Etudes: La Compagnia di Gesù nella città degli uomini

Chi si ricorda di Ivan Gagarin? Probabilmente, ben poche persone.
Questo oscuro segretario dell’ambasciata di Russia a Parigi, in carica intorno al 1850, ha però contribuito alla creazione di uno dei pilastri della vita intellettuali francese.
Proprietario terriero non privo di risorse, l’uomo si convertì al cattolicesimo durante il suo soggiorno parigino.
Spinto dalla sua nuova fede, si fece prete ed entrò nella Compagnia di Gesù.
Ma la sua conversione personale non gli basta, e l’ex diplomatico si impegna per riportare l’intera Russia ortodossa nell’ambito del cattolicesimo.
Per far questo, fonda nel 1856 una rivista annuale dedicata agli “studi di teologia, di filosofia e di storia”.
Era nata “Etudes”.
Il primo numero, un grosso volume di diverse centinaia di pagine ingiallite, è devotamente conservato con la sua rilegatura nell’attuale sede della rivista gesuita, in rue d’Assas, a Parigi.
Perché la Compagnia di Gesù, pur non condividendo l’ossessione personale di Padre Gagarin, comprese presto l’utilità di poter disporre di una rivista di formazione delle menti cristiane.
Sul modello della Civiltà cattolica italiana, fondata nel 1850 dai gesuiti, la Compagnia, famosa per il suo ruolo nell’educazione delle élite cristiane, recupera la rivista.
La ribattezza Etudes religieuses, historiques et littéraires, e la pubblica in forma mensile, “al fine di esporre la vera dottrina cattolica di fronte agli errori che minano le società moderne”, come spiegherà un gesuita in occasione del cinquantenario della rivista.
Da allora, a seconda dei suoi capiredattori e del contesto politico-religioso, gli Etudes hanno alternato periodi di apertura e di irrigidimento intellettuale, tuttavia con una costante: l’accoglienza nelle sue colonne, fin dal primo anno, di argomenti anche non religiosi.
“Sullo sviluppo della Cina e dell’India, ad esempio, la rivista ha avuto un notevole anticipo grazie alla presenza missionaria di gesuiti sul posto”, commenta Jean-Claude Guillebaud, lettore e collaboratore della rivista.
Desiderosi di lasciare a Etudes la strada aperta alla scienza, alla tecnica, alla cultura, alla letteratura e ai dibattiti di società, i gesuiti crearono del resto, nel 1910, un’altra rivista, Recherches de science religieuse.
Una maniera anche di proteggere Etudes dall’eventuale censura romana sulle questioni teologiche…
Oggi, Etudes tratta un solo argomento religioso al mese e fa dell’eclettismo il suo marchio di fabbrica.
Durante un primo periodo, che finirà con la cessazione della rivista nel 1870, la Compagnia di Gesù offre una lettura cristiana piuttosto aperta e liberale di argomenti allora principalmente teologici, trattati nella rivista.
Anche se, parallelamente, difende un approccio tradizionalmente conservatore dell’ordine stabilito.
La pubblicazione della rivista a Lione, interrotta con l’espulsione dalla Francia della Compagnia di Gesù nel 1880, conoscerà nel suo secondo periodo un irrigidimento intellettuale sotto la direzione di padre de Scoraille, un realista dichiarato.
L’anticlericalismo della Terza Repubblica alimenterà come risposta un antirepubblicanesimo ed un antimodernismo virulenti.
Nel 1910, la rivista pubblica la condanna del movimento sociale cattolico Le Sillon da parte di Pio X.
Nel corso degli anni 30, pur mostrandosi critica nei confronti dell’ascesa del nazismo, la rivista non è tuttavia stata “anti-antisemita”, secondo l’espressione di Jean-Yves Calvez, uno dei suoi capiredattori, nel 2000.
Una analoga discrezione caratterizzerà gli anni della decolonizzazione e della guerra d’Algeria, mentre il periodo del dopoguerra è stato segnato da una apertura al cristianesimo sociale.
Parallelamente la rivista ha fatto delle innovazioni introducendo della scienza dura nelle sue pagine.
“Secondo i periodi, il livello era anche particolarmente esigente”, rileva il fisico Etienne Klein, consigliere della redazione.
“Fin dal 1900, vi si trovano articoli sulla relatività, talvolta con qualche errore!” Nel 1907 la rivista pubblica uno schizzo di un futuro tunnel sotto la Manica, accompagnato da un articolo fustigante la stampa inglese per le sue “prevenzioni” su quel progetto! Decisamente “conciliare” durante il Vaticano II (1962-1965), la rivista si è stabilizzata negli anni ’70 in una “concezione umanista e cristiana” dei dibattiti di società, “articolando ragione e fede”.
“Etudes oggi può essere senza dubbio collocata al centro-sinistra da un punto di vista di Chiesa, e al centro-destra dal punto di vista della società!”, riassume Padre de Charentenay.
Senza essere in contrasto con Roma, la rivist aha coltivato la sua indipendenza proclamata nei confronti del Vaticano.
“Roma non ha mai convocato uno dei capo redattori di Etudes, anche quando nel 1974 non è piaciuta una interpretazione “aperta” delle posizioni della Chiesa sulla contraccezione, presentate nel 1968 nell’enciclica Humanae Vitae.” Negli anni ’70 e ’80, la rivista non sfugge al movimento generale di ripiegamento.
I lettori lasciano allora Etudes, considerata una “istituzione”, così come i fedeli disertano le chiese.
Da 15000 nel 1968, il numero di lettori crolla a 7000 nel 1980.
Simbolo di questo movimentato periodo, padre Bruno Ribes, capo redattore considerato “progressista”, lascia la rivista nel 1975.
In seguito uscirà dalla Compagna di Gesù e poi dalla Chiesa.
Rivendicando il suo statuto di rivista di opinione e non di dibattito, Etudes si è ormai stabilizzata attorno agli 11 000 abbonati.
Più “consensuale” che in certe epoche, secondo alcuni osservatori, la rivista evita pochissimi argomenti.
Esempio di uno di questi buchi neri: l’ordinazione delle donne nella Chiesa cattolica.
in “Le Monde” del 14 luglio 2010 (traduzione: ww.finesettimana.org)

