“Il catecumenato è un luogo di rinnovamento delle pratiche di trasmissione della fede”

Dal 6 al 9 luglio si svolgono le Assises internationales du cathécumenat.
Il loro lavoro sarà proseguito attraverso un Osservatorio internazionale delle pratiche catecumenali.
L’Istituto che lei dirige (l’Institut supérieur de pastorale catéchétique) ha come missione la catechesi.
Perché ha organizzato le prime Assises internationales du cathécumenat? Perché in una Chiesa colpita dalla crisi della trasmissione, il catecumenato si presenta sotto certi aspetti come un esempio in controtendenza.
Il numero di bambini catechizzati continua a diminuire, ed anche quello dei catechisti, ma aumenta il numero dei catecumeni.
Il catecumenato sembra proprio essere un luogo di rinnovamento delle pratiche di trasmissione.
Del resto, con l’aumento dell’individualismo, si constata che i processi di costruzione dell’identità credente siano stati sconvolti.
Non si diventa credenti come trent’anni fa! Da qui l’interesse a costituire una rete di ricerca per sapere come si scopre o si riscopre la fede nelle nostre società attuali.
Da questo punto di vista, la Francia è un passo più avanti…
La Chiesa francese è stata pioniera in materia di catecumenato: i primi battesimi di adulti, con tappe liturgiche, sono iniziati nel 1952 a Parigi.
Tutti conoscono l’importante riflessione teologica di Henri Bourgeois a Lione.
Questo dipende dalla storia del nostro paese e dalla nostra secolarizzazione avanzata.
Tuttavia bisogna che queste ricerche vengano continuate.
Che cosa possiamo imparare dalle esperienze dei paesi stranieri? Nel catecumenato, il rapporto con la cultura è fondamentale.
Ad esempio, un adulto che si presenta al battesimo in Francia lo fa in una relativa indifferenza sociale.
Non è la stessa cosa per un catecumeno in Senegal, dove più dell’80% della popolazione è musulmana…
E questa esperienza è senza dubbio interessante per delle diocesi in cui la religione maggioritaria non è più la religione cattolica…
Si dice spesso che i nuovi battezzati non restano a lungo nella Chiesa…
Il progetto di ricerca ha anche la missione chiarire anche certe idee preconcette diffuse.
Come quella secondo la quale i battezzati adulti lascino la Chiesa nel giro di due anni! Quello che già sappiamo, è che un terzo dei nuovi battezzati traslocano nei due anni successivi al battesimo.
E andando in un’altra parrocchia, per definizione, non sono più considerati catecumeni.
Bisogna quindi tener conto della mobilità dei giovani adulti.
Da qui l’importanza di riunire tutti i dati e favorire la costituzione di una rete internet.
Chi sono oggi i catecumeni? Il Servizio nazionale della catechesi e del catecumenato pubblica ogni anno le statistiche dei battezzati adulti.
Ma si sa comunque che l’immensa maggioranza dei catecumeni sono dei giovani che crescono nelle cappellanie della scuola pubblica (AEP) e della scuola cattolica.
Ora, non sono contabilizzati.
Si valuta oggi a 20 000 il numero di adolescenti che fanno una richiesta di tipo catecumenale, che richiedono cioè il battesimo o la cresima, solo nelle AEP.
Per quanto riguarda gli adulti, il numero è di circa 2 900.
È questa dinamica che vogliamo studiare perché crediamo che lì si giochi una parte del futuro della Chiesa in Francia.

Credere al mistero pasquale

Sembra che certi cristiani non credano alla Resurrezione! Questa incredulità non è forse dovuta al fatto che, nello spirito di molti, la parola resurrezione, per quanto riguarda Gesù, è interscambiabile con la parola apparizione? Focalizzare Pasqua sulle apparizioni e vedervi soltanto la rivivificazione di un cadavere non solo è cristologicamente assurdo, ma anche logica fonte di scetticismo.
Com’è possibile arrivare a questo? Senza dubbio perché Pasqua, con le sue apparizioni, giunge come ultima parte del triduo pasquale – Giovedì santo, Venerdì santo, Pasqua – e viene percepita come il suo culmine.
Dimenticando che il mistero pasquale si struttura anche in un secondo trittico altrettanto essenziale – Pasqua, Ascensione, Pentecoste –.
Secondo trittico senza il quale la Resurrezione e le apparizioni di Gesù sarebbero solo un bel discorso.
È vero che la densità liturgica e l’emozione sono in questo caso meno forti, i simboli meno palpabili.
Ma se Pasqua non è credibile senza la Cena, la Passione e la Resurrezione, non è credibile neppure senza la Resurrezione, l’Ascensione e la Pentecoste.
Il mistero pasquale non si esprime solo nel registro del passaggio attraverso la morte verso la vita.
Credere alla Resurrezione è una cosa più ampia, più esigente ma anche più vera.
Vuol dire credere alla piena realizzazione di Gesù in Cristo, nella sua esaltazione e glorificazione.
La fede nella Resurrezione non si limita a credere alle apparizioni, ma soprattutto in ciò che questa parola si sforza di far valere, che riguarda anche la nostra pienezza umana.
Gesù non appare per dire: “Sono risorto, questa è adesso una verità rivelata, bisogna trasmetterla se volete salvare le vostre anime.” Dio non si limita a comunicare un messaggio agli uomini, si comunica lui stesso come piena realizzazione dell’uomo.
Prima di essere un qualcosa fatto di avvenimenti oggettivabili, storicamente sensibili (colui che era morto si fa vedere vivo), la Resurrezione è, per i discepoli, un’esperienza tangibile, vitale.
Sono introdotti nella veracità di Cristo uomoDio, rivelazione della loro filiazione divina: è l’Ascensione.
Sono introdotti in una presenza reale, che, attraverso lo Spirito effuso, rivoluziona il loro quotidiano: è la Pentecoste.
Il senso eccezionale della vita iniziato con l’avvenimento Resurrezione è troppo spesso ridotto alla descrizione delle apparizioni e alla fattualità di immagini mentali o artistiche che ne perturbano la percezione.
Ma non lasciamoci ingannare.
Il Vangelo non pretende affatto, ad esempio, che Gesù resuscitato sia stato visto da testimoni diversi dai discepoli, dai fratelli, e che qualcuno lo abbia toccato per verificare, nemmeno Tommaso! Allora, con quali occhi lo hanno visto vivo in persona poiché, innanzitutto, non lo riconobbero? Esattezza o veridicità della visione? Lo Spirito confermatore non stava già operando per aprire gli occhi della mente? Ci si accontenta troppo spesso di un approccio esclusivamente liturgico dei testi, li si dà ad intendere solo al primo livello, quello letterale.
Il rischio è di ritrovarsi in un vicolo cieco, con delle apparizioni di cui ci si servirà come di miracoli evidenti per polemizzare con i denigratori della fede! Non è perché si fa vedere, che Gesù è resuscitato, ma perché è stato risollevato di tra i morti, perché la sua vita è una con il Padre e perché il loro Spirito comunicato apre gli occhi dell’intelligenza.
Le apparizioni punteggiano l’avvenimento di Pasqua ma non lo definiscono da sole.
È necessaria l’esperienza del mistero cristico, sia per i testimoni di allora che per noi.
Alla fine non c’è altra prova della Resurrezione che la prodigiosa, imprevista comunità degli Atti degli Apostoli, nuova creazione.
A quale Resurrezione crediamo? Credere al mistero pasquale non vuol dire accontentarsi di confessare la storicità delle apparizioni fino alla fine dei tempi, come la morte di Socrate o la nascita di Napoleone.
È essenzialmente capire che ognuno è in grado di gustare della triplice e simultanea pienezza di Resurrezione, Ascensione, Pentecoste, a titolo individuale, come soggetto unico, ma anche comunitariamente.
Se una di queste tre parti venisse a mancare, le altre due svanirebbero e, per noi, tutto il mistero pasquale.
Non possiamo bloccarci ad una comprensione iniziale della fede nella Resurrezione, alle apparizioni, ad una affermazione oggettiva lontana dall’uomo, ad una verità da credere senza implicazioni.
Se Gesù è diventato Cristo, è affinché noi diventassimo Cristo con lui, anche noi testimoni della sua Resurrezioneùù in “La Croix” del 3 luglio 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)

