Il papa a Cipro porta la sua croce con letizia

Cari fratelli e sorelle in Cristo, il Figlio dell’Uomo deve essere innalzato, affinché chiunque crede in lui abbia la vita eterna (cfr.
Giovanni 3, 14-15).
In questa messa adoriamo e lodiamo il nostro Signore Gesù Cristo, poiché con la sua santa croce ha redento il mondo.
Con la sua morte e risurrezione ha spalancato le porte del cielo e ci ha preparato un posto, affinché a noi, suoi seguaci, venga donato di partecipare alla sua gloria.
Nella gioia della vittoria redentrice di Cristo, saluto tutti voi riuniti nella chiesa della Santa Croce e vi ringrazio per la vostra presenza.
[…] Qui a Cipro, terra che fu il primo porto di approdo dei viaggi missionari di san Paolo attraverso il Mediterraneo, giungo oggi fra voi, sulle orme di quel grande apostolo, per rinsaldarvi nella vostra fede cristiana e per predicare il Vangelo che offre vita e speranza al mondo.
Il centro della celebrazione odierna è la croce di Cristo.
Molti potrebbero essere tentati di chiedere perché noi cristiani celebriamo uno strumento di tortura, un segno di sofferenza, di sconfitta e di fallimento.
È vero che la croce esprime tutti questi significati.
E tuttavia a causa di colui che è stato innalzato sulla croce per la nostra salvezza, rappresenta anche il definitivo trionfo dell’amore di Dio su tutti i mali del mondo.
Vi è un’antica tradizione che il legno della croce sia stato preso da un albero piantato da Seth, figlio di Adamo, nel luogo dove Adamo fu sepolto.
In quello stesso luogo, conosciuto come il Golgota, il luogo del cranio, Seth piantò un seme dall’albero della conoscenza del bene e del male, l’albero che si trovava al centro del giardino dell’Eden.
Attraverso la provvidenza di Dio, l’opera del Maligno sarebbe stata sconfitta ritorcendo le sue stesse armi contro di lui.
Ingannato dal serpente, Adamo ha abbandonato la filiale fiducia in Dio ed ha peccato mangiando i frutti dell’unico albero del giardino che gli era stato proibito.
Come conseguenza di quel peccato entrarono nel mondo la sofferenza e la morte.
I tragici effetti del peccato, e cioè la sofferenza e la morte, divennero del tutto evidenti nella storia dei discendenti di Adamo.
Lo vediamo dalla prima lettura di oggi (Numeri 21, 4-9), che fa eco alla caduta e prefigura la redenzione di Cristo.
Come punizione dei propri peccati, il popolo di Israele, mentre languiva nel deserto, venne morso dai serpenti ed avrebbe potuto salvarsi dalla morte solo volgendo lo sguardo al simbolo che Mosè aveva innalzato, prefigurando la croce che avrebbe posto fine al peccato e alla morte una volta per tutte.
Vediamo chiaramente che l’uomo non può salvare se stesso dalle conseguenze del proprio peccato.
Non può salvare se stesso dalla morte.
Soltanto Dio può liberarlo dalla sua schiavitù morale e fisica.
E poiché Dio ha amato così tanto il mondo, ha inviato il suo Figlio unigenito non per condannare il mondo – come avrebbe richiesto la giustizia – ma affinché attraverso di lui il mondo potesse essere salvato.
L’unigenito Figlio di Dio avrebbe dovuto essere innalzato come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così che quanti avrebbero rivolto lo sguardo a lui con fede potessero avere la vita.
Il legno della croce divenne lo strumento per la nostra redenzione, proprio come l’albero dal quale era stato tratto aveva originato la caduta dei nostri progenitori.
La sofferenza e la morte, che erano conseguenze del peccato, divennero il mezzo stesso attraverso il quale il peccato fu sconfitto.
L’agnello innocente fu sacrificato sull’altare della croce, e tuttavia dall’immolazione della vittima scaturì una vita nuova: il potere del maligno fu distrutto dalla potenza dell’amore che sacrifica se stesso.
La croce, pertanto, è qualcosa di più grande e misterioso di quanto a prima vista possa apparire.
Indubbiamente è uno strumento di tortura, di sofferenza e di sconfitta, ma allo stesso tempo esprime la completa trasformazione, la definitiva rivincita su questi mali, e questo lo rende il simbolo più eloquente della speranza che il mondo abbia mai visto.
Parla a tutti coloro che soffrono – gli oppressi, i malati, i poveri, gli emarginati, le vittime della violenza – ed offre loro la speranza che Dio può trasformare la loro sofferenza in gioia, il loro isolamento in comunione, la loro morte in vita.
Offre speranza senza limiti al nostro mondo decaduto.
Ecco perché il mondo ha bisogno della croce.
Essa non è semplicemente un simbolo privato di devozione, non è un distintivo di appartenenza a qualche gruppo all’interno della società, ed il suo significato più profondo non ha nulla a che fare con l’imposizione forzata di un credo o di una filosofia.
Parla di speranza, parla di amore, parla della vittoria della non violenza sull’oppressione, parla di Dio che innalza gli umili, dà forza ai deboli, fa superare le divisioni, e vincere l’odio con l’amore.
Un mondo senza croce sarebbe un mondo senza speranza, un mondo in cui la tortura e la brutalità rimarrebbero sfrenati, il debole sarebbe sfruttato e l’avidità avrebbe la parola ultima.
L’inumanità dell’uomo nei confronti dell’uomo si manifesterebbe in modi ancor più orrendi, e non ci sarebbe la parola fine al cerchio malefico della violenza.
Solo la croce vi pone fine.
Mentre nessun potere terreno può salvarci dalle conseguenze del nostro peccato, e nessuna potenza terrena può sconfiggere l’ingiustizia sin dalla sua sorgente, tuttavia l’intervento salvifico del nostro Dio misericordioso ha trasformato la realtà del peccato e della morte nel suo opposto.
Questo è quanto celebriamo quando diamo gloria alla croce del Redentore.
Giustamente sant’Andrea di Creta descrive la croce come “più nobile e preziosa di qualsiasi cosa sulla terra […], poiché in essa e mediante di essa e per essa tutta la ricchezza della nostra salvezza è stata accumulata e a noi restituita” (Oratio X, PG 97, 1018-1019).
Cari fratelli sacerdoti, cari religiosi, cari catechisti, il messaggio della croce è stato affidato a noi, così che possiamo offrire speranza al mondo.
Quando proclamiamo Cristo crocifisso, non proclamiamo noi stessi, ma lui.
Non offriamo la nostra sapienza al mondo, non parliamo dei nostri propri meriti, ma fungiamo da canali della sua sapienza, del suo amore, dei suoi meriti salvifici.
Sappiamo di essere semplicemente dei vasi fatti di creta e, tuttavia, sorprendentemente siamo stati scelti per essere araldi della verità salvifica che il mondo ha bisogno di udire.
Non stanchiamoci mai di meravigliarci di fronte alla grazia straordinaria che ci è stata data, non cessiamo mai di riconoscere la nostra indegnità, ma allo stesso tempo sforziamoci sempre di diventare meno indegni della nostra nobile chiamata, in modo da non indebolire mediante i nostri errori e le nostre cadute la credibilità della nostra testimonianza.
In questo Anno Sacerdotale permettetemi di rivolgere una parola speciale ai sacerdoti oggi qui presenti e a quanti si preparano all’ordinazione.
Riflettete sulle parole pronunciate al novello sacerdote dal Vescovo, mentre gli presenta il calice e la patena: “Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai, conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore”.
Mentre proclamiamo la croce di Cristo, cerchiamo sempre di imitare l’amore disinteressato di colui che offrì se stesso per noi sull’altare della croce, di colui che è allo stesso tempo sacerdote e vittima, di colui nella cui persona parliamo ed agiamo quando esercitiamo il ministero ricevuto.
Nel riflettere sulle nostre mancanze, sia individualmente sia collettivamente, riconosciamo umilmente di aver meritato il castigo che lui, l’Agnello innocente, ha patito in nostra vece.
E se, in accordo con quanto abbiamo meritato, avessimo qualche parte nelle sofferenze di Cristo, rallegriamoci, perché ne avremo una felicità ben più grande quando sarà rivelata la sua gloria.
Nei miei pensieri e nelle mie preghiere mi ricordo in modo speciale dei molti sacerdoti e religiosi del Medio Oriente che stanno sperimentando in questi momenti una particolare chiamata a conformare le proprie vite al mistero della croce del Signore.
Dove i cristiani sono in minoranza, dove soffrono privazioni a causa delle tensioni etniche e religiose, molte famiglie prendono la decisione di andare via, e anche i pastori sono tentati di fare lo stesso.
In situazioni come queste, tuttavia, un sacerdote, una comunità religiosa, una parrocchia che rimane salda e continua a dar testimonianza a Cristo è un segno straordinario di speranza non solo per i cristiani, ma anche per quanti vivono nella Regione.
La loro sola presenza è un’espressione eloquente del Vangelo della pace, della decisione del Buon Pastore di prendersi cura di tutte le pecore, dell’incrollabile impegno della Chiesa al dialogo, alla riconciliazione e all’amorevole accettazione dell’altro.
Abbracciando la croce loro offerta, i sacerdoti e i religiosi del Medio Oriente possono realmente irradiare la speranza che è al cuore del mistero che celebriamo nella liturgia odierna.
Rinfranchiamoci con le parole della seconda lettura di oggi  (Filippesi 2, 5-11), che parla così bene del trionfo riservato a Cristo dopo la morte in croce, un trionfo che siamo invitati a condividere.
“Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni altro nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra”.
Sì, amati fratelli e sorelle in Cristo, lungi da noi la gloria che non sia quella nella croce di Nostro Signore Gesù Cristo (cfr.
Galati 6, 14).
Lui è la nostra vita, la nostra salvezza e la nostra risurrezione.
Per lui noi siamo stati salvati e resi liberi.
__________ Il programma e i testi della visita di Benedetto XVI a Cipro, nel sito del Vaticano: > Viaggio apostolico a Cipro, 4-6 giugno 2010

