popolo di Dio, nessun laico…
Sì, una donna…
che serve a tavola.
Di qui la domanda: per che popolo questi uomini sono preti? Di chi sono i pastori? È il prete “in sé”, come nel XVI secolo, automobile e computer in più, che stia in città o in campagna, in Africa o a Tokyo…
Prete standard, anonimo insomma.
Si pensa forse, costruendo simili individui, di far venir voglia a qualcuno di diventare prete? Non sarebbero che identità nomadi, collegate mediante reti, ma non legate sacramentalmente a un presbiterio.
Ci si accorge che al primo posto è lo statuto quando si nominano giovani quadri del sacro? La cosa è molto mondana…
ed è una ripresa del potere.
Il prete si ritrova scaraventato di fronte alla sua comunità, senza più legami fraterni.
Disincarnato, dunque sacralizzato.
La Chiesa perde il suo carattere di comunione di Chiese per ergersi in un grande insieme universale.
  Sacerdotale o presbiterale?   Gli anni che hanno seguito il Concilio hanno visto un acceso dibattito sulla natura del sacramento dell’ordine.
Come spesso accade, le posizioni conflittuali sono state alimentate dall’esagerata contrapposizione di due parole: il “sacerdotale” e il “presbiterale”.
Il termine ‘sacerdotale’ si rifaceva al concilio di Trento e alla dimensione sacrificale della messa.
Presbiterale sottolineava la novità dei preti del Nuovo Testamento (che ne parla poco, ad eccezione della lettera agli Ebrei) e del loro ministero pastorale.
A dire il vero, questa contrapposizione che il Vaticano II non aveva eliminato collegando i due aspetti, aveva già un suo punto d’equilibrio in Eb 13,20: “(Dio) ha fatto tornare dai morti colui che, in virtù del sangue di un’eterna alleanza, è diventato il grande pastore delle pecore”.
Sotto il dibattito teorico si celano in realtà due concezioni dei ministeri o, più esattamente, due diversi approcci.
L’uno cerca di mantenere la visione di un prete “a parte”, che esercita un potere chiaramente identificabile ed è costituito uomo del sacro.
L’altro vede i preti come più fraterni (ciò che non esclude in ogni caso il gusto del potere), mescolati al loro popolo col quale lavorano in comune.
Certo, si tratta solo di immagini, ma potenti.
All’intento metafisico della prima si contrappone la volontà di incarnazione della seconda.
Le rappresentazioni, in questo caso, agiscono con forza.
Manifestamente, la linea “sacerdotale” sta tornando alla ribalta.
Ma sotto la copertura della pietà e di una teologia vagamente riferita al Vaticano II, costituisce un tentativo di restaurare uno stile particolare di presenza nel mondo attuale.
E la cosa è tanto più problematica, in quanto deve affrontare la diminuzione del numero dei preti.
  La mancanza di preti   Quando si parla del clero, torna sempre in ballo la mancanza di preti (non si parla mai dei diaconi o dei laici impegnati).
In questo si vede il declino della Chiesa.
Le cifre sono note, ma che significano? Una mancanza si valuta in rapporto a un’organizzazione e non solo numericamente! Il criterio di valutazione deriva dal numero di campanili, cioè dalla suddivisione del territorio in parrocchie.
Una struttura storicamente contingente diventa la norma per un giudizio sulla vitalità della Chiesa.
Dovremo pur un giorno considerare l’impatto del sistema parrocchiale sulla concezione del ministero presbiterale.
Canonicamente indipendente, fondamentalmente centripeta, una parrocchia trasforma il suo pastore nel capo della sua organizzazione e del suo funzionamento.
Come un contadino, il parroco coltiva sulle sue terre quello che vuole e che gli sembra conveniente.
Così i ministeri si ritrovano identificati con altrettante circoscrizioni quasi indipendenti.
Non basta diminuire il numero delle parrocchie e ingrandire il loro ambito; il prete diventerebbe solo più centralizzatore, a patto che avesse le capacità di comandare su uno spazio così grande.