Il paradosso di Dio

Il testo che anticipiamo in questa pagina verrà letto dall’autore domani alla Milanesiana, la rassegna di letteratura, musica, cinema e scienza curata da Elisabetta Sgarbi (Teatro Dal Verme di Milano, ore 21).
La serata ha per tema «I paradossi del tempo» e prevede anche la partecipazione di Fiorenzo Galli, direttore del Museo della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci, del matematico Wendelin Werner e dello scrittore Lawrence Osborne, con un concerto finale della cantante Noa.
Shalom Auslander è nato a New York 40 anni fa.
In Italia è conosciuto soprattutto per il memoir Il lamento del prepuzio (Guanda), dove ha raccontato con umorismo spietato i mille divieti in mezzo ai quali è cresciuto nel quartiere ebraico ortodosso di Monsey e i condizionamenti che ne sono derivati.
Di recente, sempre da Guanda, ha pubblicato la raccolta di racconti A Dio spiacendo.
La Yeshiva di Spring Valley era una scuola ebraica ultraortodossa.
I nostri rabbini erano onniscienti, e padroneggiavano tale conoscenza con assoluta certezza.
Sapevano che la Terra aveva 6.000 anni.
Sapevano che Dio aveva creato il Cielo e la Terra, e sapevano che successivamente aveva creato le piante, e che poi aveva creato gli alberi, e che poi aveva creato l’uomo, e che poi si era preso un giorno di vacanza.
Sapevano che la Terra sarebbe arrivata a una fine, e sapevano cosa sarebbe successo a tutti noi dopo che il mondo fosse finito.
Ci osservavano attentamente.
Osservavano come parlavamo, cosa mangiavamo, come pregavamo, quali preghiere di ringraziamento recitavamo.
L’unico posto in cui si poteva sfuggire all’occhio sempre vigile dei rabbini era il bagno al secondo piano; i rabbini preferivano il bagno al primo piano, dove fumavano sigarette e si lamentavano della pigrizia dei loro studenti mentre, soltanto al piano di sopra, noi eravamo indaffarati a scoprire i segreti del mondo che loro cercavano disperatamente di nasconderci.
E così, una mattina, quando Avi Tuchman mi disse di seguirlo nel bagno al secondo piano, sapevo che mi aspettava qualcosa di interessante.
Avi controllò i cubicoli, e poi ispezionò gli orinatoi dietro l’angolo.
«Che c’è?», chiesi.
Lui si inclinò verso di me, unì le mani a forma di coppa sotto il mento e mi sussurrò all’orecchio.
«Se Hashem riesce a fare qualsiasi cosa», disse, «riesce a creare un masso talmente pesante da non riuscire a sollevarlo?».
Hashem è il nome ebraico con cui ci si riferisce a Dio.
Non eri tenuto a usare il Suo nome senza una buona ragione, e di certo non eri tenuto a cercare di trovare dei modi per contestarlo.
Avi fece un passo indietro, incrociò le braccia e sorrise.
«Me l’ha detto mio cugino», disse.
«Hashem riesce a fare qualunque cosa», risposi.
«Ah sì?», esclamò Avi.
«Riesce a creare un masso talmente pesante da non riuscire a sollevarlo?».
«Certo che riesce».
«Allora ecco qualcosa che non riesce a fare».
«Cosa?».
«Sollevarlo».
«Allora riesce a sollevarlo».
«Allora ecco ancora qualcosa che non riesce a fare».
«Cosa?».
«Creare un masso che non riesce a sollevare».
Avi sorrise.
«Hashem riesce a fare qualunque cosa», dissi, alzando i tacchi e uscendo dal bagno.
La rivista porno aveva destato meno perplessità.
Avi Tuchman non mi piaceva granché, tuttavia la sua sembrava una gran bella domanda.
Un trucco, un trabocchetto, un filo allentato di un maglione che, se tirato, avrebbe disfatto tutta quella dannata maglia.
Non riuscivo a togliermelo dalla testa.
E così quel giorno, alla fine della lezione, dopo che il rabbino Brier ci aveva illustrato come Dio avesse trasformato l’acqua dell’Egitto in sangue, e come avesse fatto piovere rane, e diviso il mare in due parti e come fosse in grado di fare qualunque cosa – io alzai la mano.
«Che c’è?», chiese il rabbino Brier.
Brier era il rabbino della scuola che incuteva più timore, non per la sua intelligenza, bensì per le sue mani.
Una volta aveva schiaffeggiato uno dei ragazzi più grandi con una tale violenza da rompergli il naso, e aveva afferrato un altro studente per il braccio con una tale forza che per i due mesi successivi il ragazzo aveva dovuto portare il braccio al collo.
«Se Hashem riesce a fare qualunque cosa», dissi, «riesce a creare un masso talmente pesante da non riuscire a sollevarlo?».
Credevo non ci fosse niente di male nel fare una semplice domanda.
Dopo tutto, probabilmente c’era una semplice risposta; meglio chiarire queste cose velocemente prima che sfuggissero di mano.
«Chochemel», disse in yiddish il rabbino Brier con un certo sarcasmo – «Tu, saputello» – e mi mollò un ceffone in faccia.
«Hashem», ringhiò, «riesce a fare qualunque cosa», e poi mi disse di andare nell’ufficio del rabbino Greenbaum.
Questi era il preside e il capo dei rabbini della Yeshiva.
«Digli», disse il rabbino Brier, «che tu sai più di Hashem».
Che era esattamente l’opposto del nocciolo della questione.
Lo ammetto – la domanda mi faceva star bene.
Ma ciò che mi regalava una tale sensazione non era il pensiero di aver ingannato Dio, o di saperne di più di Lui.
Sicuramente allora non sarei stato in grado di riconoscerlo, ma ciò che di quella domanda faceva sentire talmente bene non era il pensiero di sapere qualunque cosa; piuttosto, era la chiara e distinta gioia di non sapere.
A quei tempi, sembrava che tutti credessero di sapere tutto.
Ultimamente, la situazione non ha fatto che peggiorare.
Tutti sanno tutto.
Sanno qual è il problema dell’America, qual è il problema del mondo, della letteratura, delle arti.
I blogger sono peggio dei giornalisti, gli utenti di Twitter sono peggio dei blogger.
Se esisteva un’arte del non sapere, l’abbiamo perduta.
«L’unica cosa che so», disse Socrate, «è che non so nulla».
Magari non è stato il primo a dirlo, ma comincio a sospettare che sia stato l’ultimo.
Il rabbino Greenbaum mi convocò nel suo ufficio, invitandomi a sedermi.
Mi accomodai con qualche difficoltà sulla sedia di fronte alla sua e mi fissai le scarpe.
«Dimmi», disse il rabbino Greenbaum, «credi che Hashem ti ami?».
«Sì», risposi.
«E credi che Hashem voglia che tu Lo ami?».
«Sì», risposi.
«E allora come credi che si senta Hashem quando affermi che non riesce a fare qualcosa?».
«Male», risposi.
«Naturalmente», disse il rabbino Greenbaum.
«E tu sai che Lui riesce a fare qualunque cosa».
Annuii.
«Ma se Lui non riesce a sollevarlo…», dissi.
«Certo che riesce a sollevarlo».
«Ma allora non riesce a farlo così pesante…».
«Certo che ci riesce».
«Ma allora…».
«Shalom», disse il rabbino Greenbaum, attorcigliandosi la barba, «sono più intelligente di te?».
Annuii.
«Sono più dotto di te?».
Annuii.
«Hashem riesce a fare qualunque cosa», disse.
«Okay?».
Annuii.
«Ora torna in classe», disse il rabbino Greenbaum.
Mi alzai avviandomi verso la porta.
La sua risposta non era una risposta.
Adesso la questione più importante era perché lui insisteva che lo fosse.
Raggiunsi la porta del suo ufficio e mi voltai verso di lui.
«Rabbino Greenbaum?», dissi.
«Sì?» \ «Mi dispiace di aver messo in dubbio Hashem», dissi.
Lui sorrise.
«Sei un bravo ragazzo», rispose.
Mi incamminai lungo il corridoio in direzione della mia classe.
Alle mie spalle, udii la porta dell’ufficio del rabbino Greenbaum richiudersi – il cigolio dei cardini logori, lo scatto della maniglia d’acciaio della porta, e poi la serratura, pesante, bloccare la porta scorrendo vigorosamente.
(Traduzione di Licia Vighi) in “La Stampa” del 13 luglio 2010