“Dialogo con i fratelli musulmani”

«Questo fatto non può essere attribuito alla Turchia e ai turchi, e non deve oscurare il dialogo».
In viaggio verso l’isola di Cipro divisa fra greci e turchi, il Papa toglie qualsiasi possibile responsabilità di Ankara nell’omicidio di monsignor Luigi Padovese, ucciso l’altro ieri a coltellate dal suo autista a Iskenderun, e anzi rilancia il rapporto con l’Islam.
«Non si tratta – spiega Benedetto XVI in volo, prima di scendere all’aeroporto di Paphos e concludere la giornata nella capitale Nicosia – di assassinio politico o a sfondo religioso.
L’atto sembra legato a questioni personali.
Aspettiamo nuove informazioni.
Ma l’omicidio di monsignor Padovese non ha nulla a che fare con il viaggio apostolico a Cipro, né con il fondamentalismo islamico; soprattutto, non getta ombra alcuna sulla prosecuzione del dialogo con l’Islam».
Un messaggio chiaro, dunque, lanciato alla Turchia e al mondo islamico, nel primo giorno della delicata visita apostolica nell’isola, la prima di un Pontefice a Cipro.
Delicato doppiamente, perché giunge pochi giorni dopo il clamoroso blitz israeliano contro le navi dirette a Gaza e partite proprio dai porti turchi e da Cipro; e perché svolto poche ore dopo il giallo tuttora aperto dell’assassinio di Padovese, vicario apostolico dell’Anatolia.
Il Papa ha anzi espresso il suo «incoraggiamento al dialogo con i fratelli musulmani».
«Il nostro impegno – ha proseguito – è quello di continuare con una visione comune e nonostante tutti i problemi nel dialogo con loro».
E circa le tensioni innescate dalla vicenda della flottiglia bloccata da Israele verso Gaza, il Pontefice ha invitato tutti «alla pazienza» e «al coraggio di ricominciare».
Joseph Ratzinger è stato accolto nel grande spiazzo delle rovine di Paphos dall’arcivescovo Chrysostomos II.
E il capo della comunità ortodossa greco cipriota, nel suo discorso, si è lanciato davanti al Pontefice in un duro attacco ad Ankara.
«La Turchia – ha detto l’alto prelato ortodosso – sta realizzando un piano di distruzione nazionale.
Ha espulso tutti i cristiani e ha portato e continua a portare migliaia di coloni dall’Anatolia.
Nel concludere la sua orazione parlando del «martirio» a cui sarebbe sottoposta oggi la sua Chiesa, Chrysostomos ha poi chiesto un intervento diretto del Vaticano: «Cipro e la sua Chiesa – ha invocato – stanno vivendo il loro momento storico più difficile.
Santità, il nostro popolo che soffre e lotta sotto la guida dei governanti, chiede a voi una cooperazione attiva.
Riponiamo molte speranze nel vostro aiuto».
Ma il Papa è rimasto in silenzio, e non ha risposto in pubblico all’appello lanciando, piuttosto, un’esortazione per l’ecumenismo tra i cristiani.
Così qualche imbarazzo diplomatico potrebbe ora suscitare l’intenzione di Ratzinger di incontrare, come anticipato ieri da Repubblica, i rappresentanti della comunità turco-cipriota, non riconosciuti a livello internazionale.
Nei giorni scorsi, alcuni vescovi ortodossi oltranzisti avevano usato termini caustici nei confronti del Papa cattolico in arrivo, tacciandolo addirittura come «eretico».
La Segreteria di Stato vaticana ha dunque attentamente considerato l’opportunità di un eventuale incontro con il capo dello Stato del Nord di Cipro, il neo eletto Dervis Eroglu, dopo la richiesta pervenuta alla Santa Sede sia dalla capitale turco cipriota Lefkosa, con l’incoraggiamento del governo di Ankara e l’interessamento dell’ambasciata turca presso il Vaticano.
Alla fine la decisione è che non esistono motivi per chiudere la porta in faccia ai turco ciprioti, tanto più in questo momento delicato nelle relazioni fra Ankara e Santa Sede.
Difatti ieri sera, nel briefing conclusivo della giornata, il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, ha detto che vi è una «concreta possibilità» che Benedetto XVI incontri, fra oggi e domani, anche i rappresentanti politici e religiosi musulmani, cioè il Presidente e il Gran Muftì locale, della comunità turco-cipriota.
Ratzinger non andrà nell’autoproclamata Repubblica del Nord ma, ha spiegato chiaramente Lombardi, «egli prega, parla e pensa a tutta la popolazione dell’isola».
in “la Repubblica” del 5 giugno 2010

Una meditazione pittorica sul Corpus Domini

Una straordinaria immagine seicentesca invita a meditare il mistero, al contempo sacramentale ed ecclesiale, del “Corpo di Cristo”, nonché la collocazione liturgica della solennità del Corpus Domini dopo la domenica della Santissima Trinità:  la pala della Trinità di Gasparo Narvesa, eseguita come pala d’altare per l’omonima chiesa della città natale dell’artista, Pordenone, su commissione di una confraternita pure essa dedicata al Dio uno e trino.
Ideata per un altare, la pala fa vedere – subito sopra il livello della mensa su cui il dipinto doveva poggiare – un sacerdote in ginocchio che indossa i paramenti liturgici e tiene in mano l’ostia consacrata; intorno a lui, similmente inginocchiati, sono i membri della confraternita nel loro saio rosso, con lo stendardo e i ceroferari professionali.
Quando si celebrava la messa, all’elevazione dell’ostia si veniva così a creare una doppia immagine:  il celebrante vero all’altare vero e i confratelli nella chiesa vera, e poi gli stessi raffigurati in preghiera intorno al sacerdote in adorazione del Corpus Domini sacramentale.
 L’intera parte inferiore della pala “fotografava” cioè l’orante raccoglimento dei confratelli e del sacerdote davanti al Cristo eucaristico, rendendo manifesta la loro fede cattolica nella sua reale presenza.
Del resto l’opera fu eseguita appena cinquant’anni dopo il concilio di Trento, nel 1611, e a Pordenone, cioè in un Veneto allora preoccupato di contrastare l’avanzata del protestantesimo.
Nonostante il loro atteggiamento adorante, però, il sacerdote e diversi dei confratelli non guardano l’ostia; alzano piuttosto gli occhi al cielo dove contemplano Cristo inchiodato a una croce presentata al Padre da angeli.
Il volto sofferente del Figlio è girato verso quello compassionevole del Padre e i loro sguardi s’incrociano, mentre appena sopra le due teste aleggia lo Spirito Santo in forma di colomba.
È a questo secondo livello della composizione, infatti, che il vero messaggio dell’immagine diventa chiaro:  non solo la fede eucaristica dei confratelli, ma la messa celebrata all’altare sottostante come espressione terrena di una liturgia celeste in cui il corpo crocifisso del Figlio è per l’eternità offerto al Padre in sacrificio gradito.
Il carattere specificamente “sacrificale” dell’offerta di sé compiuta da Cristo – e quindi anche della messa che ne rende presente il contenuto nel pane e vino – viene sottolineato poi dal piviale sacerdotale indossato da Dio Padre.
L’evidente attualità di quest’enfatizzazione dottrinale – della presentazione dell’Eucaristia come “sacrificio” in un’epoca che vedeva contestata tale definizione in ambito protestante – non è però l’elemento nuovo della pala d’altare di Narvesa.
Nuovo piuttosto è l’intenso rapporto interpersonale tra Figlio e Padre visibile sopra l’ostia in mano al sacerdote nel dipinto, e sopra l’ostia e il calice veri ogni volta che si diceva messa davanti all’immagine.
In un periodo in cui il protestantesimo tacciava la messa cattolica di spettacolarità, Gasparo Narvesa presenta l’ostia adorata dai confratelli come reale presenza dell’obbedienza del Figlio, che aveva pregato perché gli venisse tolto il calice della passione, accettando però la volontà del Padre (Luca, 22, 42); e dell’amore di Questi, che al suo Figlio rifiutò tale grazia.
San Paolo spiegherà il rifiuto del Padre della preghiera di Gesù dicendo che lo stesso Dio che aveva risparmiato Isacco, figlio di Abramo, “non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi” (Romani, 8, 32), e il quarto Vangelo specificherà che “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto ma abbia la vita eterna” (Giovanni, 3, 16).
Non a caso, nel dipinto di Narvesa Dio Padre tiene una grande sfera di cristallo davanti al Figlio come per dire a Lui:  “Ti chiedo di accettare la morte perché il mondo che ho creato possa vivere!”.
Così l’Eucaristia, che è il soggetto palese della pala, è rivelata come luogo della preghiera non solo dei cristiani ma di Cristo stesso e perfino del Padre:  luogo di profonda e spesso sofferta comunione.
Il sacerdote nella parte inferiore del dipinto, e quelli tra i confratelli che alzano gli occhi, capiscono che l’ostia eucaristica racchiude tutto il mistero di Dio:  del Padre che chiede la vita al Figlio; del Figlio che la dà; e dello Spirito che li unisce e che nel dipinto è la forma visibile della loro comunione.
Lo Spirito.
Nella messa un tempo celebrata davanti al dipinto sembrava scendere sulle offerte – sul pane e sul vino – come anche sugli offerenti:  sul celebrante e sui confratelli cioè.
Anche a questo si riferiscono gli sguardi innalzati e gli atteggiamenti di adorazione dei personaggi nella parte inferiore del dipinto alla loro attesa di ricevere lo Spirito Santo.
Ma ecco il senso pieno dell’immagine:  la messa è il luogo principe della preghiera cristiana perché nella messa scende lo Spirito, e – come afferma san Paolo – “lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio” (Romani, 8, 26-27).
Nella messa lo spirito ci insegna ad avere in noi “gli stessi sentimenti di Cristo Gesù” (Filippesi, 2, 5), e, di fatto, scendendo nel pane e vino per farli diventare corpo e sangue di Cristo, scende in quanti mangiano e bevono di Cristo per farli diventare “come Cristo” e vivere così la stessa comunione con il Padre che Cristo vive, una comunione di preghiera in cui il Padre chiede certe cose a noi, e noi altre cose chiediamo a Lui, accettando tuttavia – come Cristo accettò – di fare non la nostra volontà ma quella di Dio.
Questa è preghiera vera e sicura, la preghiera di cui Gesù disse:  “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto.
Perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto” (Matteo, 7, 7-8).
A chi chiede di diventare come Cristo, sarà data questa grazia; chi cerca Cristo lo trova; a chi bussa alla porta che Cristo è viene aperta la via verso il Padre.
Anche l’ultimo livello del dipinto di Gasparo Narvesa rientra in questa logica “orazionale”.
Rappresenta Maria, a sinistra, raccolta in preghiera davanti a una Trinità di figure larvate, mentre a destra l’arcangelo Michele scaccia a spada tratta i demoni dal cielo.
La fonte sembra essere il capitolo dodici dell’Apocalisse, in cui l’autore, Giovanni, vede una donna incinta che grida per le doglie e un drago che minaccia di divorare il bambino appena l’avesse partorito.
Ma il bambino, un figlio maschio, quando nacque “fu rapito verso Dio e verso il suo trono”, mentre la donna fuggì nel deserto dove Dio le aveva preparato un rifugio.
“Scoppiò quindi una guerra nel cielo:  Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago.
Il drago combatteva assieme ai suoi angeli, ma non prevalse e non vi fu più posto per loro in cielo” (cfr.
Apocalisse, 12, 1-8).
Nel dipinto vediamo la donna nel “rifugio” preparatole, adorante Dio Padre, Dio Figlio e Dio Spirito.
Vediamo la vittoria di Michele e i suoi angeli contro il “drago” con i suoi seguaci, tutti raffigurati come demoni alati.
E vediamo il figlio della donna, Gesù Cristo, “rapito verso Dio e verso il suo trono” (faccia a faccia col Padre nell’obbedienza della croce), mentre sotto il corpo di Cristo crocifisso, intorno all’ostia che racchiude questo dramma cosmico, sono i partecipanti alla sua vittoria descritti nel prosieguo del testo apocalittico:  “Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio, e la potenza del suo Cristo, perché è stato precipitato l’accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte. Ma essi lo hanno vinto grazie al sangue dell’Agnello” (Apocalisse, 12, 11a).
I confratelli cioè, che nella messa condividono sia la lotta di Cristo che la sua vittoria, nel mistero della Communio sanctorum vengono associati anche al trionfo dei martiri; ricordiamo che l’altare, dove l’opera stava, doveva contenere reliquie di martiri dei primi secoli cristiani.
(©L’Osservatore Romano – 6 giugno 2010)