Certo, ci sono dei laici che lo aiutano, ma come assistenti, intermediari o delegati, senza una vera responsabilità, poiché la grandezza del territorio considerato richiede operatori stabili che ne possano conoscere le componenti.
Lavorare con dei laici presuppone una scala di grandezza che favorisca un impegno con la piena conoscenza del terreno.
Bisogna cambiare dunque il funzionamento della parrocchia.
E per questo si richiede di vedere con altro occhio i ministeri dei preti.
È questo rinnovamento che si nasconde dietro la questione del numero: la mancanza non è una fatalità, ma l’occasione per creare un nuovo tipo di funzionamento adatto a questo tempo.
Parlare oggi dei preti di Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers Non c’è Chiesa senza preti”.
La famosa frase di San Girolamo suona come uno slogan.
Infatti, non dice niente sul numero di preti richiesto, sui ministeri da assolvere, né sul loro comportamento.
Uno slogan impedisce di porsi domande: quella frase serve a bloccare le ricerche sulle nuove maniere di esercitare il presbiterato o di porre i preti davanti ai nuovi ministeri, sul diaconato e sulle cariche ricoperte dai laici.
È una frase conservatrice.
I problemi attuali non riguardano tanto la necessaria esistenza dei preti quanto la natura e le forme dei loro servizi – che non è affatto la stessa cosa.
Trascurare le condizioni di esercizio dei ministeri per attaccarsi al solo fatto che esistano, fa sì che si passi dal plurale usato dal Vaticano II (“i preti”) a uno strano singolare (“il prete”), quindi a conservare un’unica forma.
Non molto tempo fa IL ministero s’identificava col solo ministero di parroco o viceparroco, al punto che al cappellano di un liceo e di un movimento poteva essererivolta questa domanda: “Quando entrerà nel ministero?”.
Questa estrema semplificazione deriva in gran parte dal regime dei benefizi legati a un territorio, la parrocchia, e sancito in modo definitivo dal concilio di Trento che, avendo un gran bisogno di ristabilire un ordine e una disciplina allentati, doveva anche confrontarsi con le comunità della Riforma.
La crisi protestante è passata come pure il mondo contadino del XVI secolo.
I problemi attuali sono molto diversi! Le cautele del concilio di Trento venivano da una lunga evoluzione.
Le lettere paoline menzionano numerosi incarichi nelle Chiese (per es.
Ef 4,11).
Anche se gli esegeti divergono sul significato da dare a ogni funzione e anche sul loro contenuto, due punti sono però certi: innanzitutto, che molti titoli (servi, collaboratori, custode, pastore ecc.) non hanno, in se stessi, originariamente una valenza religiosa, e poi che effettivamente esisteva una pluralità di servizi.
Progressivamente, questa diversità si riduce al solo presbiterato, così che gli incarichi diventano degli scalini per avanzare di grado verso l’ordinazione a prete.
Ostiario, esorcista, lettore, accolito e perfino diacono fino al Vaticano II sono incarichi che servono da preparazione verso un sacerdozio che, di fatto, ha confiscato tutte le funzioni – quindi il potere – nella comunità che è diventata la parrocchia.
Numerose contingenze storiche, finanziarie, materiali hanno favorito questo accentramento.
Ma, dal momento che il Vaticano II stabilisce il diaconato permanente e riconosce esercizi ministeriali da affidare a battezzati, per es.
i ministeri istituiti, si può dire che queste contingenze sono condizionanti in modo definitivo? È possibile oggi esaminare i ministeri dei preti senza riorganizzare la realtà degli altri ministeri, compreso quello del vescovo? Tra il presbiterato e l’episcopato, il Medio Evo vedeva una distinzione legata più al governo che al sacramento, dato che i due ministeri avevano lo stesso potere di consacrare l’eucarestia.
Ritornando alla sacramentalità della Chiesa ed affermando la natura sacramentale dell’ordinazione a vescovo, il Vaticano II apre nuove prospettive, più vicine alle origini del cristianesimo che a un sistema scolastico dipendente in gran parte da un particolare momento culturale.