Perché il potere ha perso sacralità

Il teologo interviene sulla laicità alle “Parole della politica” Qual è l’esperienza concreta da cui è sorto il concetto di laicità? Io credo che sia la consapevolezza della complessità del rapporto tra il proprio mondo mentale e quello di altri.
Intendo quindi per laicità il metodo che governa il rapporto tra dimensione interiore e dimensione esteriore della vita: la laicità è un metodo che si applica alla relazione tra il foro interiore delle convinzioni ideali e il foro esteriore della convivenza con chi è diverso da noi.
Questa precisazione è essenziale per capire come agire rispetto ai cosiddetti “principi non negoziabili” di cui parla spesso Benedetto XVI.
A mio avviso la non negoziabilità dei principi si dà a livello di foro interiore, nel senso che non si devono tradire i propri ideali, soprattutto quando si agisce in prima persona.
Ma la realtà di un mondo sempre più plurale fa sì che il foro interiore della prima persona singolare non sia mai perfettamente traducibile nel foro esteriore della prima persona plurale.
Perché si possa pronunciare un armonioso noi, ogni singolo io deve modulare la sua musica interiore con quella degli altri.
Solo a questa condizione si avrà una sinfonia e non la cacofonia del conflitto sociale.
Ne viene che a livello di foro esteriore non c’è nulla che non sia negoziabile, perché la negoziazione è l’anima del diritto e della politica nella misura in cui essi sono elaborati all’insegna della democrazia.
Quindi riassumo: nessuna negoziazione a livello interiore dove è in gioco l’anima e l’adesione alla verità; ma concrete negoziazioni a livello di foro esteriore dove è in gioco la relazione armoniosa della convivenza tra uomini sempre più diversi.
Riuscire a mediare queste due dimensioni significa praticare la laicità.
Quanto detto finora però non è sufficiente.
La modernità è stata l’epoca delle distinzioni: la spiritualità dalla religione, la religione dall’etica, l’etica dal diritto, il diritto dalla politica.
Occorreva farlo per fondare su basi razionali la convivenza sociale.
Alla fine però ne è risultata una politica separata dalla spiritualità, dall’etica e ora sempre più anche dal diritto.
Per questo io penso che occorra qualcosa di diverso.
Guardando alla nostra società, a me pare infatti che più laica di così, più priva di sacralità di così, la politica non potrebbe essere.
Separata dalla spiritualità e dall’etica, la politica oggi si ritrova del tutto priva di sacralità, completamente profana, anzi così profana da essere ormai profanata.
Aristotele scriveva che «il vero uomo politico è colui che vuole rendere i cittadini persone dabbene e sottomessi alle leggi» (EN, 135).
Quanti sono i politici così? È stato messo in piedi un meccanismo che esclude quasi automaticamente chi si vorrebbe avvicinare alla politica con questi ideali, una specie di selezione naturale al ribasso.
A mio parere il nostro tempo ha bisogno di un ritorno alla dimensione sacrale della politica.
Non sto certo auspicando il ritorno alle teocrazie, meno che mai collateralismi neoguelfi di sorta e presenze di cardinali a cene di uomini di potere.
So solo che le grandi civiltà del passato non conoscevano la rigida separazione tra Cesare e Dio e l’avrebbero trovata innaturale.
Sono certo che neppure Gesù l’avrebbe praticata se sulla moneta ci fosse stata l’effigie del re Davide e non quella di un re straniero.
E quando Roma perse la sua sacralità e si laicizzò al punto da risultare del tutto profana agli occhi dei cittadini, perse anche la sua forza politica e militare.
Scriveva Hegel due secoli fa: «Ci potrebbe venire l’idea di istituire un paragone con il tempo dell’Impero romano quando il razionale e necessario si rifugiava solo nella forma del diritto e del benessere privato, perché era scomparsa l’unità generale della religione e altrettanto era annullata la vita politica generale, e l’individuo, perplesso, inattivo e sfiduciato, si preoccupava solamente di se stesso…
Come Pilato domandò: “che cos’è la verità?”, così al giorno d’oggi si ricerca il benessere e il godimento privato.
È oggi corrente un punto di vista morale, un agire, opinioni e convinzioni assolutamente particolari, senza veridicità, senza verità oggettiva.
Ha valore il contrario: io riconosco solo ciò che è una mia opinione soggettiva».
Nella stessa prospettiva oggi Eugenio Scalfari parla dei contemporanei come di barbari: «I contemporanei sono i nostri barbari».
Al cospetto di una politica ormai priva di sacralità, io avverto il bisogno di un movimento contrario rispetto alla laicità come separazione: c’è bisogno di reciproca fecondazione tra dimensione spirituale e politica.
Se la politica vuol tornare a essere capace di toccare la mente e il cuore degli uomini (e non solo le loro tasche) deve ricollegarsi organicamente al diritto, all’etica, alla religione, alla spiritualità.
Come debba fare non so perché non sono un politico, ma credo che il vero problema da affrontare non siano le piccole rivendicazioni del neoguelfismo all’italiana.
Queste sono manovre di poco conto, a loro volta segno di decadenza.
Il vero problema è il nichilismo che dilaga nelle anime, il bisogno dell’uomo di sacralità e la politica che non sa più neppure cosa sia la sacralità.
L’anima della nostra civiltà è malata, intendendo con anima della civiltà ciò che tiene unite le persone al di là degli interessi immediati, quel senso ideale per cui il singolo percepisce di essere al cospetto di una realtà più importante di lui nella quale però si identifica e quindi serve con onestà.
Di fronte a questa situazione penso che ogni persona responsabile debba cercare di capire in che modo la propria area di appartenenza possa servire il paese con equità.
E al riguardo mi permetto di ritenere inadeguata l’impostazione della Chiesa cattolica.
Essa infatti pensa i cattolici come interessati solo ad alcuni aspetti della vita quali bioetica, scuole cattoliche, famiglia, e non invece all’insieme della società.
Che le questioni ricordate siano importanti è ovvio, ma esse non possono rappresentare l’unico punto di vista in base al quale giudicare la politica perché il cristiano deve essere fedele al mondo nella sua integralità e non crearsi un mondo a parte.
Dietro l’impostazione del Magistero c’è invece l’idea che i cattolici siano una realtà estranea rispetto al mondo e vi si rapportino solo per trarne più benefici possibili per il loro piccolo mondo particolare.
Questo però è teologicamente sbagliato perché significa trasformare i cattolici in una delle tante lobby del mondo e far perdere sapore al sale: «ma se il sale perde il sapore, a null’altro serve che a essere gettato via» (Mt 5,13).
in “la Repubblica”del 14 luglio 2010

“Il catecumenato è un luogo di rinnovamento delle pratiche di trasmissione della fede”