Festa del SS Corpo di Cristo Anno C

SANTISSIMO CORPO E SANGUE DI CRISTO   Lectio Anno c     Prima lettura: Genesi 14,18-20          In quei giorni, Melchìsedek, re di Salem, offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo e benedisse Abram con queste parole: «Sia benedetto Abram dal Dio altissimo, creatore del cielo e della terra, e benedetto sia il Dio altissimo, che ti ha messo in mano i tuoi nemici».
E [Abramo] diede a lui la decima di tutto.
       v Il tema della benedizione ritorna nel brano della Genesi.
A pronunciarla è il re di Salem, di cui non conosciamo altro che il nome, Melchisedek.
Egli, dice il testo «offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo e benedisse Abram con queste parole».
Abramo era appena ritornato secondo il racconto di Gn 14, dalla vittoria contro i quattro re che avevano in precedenza sconfitto le città del mar Morto e catturato suo nipote Lot.
Il re Melchisedek, che come era allora frequente consuetudine ricopriva pure a carica sacerdotale, portò come ristoro ai vincitori, alla cui testa era Abramo, pane e vino.
Le parole di benedizione rivolte ad Abramo suonano dunque come un riconoscimento del suo ruolo nell’aver liberato il campo da pericolosi nemici.
Ciò che ci riguarda maggiormente, però, è lo schema della benedizione.
Da una parte c’è Dio che benedice, in quanto egli è creatore del mondo, ossia fa essere le cose che esistono; questa è la benedizione costitutiva o discendente.
Dall’altra c’è la benedizione e la lode che l’uomo eleva a Dio, detta dichiarativa o ascendente, perché  chi ha riconosciuto di essere stato beneficato da Dio, lo ringrazia.
Quindi Abramo, considerando Melchisedek superiore a sé e intendendo manifestare la propria gratitudine nei confronti di Dio cede la decima a questo re.
     L’inserimento di questo brano nella liturgia del Corpus Domini si può giustificare solo a partire dall’interpretazione che ne hanno fatto i Padri della Chiesa, sulla scia di ciò che era trapelato nel Nuovo Testamento.
Infatti diversi dei Padri hanno inteso l’offerta del pane e del vino come una prefigurazione dell’Eucaristia e Melchisedek, che ci viene presentato «senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita» (Eb 7,3), quindi eterno, come la prefigurazione del sacerdozio messianico, superiore a quello di Aronne.
Seconda lettura: 1Corinzi 11,23-26          Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me».
Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me».
Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.
    v Ma è il brano della prima lettera ai Corinzi che, in modo inequivocabile, ci riallaccia con la viva tradizione delle comunità dell’epoca apostolica.
L’apostolo Paolo così introduce l’argomento: «Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso».
E questa trasmissione viene espressa con il significativo verbo paradidomi, da cui viene anche l’idea di paradosis, ossia di una vera e propria consegna effettuata da una generazione a un altra, o da una persona a un’altra, in questo caso autorevolissima come il Signore.
Paolo, dunque, è conscio di comunicare non qualcosa di suo, bensì qualcosa che appartiene al grande «patrimonio» che Gesù stesso ha lasciato ai suoi discepoli.
Il problema posto riguarda perciò la sostanza di quel «vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, e dal quale anche ricevete la salvezza se lo mantenete m quella forma in cui ve l’ho annunziato» (1Cor 15,1).
     Di conseguenza, la fedeltà alla «tradizione» si fonde con la fedeltà alla «comunione».
Nell’Eucaristia raccontata da Paolo si riprendono tutti gli specifici motivi fondamentali, a partire dal contesto, che è quello della cena precedente la passione e morte di Gesù.
Vi viene rievocato il momento amaro del tradimento con lo stesso verbo paradidomi, quasi a voler intendere che la «consegna» di fare il memoriale dell’Eucaristia passa attraverso l’inevitabile «consegna» alla morte.
Si prosegue con l’atto del prendere il pane, gesto familiare, da capofamiglia, che prelude al ringraziare (eucharistesas), cioè al benedire il datore di ogni dono, il Padre.
Il pane, poi, viene spezzato per essere condiviso, per essere fonte di solidarietà e comunione.
Infine, vengono riferite le parole che spiegano i gesti.
«Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me».
Anche riguardo al calice del vino le parole ne illuminano il senso: «Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me».
Troppo difficile è il compito di commentare tali parole: c’è il senso dell’offerta, del sacrificio di colui che si fa «spezzare» la carne e «versare» il sangue per l’umanità che ama, inclusa quell’umanità che si sta preparando a consegnarlo alla morte; c’è il senso dell’alleanza del ricucire uno strappo che si sarebbe sempre più approfondito senza l’iniziativa divina di andare incontro all’umanità; c’è il senso del dover costantemente «far memoria» di tutto ciò, perché siamo stati comprati a caro prezzo (cf.
1Cor 6,20).
Il mistero eucaristico si trasforma allora in una ricapitolazione della storia, nella quale viene riproposta in continuazione l’alleanza d’amore di Dio, in vista dell’evento finale, la venuta ultima di Gesù Cristo.
  Vangelo: Luca 9,11-17          In quel tempo, Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure.
Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta».
Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare».
Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente».
C’erano infatti circa cinquemila uomini.
Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa».
Fecero così e li fecero sedere tutti quanti.
Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla.
Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.
    Esegesi      La pericope evangelica proposta dalla liturgia ci presenta subito un Gesù impegnato nella predicazione e nelle guarigioni.
Non è facile entrare nel clima del brano se non diamo uno sguardo al contesto in cui è inserito.
Infatti la moltiplicazione dei pani si trova quasi alla fine del periodo di attività in Galilea, quando Gesù stava maturando la decisione di dirigersi verso la capitale, Gerusalemme: «Mentre si compivano i giorni della sua ascensione, indurì la faccia di dirigersi a Gerusalemme» (Lc 9,51).
Il senso letterale del versetto ci rende bene la ferma determinazione di Gesù, «perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme» (Lc 13,33).
Quasi a volersi congedare dalla Galilea, egli inviò i Dodici ad annunziare il regno di Dio e a guarire gli infermi, assegnando loro persino il potere di scacciare i demoni (9,1-2).
Al loro ritorno, gli apostoli riferirono in dettaglio a Gesù ciò che avevano operato durante la missione.
Egli «allora li prese con sé e si ritirò verso una città chiamata Betsaida» (9,10), perché essi avevano bisogno di riposare.
Ma furono intercettati dalla folla, che costrinse Gesù a cambiare programma e a trascurare gli stanchi missionari.
E quindi fu direttamente lui che si occupò di parlare del regno di Dio e di guarire quanti avevano bisogno di cure (9,11), come se la folla, dopo aver ascoltato gli apostoli desiderasse andare alla fonte dell’annuncio.
     In verità, l’annuncio del regno di Dio era stata la preoccupazione di Gesù fin dal primo momento.
E anche la folla, fin dal principio, lo seguiva senza stancarsi e dargli un attimo di respiro.
In 4,42-44 mentre cercava un luogo isolato, venne raggiunto dalla folla che non voleva lasciarlo andare via.
Ma egli evitò di fermarsi, perché il regno doveva essere annunziato anche ad altre città.
In 8,1, dopo aver perdonato la donna peccatrice e aver insegnato la misericordia al fariseo Simone, ritornò alla sua consueta attività di predicazione del regno e in 8,10 si dedicò a istruire in modo più particolareggiato gli apostoli.
Infine al capitolo 9 associò gli apostoli all’opera di evangelizzazione, mai disgiunta dalla realizzazione dei segni delle guarigioni e degli esorcismi.
Riguardo alla folla, poi, in 5,1 si dice addirittura che «la folla gli faceva ressa intorno per ascoltare la parola di Dio»; in 6,17-19 si parla di gente che veniva ad ascoltarlo e a essere guarita, o anche solo a toccarlo, proveniente non solo dalla Galilea e dalla Giudea, ma persino da Tiro e Sidone, città pagane della Fenicia; in 8,4, la parabola del seminatore viene raccontata «poiché una gran folla si radunava e accorreva a lui gente da ogni città»; in 8,40, infine, troviamo persino che «al suo ritorno, Gesù fu accolto dalla folla, poiché tutti erano in attesa di lui».
     Gesù quindi si mostrava molto disponibile nei confronti della folla, comprendendo benissimo il bisogno che essa aveva di parola di Dio e di sollievo dalla sofferenza.
Ma tale disponibilità si dimostrò davvero eccezionale in questo caso della moltiplicazione dei pani e dei pesci.
Al v.
12 comincia un dialogo: gli apostoli, poiché stava tramontando, invitarono Gesù a congedare gli astanti per permettere a ciascuno di loro di procurarsi del cibo, in quanto il luogo in cui si trovavano era solitario.
Essi non si sarebbero mai aspettati la risposta di Gesù: «Voi stessi date loro da mangiare» (9,13).
Erano cinquemila uomini e nel passo parallelo del Vangelo di Giovanni l’apostolo Filippo fa una stima approssimativa della cifra necessaria a comprare pane per tutti: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa ricevere un pezzo» (Gv 6,7); a disposizione c’erano soltanto cinque pani e due pesci e l’eventuale spesa da affrontare era quindi insostenibile.
     Qui emerge un dato molto importante: gli apostoli, che erano stati protagonisti della missione con i compiti onorevoli di predicare, guarire e cacciare i demoni, vennero coinvolti nel servizio umile di dar da mangiare a quella folla.
Gesù — dice il Vangelo — «prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla» (9,16).
Il nutrimento passa quindi attraverso le mani dei discepoli, che davvero offrono da mangiare a quella moltitudine, forse senza nemmeno rendersi conto del tutto della “straordinarietà” del fatto.
Lungi dal pretendere di spiegare o razionalizzare il segno — ipotizzando che ognuno aveva delle provviste e che le condivide con gli altri, per cui il vero “miracolo” sarebbe la condivisione — occorre prendere sul serio il racconto evangelico e ammettere che Gesù abbia realmente potuto moltiplicare il poco cibo disponibile.