“Testimoni digitali”

Benedetto XVI parlando ai partecipanti al convegno «Testimoni digitali», promosso dalla Cei, ha indicato le potenzialità e i rischi dei nuovi supporti mediatici.
L’informazione digitale secondo il Papa è una grande opportunità, anche di evangelizzazione, ma se perde la centralità e il rispetto della persona, rischia di diventare strumento «di omologazione e controllo, di relativismo intellettuale e morale».
«La Rete manifesta una vocazione aperta, tendenzialmente egualitaria e pluralista, ma nel contempo segna un nuovo fossato: si parla, infatti, di digital divide.
Esso separa gli inclusi dagli esclusi e va ad aggiungersi agli altri divari, che già allontanano le nazioni tra loro e anche al loro interno», ha poi detto il Pontefice.
«Aumentano pure i pericoli di omologazione e di controllo, di relativismo intellettuale e morale…
Si assiste allora a un ‘inquinamento dello spirito», ha aggiunto il Papa, sottolineando il rischio di «smarrire la percezione della profondità delle persone e appiattirci sulla loro superficie».
Per evitare questi rischi, ha detto Papa Benedetto XVI, occorre che i media “siano centrati sulla promozione della dignità delle persone e dei popoli, siano espressamente animati dalla carità e siano posti al servizio della verità, del bene e della fraternità naturale e soprannaturale”.
Allegati: IL TESTO INTEGRALE DEL DISCORSO DEL PAPA Un umanesimo dà luce al mondo digitale di Alessandro Zaccuri Un nuovo umanesimo digitale L’intervento del cardinal Bagnasco Generazione di protagonisti

Walter Kasper: “È questa la tolleranza zero annunciata dal Santo Padre”

Cardinale Kasper, Presidente del Pontificio consiglio per l´unità dei cristiani, ma anche membro di altri importanti dicasteri (Dottrina della Fede, Supremo Tribunale per la Signatura apostolica, Testi legislativi, Cultura), il cardinale Walter Kasper (77 anni) è il tedesco più potente in Vaticano dopo papa Ratzinger ed il suo fido segretario personale, monsignor George Gaenswaen.
Cardinale Kasper, tre vescovi costretti a dimettersi negli ultimi 2 giorni per lo scandalo della pedofilia.
Questo significa che il pugno di ferro della Santa Sede incomincia a farsi sentire? «No, niente pugni.
E´ semplicemente l´applicazione di quella tolleranza zero più volte annunciata con fermezza dal Santo Padre ed ora applicata senza esitazione.
E´ la Chiesa cattolica che fa pulizia al suo interno, che si purifica, che chiede perdono.
E´ la risposta concreta ad un dramma tanto grave come la pedofilia che ha colpito tante vittime innocenti per colpa di sacerdoti che hanno tradito la loro promessa di servire Dio aiutando i più deboli».
Di fronte alle notizie sulle dimissioni a catena di vescovi travolti dai casi di pedofilia, non sembra sorpreso: «E´ la prova – dice – che la Chiesa è decisa a combattere un male tanto orribile non solo a parole, ma con fatti ed atti concreti».
Ieri un vescovo irlandese ed uno tedesco.
Il giorno precedente un altro presule americano.
E sempre per lo stesso motivo.
Nei prossimi giorni ci saranno altre dimissioni forzate? «Non posso commentare i singoli casi perché sono vicende che non conosco in prima persona.
E, tantomeno, preannunziare cosa succederà in un futuro più o meno prossimo.
E´ bene lasciare lavorare gli organi preposti della Santa Sede e le Chiese locali.
Il futuro si vedrà.
Ma una cosa è certa, la Chiesa non lascerà nulla di intentato per estirpare al suo interno una metastasi tanto orribile e vergognosa come è la pedofilia tra il clero.
E´, in sostanza, l´applicazione di quella tolleranza zero più volte annunciata ed invocata».
Tolleranza zero voluta da papa Ratzinger, malgrado qualche tentativo di opposizione di una parte del collegio cardinalizio? «E´ proprio quella fermezza che vuole il Santo Padre, il quale quando chiede perdono per gli abusi sulle vittime e invoca la giustizia per i colpevoli non lo fa solo a parole, ma con fatti ed interventi concreti.