Dal 6 al 9 luglio si svolgono le Assises internationales du cathécumenat.
Il loro lavoro sarà proseguito attraverso un Osservatorio internazionale delle pratiche catecumenali.
L’Istituto che lei dirige (l’Institut supérieur de pastorale catéchétique) ha come missione la catechesi.
Perché ha organizzato le prime Assises internationales du cathécumenat? Perché in una Chiesa colpita dalla crisi della trasmissione, il catecumenato si presenta sotto certi aspetti come un esempio in controtendenza.
Il numero di bambini catechizzati continua a diminuire, ed anche quello dei catechisti, ma aumenta il numero dei catecumeni.
Il catecumenato sembra proprio essere un luogo di rinnovamento delle pratiche di trasmissione.
Del resto, con l’aumento dell’individualismo, si constata che i processi di costruzione dell’identità credente siano stati sconvolti.
Non si diventa credenti come trent’anni fa! Da qui l’interesse a costituire una rete di ricerca per sapere come si scopre o si riscopre la fede nelle nostre società attuali.
Da questo punto di vista, la Francia è un passo più avanti…
La Chiesa francese è stata pioniera in materia di catecumenato: i primi battesimi di adulti, con tappe liturgiche, sono iniziati nel 1952 a Parigi.
Tutti conoscono l’importante riflessione teologica di Henri Bourgeois a Lione.
Questo dipende dalla storia del nostro paese e dalla nostra secolarizzazione avanzata.
Tuttavia bisogna che queste ricerche vengano continuate.
Che cosa possiamo imparare dalle esperienze dei paesi stranieri? Nel catecumenato, il rapporto con la cultura è fondamentale.
Ad esempio, un adulto che si presenta al battesimo in Francia lo fa in una relativa indifferenza sociale.
Non è la stessa cosa per un catecumeno in Senegal, dove più dell’80% della popolazione è musulmana…
E questa esperienza è senza dubbio interessante per delle diocesi in cui la religione maggioritaria non è più la religione cattolica…
Si dice spesso che i nuovi battezzati non restano a lungo nella Chiesa…
Il progetto di ricerca ha anche la missione chiarire anche certe idee preconcette diffuse.
Come quella secondo la quale i battezzati adulti lascino la Chiesa nel giro di due anni! Quello che già sappiamo, è che un terzo dei nuovi battezzati traslocano nei due anni successivi al battesimo.
E andando in un’altra parrocchia, per definizione, non sono più considerati catecumeni.
Bisogna quindi tener conto della mobilità dei giovani adulti.
Da qui l’importanza di riunire tutti i dati e favorire la costituzione di una rete internet.
Chi sono oggi i catecumeni? Il Servizio nazionale della catechesi e del catecumenato pubblica ogni anno le statistiche dei battezzati adulti.
Ma si sa comunque che l’immensa maggioranza dei catecumeni sono dei giovani che crescono nelle cappellanie della scuola pubblica (AEP) e della scuola cattolica.
Ora, non sono contabilizzati.
Si valuta oggi a 20 000 il numero di adolescenti che fanno una richiesta di tipo catecumenale, che richiedono cioè il battesimo o la cresima, solo nelle AEP.
Per quanto riguarda gli adulti, il numero è di circa 2 900.
È questa dinamica che vogliamo studiare perché crediamo che lì si giochi una parte del futuro della Chiesa in Francia.

Credere al mistero pasquale

Sembra che certi cristiani non credano alla Resurrezione! Questa incredulità non è forse dovuta al fatto che, nello spirito di molti, la parola resurrezione, per quanto riguarda Gesù, è interscambiabile con la parola apparizione? Focalizzare Pasqua sulle apparizioni e vedervi soltanto la rivivificazione di un cadavere non solo è cristologicamente assurdo, ma anche logica fonte di scetticismo.
Com’è possibile arrivare a questo? Senza dubbio perché Pasqua, con le sue apparizioni, giunge come ultima parte del triduo pasquale – Giovedì santo, Venerdì santo, Pasqua – e viene percepita come il suo culmine.
Dimenticando che il mistero pasquale si struttura anche in un secondo trittico altrettanto essenziale – Pasqua, Ascensione, Pentecoste –.
Secondo trittico senza il quale la Resurrezione e le apparizioni di Gesù sarebbero solo un bel discorso.
È vero che la densità liturgica e l’emozione sono in questo caso meno forti, i simboli meno palpabili.
Ma se Pasqua non è credibile senza la Cena, la Passione e la Resurrezione, non è credibile neppure senza la Resurrezione, l’Ascensione e la Pentecoste.
Il mistero pasquale non si esprime solo nel registro del passaggio attraverso la morte verso la vita.
Credere alla Resurrezione è una cosa più ampia, più esigente ma anche più vera.
Vuol dire credere alla piena realizzazione di Gesù in Cristo, nella sua esaltazione e glorificazione.
La fede nella Resurrezione non si limita a credere alle apparizioni, ma soprattutto in ciò che questa parola si sforza di far valere, che riguarda anche la nostra pienezza umana.
Gesù non appare per dire: “Sono risorto, questa è adesso una verità rivelata, bisogna trasmetterla se volete salvare le vostre anime.” Dio non si limita a comunicare un messaggio agli uomini, si comunica lui stesso come piena realizzazione dell’uomo.
Prima di essere un qualcosa fatto di avvenimenti oggettivabili, storicamente sensibili (colui che era morto si fa vedere vivo), la Resurrezione è, per i discepoli, un’esperienza tangibile, vitale.
Sono introdotti nella veracità di Cristo uomoDio, rivelazione della loro filiazione divina: è l’Ascensione.
Sono introdotti in una presenza reale, che, attraverso lo Spirito effuso, rivoluziona il loro quotidiano: è la Pentecoste.
Il senso eccezionale della vita iniziato con l’avvenimento Resurrezione è troppo spesso ridotto alla descrizione delle apparizioni e alla fattualità di immagini mentali o artistiche che ne perturbano la percezione.
Ma non lasciamoci ingannare.
Il Vangelo non pretende affatto, ad esempio, che Gesù resuscitato sia stato visto da testimoni diversi dai discepoli, dai fratelli, e che qualcuno lo abbia toccato per verificare, nemmeno Tommaso! Allora, con quali occhi lo hanno visto vivo in persona poiché, innanzitutto, non lo riconobbero? Esattezza o veridicità della visione? Lo Spirito confermatore non stava già operando per aprire gli occhi della mente? Ci si accontenta troppo spesso di un approccio esclusivamente liturgico dei testi, li si dà ad intendere solo al primo livello, quello letterale.
Il rischio è di ritrovarsi in un vicolo cieco, con delle apparizioni di cui ci si servirà come di miracoli evidenti per polemizzare con i denigratori della fede! Non è perché si fa vedere, che Gesù è resuscitato, ma perché è stato risollevato di tra i morti, perché la sua vita è una con il Padre e perché il loro Spirito comunicato apre gli occhi dell’intelligenza.
Le apparizioni punteggiano l’avvenimento di Pasqua ma non lo definiscono da sole.
È necessaria l’esperienza del mistero cristico, sia per i testimoni di allora che per noi.
Alla fine non c’è altra prova della Resurrezione che la prodigiosa, imprevista comunità degli Atti degli Apostoli, nuova creazione.
A quale Resurrezione crediamo? Credere al mistero pasquale non vuol dire accontentarsi di confessare la storicità delle apparizioni fino alla fine dei tempi, come la morte di Socrate o la nascita di Napoleone.
È essenzialmente capire che ognuno è in grado di gustare della triplice e simultanea pienezza di Resurrezione, Ascensione, Pentecoste, a titolo individuale, come soggetto unico, ma anche comunitariamente.
Se una di queste tre parti venisse a mancare, le altre due svanirebbero e, per noi, tutto il mistero pasquale.
Non possiamo bloccarci ad una comprensione iniziale della fede nella Resurrezione, alle apparizioni, ad una affermazione oggettiva lontana dall’uomo, ad una verità da credere senza implicazioni.
Se Gesù è diventato Cristo, è affinché noi diventassimo Cristo con lui, anche noi testimoni della sua Resurrezioneùù in “La Croix” del 3 luglio 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)