     Se conosciamo bene Gesù, non ci meraviglia che abbia avuto compassione di quella folla affamata, dopo che per un giorno intero aveva seguito i suoi insegnamenti e aveva assistito ai suoi segni.
Infatti, l’evangelista Luca ci presenta un’immagine di Gesù sinceramente sollecito delle necessità della gente, fossero anche quelle corporali.
Ma il testo ci suggerisce un’altra traccia ancora: le azioni descritte in 9,16 sono le stesse che Gesù compie in 22,19, nell’istituzione dell’Eucaristia, e in 24,30, durante la cena di Emmaus.
Il Vangelo di Luca, però, ci stimola a non ritenere la moltiplicazione dei pani e dei pesci un miracolo che solo Gesù poteva realizzare.
Il coinvolgimento degli apostoli è infatti senz’altro significativo, in relazione al fatto che il regno di Dio dev’essere servito con la predicazione, con i segni, ma anche con l’umile servizio del distribuire quel pane necessario a vivere e a rinvigorire le membra; il pane che può dare all’uomo l’opportunità di alzare i propri occhi al cielo e benedire il Padre; il pane che dev’essere gustato con gioia nella fraternità e semplicità; il pane, che crea compagnia e comunione in questo pellegrinaggio terrestre.
Perciò in questa maniera il pane delle nostre tavole può acquistare un significato più pregnante che quello di semplice alimento e, di conseguenza, il pane eucaristico può essere considerato sempre più per quello che è: pane-corpo di Cristo, offerto per ringraziamento e benedizione.
  Meditazione      La festa del Corpus Domini, che la Chiesa colloca immediatamente dopo il tempo pasquale, ci fa riandare a quel mistero eucaristico la cui memoria è già stata celebrata con particolare solennità il giorno del Giovedì santo.
La celebrazione odierna assume dunque i caratteri di una ulteriore ‘meditazione’, quasi una sosta contemplativa intorno al mistero centrale della fede cristiana, un mistero che è al cuore stesso della vita della Chiesa.
È in questa direzione che sembra orientarci l’orazione iniziale: «Signore Gesù Cristo, che nel mirabile sacramento dell’Eucaristia ci hai lasciato il memoriale della tua Pasqua, fa’ che adoriamo con viva fede il santo mistero del tuo Corpo e del tuo Sangue…».
Se il corpo e il sangue del Signore si offrono a noi anzitutto come cibo e bevanda di vita, essi sono anche un mistero da ‘adorare’; cioè da circondare di tutta la venerazione e la riconoscenza, lo stupore e l’amore che esso richiede.
Nella consapevolezza che tale dono eccede sempre la nostra capacità di recezione e le nostre possibilità di comprensione.
     È significativo che al centro di questa festa troviamo una realtà così umana, così concreta, così ‘materiale’ oseremmo dire, come quella del «corpo e sangue».
Corpo e sangue che dicono tutto il mistero dell’incarnazione, tutta l’umanità nostra, debole e fragile, assunta pienamente dal Signore Gesù.
Corpo e sangue assunti e donati fino all’ultimo «per noi uomini e per la nostra salvezza», come recita il Credo.
L’apostolo Paolo, raccontando l’istituzione dell’eucaristia nella notte della cena pasquale (seconda lettura), ce lo ricorda in modo esplicito: «Il Signore Gesù…
prese del pane…
e disse: “Questo è il mio corpo,  che è per voi..”.
Allo stesso modo…
prese anche il calice…» (1Cor 11,23-25).
     La prima lettura pone l’accento sull’offerta del pane e del vino da parte di Melchìsedek, singolare figura di sacerdote che fa la sua improvvisa comparsa all’interno delle vicende del patriarca Abramo.
Partendo dalla lettura che ne fa la Lettera agli Ebrei (soprattutto nel cap.
7), la Chiesa ha sempre considerato questo episodio una prefigurazione dell’eucaristia.
«Pane e vino» sono doni che rimandano, in ultima istanza, a uno dei bisogni primari e vitali dell’uomo: il soddisfacimento della sua fame.
Sappiamo che l’uomo è essenzialmente un essere che ha fame, e non solo di cibo.
La sua fame va ben al di là del pezzo di pane che può momentaneamente e parzialmente colmarla.
Essa abita nel profondo del suo cuore come desiderio, conscio o inconscio, di qualcosa che può venire da Dio solo.
Come afferma Benedetto XVI nel suo Messaggio per la Quaresima 2010.
«Come e più del pane, egli ha infatti bisogno di Dio».
È Dio che nutre l’uomo, anzi è Dio stesso che si fa suo nutrimento in quel pane e in quel vino che riceviamo ogni giorno dalle sue mani come «cibo di vita eterna» e «bevanda di salvezza» (rito di offertorio della liturgia eucaristica).
     Il racconto della moltiplicazione dei pani nella versione dell’evangelista Luca (vangelo) ci parla del mirabile e inatteso nutrimento di una folla affamata che, desiderosa di ascoltare Gesù e farsi curare dalle proprie malattie (v.
11 ), lo segue fin nel bel mezzo di un deserto.
Al di là del prodigio in sé, ciò che attira la nostra attenzione – soprattutto se leggiamo l’episodio nel contesto della festa liturgica odierna – è il modo con cui si conclude la narrazione: «Tutti mangiarono a sazietà…» (v.
17).
È questa sensazione di sazietà che rimane nelle nostre orecchie (e un po’ anche nel nostro corpo) dopo aver ascoltato questa parola.
Una fame saziata: ecco cosa ci vuol comunicare il racconto.
Già dai tempi della Prima Alleanza il Signore aveva promesso di saziare la fame del suo popolo – unica condizione richiesta: spalancare la propria bocca! -: «Sono io il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto salire dal paese d’Egitto: apri la tua bocca, la voglio riempire» (Sal 80/81,11).
L’antifona d’ingresso della presente celebrazione riprende le parole conclusive dello stesso salmo: «Il Signore ha nutrito il suo popolo con fior di frumento, lo ha saziato con miele della roccia» (Sal 80/81,17).
Dio non ha altra volontà che saziare la nostra fame.
Possiamo dire che è il suo grande desiderio.
A patto però di intendere bene cosa sono quel «fior di frumento» e quel «miele della roccia»…
     In un altro deserto (o forse lo stesso?) Gesù si era rifiutato di trarre pane dalla pietra, come subdolamente gli suggeriva il tentatore (cfr.
Lc 4,3).
Perché ora dunque compie (moltiplicando un pugno di pani e pesci là dove – essendo deserto – non poteva trovare che pietre) ciò che un tempo aveva categoricamente negato di fare? Al diavolo aveva risposto: «Non di solo pane vivrà l’uomo» (Lc 4,4), ora però non ricusa di donare – e in modo sovrabbondante – anche quell’umile pane a una moltitudine di gente stanca e affamata.
Egli sa che l’uomo ha bisogno anche di pane per vivere, purché quel pane sia ricevuto come segno di un’accoglienza amorosa («Le folle lo seguirono.
Egli le accolse…»: v.
11) e diventi capace di dire tutta la logica di una vita data in dono («Voi stessi date loro da mangiare»: v.
13), come è stata la vita stessa di Gesù.
Per questo il racconto della moltiplicazione dei pani (così come il racconto dell’ultima cena e quello della cena di Emmaus, dove si narra di un pane ‘spezzato’) è una grande e profonda rivelazione della persona di Gesù.
Erode, poco prima, si era chiesto: «Chi è dunque costui?» (Lc 9,9) e Gesù, quasi riprendendo la domanda, risponde donando del pane, simbolo e prefigurazione di quel pane che si farà lui stesso cuocendo nel forno della croce, per diventare nostro cibo in ogni eucaristia.
     «Dacci oggi il nostro pane quotidiano», domandiamo nella preghiera del Padre nostro.
Ciò di cui abbiamo bisogno ogni giorno per vivere lo chiediamo a Dio, consapevoli che solo ricevendolo dalle sue mani come dono gratuito esso può soddisfare la nostra più autentica fame di vita.
Solo là dove desiderio di Dio e bisogno dell’uomo (bisogno vero, nell’ordine di ciò che più vale nella vita) si incontrano, può nascere un orizzonte nuovo dove trovano casa l’accoglienza grata dei doni ricevuti e la premurosa condivisione che quei doni portano inscritto nella loro stessa natura.
            Preghiere e Racconti Il miracolo della moltiplicazione dei pani Il miracolo della moltiplicazione dei pani accade laddove nel popolo di Dio si da ascolto alla Scrittura della quale Gesù ha fornito l’esegesi messianica e, quindi, laddove si rispetta la Scrittura e si obbedisce alla sua parola che trova espressione attuale nell’assemblea della comunità.
Ciò significa: laddove si vive tutta la vita quotidiana all’insegna della volontà di Dio […].
Il miracolo della moltiplicazione dei pani accade laddove si celebra il banchetto messianico, al quale Gesù ha voluto invitare proprio tutti, i giusti e i peccatori, i sani e i malati, gli invitati della prima ora e quelli che se ne stanno a guardare, cioè laddove sia resa possibile, in continuazione, l’integrazione e l’unanimità di coloro che vogliono mettersi al servizio della costruzione del popolo di Dio.
Ciò significa: laddove al convivium, cioè al banchetto dell’eucaristia, corrisponde di nuovo il convivere, cioè la convivenza dei credenti che precede e segue l’eucaristia e trova la sua sintesi festosa nella celebrazione di settimana in settimana, da una festa all’altra.
Il miracolo della moltiplicazione dei pani si compie laddove è vitale la fede che l’uomo non vive di solo pane ma, in primo luogo, della parola di Dio, della sua promessa e della volontà di Colui che si è creato un popolo da portare in una terra dove scorrono latte e miele.
Ciò significa che il miracolo accade anche laddove i credenti osano dar prova della propria fede e metterla alla prova.
(R.
PESCH, Il miracolo della moltiplicazione dei pani.
C’è una soluzione per la fame nel mondo?, Brescia, 1997, 182ss.).
Il Dio nell’ostensorio Cantavano le donne lungo il muro inchiodato quando ti vidi, Dio forte, vivo nel Sacramento, palpitante e nudo come un bambino che corre inseguito da sette torelli capitali.
Vivo eri, Dio mio, nell’ostensorio.
Trafitto dal tuo Padre con ago di fuoco.
O Forma consacrata, vertice dei fiori, dove tutti gli angoli prendono luci fisse, dove numero e bocca costruiscono un presente corpo di luce umana con muscoli di farina! O Forma limitata per esprimere concreta moltitudine di luci e clamore ascoltato! O neve circondata da timpani di musica ! O fiamma crepitante sopra tutte le vene! (F.
García Lorca)   La prima comunione Benedetto XVI presiede nel pomeriggio di sabato 15 ottobre 2005, in piazza San Pietro, lo speciale incontro di catechesi con i bambini di prima comunione, al quale partecipano oltre 150.000 persone tra fanciulli, genitori, catechisti e sacerdoti.
Dopo la proclamazione della Liturgia della Parola, il Santo Padre risponde alle domande rivoltegli da sette bambini.
Questi sono alcuni brani del testo del “dialogo” tra il Papa e i piccoli.