Come stiamo vedendo proprio in questi giorni.
Ma non dimentichiamo mai che il Santo Padre sa che è circondato dal calore di tutta la Chiesa, dove non c´è nessuno che non gli sia grato per la sua grande opera di pulizia e di purificazione avviata per depurarla dalle scorie degli scandali».
Eppure c´è ancora chi accusa il Vaticano e Benedetto XVI di non aver fatto molto, sia ieri che oggi, per estirpare i preti pedofili dal corpo della Chiesa.
«Non è vero che il Papa parla soltanto e non fa niente di concreto.
I fatti di questi giorni lo stanno a dimostrare.
E´ vero, invece, che la Chiesa cattolica, sotto la guida di Benedetto XVI, è fermamente intenzionata a fare pulizia, chiarezza, penitenza, isolando i colpevoli e facendo un salutare percorso di purificazione.
Senza mai dimenticare il dolore e le sofferenze che sacerdoti infedeli hanno inferto a piccole vittime innocenti.
La Chiesa cattolica lo sta facendo alla luce del sole.
Ma sarebbe necessario che anche altre istituzioni facessero altrettanto se veramente si vuole combattere la pedofilia».

Linearità e chiarezza della Chiesa sugli abusi sessuali

Da ieri, sul sito web della Santa Sede si può leggere il documento riprodotto qui sotto, che riassume le procedure in uso da alcuni anni nella Chiesa cattolica nei casi di abuso sessuale su minori ad opera di persone con i sacri ordini.
Per minori si intendono le persone con meno di 18 anni, mentre per atti di pedofilia si intendono gli abusi compiuti su bambini impuberi.
Sulle circa tremila denunce arrivate alla congregazione per la dottrina della fede  dal 2001 a oggi, per abusi su minori commessi negli ultimi cinquant’anni, i casi di pedofilia vera e propria sono il 10 per cento del totale.
Il 60 per cento dei casi sono di attrazione sessuale per adolescenti dello stesso sesso, mentre il restante 30 per cento riguarda rapporti con giovanissime.
La maggior parte dei casi affrontati si sono conclusi con una sanzione amministrativa e disciplinare a carico dell’imputato: procedura più rapida ed efficace di quando si celebra un vero e proprio processo.
Per la denuncia degli abusi alle autorità civili la Santa Sede ordina di seguire le leggi del luogo.
Ciò vuol dire che nei paesi di cultura giuridica anglosassone e in Francia la denuncia è obbligatoria.
Mentre dove non lo è, la Santa Sede incoraggia le vittime a rivolgersi esse stesse ai tribunali.
Le future modifiche annunciate nell’ultimo paragrafo del documento riguardano in particolare l’abolizione dei termini di prescrizione, che dal 2001 sono di 10 anni,  da contarsi a partire dal compimento dei 18 anni della vittima.
Già oggi, però, la prescrizione non è tassativa e le denunce sono accolte anche per atti più lontani nel tempo.
Come richiamato nel suo primo capoverso, il presente testo è “una guida introduttiva che può essere d’aiuto a laici e non canonisti”.
Ma ecco qui di seguito la sintesi delle linee guida diramata ieri: __________ GUIDA ALLA COMPRENSIONE DELLE PROCEDURE DI BASE DELLA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE (CDF) RIGUARDO ALLE ACCUSE DI ABUSI SESSUALI La disposizione che deve essere applicata è il motu proprio “Sacramentorum sanctitatis tutela”  del 30 aprile 2001 insieme al Codice di Diritto Canonico del 1983.
La presente è una guida introduttiva che può essere d’aiuto a laici e non canonisti.
A.
Procedure preliminari La diocesi indaga su qualsiasi sospetto di abusi sessuali da parte di un religioso nei riguardi di un minore.
Qualora il sospetto abbia verosimiglianza con la verità, il caso viene deferito alla Cdf.
Il vescovo locale trasmette ogni informazione necessaria alla Cdf ed esprime la propria opinione sulle procedure da seguire e le misure da adottare a breve e a lungo termine.