Le venuzelas di Mandela

La vuvuzelas, é l’argomento per eccellenza extra-tecnico dei Mondiali sudafricani:  una tromba da stadio lunga non più di un metro da tempo in voga tra i tifosi locali, chiamata vuvuzela.
C’è chi le paragona al barrito di un elefante e chi a uno sciame d’api inferocite.
  C’è chi le ha elette a simbolo di Sudafrica 2010 e chi, per il loro infernale frastuono, le ha bollate come strumento del diavolo.
Eppure, secondo il sito boogieblast, la tromba, oggi «soccer horn» per eccellenza e oggetto sempre più di culto tra i tifosi.
Fu introdotta in Sudafrica come un giocattolo per bambini che dovevano soffiarci dentro per puro gioco.
Non ebbe granché successo, fino a quando non furono i supporters locali del soccer a scoprire e realizzare l’effettivo potenziale dell’invenzione, il cui primo prototipo sarebbe stato ‘importato dagli Stati Uniti.
Sull’origine del nome, e su cosa veramente significa, sono state fatte molte ipotesi.
Di fatto le vuvuzelas appartengono ai supporters, come se i tifosi in qualche modo ne detenessero i diritti.
Nella versione messa a disposizione da un sito specializzato la vuvuzela misura 65×13 centimetri e pesa 120 grammi.
In commercio ne sono attualmente reperibili almeno un paio di versioni, a costi tutto sommato limitati.
Si parte da circa otto euro l’una, e si può anche arrivare ai 50, ma scegliendo una versione particolarmente «pretenziosa».
Maggiore il risparmio se si compra direttamente in Sudafrica: la tromba a Johannesburg costa la modica cifra di 25 rand, circa due euro e cinquanta centesimi.
Gli «strumenti del demonio» si appresterebbero a invadere gli stadi europei con il loro frastuono che può raggiungere i 150 decibel, anche se l’uso dei tappi può ridurlo di 30 decibel.
Oggetto di una semplicità arcaica, la vuvuzela produce una limitata ma potente gamma di suoni.
Anche se l’origine del nome non è chiara, sembra abbia ascendenze zulu: potrebbe significare “far rumore” ma anche “ronzio di uno sciame d’api”.
Suonarla è tutt’altro che alla portata dei profani e richiede una tecnica adeguata.
Debitamente illustrata in un apposito sito, il supplier boogieblast (www.boogieblast.com).
Che così spiega: «Introducete le labbra nell’imboccatura e provate a riprodurre il suono di una scoreggia (pudicamente, l’inglese farting è messo tra virgolette).
Rilassate le guance e fate vibrare le labbra nell’imboccatura.
Non appena il suono comincia ad uscire, soffiate con maggior forza».
Con risultati che sono stati ampiamente e assordantemente sperimentati.
Il modello di plastica, oggi il più diffuso negli stadi sudafricani dei mondiali, si è affermato nel corso degli anni Settanta tra i tifosi che seguivano le partite di calcio in Messico.
La vuvuzela aveva guadagnato l’attenzione dei cronisti sportivi già durante la Confederation Cup della FIFA dello scorso anno.
Valutato l’effetto del continuo e incessante ronzio causato dalle migliaia di trombette presenti negli stadi e la potenziale pericolosità dello strumento nel caso di tafferugli, la FIFA aveva deciso di vietarne l’utilizzo nel corso dei mondiali.
La SAFA, la South African Football Association, ha però presentato un ricorso a difesa della vuvuzela, risorsa indispensabile per regalare al mondo una vera esperienza sudafricana delle partite di calcio.
La FIFA è così tornata sui suoi passi, permettendo l’utilizzo dei modelli di vuvuzela di plastica che non superino il metro di lunghezza.
Sicuramente uno dei motivi per cui verranno ricordati questi mondiali sono le vuvuzelas, le trombette usate negli stadi che ospitano le partite dei mondiali in Sudafrica, e il forte rumore che queste provocano.
Il loro suono continuo infatti disturba i tantissimi telespettatori che assistono ai mondiali da tutto il mondo.
I primi a correre al riparo sono state le emittenti tedesche Zdf e l’Ard, che hanno deciso di introdurre alcuni accorgimenti durante le telecronache: utilizzeranno microfoni labiali e meglio direzionati per ridurre il fastidiosissimo rumore e impiegheranno un filtro audio inventato da Tobias Herre. Oltre alla Germania, anche la Bbc ha annunciato di aver preso degli accorgimenti per limitare il rumore prodotto dalle vuvuzelas.
Un funzionario ha dichiarato: “Stiamo monitorando la situazione.
Se le vuvuzelas continuano ad avere un impatto sonoro elevato, siamo pronti a prendere degli ulteriori accorgimenti”.
E un “commento” di un tifoso furioso(allegro e spiritoso) Ste trombette, quelle trombe lunghe un metro che fanno da sfondo ai campionati del mondo in Sudafrica, le Vuvuzela, hanno francamente rotto i coglioni.
Almeno a me ecco.
Cioè hanno un suono fastidioso e monocorde che alle mie orecchie risulta molto irritante.
Detto questo, la scorsa settimana ho seguito una discussione su Twitter, di un amico (del quale non dico il nome) ed una tipa che non conosco, che non seguo e che non ho intenzione di seguire dopo aver letto le stronzate che diceva.
In pratica sosteneva che i Sudafricani sono degli incivili, che ci vorrebbe uno sterminio, una bomba atomica o al minimo un Tzunami, per spazzare via un popolo di aborigeni che fanno un rumore simile con le trombette.
La simpatica amica in questione si accalorava nel dire cose come “non capisco come i calciatori accettino di giocare li” e cose di questo genere, senza risparmiare bestemmie e ataviche maledizioni ai “negri” africani.
L’amico di cui parlavo sopra, con grande freddezza e simpatia è anche riuscito ad interloquire e le ha detto qualcosa come “faranno casino si ma da li a augurare loro lo sterminio…” e li si è scatenata la parte migliore della signorina delirante.
Ha detto che “voi segaioli comunisti (…) con la vuvuzela” e bla bla bla, riferendosi a tutti quelli che non sono evidentemente idioti come lei.