Licei: disponibile la stesura definitiva delle Indicazioni Nazionali

L’impianto generale è stato mantenuto inalterato e resta impostato sulla massima chiarezza ed essenzialità; la premessa è stata ampliata, seguendo il suggerimento del CNPI, in una nota introduttiva che spiega i criteri generali seguiti; la nuova redazione ha tenuto conto dei suggerimenti ritenuti dalla Commissione più significativi.
I testi rivisti sono da oggi disponibili su questo sito e a disposizione di genitori, studenti, dirigenti scolastici e insegnanti (anche per aiutare la delicata fase di adozione dei libri di testo, i cui termini, come è noto, limitatamente nelle classi prime, sono stati prorogati al 31 maggio 2010).
Le Indicazioni sono presentate o nel documento completo, oppure in documenti divisi per ciascun percorso liceale che comprendono la nota introduttiva, il profilo generale, il profilo specifico del percorso, il quadro orario e le Indicazioni di ciascuna disciplina.
Nei prossimi giorni sarà presentato un piano di azioni a supporto delle Istituzioni scolastiche impegnate nell’attuazione delle Indicazioni nazionali.
Sul sito saranno presto disponibili anche delle note, da parte del Gruppo tecnico, che daranno conto più in dettaglio delle scelte effettuate.
Il lavoro della Commissione e della Cabina di regia, nel frattempo, prosegue e intende affrontare, oltre alla futura revisione delle Indicazioni nazionali per il primo ciclo, il decreto sugli indicatori per la valutazione e l’autovalutazione dei percorsi liceali, anche con riferimento al quadro europeo per la garanzia della qualità dei sistemi di istruzione e formazione.
Scarica il documento completo delle Indicazioni nazionali I percorsi liceali Liceo Artistico indirizzo Arti Figurative indirizzo Architettura e Ambiente indirizzo Design indirizzo Audiovisivo e Multimediale indirizzo Grafica indirizzo Scenografia Liceo Classico  Liceo classico Liceo Linguistico  Liceo linguistico Liceo Musicale e Coreutico sezione Musicale sezione Coreutica Liceo delle Scienze Umane  Liceo delle scienze umane Liceo delle scienze umane – opzione Economico Sociale Liceo Scientifico  Liceo scientifico Liceo scientifico – opzione Scienze Applicate

«Risvegliamo la passione educativa»