Va sempre dato seguito alle disposizioni della legge civile per quanto riguarda il deferimento di crimini alle autorità preposte.
Nella fase preliminare e fino a quando il caso sia concluso, il vescovo può imporre misure precauzionali per la salvaguardia della comunità, comprese le vittime.
In realtà, al vescovo locale è sempre conferito il potere di tutelare i bambini limitando le attività di qualsiasi sacerdote nella sua diocesi.
Questo rientra nella sua autorità ordinaria, che egli è sollecitato a esercitare in qualsiasi misura necessaria per garantire che i bambini non ricevano danno, e questo potere può essere esercitato a discrezione del vescovo prima, durante e dopo qualsiasi procedimento canonico.
B.
Procedure autorizzate dalla Cdf La Cdf studia il caso presentato dal vescovo locale e, dove necessario, richiede informazioni supplementari.
La Cdf ha a disposizione una serie di opzioni: 1.
Processi penali La Cdf può autorizzare il vescovo locale a condurre un processo penale giudiziario davanti a un Tribunale ecclesiale locale.
Qualsiasi appello in casi simili dovrà essere eventualmente presentato a un tribunale della Cdf.
La Cdf può autorizzare il vescovo locale a istruire un processo penale amministrativo davanti a un delegato del vescovo locale, assistito da due assessori.
Il sacerdote accusato è chiamato a rispondere alle accuse e a esaminare le prove.
L’accusato ha il diritto di presentare ricorso alla Cdf contro un decreto che lo condanni a una pena canonica.
La decisione dei cardinali membri della Cdf è definitiva.
Qualora il sacerdote venga giudicato colpevole, i due procedimenti — giudiziario e amministrativo penale — possono condannarlo a un certo numero di pene canoniche, la più seria delle quali è la dimissione dallo stato clericale.
Anche la questione dei danni subiti può essere trattata direttamente durante queste procedure.
2.
Casi riferiti direttamente al Santo Padre In casi particolarmente gravi, in cui processi civili criminali abbiano ritenuto colpevole di abusi sessuali su minori un religioso, o in cui le prove siano schiaccianti, la Cdf può scegliere di portare questo caso direttamente al Santo Padre con la richiesta che il Papa emetta un decreto di dimissione dallo stato clericale «ex officio».
Non esiste ricorso canonico dopo un simile decreto papale.
La Cdf porta al Santo Padre anche richieste di sacerdoti accusati che, consapevoli dei crimini commessi, chiedano di essere dispensati dagli obblighi del sacerdozio e chiedano di tornare allo stato laicale.
Il Santo Padre concede tale richiesta per il bene della Chiesa («pro bono Ecclesiae»).
3.
Misure disciplinari In quei casi in cui il sacerdote accusato abbia ammesso i propri crimini e abbia accettato di vivere una vita di preghiera e penitenza, la Cdf autorizza il vescovo locale a emettere un decreto che proibisce o limita il ministero pubblico di tale sacerdote.
Tali decreti sono imposti tramite un precetto penale che comprendono una pena canonica per la violazione delle condizioni del decreto, non esclusa la dimissione dallo stato clericale.
Contro questi decreti è possibile il ricorso alla Cdf.
La decisione della Cdf è definitiva.
C.
La revisione del motu proprio La Cdf ha in corso una revisione di alcuni articoli del motu proprio “Sacramentorum sanctitatis tutela”, al fine di aggiornare il suddetto motu proprio del 2001 alla luce delle speciali facoltà riconosciute alla Cdf dai Pontefici Giovanni Paolo ii e Benedetto xvi.
Le modifiche proposte e sotto discussione non cambieranno le suddette procedure.
__________ Le linee guida originali e complete, del 2003, possono essere lette, in inglese, nel sito del Vaticano, dove figurano con la firma di mondignor Charles J.
Scicluna, promotore di giustizia della congregazione per la dottrina della fede: > The Procedure and Praxis of the Congregation for the Doctrine of the Faith regarding “Graviora Delicta”