Le venuzelas di Mandela

La vuvuzelas, é l’argomento per eccellenza extra-tecnico dei Mondiali sudafricani:  una tromba da stadio lunga non più di un metro da tempo in voga tra i tifosi locali, chiamata vuvuzela.
C’è chi le paragona al barrito di un elefante e chi a uno sciame d’api inferocite.
  C’è chi le ha elette a simbolo di Sudafrica 2010 e chi, per il loro infernale frastuono, le ha bollate come strumento del diavolo.
Eppure, secondo il sito boogieblast, la tromba, oggi «soccer horn» per eccellenza e oggetto sempre più di culto tra i tifosi.
Fu introdotta in Sudafrica come un giocattolo per bambini che dovevano soffiarci dentro per puro gioco.
Non ebbe granché successo, fino a quando non furono i supporters locali del soccer a scoprire e realizzare l’effettivo potenziale dell’invenzione, il cui primo prototipo sarebbe stato ‘importato dagli Stati Uniti.
Sull’origine del nome, e su cosa veramente significa, sono state fatte molte ipotesi.
Di fatto le vuvuzelas appartengono ai supporters, come se i tifosi in qualche modo ne detenessero i diritti.
Nella versione messa a disposizione da un sito specializzato la vuvuzela misura 65×13 centimetri e pesa 120 grammi.
In commercio ne sono attualmente reperibili almeno un paio di versioni, a costi tutto sommato limitati.
Si parte da circa otto euro l’una, e si può anche arrivare ai 50, ma scegliendo una versione particolarmente «pretenziosa».
Maggiore il risparmio se si compra direttamente in Sudafrica: la tromba a Johannesburg costa la modica cifra di 25 rand, circa due euro e cinquanta centesimi.
Gli «strumenti del demonio» si appresterebbero a invadere gli stadi europei con il loro frastuono che può raggiungere i 150 decibel, anche se l’uso dei tappi può ridurlo di 30 decibel.
Oggetto di una semplicità arcaica, la vuvuzela produce una limitata ma potente gamma di suoni.
Anche se l’origine del nome non è chiara, sembra abbia ascendenze zulu: potrebbe significare “far rumore” ma anche “ronzio di uno sciame d’api”.
Suonarla è tutt’altro che alla portata dei profani e richiede una tecnica adeguata.
Debitamente illustrata in un apposito sito, il supplier boogieblast (www.boogieblast.com).
Che così spiega: «Introducete le labbra nell’imboccatura e provate a riprodurre il suono di una scoreggia (pudicamente, l’inglese farting è messo tra virgolette).
Rilassate le guance e fate vibrare le labbra nell’imboccatura.
Non appena il suono comincia ad uscire, soffiate con maggior forza».
Con risultati che sono stati ampiamente e assordantemente sperimentati.
Il modello di plastica, oggi il più diffuso negli stadi sudafricani dei mondiali, si è affermato nel corso degli anni Settanta tra i tifosi che seguivano le partite di calcio in Messico.
La vuvuzela aveva guadagnato l’attenzione dei cronisti sportivi già durante la Confederation Cup della FIFA dello scorso anno.
Valutato l’effetto del continuo e incessante ronzio causato dalle migliaia di trombette presenti negli stadi e la potenziale pericolosità dello strumento nel caso di tafferugli, la FIFA aveva deciso di vietarne l’utilizzo nel corso dei mondiali.
La SAFA, la South African Football Association, ha però presentato un ricorso a difesa della vuvuzela, risorsa indispensabile per regalare al mondo una vera esperienza sudafricana delle partite di calcio.
La FIFA è così tornata sui suoi passi, permettendo l’utilizzo dei modelli di vuvuzela di plastica che non superino il metro di lunghezza.
Sicuramente uno dei motivi per cui verranno ricordati questi mondiali sono le vuvuzelas, le trombette usate negli stadi che ospitano le partite dei mondiali in Sudafrica, e il forte rumore che queste provocano.
Il loro suono continuo infatti disturba i tantissimi telespettatori che assistono ai mondiali da tutto il mondo.
I primi a correre al riparo sono state le emittenti tedesche Zdf e l’Ard, che hanno deciso di introdurre alcuni accorgimenti durante le telecronache: utilizzeranno microfoni labiali e meglio direzionati per ridurre il fastidiosissimo rumore e impiegheranno un filtro audio inventato da Tobias Herre. Oltre alla Germania, anche la Bbc ha annunciato di aver preso degli accorgimenti per limitare il rumore prodotto dalle vuvuzelas.
Un funzionario ha dichiarato: “Stiamo monitorando la situazione.
Se le vuvuzelas continuano ad avere un impatto sonoro elevato, siamo pronti a prendere degli ulteriori accorgimenti”.
E un “commento” di un tifoso furioso(allegro e spiritoso) Ste trombette, quelle trombe lunghe un metro che fanno da sfondo ai campionati del mondo in Sudafrica, le Vuvuzela, hanno francamente rotto i coglioni.
Almeno a me ecco.
Cioè hanno un suono fastidioso e monocorde che alle mie orecchie risulta molto irritante.
Detto questo, la scorsa settimana ho seguito una discussione su Twitter, di un amico (del quale non dico il nome) ed una tipa che non conosco, che non seguo e che non ho intenzione di seguire dopo aver letto le stronzate che diceva.
In pratica sosteneva che i Sudafricani sono degli incivili, che ci vorrebbe uno sterminio, una bomba atomica o al minimo un Tzunami, per spazzare via un popolo di aborigeni che fanno un rumore simile con le trombette.
La simpatica amica in questione si accalorava nel dire cose come “non capisco come i calciatori accettino di giocare li” e cose di questo genere, senza risparmiare bestemmie e ataviche maledizioni ai “negri” africani.
L’amico di cui parlavo sopra, con grande freddezza e simpatia è anche riuscito ad interloquire e le ha detto qualcosa come “faranno casino si ma da li a augurare loro lo sterminio…” e li si è scatenata la parte migliore della signorina delirante.
Ha detto che “voi segaioli comunisti (…) con la vuvuzela” e bla bla bla, riferendosi a tutti quelli che non sono evidentemente idioti come lei.
Ora, l’assioma “vuvuzelacomunista” è una cosa che mi intriga da morire: come mai questa donna è arrivata a pensare che tutti quelli che NON sterminerebbero un popolo intero solo perché suona delle trombe allo stadio, debbano essere comunisti? Come mai il non essere un assassino di massa è considerato una cosa comunista da sta povera persona? E sopratutto, può il non essere un folle che augura Tzunami a milioni di persone, essere definito comunista con accezione negativa quando invece essere un folle sanguinario è una cosa positiva? E se positiva che nome ha? Fascista? Nazista? No, dico solo per capire eh.
Ultima cosa, se non essere matti vuol dire essere comunisti, non è meglio essere comunisti? Ma se così è allora il termine “comunista” non può essere considerato un temine negativo.
Insomma, vorrei tanto che sta tipa passasse di qua e leggesse, e poi mi spiegasse anche cosa le passa per l’insano e contorto cervello.
Ma dubito che passi di qua e anche che riesca a spiegarsi.
Vediamo ed aspettiamo… Bandire Le Vuvuzelas? ”No, è La Nostra Cultura”  Polemiche sul rumoroso strumento che i sudafricani suonano in strada e negli stadi, disturbando giocatori e trasmissioni tv: c’è chi lo vorrebbe vietare, ma i sudafricani sono contrari: “Troppo tardi, non possono più vietarla, è troppo tardi ormai”.E ancora: “Questo è un Mondiale in Africa e appartiene a noi.
Dobbiamo suonare le vuvuzelas, dobbiamo soffiare e soffiare e soffiare fino alla fine della Coppa” .
Una posizione quindi che va oltre il tifo e diventa difesa culturale: “Perché dovrebbero bandirla? E’ parte del Sudafrica, parte di Capetown.
E’ il nostro modo di tifare, non dovrebbero vietarla” ( fonte: repubblica.it) Mondiali 2010: le vuvuzelas sono l’incubo di tutti Se in queste sere vi siete sintonizzati su Rai 1 ma anche su sky o sui canali radio per seguire le partite dei mondiali sudafricani avrete sicuramente notato qualcosa di strano.
Più che notato, udito forse, un piccolo rumorino di sottofondo.
Neanche tanto piccolo e poco fastidioso se pensate che qualcuno ha anche richiesto il modo per evitarlo.
Di cosa stiamo parlando? Di quelle simpaticissime trombette, le vuvuzelas, che vengono regalate all’ingresso dello stadio e che producono un rumore assurdo.
Alla fine della partita il mal di testa è assicurato.
Pensate che secondo alcuni quotidiani sudafricani si scrive che il presidente abbia fatto un appello ai tifosi già prima dell’inizio del mondiale perché si conosceva la possibilità di un problema simile.
In effetti queste trombette sarebbe così dannose da poter addirittura provocare problemi all’udito.
I tifosi però non sembrano aver accolto quest’appello.
Anche i giocatori hanno dichiarato che le trombette disturbano parecchio ma sembra se ne debbano fare una ragione.
Il suono di queste utilissime trombette sembra esser destinato a diventare la colonna sonora di questi mondiali.
Ogni vuvuzela produce un suono di 127 decibel, una cosa incredibile se si pensa che si tratta di un semplice strumento a fiato eppure è così.
Dopo le proteste la casa produttrice delle fantastiche trombette ha deciso di abbassare il numero di decibel che resta comunque altissimo.
Ecco come si è giustificato un dirigente della società produttiva Masincedane Sport: “Abbiamo modificato il boccaglio, le Vuvuzelas avranno un suono di 20 decibel inferiore rispetto a quelle prodotte fino ad ora“.
Queste le sue parole prima del mondiale.
Non sembra però che questa modifiche abbiamo portato risultati ottimali.
Il disturbo c’è ancora e si vede.
E’ vero che in molti casi è meglio sentire questo spiacevole rumore invece delle telecronache assurde di cui ci omaggiano alcuni giornalisti.
Ma se fosse possibile preferiremmo evitarlo…Sembra un’ipotesi comunque difficile questa! La soluzione? Togliete l’audio… E- mi auguro- che essendo uno strumento semplice, possa essere usato da quanti oggi sono oppressi nel mondo e vogliono liberarsi, cioè essere uomini e donne felici nella propria società.
 Non sono una tifosa di calcio, però quando ho sentito mio marito che telefonava al figlio per sapere come eliminare quel fastidioso ronzio, simile a quello di uno sciame grossissimo di api, ho cominciato a ridere, a ridere e rido tuttora quando c’è una partita del Mondiali di calcio 2010.
Dio- ho pensato- anche stavolta Mandela farà conoscere al mondo intero qualcosa della sua cultura, di quella cultura che ha permesso a certi politici di individuare le strade della tolleranza, della comprensione e del perdono, della convivenza  tra le varie  etnie, anche se sussistono problemi gravissimi di povertà, sanità, e religiosità.
Per un attimo solo ho sognato che le vuvuzelas dei popoli sudafricani che le usavano per tenere lontano i nemici e gli animali feroci, potessero diventare uno strumento di lotta pacifica contro tutti i soprusi di cui oggi noi occidentali siamo vittime: politica, economia, rischi ambientali( come mi piange il cuore nel vedere il mio giovane presidente Obama stretto nella morsa del disastro ambientale che ha ereditato dal suo predecessore e nella incapacità dell’ONU nel dover ancora realizzare minimamente gli obiettivi che insieme 192 Paesi si erano riproposti di raggiungere nel 2015 per vincere la povertà, la malattia, la discriminazione di genere….).
Ma forse, la curiosità, la stupidità che acceca molti dei nostri contemporanei che a migliaia si sono gettati a comprare queste “trombette monocorde”, riusciranno a diventare un simbolo pacifico seppure fastidiosissimo,  dell’insofferenza  della gente verso i troppi, esagerati soprusi che stanno prevaricando in ogni dove da cui- sembra- sia scomparso ogni segno di democratica convivenza.
Un gruppo che protesta o vuole inneggiare a questo o quello che fa il bene del suo Paese, non è qualcosa da scartare o da irridere.
Nelson Mandela, ancora una volta, ci ha indicato una via serena per sospingere i deputati al Bene Comune, a non desistere, perché- prima o poi- la civiltà della convivenza prevarrà sul turpe mercato economico che sta imbrigliando il globo intero nella sua morsa mefitica.
Forse- ancora una volta- dobbiamo credere che sia stato un “segno” dell’Altissimo far sì che il campionato mondiale di calcio che è quello che inchioda più milioni di persone davanti alle TV, attraverso le vuvuzelas di un popolo umile, povero, vivo e geloso della sua cultura, possa riprendersi dal torpore mortale in cui vive e che ammette ogni infamia a discredito di tantissimi  che cercano di convivere nella amicizia e nella giustizia.
Evviva Mandela, evviva il Sudafrica! Però ora, se mi permettete, desidero riportare alcuni brani – a volte- tecniche, altre  furiose- sulle vuvuzelas che disturbano il ben sentire i commenti alle partite di calcio.
Eccole: Cosa sono le Vuvuzelas? i più risponderanno “delle trombette che si suonano agli stadi dei mondiali del Sudafrica”.
Ma per dare una risposta concreta bisogna cercare notizie che risalgono a più di 40 anni fa. Ci sono testimonianze di questo tipo di corno o di tromba di plastica negli stadi messicani dal 1970.
Originariamente fatta di latta, la Vuvuzela divenne popolare in Sud Africa nel 1990.Il noto Freddie “Saddam” Maake supporter di una squadra di calcio locale, Kaizer Chiefs, sostiene di aver inventato la vuvuzela, creando una versione in alluminio già nel 1965. Più tardi ha perfezionato il prodotto collegandolo a un tubo per renderlo più lungo. Maake ha foto che attestano quanto dice, foto che risalgono agli anni 1970 e 1980 a livello locale e ai giochi del Sud Africa e giochi internazionali nel 1992 e nel 1996 e in Coppa del Mondo 1998 in Francia.
Nel 2001 c’è chi vede una fonte di guadagno in questo oggetto particolarissimo e compie una vera e propria azione di Marketing.
Tutto cambia: l’oggetto leggendario viene brevettato, pubblicizzato, viene creato un uso del prodotto e viene prodotto in serie grazie a van Schalkwyk.
E’ la Masicendane Sport, società sudafricana, che lancia le vuvuzela su scala internazionale, ben tre anni prima che il Sudafrica si aggiudichi il Mondiale 2010.
Quando la Fifa sceglie Johannesburg per la Coppa del Mondo, van Schalkwyk ha già regalato 250 vuvù al Comitato organizzatore, convinto i ministri sudafricani delle Finanze e dello Sport a suonarle in pubblico e stretto accordi commerciali con gli organizzatori dei prossimi Mondiali in Brasile.
La vera magia delle vuvù, insomma, sembra essere quella di portare soldi.
Un euro e mezzo per una trombetta, oltre un milione quelle già vendute per un totale di un milione e mezzo di euro già nelle casse della Masicendane Sport.
Altri due milioni dovrebbero essere incassati nei mesi immediatamente successivi al Mondiale.Il suono delle vuvù sembra piuttosto stimolare la creatività, e il business.
Vuvuzela per iPhone, di casa Apple, è al momento l’applicazione gratuita più scaricata in Sudafrica e nel Regno Unito: oltre 750 mila download per riprodurre il fastidiosissimo suono sul proprio cellulare.
Craig Marias, un altro imprenditore sudafricano, ha assunto 80 operai per produrre copri- vuvuzuela e ha detto di aspettarsi introiti milionari nei prossimi sei mesi, mentre aziende come la Allding Ltd o boogieblast hanno creato siti internet che, oltre alla vendita di trombette, raccontano curiosità sullo strumento o insegnano a soffiarci dentro.
Insomma, più che il ronzio di uno sciame d’api, le vuvuzela suonano musica milionaria.
Disturbata da copie più potenti o meno potenti (Kuduzela) e ancor peggio dal mercato cinese, che pare abbia già messo in commercio trombette senza marchio registrato a un prezzo di vendita molto più basso.
Ulteriore pericolo per questo oggetto cult di questi mondiali di calcio è il suo rumore assordante durante le partite. Guerra alle ‘vuvu’ quindi.
Il mondo del calcio e’ infatti in rivolta contro i rumorosissimi ‘corni’ di plastica, suonati continuamente durante le partite dei Mondiali di Sudafrica 2010.
Messi da parte i tradizionali tappi alle orecchie e le ‘suppliche’ di intervento respinte dalla Fifa, mezzo mondo sta disperatamente cercando soluzioni per zittire le vuvuzelas sudafricane.
I più agguerriti sono i telespettatori che sul web si lasciano andare a commenti ‘arrabbiatissimi’.
Ma c’e’ chi non si arrende e propone soluzioni, a volte anche stravaganti, per poter seguire ‘in pace’ le partite come il tedesco Tobias Herre, che, sulla propria pagina web, ha pubblicato le istruzioni per eliminare il fastidiosissimo sottofondo dalle telecronache delle partite.
“Il rumore mi dava un fastidio enorme.
In realtà, eliminarlo è molto semplice”, ha detto all’agenzia Dpa.
La soluzione, a quanto pare, è costituita da un software speciale che intercetta e cancella determinate frequenze dei suoni creati dalle terribili trombette di plastica.
Lasciando, al tempo stesso, il rumore dei tifosi e la telecronaca dei commentatori.
Herre ha creato un tutorial..
A sostegno dei ‘tormentati’ dalle vuvu, come sono amichevolmente chiamate le vuvuzelas in Sudafrica, scende in campo la tecnologia.
Sui blog c’e’ chi propone di filtrare con un software le frequenze che compongono il ”suono del corno”.
Su alcuni post ci si spinge oltre e si suggerisce di riprocessare l’audio attraverso un computer e bloccare la banda dei 233, 466, 932  1864 Hz.
Stesso suggerimento per chi ha un televisore con equalizzatore o per chi ha un sistema ‘home theatre’.
(source: ilPost Leggo Wikipedia Boogieblast).