Risvegliare nelle comunità cristiane la «passione educativa».
Lo ha chiesto oggi Benedetto XVI ai vescovi italiani incontrandoli nella aula sinodale in Vaticano dove sono riuniti per l’Assemblea generale della Conferenza episcopale italiana.
Il Papa ha sottolineato, andando a braccio, che sono due le sfide culturali di fronte alle quali si pongono oggi gli educatori.
La prima è «la falsa idea di autonomia di se stessi» che si registra soprattutto nelle nuove generazioni quando invece è «essenziale» per la persona umana diventare se stessi in relazione al «tu e al noi».
L’uomo, infatti, ha proseguito Benedetto XVI, «è creato per il dialogo» e «solo l’incontro con il Tu e il noi apre l’io a se stesso».
L’altra sfida è «lo scetticismo e il relativismo».
Educare, ha detto oggi il Papa, non è «imporre» ma «aprire» la persona «al Tu di Dio».
«Pur consapevoli del peso di queste difficoltà – ha concluso il Santo Padre -, non possiamo cedere alla sfiducia e alla rassegnazione.
Educare non è mai stato facile, ma non dobbiamo arrenderci».
«Risvegliamo piuttosto nelle nostre comunità quella passione educativa», che non si risolve in una didattica».
«Educare è formare le nuove generazioni, perché sappiano entrare in rapporto con il mondo, forti di una memoria significativa».
«Non perdere mai la fiducia nei giovani».
E’ l’altra indicazione data oggi ai vescovi italiani da papa Benedetto XVI, parlando loro del tema dell’eduzione.
«La sete che i giovani portano nel cuore – ha detto il Papa – è una domanda di significato e di rapporti umani autentici, che aiutino a non sentirsi soli davanti alle sfide della vita».
I giovani hanno bisogno di «una compagnia sicura e affidabile, che si accosta a ciascuno con delicatezza e rispetto, proponendo valori saldi a partire dai quali crescere verso traguardi alti, ma raggiungibili».
Ecco perché la proposta cristiana passa «attraverso relazioni di vicinanza, lealtà e fiducia».
Il papa ha quindi incoraggiato i presuli ad andare «incontro» ai giovani, «a frequentarne gli ambienti di vita, compreso quello costituito dalle nuove tecnologie di comunicazione, che ormai permeano la cultura in ogni sua espressione.
Non si tratta di adeguare il Vangelo al mondo – ha detto il Papa -, ma di attingere dal Vangelo quella perenne novità, che consente in ogni tempo di trovare le forme adatte per annunciare la Parola che non passa, fecondando e servendo l’umana esistenza».
«La volontà di promuovere una rinnovata stagione di evangelizzazione non nasconde le ferite da cui la comunità ecclesiale è segnata, per la debolezza e il peccato di alcuni suoi membri», ha detto il papa.
«Questa umile e dolorosa ammissione – ha proseguito – non deve, però, far dimenticare il servizio gratuito e appassionato di tanti credenti, a partire dai sacerdoti».
Secondo il Pontefice, «l’anno speciale a loro dedicato ha voluto costituire un’opportunità per promuoverne il rinnovamento interiore, quale condizione per un più incisivo impegno evangelico e ministeriale».
Nel contempo, ha proseguito, «ci aiuta anche a riconoscere la testimonianza di santità di quanti – sull’esempio del Curato d’Ars – si spendono senza riserve per educare alla speranza, alla fede e alla carità».
In questa luce, ha aggiunto il Papa, «ciò che è motivo di scandalo, deve tradursi per noi in richiamo a un profondo bisogno di ri-imparare la penitenza, di accettare la purificazione, di imparare da una parte il perdono, dall’altra la necessità della giustizia».
Avvenire 28 05 2010  Discorso all’Assemblea generale della Cei Venerati e cari Fratelli, nel Vangelo proclamato domenica scorsa, Solennità di Pentecoste, Gesù ci ha promesso: “Il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Gv 14, 26).
Lo Spirito Santo guida la Chiesa nel mondo e nella storia.
Grazie a questo dono del Risorto, il Signore resta presente nello scorrere degli eventi; è nello Spirito che possiamo riconoscere in Cristo il senso delle vicende umane.
Lo Spirito Santo ci fa Chiesa, comunione e comunità incessantemente convocata, rinnovata e rilanciata verso il compimento del Regno.
È nella comunione ecclesiale la radice e la ragione fondamentale del vostro convenire e del mio essere ancora una volta, con gioia, in mezzo a voi in occasione di questo appuntamento annuale; è la prospettiva con la quale vi esorto ad affrontare i temi del vostro lavoro, nel quale siete chiamati a riflettere sulla vita e sul rinnovamento dell’azione pastorale della Chiesa in Italia.
Sono grato al Cardinale Angelo Bagnasco per le cortesi e intense parole che mi ha rivolto, facendosi interprete dei vostri sentimenti: il Papa sa di poter contare sempre sui Vescovi italiani.
In voi saluto le comunità diocesane affidate alle vostre cure, mentre estendo il mio pensiero e la mia vicinanza spirituale all’intero popolo italiano.
Corroborati dallo Spirito, in continuità con il cammino indicato dal Concilio Vaticano II, e in particolare con gli orientamenti pastorali del decennio appena concluso, avete scelto di assumere l’educazione quale tema portante per i prossimi dieci anni.
Tale orizzonte temporale è proporzionato alla radicalità e all’ampiezza della domanda educativa, che esige di farsi carico delle nuove generazioni con un’opera di testimonianza unitaria, integrale e sinergica, che aiuti a pensare, a proporre e a vivere la verità, la bellezza e la bontà dell’esperienza cristiana.
Non viene certo dallo Spirito Santo la tentazione che, a volte, induce genitori, insegnanti, catechisti e sacerdoti ad affievolire l’impegno educativo.
Sono i momenti in cui sembrano prevalere la stanchezza, il senso di inadeguatezza e di inefficacia, l’affanno di fronte a ritmi di vita sempre più incalzanti.
Un simile contesto culturale mette spesso in dubbio anche la dignità della persona, la bontà della vita, il significato stesso della verità e del bene.
In effetti, quando al di là dell’individuo nulla è riconosciuto come definitivo, il criterio ultimo di giudizio diventa l’io e la soddisfazione dei suoi bisogni immediati.
Si fa, allora, ardua e improbabile la proposta alle nuove generazioni del “pane” della verità, per il quale valga la pena spendere la vita, accettando, quando necessario, il rigore della disciplina e la fatica dell’impegno.
Pur consapevoli del peso di queste difficoltà, non possiamo cedere alla sfiducia e alla rassegnazione.
Educare non è mai stato facile, ma non dobbiamo arrenderci: verremmo meno al mandato che il Signore stesso ci ha affidato, chiamandoci a pascere con amore il suo gregge.
Risvegliamo piuttosto nelle nostre comunità quella passione educativa, che non si risolve in una didattica, in un insieme di tecniche e nemmeno nella trasmissione di principi aridi.
Educare è formare le nuove generazioni, perché sappiano entrare in rapporto con il mondo, forti di una memoria significativa, di un patrimonio interiore condiviso, della vera sapienza che, mentre riconosce il fine trascendente della vita, orienta il pensiero, gli affetti e il giudizio.
La sete che i giovani portano nel cuore è una domanda di significato e di rapporti umani autentici, che aiutino a non sentirsi soli davanti alle sfide della vita.
È desiderio di un futuro, reso meno incerto da una compagnia sicura e affidabile, che si accosta a ciascuno con delicatezza e rispetto, proponendo valori saldi a partire dai quali crescere verso traguardi alti, ma raggiungibili.
La nostra risposta è l’annuncio del Dio amico dell’uomo, che in Gesù si è fatto prossimo a ciascuno.
La trasmissione della fede è parte irrinunciabile della formazione integrale della persona, perché in Gesù Cristo si realizza il progetto di una vita riuscita: come insegna il Concilio Vaticano II, “chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, diventa anch’egli più uomo” (Gaudium et spes, 41).
L’incontro personale con Gesù è la chiave per intuire la rilevanza di Dio nell’esistenza quotidiana, il segreto per spenderla nella carità fraterna, la condizione per rialzarsi sempre dalle cadute e muoversi a costante conversione.
Il compito educativo, che avete assunto come prioritario, valorizza segni e tradizioni, di cui l’Italia è ricca.
Necessita di luoghi credibili: anzitutto la famiglia, con il suo ruolo peculiare e irrinunciabile; la scuola, orizzonte comune al di là delle appartenenze confessionali e delle opzioni ideologiche; la parrocchia, “fontana del villaggio”, luogo ed esperienza che inizia alla fede nel tessuto delle relazioni quotidiane.
In ognuno di questi ambiti resta decisiva la qualità della testimonianza, via privilegiata della missione ecclesiale.
L’accoglienza della proposta cristiana passa, infatti, attraverso relazioni di vicinanza, lealtà e fiducia.
In un tempo nel quale la grande tradizione del passato rischia di rimanere lettera morta, siamo chiamati ad affiancarci a ciascuno con disponibilità sempre nuova, accompagnandolo nel cammino di scoperta e assimilazione personale della verità.
La volontà di promuovere una rinnovata stagione di evangelizzazione non nasconde le ferite da cui la comunità ecclesiale è segnata, per la debolezza e il peccato di alcuni suoi membri.
Questa umile e dolorosa ammissione non deve, però, far dimenticare il servizio gratuito e appassionato di tanti credenti, a partire dai sacerdoti.
L’anno speciale a loro dedicato ha voluto costituire un’opportunità per promuoverne il rinnovamento interiore, quale condizione per un più incisivo impegno evangelico e ministeriale.
Nel contempo, ci aiuta anche a riconoscere la testimonianza di santità di quanti – sull’esempio del Curato d’Ars – si spendono senza riserve per educare alla speranza, alla fede e alla carità.
In questa luce, ciò che è motivo di scandalo, deve tradursi per noi in richiamo a un “profondo bisogno di ri-imparare la penitenza, di accettare la purificazione, di imparare da una parte il perdono, dall’altra la necessità della giustizia” (Lettera per l’indizione dell’Anno Sacerdotale, 16 giugno 2009).
Cari Fratelli, vi incoraggio a percorrere senza esitazioni la strada dell’impegno educativo.
Lo Spirito Santo vi aiuti a non perdere mai la fiducia nei giovani, vi spinga ad andare loro incontro, vi porti a frequentarne gli ambienti di vita, compreso quello costituito dalle nuove tecnologie di comunicazione, che ormai permeano la cultura in ogni sua espressione.
Non si tratta di adeguare il Vangelo al mondo, ma di attingere dal Vangelo quella perenne novità, che consente in ogni tempo di trovare le forme adatte per annunciare la Parola che non passa, fecondando e servendo l’umana esistenza.
Torniamo, dunque, a proporre ai giovani la misura alta e trascendente della vita, intesa come vocazione: chiamati alla vita consacrata, al sacerdozio, al matrimonio, sappiano rispondere con generosità all’appello del Signore, perché solo così potranno cogliere ciò che è essenziale per ciascuno.
La frontiera educativa costituisce il luogo per un’ampia convergenza di intenti: la formazione delle nuove generazioni non può, infatti, che stare a cuore a tutti gli uomini di buona volontà, interpellando la capacità della società intera di assicurare riferimenti affidabili per lo sviluppo armonico delle persone.
Anche in Italia la presente stagione è marcata da un’incertezza sui valori, evidente nella fatica di tanti adulti a tener fede agli impegni assunti: ciò è indice di una crisi culturale e spirituale, altrettanto seria di quella economica.
Sarebbe illusorio pensare di contrastare l’una, ignorando l’altra.
Per questa ragione, mentre rinnovo l’appello ai responsabili della cosa pubblica e agli imprenditori a fare quanto è nelle loro possibilità per attutire gli effetti della crisi occupazionale, esorto tutti a riflettere sui presupposti di una vita buona e significativa, che fondano quell’autorevolezza che sola educa.
Alla Chiesa, infatti, sta a cuore il bene comune, che ci impegna a condividere risorse economiche e intellettuali, morali e spirituali, imparando ad affrontare insieme, in un contesto di reciprocità, i problemi e le sfide del Paese.
Questa prospettiva, ampiamente sviluppata nel vostro recente documento su Chiesa e Mezzogiorno, troverà ulteriore approfondimento nella prossima Settimana Sociale dei cattolici italiani, prevista in ottobre a Reggio Calabria, dove, insieme alle forze migliori del laicato cattolico, vi impegnerete a declinare un’agenda di speranza per l’Italia, perché “le esigenze della giustizia diventino comprensibili e politicamente realizzabili” (Enc.
Deus caritas est, 28).
Il vostro ministero, cari Confratelli, e la vivacità delle comunità diocesane alla cui guida siete posti, sono la migliore assicurazione che la Chiesa continuerà responsabilmente ad offrire il suo contributo alla crescita sociale e morale dell’Italia.
Chiamato per grazia ad essere Pastore della Chiesa universale e della splendida Città di Roma, porto costantemente con me le vostre preoccupazioni e le vostre attese, che nei giorni scorsi ho deposto – con quelle dell’intera umanità – ai piedi della Madonna di Fatima.
A Lei va la nostra preghiera: “Vergine Madre di Dio e nostra Madre carissima, la tua presenza faccia rifiorire il deserto delle nostre solitudini e brillare il sole sulle nostre oscurità, faccia tornare la calma dopo la tempesta, affinché ogni uomo veda la salvezza del Signore, che ha il nome e il volto di Gesù, riflesso nei nostri cuori, per sempre uniti al tuo! Così sia!” (Fatima, 12 maggio 2010).
Di cuore vi ringrazio e vi benedico.