Ora, l’assioma “vuvuzelacomunista” è una cosa che mi intriga da morire: come mai questa donna è arrivata a pensare che tutti quelli che NON sterminerebbero un popolo intero solo perché suona delle trombe allo stadio, debbano essere comunisti? Come mai il non essere un assassino di massa è considerato una cosa comunista da sta povera persona? E sopratutto, può il non essere un folle che augura Tzunami a milioni di persone, essere definito comunista con accezione negativa quando invece essere un folle sanguinario è una cosa positiva? E se positiva che nome ha? Fascista? Nazista? No, dico solo per capire eh.
Ultima cosa, se non essere matti vuol dire essere comunisti, non è meglio essere comunisti? Ma se così è allora il termine “comunista” non può essere considerato un temine negativo.
Insomma, vorrei tanto che sta tipa passasse di qua e leggesse, e poi mi spiegasse anche cosa le passa per l’insano e contorto cervello.
Ma dubito che passi di qua e anche che riesca a spiegarsi.
Vediamo ed aspettiamo… Bandire Le Vuvuzelas? ”No, è La Nostra Cultura”  Polemiche sul rumoroso strumento che i sudafricani suonano in strada e negli stadi, disturbando giocatori e trasmissioni tv: c’è chi lo vorrebbe vietare, ma i sudafricani sono contrari: “Troppo tardi, non possono più vietarla, è troppo tardi ormai”.E ancora: “Questo è un Mondiale in Africa e appartiene a noi.
Dobbiamo suonare le vuvuzelas, dobbiamo soffiare e soffiare e soffiare fino alla fine della Coppa” .
Una posizione quindi che va oltre il tifo e diventa difesa culturale: “Perché dovrebbero bandirla? E’ parte del Sudafrica, parte di Capetown.
E’ il nostro modo di tifare, non dovrebbero vietarla” ( fonte: repubblica.it) Mondiali 2010: le vuvuzelas sono l’incubo di tutti Se in queste sere vi siete sintonizzati su Rai 1 ma anche su sky o sui canali radio per seguire le partite dei mondiali sudafricani avrete sicuramente notato qualcosa di strano.
Più che notato, udito forse, un piccolo rumorino di sottofondo.
Neanche tanto piccolo e poco fastidioso se pensate che qualcuno ha anche richiesto il modo per evitarlo.
Di cosa stiamo parlando? Di quelle simpaticissime trombette, le vuvuzelas, che vengono regalate all’ingresso dello stadio e che producono un rumore assurdo.
Alla fine della partita il mal di testa è assicurato.
Pensate che secondo alcuni quotidiani sudafricani si scrive che il presidente abbia fatto un appello ai tifosi già prima dell’inizio del mondiale perché si conosceva la possibilità di un problema simile.
In effetti queste trombette sarebbe così dannose da poter addirittura provocare problemi all’udito.
I tifosi però non sembrano aver accolto quest’appello.
Anche i giocatori hanno dichiarato che le trombette disturbano parecchio ma sembra se ne debbano fare una ragione.
Il suono di queste utilissime trombette sembra esser destinato a diventare la colonna sonora di questi mondiali.
Ogni vuvuzela produce un suono di 127 decibel, una cosa incredibile se si pensa che si tratta di un semplice strumento a fiato eppure è così.
Dopo le proteste la casa produttrice delle fantastiche trombette ha deciso di abbassare il numero di decibel che resta comunque altissimo.
Ecco come si è giustificato un dirigente della società produttiva Masincedane Sport: “Abbiamo modificato il boccaglio, le Vuvuzelas avranno un suono di 20 decibel inferiore rispetto a quelle prodotte fino ad ora“.
Queste le sue parole prima del mondiale.
Non sembra però che questa modifiche abbiamo portato risultati ottimali.
Il disturbo c’è ancora e si vede.
E’ vero che in molti casi è meglio sentire questo spiacevole rumore invece delle telecronache assurde di cui ci omaggiano alcuni giornalisti.
Ma se fosse possibile preferiremmo evitarlo…Sembra un’ipotesi comunque difficile questa! La soluzione? Togliete l’audio… E- mi auguro- che essendo uno strumento semplice, possa essere usato da quanti oggi sono oppressi nel mondo e vogliono liberarsi, cioè essere uomini e donne felici nella propria società.
 Non sono una tifosa di calcio, però quando ho sentito mio marito che telefonava al figlio per sapere come eliminare quel fastidioso ronzio, simile a quello di uno sciame grossissimo di api, ho cominciato a ridere, a ridere e rido tuttora quando c’è una partita del Mondiali di calcio 2010.
Dio- ho pensato- anche stavolta Mandela farà conoscere al mondo intero qualcosa della sua cultura, di quella cultura che ha permesso a certi politici di individuare le strade della tolleranza, della comprensione e del perdono, della convivenza  tra le varie  etnie, anche se sussistono problemi gravissimi di povertà, sanità, e religiosità.
Per un attimo solo ho sognato che le vuvuzelas dei popoli sudafricani che le usavano per tenere lontano i nemici e gli animali feroci, potessero diventare uno strumento di lotta pacifica contro tutti i soprusi di cui oggi noi occidentali siamo vittime: politica, economia, rischi ambientali( come mi piange il cuore nel vedere il mio giovane presidente Obama stretto nella morsa del disastro ambientale che ha ereditato dal suo predecessore e nella incapacità dell’ONU nel dover ancora realizzare minimamente gli obiettivi che insieme 192 Paesi si erano riproposti di raggiungere nel 2015 per vincere la povertà, la malattia, la discriminazione di genere….).
Ma forse, la curiosità, la stupidità che acceca molti dei nostri contemporanei che a migliaia si sono gettati a comprare queste “trombette monocorde”, riusciranno a diventare un simbolo pacifico seppure fastidiosissimo,  dell’insofferenza  della gente verso i troppi, esagerati soprusi che stanno prevaricando in ogni dove da cui- sembra- sia scomparso ogni segno di democratica convivenza.