Il prevosto e il dottore alla sfida degli ex voto

Il dottor Mario Alfani, cardiologo e presidente dell´Ordine dei medici, prende in mano una tavoletta.
«Questo ex voto del 1898, sigla Br 16657, è quello che più mi colpisce.
Il malato a letto guarda alla sua sinistra, verso l´alto.
Lì c´è una Madonna circondata da angioletti.
Prega e invoca un miracolo.
A destra del letto c´è invece il medico, in abito nero – i medici allora erano sempre vestiti di scuro – che non guarda il malato ma appoggia le mani su un tavolino e abbassa la testa, sconsolato.
Non sa più che fare.
Tutti noi medici abbiamo vissuto momenti come questo, quando senti dentro l´angoscia perché hai capito che per il paziente non puoi più fare nulla.
Per fortuna questo è un ex voto: se la tavoletta è stata portata in un santuario, vuol dire che il malato è guarito».
In terra astigiana è nata una strana alleanza: medici e sacerdoti (che per centinaia d´anni sono andati d´accordo come ghibellini e guelfi) si sono messi assieme per studiare gli ex voto portati nei santuari negli ultimi sette secoli.
«Siamo stati spinti dalla curiosità.
Come ci hanno visto, e giudicato, i nostri pazienti? Le tavole sono una microstoria che parte dal Medioevo e dentro ci siamo anche noi.
Per questo abbiamo chiesto al progetto culturale della diocesi di collaborare a questo studio.
Le tavole sono state raccolte e osservate una a una.
Presto apriremo una mostra ma già ci siamo riuniti a convegno: come medici, storici e teologi abbiamo guardato il nostro passato come in uno specchio».
Settecento tavole, quasi tutte su legno.
Camici bianche e tonache nere sono partiti da qui per studiare il rapporto fra «fede e salute» e riflettere sulla «religiosità popolare nella cura della malattia e nella professione medica».
«Nelle tavole – dice il dottor Alfani – c´è il racconto della medicina che piano piano riesce a dare risposte sempre più precise.
All´inizio non era così.
Questo paziente con la testa rotta, ad esempio, è solo fasciato.
Invoca i santi, non ha altra speranza, anche perché nella stanza non c´è nemmeno il medico.
Ma in tante tavole anche noi siamo presenti perché chi sta male invoca un doppio aiuto, il nostro e quello del cielo.
Ma quasi tutte le immagini sembrano spaccate in due.
Il paziente guarda verso l´alto, dove fra nuvolette e angeli appaiono i protettori, e anche i parenti, quasi sempre inginocchiati, guardano nella stessa direzione.
Il medico è invece accanto al letto e volta le spalle all´immagine sacra.
Nessuno lo guarda, nemmeno il paziente.
Ma resta comunque lì, a portare il suo aiuto terreno».
Non è mai stato facile il rapporto fra medicina e religione.
«Nella sacra scrittura – dice don Vittorio Croce, docente di teologia – c´è un certo rispetto per i medici ma non manca una vena di pessimismo.
Nel Siracide, II secolo avanti Cristo, si parla bene di questa professione ma si ricorda che la guarigione è sempre dono del Signore.
E si aggiunge: “Chi pecca contro il proprio creatore cada nelle mani del medico”.
Ancor più pesante, nel Vangelo, la notazione di Marco sulla donna colpita da perdite di sangue da ormai dodici anni: “Aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi peggiorando”».
«Le icone sono davvero anche la storia della malattia e della medicina», dice il presidente dei medici.
«Nei primi secoli, quasi tutti i malati sono nei loro letti, a casa loro.
Andare all´ospedale, per chi era abbiente, era un affronto.
Voleva dire che si era messi molto male e anche che non c ´erano più i mezzi per essere curati a casa propria.
Ci sono anche le stanze delle case dei poveri, con letti stretti e nessun mobile.
Poi appaiono le prime “camerate” da ospedale, e alcune sono quelle del nostro nosocomio astigiano, che trovò posto in un ex convento.
Quando i letti affiancati sono tre o quattro, e tutti i degenti appaiono nelle stesse condizioni, significa che la grazia chiesta era quella di guarire da un´epidemia, come colera, peste o vaiolo.
Si nota, in queste tavole, anche la cronologia dei rimedi trovati dalla scienza medica: si passa dall´impiastro allo sciroppo, dalla pillola all ´iniezione, e in un ultimo “Deo Gratias” di pochi decenni fa, appare anche la flebo.
I medici un tempo vestiti di nero, nel secolo scorso cominciano ad usare il camice bianco e accanto a loro appaiono prima le suore e poi le infermiere».
Le icone raccontano anche l´infortunistica, soprattutto quella del lavoro.
«Ci sono il barocciaio travolto dal cavallo, il contadino incornato dal toro, il muratore che cade dall´impalcatura.
Ci sono gli incidenti strani: questo bambino, ad esempio, è stato beccato a un occhio da un pavone.
Questa bambina è stata scottata dall´acqua bollente.
Buoi e cavalli lasciano il posto alle macchine a vapore, poi alle automobili e ai trattori.
Guardando le date, si scopre quando nelle nostre campagne è apparsa la prima trebbiatrice.
Ma ci sono quadri in cui non sono raccontati nessuna malattia evidente e nessun incidente: questa tavoletta numero 6661 mostra una persona semplicemente seduta su una seggiola accanto al letto, testa bassa, volto triste.
Credo che questa sia la prima rappresentazione di un problema oggi tanto diffuso: la depressione».
La rassegna degli ex voto alla fine consola il dottor Alfani.
«In fondo si capisce che chi invoca la guarigione si affida alla Madonna e ai santi ma anche a noi.
Il medico è sempre stato indispensabile.
Cambiano le terapie ma il rapporto medico-paziente è sempre fondamentale.
Io penso che la fede possa aiutare e integrare il nostro lavoro.
Non credo a un effetto placebo della fede ma in certi casi – quando il malessere non è solo fisico ma psicologico o psichico – il rapporto con il medico e la fiducia che si ripone in lui diventano fondamentali.
E per recuperare tranquillità ed equilibrio anche la preghiera a un santo può dare un aiuto.
Una preghiera non ripara una frattura e non elimina una cirrosi, ma sappiamo che la personalità umana è complessa e noi camici bianchi non abbiamo nessun monopolio».
«In molte tavolette – racconta Renato Bordone, ordinario di Storia medioevale all´Università di Torino – la figura del medico compare fra i protagonisti della scena, occupando una parte dello “spazio terreno” insieme al malato e ai suoi familiari.
Lo “spazio celeste” è riservato invece al protettore (Madonna o santo), per lo più avvolto da un nimbo sacro o da nuvole.
Sebbene in qualche caso medico e familiari compaiano schiena contro schiena – l´uno pensoso, rivolto al malato, gli altri rivolti al santo, quasi ignorando il medico – è chiaro che la presenza del medico nel quadro rientra anch´essa nell´ottenimento della grazia: in un certo senso è riconosciuta la sua collaborazione al “miracolo”».
Gli ex voto hanno iniziato ad apparire nella seconda metà del secolo Tredicesimo.
Prima si portavano nelle chiese oggetti di cera simbolici, un contro-dono alla grazia ricevuta.
«Gli ex voto – dice il docente – sono un documento culturale, un messaggio codificato per testimoniare credenze, paure, speranze.
Se ne ricavano informazioni interessanti.
Per esempio nella diocesi di Brescia – e secondo i primi esami anche qui ad Asti – si è scoperto che gli ex voto per malattia coprono la metà del materiale fino al principio del secolo Ventesimo, poi decrescono forse per i progressi della medicina, mentre aumentano quelli per incidenti sul lavoro, collegati con lo sviluppo dell´industria e della meccanizzazione delle campagne».
Nei santuari gli ex voto recenti sono ormai mosche bianche.
«Questo succede – dice don Alessandro Quaglia, architetto che cura i beni culturali della curia vescovile – perché la pietà si è affievolita nel nostro popolo.
Un tempo c´era il Padreterno a pensare a tutto, ora ci sono i medici».
Il presidente dell´ordine dei camici bianchi non è d´accordo.
«Gli ex voto sono soltanto cambiati.
Un tempo si andava dall´artista del paese per fare dipingere una tavoletta di ringraziamento per il santuario, adesso si fanno donazioni alla Lega antitumori o ad altri enti di ricerca».
Erano specialisti anche i santi, in questa terra.
«Il santo al quale qui da noi sono titolate più chiese – ricorda il teologo don Vittorio Croce – è San Rocco, invocato contro la peste di uomini e di animali.
Segue San Sebastiano, ucciso a colpi di freccia, protettore contro tutte le malattie del corpo e dello spirito.
Sant ´Antonio abate o del porcello viene invocato a protezione delle stalle ma anche dei cristiani, contro il fuoco detto appunto di Sant´Antonio.
Sempre San Sebastiano e San Grato difendono dalla grandine, Santa Lucia protegge gli occhi, San Defendente contro tutti i mali, Sant´Apollonia contro il mal di denti, San Biagio contro il mal di gola, Santa Libera è invocata per la fecondità e la protezione dei neonati…
Nel Vangelo Gesù guarisce molte malattie: lebbra, sordità, mutolezza, cecità, zoppìa (da poliomelite?), paralisi, idropisia, emorragia, febbre, pazzia.
Di lui la gente dice: “Ha fatto tutto bene: ha fatto udire i sordi e parlare i muti”.
Gesù “guarisce”.
Stranamente, non conforta i malati con quelle che noi chiamiamo “consolazioni di fede”, elevando la loro mente nella speranza del premio eterno, invitando a considerare il significato positivo della sofferenza come stimolo al pentimento dei peccati.
Noi, per lunga tradizione ascetica, per secoli abbiamo poi considerato la malattia e la sofferenza come una grazia in se stessa.
Io credo che il Concilio Vaticano II abbia trovato la giusta sintesi: “L´uomo gravemente infermo ha bisogno, nello stato di ansia e di pena in cui si trova, di una grazia speciale di Dio per non lasciarsi abbattere, con il pericolo che la tentazione faccia vacillare la sua fede”».
in “la Repubblica” del 13 giugno 2010