Al Sud si leggono meno libri che al Nord

Nel 2009 meno della metà degli italiani (45,1%) di età di 6 anni e più dichiara di aver letto almeno un libro.
La quota più alta di lettori si riscontra tra la popolazione di 11-17 anni (oltre il 58%), con un picco tra gli 11 e i 14 anni (64,7%), e decresce con l’aumentare dell’età.
Infatti, già a partire dai 35 anni, la quota di lettori scende sotto il 50%, per diminuire drasticamente dai 65 anni in poi e raggiungere il valore più basso tra la popolazione di 75 anni e più (22,8%).
Sono questi i primi elementi introduttivi della recente indagine campionaria dell’Istat sulla lettura dei libri i Italia nel 2009 e pubblicata sul sito dell’Istituto nei giorni scorsi.
L’indagine ha rilevato che le donne leggono più degli uomini: le lettrici, infatti, sono il 51,6% rispetto al 38,2% dei lettori.
Le differenze di genere sono presenti in tutte le fasce di età e risultano molto forti tra i 20 e i 24 anni, dove la quota di lettrici supera il 66%, mentre quella dei lettori si attesta al 39,2%.
Le differenze di genere si annullano solo per le persone con 75 anni e più, fascia di età in cui dichiarano di leggere nel tempo libero il 23,3% degli uomini e il 22,5% delle donne.
A livello territoriale, le quote più alte di lettori di libri si registrano al Nord, dove quasi il 52% della popolazione di 6 anni e più ha letto almeno un libro nei 12 mesi precedenti l’intervista, e al Centro (48%).
Nel Sud e nelle Isole, invece, la quota di lettori scende rispettivamente al 34,2% e al 35,4%.
Esiste, inoltre, una significativa variabilità regionale – dice l’Istat – nei livelli di lettura: se Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia fanno registrare livelli di lettura superiori al 56%, Marche, Umbria e tutte le regioni del Mezzogiorno si attestano al di sotto della media nazionale.
Agli ultimi posti si collocano Calabria (34,3%), Puglia (33,1%), Campania (32,9%) e Sicilia (31,5%).
Si nota una maggiore diffusione di lettori nei centri e nelle aree di grande urbanizzazione, con una progressiva riduzione nella quota dei lettori nei centri più piccoli.
Il che fa ritenere che l’abitudine alla lettura dipenda anche dalle disponibilità di servizi e di biblioteche pubbliche.
Considerata la coincidenza di divari territoriali è legittimo chiedersi se esista un rapporto tra il consumo dei libri e livelli di apprendimento della popolazione scolastica.

“Vaticano II ieri e oggi”

In occasione dei cento anni dalla fondazione della rivista “Recherches de Science Religieuse”, si tiene il 19 maggio all’Ambasciata di Francia presso la Santa Sede un convegno sul tema “Vaticano II ieri e oggi”.
Ai lavori prendono parte tra gli altri il padre gesuita direttore e redattore capo della rivista, Christoph Theobald, e il cardinale teologo emerito della Casa Pontificia, che ha sintetizzato  per  noi  gli  argomenti trattati.
“Vaticano II ieri e oggi” è il tema di un dibattito, che si svolge il 19 maggio, nella residenza dell’Ambasciata di Francia presso la Santa Sede.
Il punto di partenza è uno studio del padre gesuita Christoph Theobald, che propone una nuova chiave di lettura del concilio.
Come affermare la differenza cristiana di fronte al mondo contemporaneo? Nei testi conciliari, padre Theobald individua due modi giustapposti per rispondere alla domanda, senza che si veda una loro possibile sintesi.
Qual è dunque il nostro rapporto rispetto alla società e alla cultura? Questa è la domanda centrale.
 In relazione alla fede come accoglienza della Parola divina che è parola di vita, come concepire “l’immagine che ci facciamo di Cristo e la nostra relazione con Dio”? Cristo stesso, immagine del Padre, è assieme rivelatore e oggetto della rivelazione, datoci nella fede.
La ricchezza e la trascendenza del suo mistero richiedono una pluralità d’espressioni trasmesse per la maggior parte dalla Scrittura o dal Magistero.
Queste espressioni non sono esclusive, ma s’integrano  nel mistero, che il credente  vive quasi spontaneamente partecipando alla vita liturgica della Chiesa.
Giustamente, padre Theobald rileva che l’enciclica di Leone XIII Rerum novarum (1891) ha significato una svolta nell’atteggiamento della Chiesa di fronte al mondo moderno.
La prima reazione era stata di timore:  il declino della cristianità era percepito come una minaccia per la Chiesa stessa.
Leone XIII apre una via di collaborazione, in contrasto con il rigetto totale anteriore.
Ma il mondo “moderno”, ha anch’esso la sua storia e le sue ambiguità.
È condizionato dall’esperienza delle guerre di religione.
Una delle espressioni più caratteristiche dell’illuminismo è il deismo, nel quale s’iscrive il trattato di Locke sulla tolleranza, che mette in causa l’idea stessa di verità e la natura dei nostri doveri di fronte a essa.
Questa teoria ha fornito le premesse alle prime affermazioni sulla libertà religiosa, a tal punto che non si percepiva più la possibilità di scindere le “conclusioni” da queste premesse.
Così si spiega la prima reazione, d’indole pastorale, del Magistero.
La giustificazione della libertà di coscienza e della libertà religiosa dovuta alla Dignitatis humanae non è riducibile alle teorie dell’illuminismo.
È veramente innovatrice, in consonanza con il Vangelo.
Poco più di vent’anni separano la Rerum novarum dal concilio Vaticano i che ha trattato dei rapporti fra conoscenza di fede e conoscenza naturale, distinte ma chiamate a entrare in simbiosi.
Questa considerazione s’iscrive nel prolungamento della dottrina tradizionale della grazia, la quale guarisce la natura ferita dal peccato, la eleva alla partecipazione alla vita divina, la conduce alla sua perfezione.
 La formula è trascritta in Lumen gentium (n.
17), che padre Theobald cita.
È la chiave d’interpretazione del decreto sulle missioni Ad gentes e della dichiarazione Nostra aetate.
La missione della Chiesa deve essere considerata nella sua totalità.
Ma in questa totalità c’è un ordine prioritario dal principio alla conseguenza.
La missione principale della Chiesa è l’annuncio della salvezza portata da Gesù Cristo morto per i nostri peccati e risorto nella gloria.
Questo messaggio è universale.
Ma l’annuncio del Regno al quale tutti sono chiamati non significa indifferenza per la città degli uomini.
Al contrario, appartiene al messaggio evangelico di animare e ispirare l’impegno dei cristiani nella città terrestre.
Il merito di padre Theobald è quello di attirare la nostra attenzione sui grandi cambiamenti intervenuti nella città occidentale di fronte al cristianesimo e alla Chiesa.
La conseguenza è che un principio, sempre valido, quello dell’ispirazione del temporale dalle energie evangeliche, è suscettibile, secondo le circostanze storiche, di rivestire forme assai differenziate.
Una cosa è il principio, un’altra cosa è la sua forma “intransigente, integrale, utopica” caratteristica di alcuni movimenti degli anni Trenta del Novecento.
La distinzione è sempre stata rispettata? Riferendosi a Paolo VI, padre Theobald parla d’identificazione allorché il Papa scrive “alleanza”.
Sarebbe necessario d’altronde procedere a un’analisi dei concetti di moderno e di post-moderno, dati come scontati, a partire dalle loro fonti intellettuali.
Inoltre, la rilettura del concilio non può non tener conto del contesto storico stesso dell’avvenimento.
Quando i padri parlano d’ateismo, hanno in mente la Chiesa del silenzio e l’ateismo di Stato con il dominio assoluto dell’educazione e dell’informazione e il fatto che molti vescovi dell’est furono impossibilitati ad andare a Roma.
Più radicalmente, il numero 21 di Gaudium et spes che tratta del tema, si conclude con l’affermazione di Agostino, nelle Confessioni, Fecisti nos ad te (Domine) et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te.
Abbiamo qui una traduzione diretta della visione biblica dell’uomo.
Se questo è vero, come lo è, l’esistenza secolarizzata non può rappresentare una forma compiuta d’umanesimo.
Lo studio di Dignitatis humanae conduce a distinguere nell’insegnamento conciliare un’altra maniera di considerare la relazione con la cultura contemporanea:  la “via evangelica” di Gesù, caratterizzata da un “rispetto assoluto dell’interlocutore”.
Questo rispetto dell’alterità e dell’unicità della coscienza altrui ha portato il Signore ad accettare la croce piuttosto d’imporre con la forza la verità ai suoi interlocutori.
Padre Theobald ha certamente ragione d’insistere sulle esigenze evangeliche della qualità dei mezzi di trasmissione del messaggio.
Ma applicata alle vie pastorali proposte dal concilio, ci si può chiedere se l’alternativa croce e violenza, dell’autore, sia pertinente.
Il progetto qualificato di “riconquista” era necessariamente una pressione sulle coscienze, una violenza? L’applicazione non mi pare adeguata quando si tratta di esperienze  come quelle dell’Azione Cattolica.
Un’analisi più sottile della storia del movimento, mi sembra necessaria.
Lo studio di padre Theobald merita comunque attenzione per il tema centrale che egli tratta.
(©L’Osservatore Romano – 19 maggio 2010)