Un gruppo che protesta o vuole inneggiare a questo o quello che fa il bene del suo Paese, non è qualcosa da scartare o da irridere.
Nelson Mandela, ancora una volta, ci ha indicato una via serena per sospingere i deputati al Bene Comune, a non desistere, perché- prima o poi- la civiltà della convivenza prevarrà sul turpe mercato economico che sta imbrigliando il globo intero nella sua morsa mefitica.
Forse- ancora una volta- dobbiamo credere che sia stato un “segno” dell’Altissimo far sì che il campionato mondiale di calcio che è quello che inchioda più milioni di persone davanti alle TV, attraverso le vuvuzelas di un popolo umile, povero, vivo e geloso della sua cultura, possa riprendersi dal torpore mortale in cui vive e che ammette ogni infamia a discredito di tantissimi  che cercano di convivere nella amicizia e nella giustizia.
Evviva Mandela, evviva il Sudafrica! Però ora, se mi permettete, desidero riportare alcuni brani – a volte- tecniche, altre  furiose- sulle vuvuzelas che disturbano il ben sentire i commenti alle partite di calcio.
Eccole: Cosa sono le Vuvuzelas? i più risponderanno “delle trombette che si suonano agli stadi dei mondiali del Sudafrica”.
Ma per dare una risposta concreta bisogna cercare notizie che risalgono a più di 40 anni fa. Ci sono testimonianze di questo tipo di corno o di tromba di plastica negli stadi messicani dal 1970.
Originariamente fatta di latta, la Vuvuzela divenne popolare in Sud Africa nel 1990.Il noto Freddie “Saddam” Maake supporter di una squadra di calcio locale, Kaizer Chiefs, sostiene di aver inventato la vuvuzela, creando una versione in alluminio già nel 1965. Più tardi ha perfezionato il prodotto collegandolo a un tubo per renderlo più lungo. Maake ha foto che attestano quanto dice, foto che risalgono agli anni 1970 e 1980 a livello locale e ai giochi del Sud Africa e giochi internazionali nel 1992 e nel 1996 e in Coppa del Mondo 1998 in Francia.
Nel 2001 c’è chi vede una fonte di guadagno in questo oggetto particolarissimo e compie una vera e propria azione di Marketing.
Tutto cambia: l’oggetto leggendario viene brevettato, pubblicizzato, viene creato un uso del prodotto e viene prodotto in serie grazie a van Schalkwyk.
E’ la Masicendane Sport, società sudafricana, che lancia le vuvuzela su scala internazionale, ben tre anni prima che il Sudafrica si aggiudichi il Mondiale 2010.
Quando la Fifa sceglie Johannesburg per la Coppa del Mondo, van Schalkwyk ha già regalato 250 vuvù al Comitato organizzatore, convinto i ministri sudafricani delle Finanze e dello Sport a suonarle in pubblico e stretto accordi commerciali con gli organizzatori dei prossimi Mondiali in Brasile.
La vera magia delle vuvù, insomma, sembra essere quella di portare soldi.
Un euro e mezzo per una trombetta, oltre un milione quelle già vendute per un totale di un milione e mezzo di euro già nelle casse della Masicendane Sport.
Altri due milioni dovrebbero essere incassati nei mesi immediatamente successivi al Mondiale.Il suono delle vuvù sembra piuttosto stimolare la creatività, e il business.
Vuvuzela per iPhone, di casa Apple, è al momento l’applicazione gratuita più scaricata in Sudafrica e nel Regno Unito: oltre 750 mila download per riprodurre il fastidiosissimo suono sul proprio cellulare.
Craig Marias, un altro imprenditore sudafricano, ha assunto 80 operai per produrre copri- vuvuzuela e ha detto di aspettarsi introiti milionari nei prossimi sei mesi, mentre aziende come la Allding Ltd o boogieblast hanno creato siti internet che, oltre alla vendita di trombette, raccontano curiosità sullo strumento o insegnano a soffiarci dentro.
Insomma, più che il ronzio di uno sciame d’api, le vuvuzela suonano musica milionaria.
Disturbata da copie più potenti o meno potenti (Kuduzela) e ancor peggio dal mercato cinese, che pare abbia già messo in commercio trombette senza marchio registrato a un prezzo di vendita molto più basso.
Ulteriore pericolo per questo oggetto cult di questi mondiali di calcio è il suo rumore assordante durante le partite. Guerra alle ‘vuvu’ quindi.
Il mondo del calcio e’ infatti in rivolta contro i rumorosissimi ‘corni’ di plastica, suonati continuamente durante le partite dei Mondiali di Sudafrica 2010.
Messi da parte i tradizionali tappi alle orecchie e le ‘suppliche’ di intervento respinte dalla Fifa, mezzo mondo sta disperatamente cercando soluzioni per zittire le vuvuzelas sudafricane.
I più agguerriti sono i telespettatori che sul web si lasciano andare a commenti ‘arrabbiatissimi’.
Ma c’e’ chi non si arrende e propone soluzioni, a volte anche stravaganti, per poter seguire ‘in pace’ le partite come il tedesco Tobias Herre, che, sulla propria pagina web, ha pubblicato le istruzioni per eliminare il fastidiosissimo sottofondo dalle telecronache delle partite.
“Il rumore mi dava un fastidio enorme.
In realtà, eliminarlo è molto semplice”, ha detto all’agenzia Dpa.
La soluzione, a quanto pare, è costituita da un software speciale che intercetta e cancella determinate frequenze dei suoni creati dalle terribili trombette di plastica.
Lasciando, al tempo stesso, il rumore dei tifosi e la telecronaca dei commentatori.
Herre ha creato un tutorial..
A sostegno dei ‘tormentati’ dalle vuvu, come sono amichevolmente chiamate le vuvuzelas in Sudafrica, scende in campo la tecnologia.
Sui blog c’e’ chi propone di filtrare con un software le frequenze che compongono il ”suono del corno”.
Su alcuni post ci si spinge oltre e si suggerisce di riprocessare l’audio attraverso un computer e bloccare la banda dei 233, 466, 932  1864 Hz.
Stesso suggerimento per chi ha un televisore con equalizzatore o per chi ha un sistema ‘home theatre’.
(source: ilPost Leggo Wikipedia Boogieblast).