2010-2020, boom di dati digitali

Immaginate 75 miliardi di iPad che riempiono il tunnel del monte Bianco avanti e indietro per ben 84 volte.
O 41 stadi di Wembley pieni fino all’ultima poltroncina delle tavolette Apple, in lungo e in largo, erba e panchine inclusi.
O se preferite, lo stadio nazionale di Pechino per 15,5 volte.
O ancora, immaginate ogni uomo, donna o bambino sulla Terra che, ininterrottamente e per 100 anni, invii tweet (i brevi messaggi tipici del microblogging e in particolare di Twitter).
Ecco qual è la mole di dati digitali che nascono solo nel corso del 2010 per venire poi scambiati, stampati, archiviati, dimenticati e forse distrutti.
Un totale inimmaginabile che supererà per la prima volta nella storia digitale una nuova unità di misura: si tratta di 1,2 zettabyte di informazioni.
Tradotto nelle unità di misura usate fino a oggi, uno zettabyte corrisponde a mille miliardi di gigabyte.
LA RICERCA – A raccontare lo stato del mondo digitale è per la quarta volta negli ultimi anni la società di ricerca IDC, con uno studio commissionato dall’azienda EMC, che sul suo sito fornisce anche un contatore – l’Information Growth Ticker – da scaricare sul proprio Pc che aggiorna in tempo reale sulla quantità di dati creati a partire dal primo gennaio 2010.
Stupiscono i tassi di crescita previsti per il futuro.
Nel 2020 la nostra personale odissea tra i dati digitali ci vedrà immersi in un universo quasi 50 volte più grande di quello attuale.
Complici di questo aumento saranno i passaggi all’universo dei bit di voce, tv, radio e stampa, dunque tutto il mondo oggi ancora per larga parte in analogico.
NUVOLE – L’universo sarà dunque sempre più sommerso dal digitale, e la Rete continuerà ad avere un ruolo di primo piano, per via di tutti i documenti nati e utilizzati nella «nuvola» del cloud computing.
Dice infatti la ricerca di IDC che, entro il 2020, più di un terzo di tutte le informazioni digitali create ogni anno (private o pubbliche che esse siano) risiederà o transiterà nella nuvola di tecnologie informatiche disponibili online.
Ancora una volta, la ricerca denuncia anche l’overload di informazioni e mette al centro il problema della ricerca dei dati che più interessano da parte degli utenti, visto che già oggi i contenuti creati sono superiori del 35 per cento alle capacità di archiviarli e questo dato aumenterà anche del 60 per cento nei prossimi anni.
Corriere della sera  08 06 2010

La sessualità degli italiani

Dopo il famoso rapporto Kinsey degli anni ’50 sulla sessualità degli americani si sono moltiplicate anche nel nostro paese le ricerche volte a far luce sull’evolversi del costume in tale campo con indagini settoriali di indubbia importanza.
Ciò che tuttavia finora mancava era una ricerca che offrisse un quadro globale, ricostruendo le credenze e i sentimenti, i valori e le norme che ispirano oggi la condotta sessuale degli italiani.
A questa mancanza supplisce una interessante indagine curata da Marzio Barbagli, Giampiero Dalla Zuanna e Franco Garelli (due sociologi e un demografo molto noti) e da una serie di altri collaboratori, pubblicata in un volume dal titolo La sessualità degli italiani (Il Mulino, Bologna 2010).
L’indagine, basata su tre ricerche condotte con tecniche diverse, riguarda un campione di 7000 italiani tra i 18 e i 70 anni, suddivisi equamente per età, sesso, classe sociale e luogo di residenza ed è stata realizzata utilizzando due questionari quantitativi molto articolati e una rassegna di 120 interviste che, partendo dai vissuti personali, fa emergere le dinamiche sottese alle scelte degli intervistati.
ricostruzione del contesto socioculturale L’inchiesta muove anzitutto dalla considerazione che i modelli comportamentali, le identità e le regole che qualificano i modi di sentire e di vivere la sessualità nel nostro paese sono il frutto di profondi processi culturali, che si sono prodotti in modo assai rapido e che hanno segnato il passaggio da una visione della sessualità nella quale a prevalere era un orientamento procreativo (e in alcuni casi, assai limitati, ascetico), che ne circoscriveva rigidamente l’uso all’interno del matrimonio tra persone di sesso diverso, ad una visione in cui gli orientamenti prevalenti sono quello affettivo, che considera l’attività sessuale come espressione dell’amore tra partner e come consolidamento del legame tra di essi, e quello edonistico per il quale l’attività sessuale è finalizzata al solo piacere fisico, raggiunto ricorrendo anche a più partner in incontri occasionali.
Gli autori dell’inchiesta non mancano di rilevare, nell’introduzione al volume, che il modello procreativo, favorito a lungo dall’influsso esercitato dalla chiesa cattolica — è sufficiente ricordare la enciclica Casti Connubi di Pio XI del 1930 che ribadisce il primato della procreazione quale fine del matrimonio — non era esente da pesanti ipoteche negative.
Accanto alla «doppia morale» tra uomo e donna, dovuta a una errata considerazione della differenza tra sessualità maschile e femminile — la donna veniva ritenuta sostanzialmente priva di bisogni sessuali — venivano infatti elaborati una serie di divieti — si pensi soltanto al rifiuto del divorzio e dei mezzi che impediscono la procreazione e alla demonizzazione dell’omosessualità — ed erano invece tollerati (e persino giustificati) comportamenti aberranti come il delitto di onore e l’infedeltà maschile, adducendo rispettivamente come motivo la legittimità di farsi giustizia da sé e le insopprimibili esigenze fisiologiche del maschio.
Il momento decisivo della svolta verso una concezione diversa della sessualità è comunemente identificato nella rivoluzione culturale inaugurata dal Sessantotto, e in particolare nella critica radicale mossa alla «famiglia borghese».
Gli autori dell’inchiesta non mancano tuttavia di rilevare l’esistenza di importanti antecedenti, che risalgono agli inizi del Novecento (e, per taluni aspetti, a una fase ancora precedente), anche se i mutamenti avvenuti in quelle epoche erano ristretti alla vita privata e appannaggio di categorie elitarie, mentre soltanto negli anni ’60 del secolo scorso essi hanno assunto connotati di massa e sono divenuti di natura pubblica.
che cosa è cambiato? A provocare anche in Italia i cambiamenti di mentalità e di costume nei confronti della sessualità sono stati, da un lato, il fenomeno della secolarizzazione, che ha determinato la nascita di una nuova visione della vita e del mondo, non più ancorata ad un universo simbolico religioso o sacrale ma caratterizzata da un’autonoma definizione dei significati della realtà; e, dall’altro, la cultura individualista, che si è progressivamente affermata nella modernità e che ha conferito un ruolo di sempre maggiore centralità alla ricerca della realizzazione di sé.
Ciò che viene in questo contesto a modificarsi è anzitutto l’atteggiamento di fondo con il quale ci si accosta alla sessualità, con l’affermarsi – come già si è rilevato – di una visione contrassegnata dal primato dell’aspetto unitivo – la sessualità come sorgente ed espressione dell’amore interpersonale – e di quello ludico o edonistico, incentrato sulla ricerca del piacere.
Non meno significativi sono inoltre i cambiamenti che si producono nella sfera dei comportamenti e che riguardano i vari ambiti in cui la vita sessuale viene dispiegandosi: dall’autoerotismo ampiamente praticato (e giustificato in quanto fonte di piacere e di rassicurazione soggettiva) all’estensione allargata dei rapporti prematrimoniali; dal forte incremento delle separazioni e dei divorzi – il 30% dei matrimoni iniziati negli anni ’90 del secolo scorso hanno subìto questo destino – al controllo della fecondità mediante la contraccezione (con una netta preferenza per il condom); dalla diffusione delle convivenze more uxorio, dovute anche alla necessaria posticipazione delle scelte di vita per la difficoltà di ingresso stabile nel mondo del lavoro, alla consistente tendenza alla sperimentazione con diversi partner; fino all’erotizzazione di tutto il corpo con l’adozione sempre più ampia di pratiche hard quali i rapporti orali e anali.
Piuttosto alta è, infine, la percentuale di persone che dichiarano di non sentirsi attratte solo da persone dell’altro sesso (11,6%), anche se poi soltanto il 2,6% afferma di provare attrazione esclusivamente per lo stesso sesso e 1’1,2% si proclama apertamente omosessuale.
Ad emergere dall’insieme dell’inchiesta – in aperto contrasto con quanto vanno da tempo sostenendo le indagini giornalistiche – è dunque l’importanza sempre maggiore che il sesso riveste per gli italiani (con un incremento dei rapporti sessuali anche oltre l’età riproduttiva) e, nello stesso tempo, il tendenziale ancoraggio della sessualità ad un orizzonte affettivo-relazionale, confermato anche dal forte assenso dato al principio della fedeltà:1’85% degli intervistati condanna infatti apertamente il tradimento, anche se circa un terzo di essi ammette di averlo praticato.
L’indagine rivela pertanto un sostanziale allineamento dell’Italia ai paesi del Nord Europa; allineamento che si è tuttavia attuato con un certo ritardo e non senza alcune rilevanti differenze.
La prima di esse è costituita dalle disuguaglianze di genere: pur essendo diminuita di molto la distanza tra uomo e donna (ed essendo scomparse le diversità di approccio a molti dei temi affrontati dall’inchiesta), i rapporti non sono ancora del tutto simmetrici; persistono disparità di trattamento che segnalano la presenza, in misura più rilevante che negli Stati Uniti e nei paesi dell’Europa centrosettentrionale, di uno stato di dipendenza della donna dall’uomo.
La seconda differenza riguarda il modo di accostarsi all’omosessualità, e in particolare la discrepanza esistente – come si è accennato – tra sentimenti, comportamenti e identità, che è motivata dalla difficoltà di molti a dichiarare la propria condizione in ragione di una pressione sociale che svolge tuttora una rilevante funzione di marginalizzazione.
Lo scorporo dei dati dell’inchiesta, non solo in relazione alla differenza sessuale ma anche al ceto sociale, all’età e alla residenza consente infine di delineare – come non mancano di fare gli autori del volume – le varie tappe attraverso le quali si è prodotto il cambiamento e di mettere a fuoco le motivazioni che hanno condotto a un approccio diverso alla sessualità.
Le trasformazioni risultano così il frutto di un processo che ha avuto inizio a partire dai ceti sociali più alti e dalla popolazione dei centri urbani; un processo che è oggi soggetto a una forte accelerazione ad opera delle nuove generazioni che, facendo propria una visione più libera e autocentrata della sessualità, non esitano a dare vita a forme sempre più frequenti di sperimentazione.
l’influenza della religione Particolare interesse riveste, al fine di una ricerca dell’influsso che sulla percezione della sessualità hanno le visioni di fondo della vita e del mondo, l’ultimo capitolo del volume (il IX) nel quale Franco Garelli analizza la rilevanza dell’orientamento religioso, mettendo tra loro a confronto le risposte fornite da due gruppi di soggetti che esprimono al riguardo le posizioni più estreme: i «senza religione» e i «credenti convinti e attivi».
Da tale confronto si evidenzia come la religiosità continui ad esercitare un peso non indifferente sulla concezione e sulla pratica della sessualità, contribuendo in misura non secondaria alla definizione del suo significato e all’adozione degli stili di vita conseguenti.
Al di là della naturale convergenza con le posizioni della cultura dominante su alcune tematiche, e in particolare circa l’importanza da assegnare al rapporto stabile con una persona, i credenti convinti ed attivi si distinguono per una maggiore attenzione alla finalità procreativa e per un atteggiamento meno aperto e flessibile circa l’uso della sessualità, rifiutando in linea di massima rapporti senza coinvolgimento affettivo.
La sessualità è, in altre parole, da essi concepita come una realtà da vivere entro i binari di rapporti di coppia ben definiti, e da subordinare perciò a una decisione di fondo che impegna, con una consistente riduzione dei desideri libertari e trasgressivi.
A venire privilegiate sono, in definitiva, l’attenzione alla comunicazione e alla continuità del rapporto – la fedeltà alla persona è qui senz’altro il valore dominante – e l’esigenza di inserire conseguentemente le pratiche sessuali in un contesto relazionale, limitando i consumi erotici e le esperienze edonistiche.
Da questa visione di fondo derivano una serie di valutazioni più problematiche nei confronti delle convivenze more uxorio o del riconoscimento delle coppie omosessuali, una maggiore valorizzazione della verginità, una minore tendenza alla sperimentazione e un’attenzione ad assoggettare la pratica sessuale al rispetto della legge della gradualità.
Più omogenee con le tendenze proprie del contesto culturale sono invece le valutazioni riguardanti la liceità dei rapporti prematrimoniali, della contraccezione e dell’autoerotismo; e questo, a maggior ragione, quando si tratta dei più giovani, dove le differenze tra credenti e non risultano molto più sfumate, poiché prende corpo una visione più secolarizzata della vita, che giustifica il ricorso a una maggiore sperimentazione.
lo scisma sommerso Al riconoscimento dell’influsso ancora considerevole del fattore religioso sembra opporsi la crescente distanza di un numero sempre più vasto di credenti convinti e attivi dalle indicazioni morali della chiesa cattolica; distanza che si traduce nell’assunzione di un orientamento autonomo o, secondo altri, nell’affermarsi di una adesione selettiva.
La mancata conformità alle direttive ufficiali del magistero ecclesiale, che non viene soltanto sistematicamente disatteso in campo di etica sessuale a livello dei comportamenti ma di cui vengono rifiutate anche le motivazioni che giustificano le varie normative, solleva (e non può non sollevare) seri interrogativi.
Lo «scisma sommerso» – come lo ha definito il filosofo Pietro Prini – non nasce, stando agli esiti della ricerca, da cattiva volontà o dal rifiuto di valori di fondo, che risultano tuttora largamente riconosciuti ed accettati e, in misura più ristretta (ma non per questo poco significativa in un contesto come l’attuale), anche praticati.
Il dissenso verso le posizioni dell’istituzione ecclesiale su questioni come la regolazione delle nascite, la masturbazione, i rapporti prematrimoniali, l’omosessualità, ecc.
non è pertanto espressione – come talvolta si afferma – di adeguamento alle logiche dominanti, di indulgenza cioè nei confronti di una concezione meramente ludica o edonistica del sesso.
Il fatto che si concepisca la sessualità anche come apertura alla vita, inserendola in un orizzonte più ampio di quello della pura fruizione del piacere; che si assegni alla fedeltà verso l’altro e alla reciprocità e autenticità dei rapporti un ruolo decisivo per l’esercizio dell’attività sessuale; che si riconosca l’importanza di un approccio graduale all’esercizio della sessualità in stretta connessione con lo sviluppo della relazione, la quale viene maturando progressivamente, sono altrettanti indicatori di un percorso altamente riflessivo.
Il rifiuto di alcune prescrizioni normative, ribadite con rigidità anche di recente dalla chiesa cattolica, non è allora piuttosto rifiuto di una concezione della sessualità percepita come anacronistica, perché legata a una cultura repressiva del passato, che tuttavia continua a persistere? E non è giunto forse il momento di una revisione critica di tali prescrizioni – suggerita del resto anche da alcune importanti indicazioni del Concilio – che rimetta al centro i grandi valori umani ed evangelici che nobilitano la sessualità e restituisca alla coscienza dei singoli una effettiva possibilità decisionale da gestire responsabilmente nel vivo delle situazioni concrete? in “Rocca” n.
11 del 1 giugno 2010