Sudario (Shroud)

Ho numerose ragioni per essere grato all’Uomo della Sindone.
Ho prodotto il mio primo documentario sull’argomento, The Silent Witness, (titolo italiano:  Il testimone silenzioso) nel 1977.
Ateo convinto e consapevole dell’esistenza di numerose reliquie false, avevo deciso di scoprire e mostrare come e da chi era stata contraffatta la Sindone.
Non potevo pensare che ci fosse un’altra spiegazione.
In quell’epoca pre-internettiana era possibile che ci fossero speciali gruppi di interesse isolati totalmente ignari dell’esistenza di altri che, altrove, si occupavano dello stesso argomento.
Come avrei poi scoperto, c’erano molti gruppi e singoli individui interessati a diversi aspetti degli studi sulla Sindone.
I miei viaggi di ricerca per il documentario hanno contribuito a metterli in contatto fra loro e, nel corso dell’operazione, le varie prove hanno cominciato a combaciare perfettamente.
Per esempio, lo storico Ian Wilson, utilizzando la sua conoscenza delle raffigurazioni artistiche di Cristo, ha formulato idee sul collegamento con il Mandylion di Edessa.
Max Frei, botanico e perito giudiziario, ha completato la sua identificazione dei tipi di polline presenti sulla Sindone, che appartenevano anche ad alcune piante della regione di Edessa.
Il mio documentario ha mostrato, per la prima volta, le prove raccolte da quei gruppi e, lungi dal rivelare la contraffazione, è divenuto un argomento affascinante per la probabile autenticità della Sindone.
Il documentario ha vinto il British Academy Award e molti altri premi internazionali.
Avevo ventisei anni e quel lavoro fece decollare la mia carriera.
Questo è un buon motivo per essere grato all’Uomo della Sindone.
Scoprire e raccontare questa storia mi ha portato in Medio Oriente, in Anatolia, a Istanbul e in varie città europee e statunitensi.
Mi sono fatto numerosi amici (e alcuni nemici) e ho raccolto storie da narrare.
Il mio breve libro sulla produzione del documentario è divenuto un best seller nel Regno Unito.
Ecco, dunque, altri motivi di gratitudine.
La Sindone è entrata a far parte del corso di studi in molte scuole.
Il documentario è divenuto un prerequisito per studi religiosi nel Regno Unito e altrove.
Quale miglior modo per affascinare i bambini del grande giallo della Sindone? Storia, fisica, religione, chimica, biologia, anatomia, arte, tessitura e molte altre materie entrano in gioco e, al centro della storia, ci sono due domande valide.
La persona impressa sul tessuto chi potrebbe essere se non il fondatore del Cristianesimo? E il processo che ha prodotto l’immagine potrebbe essere forse niente di meno che una funzione dell’evento che ha cambiato il mondo, la Resurrezione? È stato “un dono dal cielo” per gli insegnanti.
Noterete da come mi esprimo che nel corso della produzione sono divenuto credente e cristiano.
È difficile studiare la Sindone per tanto tempo senza diventarlo.
Questo non riguarda tanto aspetti oggettivi, sebbene siano piuttosto impressionanti, quanto soggettivi.
La sua sottile immagine monocromatica è un’opera di genio sublime nel comunicare l’essenza del momento storico in cui è nato il Cristianesimo, attraverso le azioni di Gesù di Nazaret.
Se un giorno, in un angolo della Sindone si scoprissero le iniziali del contraffattore, nulla cambierebbe nella mia fede.
Questo è il motivo più importante per cui sono grato all’Uomo della Sindone.
(Dovrei aggiungere anche che nella Chiesa ho conosciuto mia moglie!).
Nel 2008 ho prodotto un nuovo documentario per la Bbc e per la Rai sulla tensione attuale fra i risultati del test del c14, risalente a vent’anni fa, e i nuovi studi sulla Sindone.
A Torino mi è stato permesso di avere un accesso privilegiato alla Sindone per filmarla in alta definizione per la prima volta.
Poco dopo mi è stato chiesto di girare il documentario ufficiale per commemorare l’esposizione attuale:  l’ho intitolato Shroud.
La rivoluzione digitale ha reso possibile a un regista concepire una serie di immagini e sapere che la tecnologia, in mani esperte, può renderle reali.
La Sindone è un soggetto unico e adatto a essere ripresa in 3d perché contiene già in se elementi tridimensionali.
Il nuovo documentario si pone la domanda legittima:  è questa l’epoca per la quale è nata la Sindone? Il mio prossimo obiettivo sarà trovare un modo per portare la storia della Sindone a un pubblico più ampio in tutto il mondo.
(©L’Osservatore Romano – 19 maggio 2010)

Il peccato contagia anche i membri della comunità cristiana

“Viva riconoscenza” per la manifestazione di affetto e di vicinanza da parte della Chiesa e del popolo italiani è stata espressa da Benedetto XVI al termine del Regina caeli di domenica 16 maggio.
Il Papa si è rivolto ai moltissimi fedeli che si sono radunati in piazza San Pietro in risposta all’invito della Consulta nazionale delle aggregazioni laicali.
 Cari fratelli e sorelle, quest’oggi il mio primo saluto va ai fedeli laici venuti da tutta Italia – la vediamo presente tutta l’Italia – e al Cardinale Angelo Bagnasco che li accompagna come Presidente della Conferenza Episcopale.
Vi ringrazio di cuore, cari fratelli e sorelle, per la vostra calorosa e nutrita presenza! Grazie! Raccogliendo l’invito della Consulta Nazionale delle Aggregazioni Laicali, avete aderito con entusiasmo a questa bella e spontanea manifestazione di fede e di solidarietà, a cui partecipa pure un consistente gruppo di parlamentari e amministratori locali.
A tutti vorrei esprimere la mia viva riconoscenza.
Saluto anche le migliaia di immigrati, collegati con noi da Piazza San Giovanni, con il Cardinale Vicario Agostino Vallini, in occasione della “Festa dei Popoli”.
Cari amici, voi oggi mostrate il grande affetto e la profonda vicinanza della Chiesa e del popolo italiano al Papa e ai vostri sacerdoti, che quotidianamente si prendono cura di voi, perché, nell’impegno di rinnovamento spirituale e morale possiamo sempre meglio servire la Chiesa, il Popolo di Dio e quanti si rivolgono a noi con fiducia.
Il vero nemico da temere e da combattere è il peccato, il male spirituale, che a volte, purtroppo, contagia anche i membri della Chiesa.
Viviamo nel mondo – dice il Signore – ma non siamo del mondo (cfr.
Gv 17, 10.14), anche se dobbiamo guardarci dalle sue seduzioni.
Dobbiamo invece temere il peccato e per questo essere fortemente radicati in Dio, solidali nel bene, nell’amore, nel servizio.
È quello che la Chiesa, i suoi ministri, unitamente ai fedeli, hanno fatto e continuano a fare con fervido impegno per il bene spirituale e materiale delle persone in ogni parte del mondo.
È quello che specialmente voi cercate di fare abitualmente nelle parrocchie, nelle associazioni e nei movimenti:  servire Dio e l’uomo nel nome di Cristo.
Proseguiamo insieme con fiducia questo cammino, e le prove, che il Signore permette, ci spingano a maggiore radicalità e coerenza.
È bello vedere oggi questa moltitudine in Piazza San Pietro come è stato emozionante per me vedere a Fátima l’immensa moltitudine, che, alla scuola di Maria, ha pregato per la conversione dei cuori.
Rinnovo oggi questo appello, confortato dalla vostra presenza così numerosa! Grazie! Ancora una volta, grazie a voi tutti!