Il papa a Cipro porta la sua croce con letizia

Cari fratelli e sorelle in Cristo, il Figlio dell’Uomo deve essere innalzato, affinché chiunque crede in lui abbia la vita eterna (cfr.
Giovanni 3, 14-15).
In questa messa adoriamo e lodiamo il nostro Signore Gesù Cristo, poiché con la sua santa croce ha redento il mondo.
Con la sua morte e risurrezione ha spalancato le porte del cielo e ci ha preparato un posto, affinché a noi, suoi seguaci, venga donato di partecipare alla sua gloria.
Nella gioia della vittoria redentrice di Cristo, saluto tutti voi riuniti nella chiesa della Santa Croce e vi ringrazio per la vostra presenza.
[…] Qui a Cipro, terra che fu il primo porto di approdo dei viaggi missionari di san Paolo attraverso il Mediterraneo, giungo oggi fra voi, sulle orme di quel grande apostolo, per rinsaldarvi nella vostra fede cristiana e per predicare il Vangelo che offre vita e speranza al mondo.
Il centro della celebrazione odierna è la croce di Cristo.
Molti potrebbero essere tentati di chiedere perché noi cristiani celebriamo uno strumento di tortura, un segno di sofferenza, di sconfitta e di fallimento.
È vero che la croce esprime tutti questi significati.
E tuttavia a causa di colui che è stato innalzato sulla croce per la nostra salvezza, rappresenta anche il definitivo trionfo dell’amore di Dio su tutti i mali del mondo.
Vi è un’antica tradizione che il legno della croce sia stato preso da un albero piantato da Seth, figlio di Adamo, nel luogo dove Adamo fu sepolto.
In quello stesso luogo, conosciuto come il Golgota, il luogo del cranio, Seth piantò un seme dall’albero della conoscenza del bene e del male, l’albero che si trovava al centro del giardino dell’Eden.
Attraverso la provvidenza di Dio, l’opera del Maligno sarebbe stata sconfitta ritorcendo le sue stesse armi contro di lui.
Ingannato dal serpente, Adamo ha abbandonato la filiale fiducia in Dio ed ha peccato mangiando i frutti dell’unico albero del giardino che gli era stato proibito.
Come conseguenza di quel peccato entrarono nel mondo la sofferenza e la morte.
I tragici effetti del peccato, e cioè la sofferenza e la morte, divennero del tutto evidenti nella storia dei discendenti di Adamo.
Lo vediamo dalla prima lettura di oggi (Numeri 21, 4-9), che fa eco alla caduta e prefigura la redenzione di Cristo.
Come punizione dei propri peccati, il popolo di Israele, mentre languiva nel deserto, venne morso dai serpenti ed avrebbe potuto salvarsi dalla morte solo volgendo lo sguardo al simbolo che Mosè aveva innalzato, prefigurando la croce che avrebbe posto fine al peccato e alla morte una volta per tutte.
Vediamo chiaramente che l’uomo non può salvare se stesso dalle conseguenze del proprio peccato.
Non può salvare se stesso dalla morte.
Soltanto Dio può liberarlo dalla sua schiavitù morale e fisica.
E poiché Dio ha amato così tanto il mondo, ha inviato il suo Figlio unigenito non per condannare il mondo – come avrebbe richiesto la giustizia – ma affinché attraverso di lui il mondo potesse essere salvato.
L’unigenito Figlio di Dio avrebbe dovuto essere innalzato come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così che quanti avrebbero rivolto lo sguardo a lui con fede potessero avere la vita.
Il legno della croce divenne lo strumento per la nostra redenzione, proprio come l’albero dal quale era stato tratto aveva originato la caduta dei nostri progenitori.
La sofferenza e la morte, che erano conseguenze del peccato, divennero il mezzo stesso attraverso il quale il peccato fu sconfitto.
L’agnello innocente fu sacrificato sull’altare della croce, e tuttavia dall’immolazione della vittima scaturì una vita nuova: il potere del maligno fu distrutto dalla potenza dell’amore che sacrifica se stesso.
La croce, pertanto, è qualcosa di più grande e misterioso di quanto a prima vista possa apparire.
Indubbiamente è uno strumento di tortura, di sofferenza e di sconfitta, ma allo stesso tempo esprime la completa trasformazione, la definitiva rivincita su questi mali, e questo lo rende il simbolo più eloquente della speranza che il mondo abbia mai visto.
Parla a tutti coloro che soffrono – gli oppressi, i malati, i poveri, gli emarginati, le vittime della violenza – ed offre loro la speranza che Dio può trasformare la loro sofferenza in gioia, il loro isolamento in comunione, la loro morte in vita.
Offre speranza senza limiti al nostro mondo decaduto.
Ecco perché il mondo ha bisogno della croce.
Essa non è semplicemente un simbolo privato di devozione, non è un distintivo di appartenenza a qualche gruppo all’interno della società, ed il suo significato più profondo non ha nulla a che fare con l’imposizione forzata di un credo o di una filosofia.
Parla di speranza, parla di amore, parla della vittoria della non violenza sull’oppressione, parla di Dio che innalza gli umili, dà forza ai deboli, fa superare le divisioni, e vincere l’odio con l’amore.
Un mondo senza croce sarebbe un mondo senza speranza, un mondo in cui la tortura e la brutalità rimarrebbero sfrenati, il debole sarebbe sfruttato e l’avidità avrebbe la parola ultima.
L’inumanità dell’uomo nei confronti dell’uomo si manifesterebbe in modi ancor più orrendi, e non ci sarebbe la parola fine al cerchio malefico della violenza.
Solo la croce vi pone fine.
Mentre nessun potere terreno può salvarci dalle conseguenze del nostro peccato, e nessuna potenza terrena può sconfiggere l’ingiustizia sin dalla sua sorgente, tuttavia l’intervento salvifico del nostro Dio misericordioso ha trasformato la realtà del peccato e della morte nel suo opposto.
Questo è quanto celebriamo quando diamo gloria alla croce del Redentore.
Giustamente sant’Andrea di Creta descrive la croce come “più nobile e preziosa di qualsiasi cosa sulla terra […], poiché in essa e mediante di essa e per essa tutta la ricchezza della nostra salvezza è stata accumulata e a noi restituita” (Oratio X, PG 97, 1018-1019).
Cari fratelli sacerdoti, cari religiosi, cari catechisti, il messaggio della croce è stato affidato a noi, così che possiamo offrire speranza al mondo.
Quando proclamiamo Cristo crocifisso, non proclamiamo noi stessi, ma lui.
Non offriamo la nostra sapienza al mondo, non parliamo dei nostri propri meriti, ma fungiamo da canali della sua sapienza, del suo amore, dei suoi meriti salvifici.
Sappiamo di essere semplicemente dei vasi fatti di creta e, tuttavia, sorprendentemente siamo stati scelti per essere araldi della verità salvifica che il mondo ha bisogno di udire.
Non stanchiamoci mai di meravigliarci di fronte alla grazia straordinaria che ci è stata data, non cessiamo mai di riconoscere la nostra indegnità, ma allo stesso tempo sforziamoci sempre di diventare meno indegni della nostra nobile chiamata, in modo da non indebolire mediante i nostri errori e le nostre cadute la credibilità della nostra testimonianza.
In questo Anno Sacerdotale permettetemi di rivolgere una parola speciale ai sacerdoti oggi qui presenti e a quanti si preparano all’ordinazione.
Riflettete sulle parole pronunciate al novello sacerdote dal Vescovo, mentre gli presenta il calice e la patena: “Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai, conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore”.
Mentre proclamiamo la croce di Cristo, cerchiamo sempre di imitare l’amore disinteressato di colui che offrì se stesso per noi sull’altare della croce, di colui che è allo stesso tempo sacerdote e vittima, di colui nella cui persona parliamo ed agiamo quando esercitiamo il ministero ricevuto.
Nel riflettere sulle nostre mancanze, sia individualmente sia collettivamente, riconosciamo umilmente di aver meritato il castigo che lui, l’Agnello innocente, ha patito in nostra vece.
E se, in accordo con quanto abbiamo meritato, avessimo qualche parte nelle sofferenze di Cristo, rallegriamoci, perché ne avremo una felicità ben più grande quando sarà rivelata la sua gloria.
Nei miei pensieri e nelle mie preghiere mi ricordo in modo speciale dei molti sacerdoti e religiosi del Medio Oriente che stanno sperimentando in questi momenti una particolare chiamata a conformare le proprie vite al mistero della croce del Signore.
Dove i cristiani sono in minoranza, dove soffrono privazioni a causa delle tensioni etniche e religiose, molte famiglie prendono la decisione di andare via, e anche i pastori sono tentati di fare lo stesso.
In situazioni come queste, tuttavia, un sacerdote, una comunità religiosa, una parrocchia che rimane salda e continua a dar testimonianza a Cristo è un segno straordinario di speranza non solo per i cristiani, ma anche per quanti vivono nella Regione.
La loro sola presenza è un’espressione eloquente del Vangelo della pace, della decisione del Buon Pastore di prendersi cura di tutte le pecore, dell’incrollabile impegno della Chiesa al dialogo, alla riconciliazione e all’amorevole accettazione dell’altro.
Abbracciando la croce loro offerta, i sacerdoti e i religiosi del Medio Oriente possono realmente irradiare la speranza che è al cuore del mistero che celebriamo nella liturgia odierna.
Rinfranchiamoci con le parole della seconda lettura di oggi  (Filippesi 2, 5-11), che parla così bene del trionfo riservato a Cristo dopo la morte in croce, un trionfo che siamo invitati a condividere.
“Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni altro nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra”.
Sì, amati fratelli e sorelle in Cristo, lungi da noi la gloria che non sia quella nella croce di Nostro Signore Gesù Cristo (cfr.
Galati 6, 14).
Lui è la nostra vita, la nostra salvezza e la nostra risurrezione.
Per lui noi siamo stati salvati e resi liberi.
__________ Il programma e i testi della visita di Benedetto XVI a Cipro, nel sito del Vaticano: > Viaggio apostolico a Cipro, 4-6 giugno 2010

“Dialogo con i fratelli musulmani”

«Questo fatto non può essere attribuito alla Turchia e ai turchi, e non deve oscurare il dialogo».
In viaggio verso l’isola di Cipro divisa fra greci e turchi, il Papa toglie qualsiasi possibile responsabilità di Ankara nell’omicidio di monsignor Luigi Padovese, ucciso l’altro ieri a coltellate dal suo autista a Iskenderun, e anzi rilancia il rapporto con l’Islam.
«Non si tratta – spiega Benedetto XVI in volo, prima di scendere all’aeroporto di Paphos e concludere la giornata nella capitale Nicosia – di assassinio politico o a sfondo religioso.
L’atto sembra legato a questioni personali.
Aspettiamo nuove informazioni.
Ma l’omicidio di monsignor Padovese non ha nulla a che fare con il viaggio apostolico a Cipro, né con il fondamentalismo islamico; soprattutto, non getta ombra alcuna sulla prosecuzione del dialogo con l’Islam».
Un messaggio chiaro, dunque, lanciato alla Turchia e al mondo islamico, nel primo giorno della delicata visita apostolica nell’isola, la prima di un Pontefice a Cipro.
Delicato doppiamente, perché giunge pochi giorni dopo il clamoroso blitz israeliano contro le navi dirette a Gaza e partite proprio dai porti turchi e da Cipro; e perché svolto poche ore dopo il giallo tuttora aperto dell’assassinio di Padovese, vicario apostolico dell’Anatolia.
Il Papa ha anzi espresso il suo «incoraggiamento al dialogo con i fratelli musulmani».
«Il nostro impegno – ha proseguito – è quello di continuare con una visione comune e nonostante tutti i problemi nel dialogo con loro».
E circa le tensioni innescate dalla vicenda della flottiglia bloccata da Israele verso Gaza, il Pontefice ha invitato tutti «alla pazienza» e «al coraggio di ricominciare».
Joseph Ratzinger è stato accolto nel grande spiazzo delle rovine di Paphos dall’arcivescovo Chrysostomos II.
E il capo della comunità ortodossa greco cipriota, nel suo discorso, si è lanciato davanti al Pontefice in un duro attacco ad Ankara.
«La Turchia – ha detto l’alto prelato ortodosso – sta realizzando un piano di distruzione nazionale.
Ha espulso tutti i cristiani e ha portato e continua a portare migliaia di coloni dall’Anatolia.
Nel concludere la sua orazione parlando del «martirio» a cui sarebbe sottoposta oggi la sua Chiesa, Chrysostomos ha poi chiesto un intervento diretto del Vaticano: «Cipro e la sua Chiesa – ha invocato – stanno vivendo il loro momento storico più difficile.
Santità, il nostro popolo che soffre e lotta sotto la guida dei governanti, chiede a voi una cooperazione attiva.
Riponiamo molte speranze nel vostro aiuto».
Ma il Papa è rimasto in silenzio, e non ha risposto in pubblico all’appello lanciando, piuttosto, un’esortazione per l’ecumenismo tra i cristiani.
Così qualche imbarazzo diplomatico potrebbe ora suscitare l’intenzione di Ratzinger di incontrare, come anticipato ieri da Repubblica, i rappresentanti della comunità turco-cipriota, non riconosciuti a livello internazionale.
Nei giorni scorsi, alcuni vescovi ortodossi oltranzisti avevano usato termini caustici nei confronti del Papa cattolico in arrivo, tacciandolo addirittura come «eretico».
La Segreteria di Stato vaticana ha dunque attentamente considerato l’opportunità di un eventuale incontro con il capo dello Stato del Nord di Cipro, il neo eletto Dervis Eroglu, dopo la richiesta pervenuta alla Santa Sede sia dalla capitale turco cipriota Lefkosa, con l’incoraggiamento del governo di Ankara e l’interessamento dell’ambasciata turca presso il Vaticano.
Alla fine la decisione è che non esistono motivi per chiudere la porta in faccia ai turco ciprioti, tanto più in questo momento delicato nelle relazioni fra Ankara e Santa Sede.
Difatti ieri sera, nel briefing conclusivo della giornata, il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, ha detto che vi è una «concreta possibilità» che Benedetto XVI incontri, fra oggi e domani, anche i rappresentanti politici e religiosi musulmani, cioè il Presidente e il Gran Muftì locale, della comunità turco-cipriota.
Ratzinger non andrà nell’autoproclamata Repubblica del Nord ma, ha spiegato chiaramente Lombardi, «egli prega, parla e pensa a tutta la popolazione dell’isola».
in “la Repubblica” del 5 giugno 2010

Una meditazione pittorica sul Corpus Domini

Una straordinaria immagine seicentesca invita a meditare il mistero, al contempo sacramentale ed ecclesiale, del “Corpo di Cristo”, nonché la collocazione liturgica della solennità del Corpus Domini dopo la domenica della Santissima Trinità:  la pala della Trinità di Gasparo Narvesa, eseguita come pala d’altare per l’omonima chiesa della città natale dell’artista, Pordenone, su commissione di una confraternita pure essa dedicata al Dio uno e trino.
Ideata per un altare, la pala fa vedere – subito sopra il livello della mensa su cui il dipinto doveva poggiare – un sacerdote in ginocchio che indossa i paramenti liturgici e tiene in mano l’ostia consacrata; intorno a lui, similmente inginocchiati, sono i membri della confraternita nel loro saio rosso, con lo stendardo e i ceroferari professionali.
Quando si celebrava la messa, all’elevazione dell’ostia si veniva così a creare una doppia immagine:  il celebrante vero all’altare vero e i confratelli nella chiesa vera, e poi gli stessi raffigurati in preghiera intorno al sacerdote in adorazione del Corpus Domini sacramentale.
 L’intera parte inferiore della pala “fotografava” cioè l’orante raccoglimento dei confratelli e del sacerdote davanti al Cristo eucaristico, rendendo manifesta la loro fede cattolica nella sua reale presenza.
Del resto l’opera fu eseguita appena cinquant’anni dopo il concilio di Trento, nel 1611, e a Pordenone, cioè in un Veneto allora preoccupato di contrastare l’avanzata del protestantesimo.
Nonostante il loro atteggiamento adorante, però, il sacerdote e diversi dei confratelli non guardano l’ostia; alzano piuttosto gli occhi al cielo dove contemplano Cristo inchiodato a una croce presentata al Padre da angeli.
Il volto sofferente del Figlio è girato verso quello compassionevole del Padre e i loro sguardi s’incrociano, mentre appena sopra le due teste aleggia lo Spirito Santo in forma di colomba.
È a questo secondo livello della composizione, infatti, che il vero messaggio dell’immagine diventa chiaro:  non solo la fede eucaristica dei confratelli, ma la messa celebrata all’altare sottostante come espressione terrena di una liturgia celeste in cui il corpo crocifisso del Figlio è per l’eternità offerto al Padre in sacrificio gradito.
Il carattere specificamente “sacrificale” dell’offerta di sé compiuta da Cristo – e quindi anche della messa che ne rende presente il contenuto nel pane e vino – viene sottolineato poi dal piviale sacerdotale indossato da Dio Padre.
L’evidente attualità di quest’enfatizzazione dottrinale – della presentazione dell’Eucaristia come “sacrificio” in un’epoca che vedeva contestata tale definizione in ambito protestante – non è però l’elemento nuovo della pala d’altare di Narvesa.
Nuovo piuttosto è l’intenso rapporto interpersonale tra Figlio e Padre visibile sopra l’ostia in mano al sacerdote nel dipinto, e sopra l’ostia e il calice veri ogni volta che si diceva messa davanti all’immagine.
In un periodo in cui il protestantesimo tacciava la messa cattolica di spettacolarità, Gasparo Narvesa presenta l’ostia adorata dai confratelli come reale presenza dell’obbedienza del Figlio, che aveva pregato perché gli venisse tolto il calice della passione, accettando però la volontà del Padre (Luca, 22, 42); e dell’amore di Questi, che al suo Figlio rifiutò tale grazia.
San Paolo spiegherà il rifiuto del Padre della preghiera di Gesù dicendo che lo stesso Dio che aveva risparmiato Isacco, figlio di Abramo, “non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi” (Romani, 8, 32), e il quarto Vangelo specificherà che “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto ma abbia la vita eterna” (Giovanni, 3, 16).
Non a caso, nel dipinto di Narvesa Dio Padre tiene una grande sfera di cristallo davanti al Figlio come per dire a Lui:  “Ti chiedo di accettare la morte perché il mondo che ho creato possa vivere!”.
Così l’Eucaristia, che è il soggetto palese della pala, è rivelata come luogo della preghiera non solo dei cristiani ma di Cristo stesso e perfino del Padre:  luogo di profonda e spesso sofferta comunione.
Il sacerdote nella parte inferiore del dipinto, e quelli tra i confratelli che alzano gli occhi, capiscono che l’ostia eucaristica racchiude tutto il mistero di Dio:  del Padre che chiede la vita al Figlio; del Figlio che la dà; e dello Spirito che li unisce e che nel dipinto è la forma visibile della loro comunione.
Lo Spirito.
Nella messa un tempo celebrata davanti al dipinto sembrava scendere sulle offerte – sul pane e sul vino – come anche sugli offerenti:  sul celebrante e sui confratelli cioè.
Anche a questo si riferiscono gli sguardi innalzati e gli atteggiamenti di adorazione dei personaggi nella parte inferiore del dipinto alla loro attesa di ricevere lo Spirito Santo.
Ma ecco il senso pieno dell’immagine:  la messa è il luogo principe della preghiera cristiana perché nella messa scende lo Spirito, e – come afferma san Paolo – “lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio” (Romani, 8, 26-27).
Nella messa lo spirito ci insegna ad avere in noi “gli stessi sentimenti di Cristo Gesù” (Filippesi, 2, 5), e, di fatto, scendendo nel pane e vino per farli diventare corpo e sangue di Cristo, scende in quanti mangiano e bevono di Cristo per farli diventare “come Cristo” e vivere così la stessa comunione con il Padre che Cristo vive, una comunione di preghiera in cui il Padre chiede certe cose a noi, e noi altre cose chiediamo a Lui, accettando tuttavia – come Cristo accettò – di fare non la nostra volontà ma quella di Dio.
Questa è preghiera vera e sicura, la preghiera di cui Gesù disse:  “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto.
Perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto” (Matteo, 7, 7-8).
A chi chiede di diventare come Cristo, sarà data questa grazia; chi cerca Cristo lo trova; a chi bussa alla porta che Cristo è viene aperta la via verso il Padre.
Anche l’ultimo livello del dipinto di Gasparo Narvesa rientra in questa logica “orazionale”.
Rappresenta Maria, a sinistra, raccolta in preghiera davanti a una Trinità di figure larvate, mentre a destra l’arcangelo Michele scaccia a spada tratta i demoni dal cielo.
La fonte sembra essere il capitolo dodici dell’Apocalisse, in cui l’autore, Giovanni, vede una donna incinta che grida per le doglie e un drago che minaccia di divorare il bambino appena l’avesse partorito.
Ma il bambino, un figlio maschio, quando nacque “fu rapito verso Dio e verso il suo trono”, mentre la donna fuggì nel deserto dove Dio le aveva preparato un rifugio.
“Scoppiò quindi una guerra nel cielo:  Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago.
Il drago combatteva assieme ai suoi angeli, ma non prevalse e non vi fu più posto per loro in cielo” (cfr.
Apocalisse, 12, 1-8).
Nel dipinto vediamo la donna nel “rifugio” preparatole, adorante Dio Padre, Dio Figlio e Dio Spirito.
Vediamo la vittoria di Michele e i suoi angeli contro il “drago” con i suoi seguaci, tutti raffigurati come demoni alati.
E vediamo il figlio della donna, Gesù Cristo, “rapito verso Dio e verso il suo trono” (faccia a faccia col Padre nell’obbedienza della croce), mentre sotto il corpo di Cristo crocifisso, intorno all’ostia che racchiude questo dramma cosmico, sono i partecipanti alla sua vittoria descritti nel prosieguo del testo apocalittico:  “Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio, e la potenza del suo Cristo, perché è stato precipitato l’accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte. Ma essi lo hanno vinto grazie al sangue dell’Agnello” (Apocalisse, 12, 11a).
I confratelli cioè, che nella messa condividono sia la lotta di Cristo che la sua vittoria, nel mistero della Communio sanctorum vengono associati anche al trionfo dei martiri; ricordiamo che l’altare, dove l’opera stava, doveva contenere reliquie di martiri dei primi secoli cristiani.
(©L’Osservatore Romano – 6 giugno 2010)

Festa del SS Corpo di Cristo Anno C

SANTISSIMO CORPO E SANGUE DI CRISTO   Lectio Anno c     Prima lettura: Genesi 14,18-20          In quei giorni, Melchìsedek, re di Salem, offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo e benedisse Abram con queste parole: «Sia benedetto Abram dal Dio altissimo, creatore del cielo e della terra, e benedetto sia il Dio altissimo, che ti ha messo in mano i tuoi nemici».
E [Abramo] diede a lui la decima di tutto.
       v Il tema della benedizione ritorna nel brano della Genesi.
A pronunciarla è il re di Salem, di cui non conosciamo altro che il nome, Melchisedek.
Egli, dice il testo «offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo e benedisse Abram con queste parole».
Abramo era appena ritornato secondo il racconto di Gn 14, dalla vittoria contro i quattro re che avevano in precedenza sconfitto le città del mar Morto e catturato suo nipote Lot.
Il re Melchisedek, che come era allora frequente consuetudine ricopriva pure a carica sacerdotale, portò come ristoro ai vincitori, alla cui testa era Abramo, pane e vino.
Le parole di benedizione rivolte ad Abramo suonano dunque come un riconoscimento del suo ruolo nell’aver liberato il campo da pericolosi nemici.
Ciò che ci riguarda maggiormente, però, è lo schema della benedizione.
Da una parte c’è Dio che benedice, in quanto egli è creatore del mondo, ossia fa essere le cose che esistono; questa è la benedizione costitutiva o discendente.
Dall’altra c’è la benedizione e la lode che l’uomo eleva a Dio, detta dichiarativa o ascendente, perché  chi ha riconosciuto di essere stato beneficato da Dio, lo ringrazia.
Quindi Abramo, considerando Melchisedek superiore a sé e intendendo manifestare la propria gratitudine nei confronti di Dio cede la decima a questo re.
     L’inserimento di questo brano nella liturgia del Corpus Domini si può giustificare solo a partire dall’interpretazione che ne hanno fatto i Padri della Chiesa, sulla scia di ciò che era trapelato nel Nuovo Testamento.
Infatti diversi dei Padri hanno inteso l’offerta del pane e del vino come una prefigurazione dell’Eucaristia e Melchisedek, che ci viene presentato «senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita» (Eb 7,3), quindi eterno, come la prefigurazione del sacerdozio messianico, superiore a quello di Aronne.
Seconda lettura: 1Corinzi 11,23-26          Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me».
Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me».
Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.
    v Ma è il brano della prima lettera ai Corinzi che, in modo inequivocabile, ci riallaccia con la viva tradizione delle comunità dell’epoca apostolica.
L’apostolo Paolo così introduce l’argomento: «Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso».
E questa trasmissione viene espressa con il significativo verbo paradidomi, da cui viene anche l’idea di paradosis, ossia di una vera e propria consegna effettuata da una generazione a un altra, o da una persona a un’altra, in questo caso autorevolissima come il Signore.
Paolo, dunque, è conscio di comunicare non qualcosa di suo, bensì qualcosa che appartiene al grande «patrimonio» che Gesù stesso ha lasciato ai suoi discepoli.
Il problema posto riguarda perciò la sostanza di quel «vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, e dal quale anche ricevete la salvezza se lo mantenete m quella forma in cui ve l’ho annunziato» (1Cor 15,1).
     Di conseguenza, la fedeltà alla «tradizione» si fonde con la fedeltà alla «comunione».
Nell’Eucaristia raccontata da Paolo si riprendono tutti gli specifici motivi fondamentali, a partire dal contesto, che è quello della cena precedente la passione e morte di Gesù.
Vi viene rievocato il momento amaro del tradimento con lo stesso verbo paradidomi, quasi a voler intendere che la «consegna» di fare il memoriale dell’Eucaristia passa attraverso l’inevitabile «consegna» alla morte.
Si prosegue con l’atto del prendere il pane, gesto familiare, da capofamiglia, che prelude al ringraziare (eucharistesas), cioè al benedire il datore di ogni dono, il Padre.
Il pane, poi, viene spezzato per essere condiviso, per essere fonte di solidarietà e comunione.
Infine, vengono riferite le parole che spiegano i gesti.
«Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me».
Anche riguardo al calice del vino le parole ne illuminano il senso: «Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me».
Troppo difficile è il compito di commentare tali parole: c’è il senso dell’offerta, del sacrificio di colui che si fa «spezzare» la carne e «versare» il sangue per l’umanità che ama, inclusa quell’umanità che si sta preparando a consegnarlo alla morte; c’è il senso dell’alleanza del ricucire uno strappo che si sarebbe sempre più approfondito senza l’iniziativa divina di andare incontro all’umanità; c’è il senso del dover costantemente «far memoria» di tutto ciò, perché siamo stati comprati a caro prezzo (cf.
1Cor 6,20).
Il mistero eucaristico si trasforma allora in una ricapitolazione della storia, nella quale viene riproposta in continuazione l’alleanza d’amore di Dio, in vista dell’evento finale, la venuta ultima di Gesù Cristo.
  Vangelo: Luca 9,11-17          In quel tempo, Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure.
Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta».
Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare».
Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente».
C’erano infatti circa cinquemila uomini.
Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa».
Fecero così e li fecero sedere tutti quanti.
Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla.
Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.
    Esegesi      La pericope evangelica proposta dalla liturgia ci presenta subito un Gesù impegnato nella predicazione e nelle guarigioni.
Non è facile entrare nel clima del brano se non diamo uno sguardo al contesto in cui è inserito.
Infatti la moltiplicazione dei pani si trova quasi alla fine del periodo di attività in Galilea, quando Gesù stava maturando la decisione di dirigersi verso la capitale, Gerusalemme: «Mentre si compivano i giorni della sua ascensione, indurì la faccia di dirigersi a Gerusalemme» (Lc 9,51).
Il senso letterale del versetto ci rende bene la ferma determinazione di Gesù, «perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme» (Lc 13,33).
Quasi a volersi congedare dalla Galilea, egli inviò i Dodici ad annunziare il regno di Dio e a guarire gli infermi, assegnando loro persino il potere di scacciare i demoni (9,1-2).
Al loro ritorno, gli apostoli riferirono in dettaglio a Gesù ciò che avevano operato durante la missione.
Egli «allora li prese con sé e si ritirò verso una città chiamata Betsaida» (9,10), perché essi avevano bisogno di riposare.
Ma furono intercettati dalla folla, che costrinse Gesù a cambiare programma e a trascurare gli stanchi missionari.
E quindi fu direttamente lui che si occupò di parlare del regno di Dio e di guarire quanti avevano bisogno di cure (9,11), come se la folla, dopo aver ascoltato gli apostoli desiderasse andare alla fonte dell’annuncio.
     In verità, l’annuncio del regno di Dio era stata la preoccupazione di Gesù fin dal primo momento.
E anche la folla, fin dal principio, lo seguiva senza stancarsi e dargli un attimo di respiro.
In 4,42-44 mentre cercava un luogo isolato, venne raggiunto dalla folla che non voleva lasciarlo andare via.
Ma egli evitò di fermarsi, perché il regno doveva essere annunziato anche ad altre città.
In 8,1, dopo aver perdonato la donna peccatrice e aver insegnato la misericordia al fariseo Simone, ritornò alla sua consueta attività di predicazione del regno e in 8,10 si dedicò a istruire in modo più particolareggiato gli apostoli.
Infine al capitolo 9 associò gli apostoli all’opera di evangelizzazione, mai disgiunta dalla realizzazione dei segni delle guarigioni e degli esorcismi.
Riguardo alla folla, poi, in 5,1 si dice addirittura che «la folla gli faceva ressa intorno per ascoltare la parola di Dio»; in 6,17-19 si parla di gente che veniva ad ascoltarlo e a essere guarita, o anche solo a toccarlo, proveniente non solo dalla Galilea e dalla Giudea, ma persino da Tiro e Sidone, città pagane della Fenicia; in 8,4, la parabola del seminatore viene raccontata «poiché una gran folla si radunava e accorreva a lui gente da ogni città»; in 8,40, infine, troviamo persino che «al suo ritorno, Gesù fu accolto dalla folla, poiché tutti erano in attesa di lui».
     Gesù quindi si mostrava molto disponibile nei confronti della folla, comprendendo benissimo il bisogno che essa aveva di parola di Dio e di sollievo dalla sofferenza.
Ma tale disponibilità si dimostrò davvero eccezionale in questo caso della moltiplicazione dei pani e dei pesci.
Al v.
12 comincia un dialogo: gli apostoli, poiché stava tramontando, invitarono Gesù a congedare gli astanti per permettere a ciascuno di loro di procurarsi del cibo, in quanto il luogo in cui si trovavano era solitario.
Essi non si sarebbero mai aspettati la risposta di Gesù: «Voi stessi date loro da mangiare» (9,13).
Erano cinquemila uomini e nel passo parallelo del Vangelo di Giovanni l’apostolo Filippo fa una stima approssimativa della cifra necessaria a comprare pane per tutti: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa ricevere un pezzo» (Gv 6,7); a disposizione c’erano soltanto cinque pani e due pesci e l’eventuale spesa da affrontare era quindi insostenibile.
     Qui emerge un dato molto importante: gli apostoli, che erano stati protagonisti della missione con i compiti onorevoli di predicare, guarire e cacciare i demoni, vennero coinvolti nel servizio umile di dar da mangiare a quella folla.
Gesù — dice il Vangelo — «prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla» (9,16).
Il nutrimento passa quindi attraverso le mani dei discepoli, che davvero offrono da mangiare a quella moltitudine, forse senza nemmeno rendersi conto del tutto della “straordinarietà” del fatto.
Lungi dal pretendere di spiegare o razionalizzare il segno — ipotizzando che ognuno aveva delle provviste e che le condivide con gli altri, per cui il vero “miracolo” sarebbe la condivisione — occorre prendere sul serio il racconto evangelico e ammettere che Gesù abbia realmente potuto moltiplicare il poco cibo disponibile.
     Se conosciamo bene Gesù, non ci meraviglia che abbia avuto compassione di quella folla affamata, dopo che per un giorno intero aveva seguito i suoi insegnamenti e aveva assistito ai suoi segni.
Infatti, l’evangelista Luca ci presenta un’immagine di Gesù sinceramente sollecito delle necessità della gente, fossero anche quelle corporali.
Ma il testo ci suggerisce un’altra traccia ancora: le azioni descritte in 9,16 sono le stesse che Gesù compie in 22,19, nell’istituzione dell’Eucaristia, e in 24,30, durante la cena di Emmaus.
Il Vangelo di Luca, però, ci stimola a non ritenere la moltiplicazione dei pani e dei pesci un miracolo che solo Gesù poteva realizzare.
Il coinvolgimento degli apostoli è infatti senz’altro significativo, in relazione al fatto che il regno di Dio dev’essere servito con la predicazione, con i segni, ma anche con l’umile servizio del distribuire quel pane necessario a vivere e a rinvigorire le membra; il pane che può dare all’uomo l’opportunità di alzare i propri occhi al cielo e benedire il Padre; il pane che dev’essere gustato con gioia nella fraternità e semplicità; il pane, che crea compagnia e comunione in questo pellegrinaggio terrestre.
Perciò in questa maniera il pane delle nostre tavole può acquistare un significato più pregnante che quello di semplice alimento e, di conseguenza, il pane eucaristico può essere considerato sempre più per quello che è: pane-corpo di Cristo, offerto per ringraziamento e benedizione.
  Meditazione      La festa del Corpus Domini, che la Chiesa colloca immediatamente dopo il tempo pasquale, ci fa riandare a quel mistero eucaristico la cui memoria è già stata celebrata con particolare solennità il giorno del Giovedì santo.
La celebrazione odierna assume dunque i caratteri di una ulteriore ‘meditazione’, quasi una sosta contemplativa intorno al mistero centrale della fede cristiana, un mistero che è al cuore stesso della vita della Chiesa.
È in questa direzione che sembra orientarci l’orazione iniziale: «Signore Gesù Cristo, che nel mirabile sacramento dell’Eucaristia ci hai lasciato il memoriale della tua Pasqua, fa’ che adoriamo con viva fede il santo mistero del tuo Corpo e del tuo Sangue…».
Se il corpo e il sangue del Signore si offrono a noi anzitutto come cibo e bevanda di vita, essi sono anche un mistero da ‘adorare’; cioè da circondare di tutta la venerazione e la riconoscenza, lo stupore e l’amore che esso richiede.
Nella consapevolezza che tale dono eccede sempre la nostra capacità di recezione e le nostre possibilità di comprensione.
     È significativo che al centro di questa festa troviamo una realtà così umana, così concreta, così ‘materiale’ oseremmo dire, come quella del «corpo e sangue».
Corpo e sangue che dicono tutto il mistero dell’incarnazione, tutta l’umanità nostra, debole e fragile, assunta pienamente dal Signore Gesù.
Corpo e sangue assunti e donati fino all’ultimo «per noi uomini e per la nostra salvezza», come recita il Credo.
L’apostolo Paolo, raccontando l’istituzione dell’eucaristia nella notte della cena pasquale (seconda lettura), ce lo ricorda in modo esplicito: «Il Signore Gesù…
prese del pane…
e disse: “Questo è il mio corpo,  che è per voi..”.
Allo stesso modo…
prese anche il calice…» (1Cor 11,23-25).
     La prima lettura pone l’accento sull’offerta del pane e del vino da parte di Melchìsedek, singolare figura di sacerdote che fa la sua improvvisa comparsa all’interno delle vicende del patriarca Abramo.
Partendo dalla lettura che ne fa la Lettera agli Ebrei (soprattutto nel cap.
7), la Chiesa ha sempre considerato questo episodio una prefigurazione dell’eucaristia.
«Pane e vino» sono doni che rimandano, in ultima istanza, a uno dei bisogni primari e vitali dell’uomo: il soddisfacimento della sua fame.
Sappiamo che l’uomo è essenzialmente un essere che ha fame, e non solo di cibo.
La sua fame va ben al di là del pezzo di pane che può momentaneamente e parzialmente colmarla.
Essa abita nel profondo del suo cuore come desiderio, conscio o inconscio, di qualcosa che può venire da Dio solo.
Come afferma Benedetto XVI nel suo Messaggio per la Quaresima 2010.
«Come e più del pane, egli ha infatti bisogno di Dio».
È Dio che nutre l’uomo, anzi è Dio stesso che si fa suo nutrimento in quel pane e in quel vino che riceviamo ogni giorno dalle sue mani come «cibo di vita eterna» e «bevanda di salvezza» (rito di offertorio della liturgia eucaristica).
     Il racconto della moltiplicazione dei pani nella versione dell’evangelista Luca (vangelo) ci parla del mirabile e inatteso nutrimento di una folla affamata che, desiderosa di ascoltare Gesù e farsi curare dalle proprie malattie (v.
11 ), lo segue fin nel bel mezzo di un deserto.
Al di là del prodigio in sé, ciò che attira la nostra attenzione – soprattutto se leggiamo l’episodio nel contesto della festa liturgica odierna – è il modo con cui si conclude la narrazione: «Tutti mangiarono a sazietà…» (v.
17).
È questa sensazione di sazietà che rimane nelle nostre orecchie (e un po’ anche nel nostro corpo) dopo aver ascoltato questa parola.
Una fame saziata: ecco cosa ci vuol comunicare il racconto.
Già dai tempi della Prima Alleanza il Signore aveva promesso di saziare la fame del suo popolo – unica condizione richiesta: spalancare la propria bocca! -: «Sono io il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto salire dal paese d’Egitto: apri la tua bocca, la voglio riempire» (Sal 80/81,11).
L’antifona d’ingresso della presente celebrazione riprende le parole conclusive dello stesso salmo: «Il Signore ha nutrito il suo popolo con fior di frumento, lo ha saziato con miele della roccia» (Sal 80/81,17).
Dio non ha altra volontà che saziare la nostra fame.
Possiamo dire che è il suo grande desiderio.
A patto però di intendere bene cosa sono quel «fior di frumento» e quel «miele della roccia»…
     In un altro deserto (o forse lo stesso?) Gesù si era rifiutato di trarre pane dalla pietra, come subdolamente gli suggeriva il tentatore (cfr.
Lc 4,3).
Perché ora dunque compie (moltiplicando un pugno di pani e pesci là dove – essendo deserto – non poteva trovare che pietre) ciò che un tempo aveva categoricamente negato di fare? Al diavolo aveva risposto: «Non di solo pane vivrà l’uomo» (Lc 4,4), ora però non ricusa di donare – e in modo sovrabbondante – anche quell’umile pane a una moltitudine di gente stanca e affamata.
Egli sa che l’uomo ha bisogno anche di pane per vivere, purché quel pane sia ricevuto come segno di un’accoglienza amorosa («Le folle lo seguirono.
Egli le accolse…»: v.
11) e diventi capace di dire tutta la logica di una vita data in dono («Voi stessi date loro da mangiare»: v.
13), come è stata la vita stessa di Gesù.
Per questo il racconto della moltiplicazione dei pani (così come il racconto dell’ultima cena e quello della cena di Emmaus, dove si narra di un pane ‘spezzato’) è una grande e profonda rivelazione della persona di Gesù.
Erode, poco prima, si era chiesto: «Chi è dunque costui?» (Lc 9,9) e Gesù, quasi riprendendo la domanda, risponde donando del pane, simbolo e prefigurazione di quel pane che si farà lui stesso cuocendo nel forno della croce, per diventare nostro cibo in ogni eucaristia.
     «Dacci oggi il nostro pane quotidiano», domandiamo nella preghiera del Padre nostro.
Ciò di cui abbiamo bisogno ogni giorno per vivere lo chiediamo a Dio, consapevoli che solo ricevendolo dalle sue mani come dono gratuito esso può soddisfare la nostra più autentica fame di vita.
Solo là dove desiderio di Dio e bisogno dell’uomo (bisogno vero, nell’ordine di ciò che più vale nella vita) si incontrano, può nascere un orizzonte nuovo dove trovano casa l’accoglienza grata dei doni ricevuti e la premurosa condivisione che quei doni portano inscritto nella loro stessa natura.
            Preghiere e Racconti Il miracolo della moltiplicazione dei pani Il miracolo della moltiplicazione dei pani accade laddove nel popolo di Dio si da ascolto alla Scrittura della quale Gesù ha fornito l’esegesi messianica e, quindi, laddove si rispetta la Scrittura e si obbedisce alla sua parola che trova espressione attuale nell’assemblea della comunità.
Ciò significa: laddove si vive tutta la vita quotidiana all’insegna della volontà di Dio […].
Il miracolo della moltiplicazione dei pani accade laddove si celebra il banchetto messianico, al quale Gesù ha voluto invitare proprio tutti, i giusti e i peccatori, i sani e i malati, gli invitati della prima ora e quelli che se ne stanno a guardare, cioè laddove sia resa possibile, in continuazione, l’integrazione e l’unanimità di coloro che vogliono mettersi al servizio della costruzione del popolo di Dio.
Ciò significa: laddove al convivium, cioè al banchetto dell’eucaristia, corrisponde di nuovo il convivere, cioè la convivenza dei credenti che precede e segue l’eucaristia e trova la sua sintesi festosa nella celebrazione di settimana in settimana, da una festa all’altra.
Il miracolo della moltiplicazione dei pani si compie laddove è vitale la fede che l’uomo non vive di solo pane ma, in primo luogo, della parola di Dio, della sua promessa e della volontà di Colui che si è creato un popolo da portare in una terra dove scorrono latte e miele.
Ciò significa che il miracolo accade anche laddove i credenti osano dar prova della propria fede e metterla alla prova.
(R.
PESCH, Il miracolo della moltiplicazione dei pani.
C’è una soluzione per la fame nel mondo?, Brescia, 1997, 182ss.).
Il Dio nell’ostensorio Cantavano le donne lungo il muro inchiodato quando ti vidi, Dio forte, vivo nel Sacramento, palpitante e nudo come un bambino che corre inseguito da sette torelli capitali.
Vivo eri, Dio mio, nell’ostensorio.
Trafitto dal tuo Padre con ago di fuoco.
O Forma consacrata, vertice dei fiori, dove tutti gli angoli prendono luci fisse, dove numero e bocca costruiscono un presente corpo di luce umana con muscoli di farina! O Forma limitata per esprimere concreta moltitudine di luci e clamore ascoltato! O neve circondata da timpani di musica ! O fiamma crepitante sopra tutte le vene! (F.
García Lorca)   La prima comunione Benedetto XVI presiede nel pomeriggio di sabato 15 ottobre 2005, in piazza San Pietro, lo speciale incontro di catechesi con i bambini di prima comunione, al quale partecipano oltre 150.000 persone tra fanciulli, genitori, catechisti e sacerdoti.
Dopo la proclamazione della Liturgia della Parola, il Santo Padre risponde alle domande rivoltegli da sette bambini.
Questi sono alcuni brani del testo del “dialogo” tra il Papa e i piccoli.