Il prevosto e il dottore alla sfida degli ex voto

Il dottor Mario Alfani, cardiologo e presidente dell´Ordine dei medici, prende in mano una tavoletta.
«Questo ex voto del 1898, sigla Br 16657, è quello che più mi colpisce.
Il malato a letto guarda alla sua sinistra, verso l´alto.
Lì c´è una Madonna circondata da angioletti.
Prega e invoca un miracolo.
A destra del letto c´è invece il medico, in abito nero – i medici allora erano sempre vestiti di scuro – che non guarda il malato ma appoggia le mani su un tavolino e abbassa la testa, sconsolato.
Non sa più che fare.
Tutti noi medici abbiamo vissuto momenti come questo, quando senti dentro l´angoscia perché hai capito che per il paziente non puoi più fare nulla.
Per fortuna questo è un ex voto: se la tavoletta è stata portata in un santuario, vuol dire che il malato è guarito».
In terra astigiana è nata una strana alleanza: medici e sacerdoti (che per centinaia d´anni sono andati d´accordo come ghibellini e guelfi) si sono messi assieme per studiare gli ex voto portati nei santuari negli ultimi sette secoli.
«Siamo stati spinti dalla curiosità.
Come ci hanno visto, e giudicato, i nostri pazienti? Le tavole sono una microstoria che parte dal Medioevo e dentro ci siamo anche noi.
Per questo abbiamo chiesto al progetto culturale della diocesi di collaborare a questo studio.
Le tavole sono state raccolte e osservate una a una.
Presto apriremo una mostra ma già ci siamo riuniti a convegno: come medici, storici e teologi abbiamo guardato il nostro passato come in uno specchio».
Settecento tavole, quasi tutte su legno.
Camici bianche e tonache nere sono partiti da qui per studiare il rapporto fra «fede e salute» e riflettere sulla «religiosità popolare nella cura della malattia e nella professione medica».
«Nelle tavole – dice il dottor Alfani – c´è il racconto della medicina che piano piano riesce a dare risposte sempre più precise.
All´inizio non era così.
Questo paziente con la testa rotta, ad esempio, è solo fasciato.
Invoca i santi, non ha altra speranza, anche perché nella stanza non c´è nemmeno il medico.
Ma in tante tavole anche noi siamo presenti perché chi sta male invoca un doppio aiuto, il nostro e quello del cielo.
Ma quasi tutte le immagini sembrano spaccate in due.
Il paziente guarda verso l´alto, dove fra nuvolette e angeli appaiono i protettori, e anche i parenti, quasi sempre inginocchiati, guardano nella stessa direzione.
Il medico è invece accanto al letto e volta le spalle all´immagine sacra.
Nessuno lo guarda, nemmeno il paziente.
Ma resta comunque lì, a portare il suo aiuto terreno».
Non è mai stato facile il rapporto fra medicina e religione.
«Nella sacra scrittura – dice don Vittorio Croce, docente di teologia – c´è un certo rispetto per i medici ma non manca una vena di pessimismo.
Nel Siracide, II secolo avanti Cristo, si parla bene di questa professione ma si ricorda che la guarigione è sempre dono del Signore.
E si aggiunge: “Chi pecca contro il proprio creatore cada nelle mani del medico”.
Ancor più pesante, nel Vangelo, la notazione di Marco sulla donna colpita da perdite di sangue da ormai dodici anni: “Aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi peggiorando”».
«Le icone sono davvero anche la storia della malattia e della medicina», dice il presidente dei medici.
«Nei primi secoli, quasi tutti i malati sono nei loro letti, a casa loro.
Andare all´ospedale, per chi era abbiente, era un affronto.
Voleva dire che si era messi molto male e anche che non c ´erano più i mezzi per essere curati a casa propria.
Ci sono anche le stanze delle case dei poveri, con letti stretti e nessun mobile.
Poi appaiono le prime “camerate” da ospedale, e alcune sono quelle del nostro nosocomio astigiano, che trovò posto in un ex convento.
Quando i letti affiancati sono tre o quattro, e tutti i degenti appaiono nelle stesse condizioni, significa che la grazia chiesta era quella di guarire da un´epidemia, come colera, peste o vaiolo.
Si nota, in queste tavole, anche la cronologia dei rimedi trovati dalla scienza medica: si passa dall´impiastro allo sciroppo, dalla pillola all ´iniezione, e in un ultimo “Deo Gratias” di pochi decenni fa, appare anche la flebo.
I medici un tempo vestiti di nero, nel secolo scorso cominciano ad usare il camice bianco e accanto a loro appaiono prima le suore e poi le infermiere».
Le icone raccontano anche l´infortunistica, soprattutto quella del lavoro.
«Ci sono il barocciaio travolto dal cavallo, il contadino incornato dal toro, il muratore che cade dall´impalcatura.
Ci sono gli incidenti strani: questo bambino, ad esempio, è stato beccato a un occhio da un pavone.
Questa bambina è stata scottata dall´acqua bollente.
Buoi e cavalli lasciano il posto alle macchine a vapore, poi alle automobili e ai trattori.
Guardando le date, si scopre quando nelle nostre campagne è apparsa la prima trebbiatrice.
Ma ci sono quadri in cui non sono raccontati nessuna malattia evidente e nessun incidente: questa tavoletta numero 6661 mostra una persona semplicemente seduta su una seggiola accanto al letto, testa bassa, volto triste.
Credo che questa sia la prima rappresentazione di un problema oggi tanto diffuso: la depressione».
La rassegna degli ex voto alla fine consola il dottor Alfani.
«In fondo si capisce che chi invoca la guarigione si affida alla Madonna e ai santi ma anche a noi.
Il medico è sempre stato indispensabile.
Cambiano le terapie ma il rapporto medico-paziente è sempre fondamentale.
Io penso che la fede possa aiutare e integrare il nostro lavoro.
Non credo a un effetto placebo della fede ma in certi casi – quando il malessere non è solo fisico ma psicologico o psichico – il rapporto con il medico e la fiducia che si ripone in lui diventano fondamentali.
E per recuperare tranquillità ed equilibrio anche la preghiera a un santo può dare un aiuto.
Una preghiera non ripara una frattura e non elimina una cirrosi, ma sappiamo che la personalità umana è complessa e noi camici bianchi non abbiamo nessun monopolio».
«In molte tavolette – racconta Renato Bordone, ordinario di Storia medioevale all´Università di Torino – la figura del medico compare fra i protagonisti della scena, occupando una parte dello “spazio terreno” insieme al malato e ai suoi familiari.
Lo “spazio celeste” è riservato invece al protettore (Madonna o santo), per lo più avvolto da un nimbo sacro o da nuvole.
Sebbene in qualche caso medico e familiari compaiano schiena contro schiena – l´uno pensoso, rivolto al malato, gli altri rivolti al santo, quasi ignorando il medico – è chiaro che la presenza del medico nel quadro rientra anch´essa nell´ottenimento della grazia: in un certo senso è riconosciuta la sua collaborazione al “miracolo”».
Gli ex voto hanno iniziato ad apparire nella seconda metà del secolo Tredicesimo.
Prima si portavano nelle chiese oggetti di cera simbolici, un contro-dono alla grazia ricevuta.
«Gli ex voto – dice il docente – sono un documento culturale, un messaggio codificato per testimoniare credenze, paure, speranze.
Se ne ricavano informazioni interessanti.
Per esempio nella diocesi di Brescia – e secondo i primi esami anche qui ad Asti – si è scoperto che gli ex voto per malattia coprono la metà del materiale fino al principio del secolo Ventesimo, poi decrescono forse per i progressi della medicina, mentre aumentano quelli per incidenti sul lavoro, collegati con lo sviluppo dell´industria e della meccanizzazione delle campagne».
Nei santuari gli ex voto recenti sono ormai mosche bianche.
«Questo succede – dice don Alessandro Quaglia, architetto che cura i beni culturali della curia vescovile – perché la pietà si è affievolita nel nostro popolo.
Un tempo c´era il Padreterno a pensare a tutto, ora ci sono i medici».
Il presidente dell´ordine dei camici bianchi non è d´accordo.
«Gli ex voto sono soltanto cambiati.
Un tempo si andava dall´artista del paese per fare dipingere una tavoletta di ringraziamento per il santuario, adesso si fanno donazioni alla Lega antitumori o ad altri enti di ricerca».
Erano specialisti anche i santi, in questa terra.
«Il santo al quale qui da noi sono titolate più chiese – ricorda il teologo don Vittorio Croce – è San Rocco, invocato contro la peste di uomini e di animali.
Segue San Sebastiano, ucciso a colpi di freccia, protettore contro tutte le malattie del corpo e dello spirito.
Sant ´Antonio abate o del porcello viene invocato a protezione delle stalle ma anche dei cristiani, contro il fuoco detto appunto di Sant´Antonio.
Sempre San Sebastiano e San Grato difendono dalla grandine, Santa Lucia protegge gli occhi, San Defendente contro tutti i mali, Sant´Apollonia contro il mal di denti, San Biagio contro il mal di gola, Santa Libera è invocata per la fecondità e la protezione dei neonati…
Nel Vangelo Gesù guarisce molte malattie: lebbra, sordità, mutolezza, cecità, zoppìa (da poliomelite?), paralisi, idropisia, emorragia, febbre, pazzia.
Di lui la gente dice: “Ha fatto tutto bene: ha fatto udire i sordi e parlare i muti”.
Gesù “guarisce”.
Stranamente, non conforta i malati con quelle che noi chiamiamo “consolazioni di fede”, elevando la loro mente nella speranza del premio eterno, invitando a considerare il significato positivo della sofferenza come stimolo al pentimento dei peccati.
Noi, per lunga tradizione ascetica, per secoli abbiamo poi considerato la malattia e la sofferenza come una grazia in se stessa.
Io credo che il Concilio Vaticano II abbia trovato la giusta sintesi: “L´uomo gravemente infermo ha bisogno, nello stato di ansia e di pena in cui si trova, di una grazia speciale di Dio per non lasciarsi abbattere, con il pericolo che la tentazione faccia vacillare la sua fede”».
in “la Repubblica” del 13 giugno 2010

2010-2020, boom di dati digitali

Immaginate 75 miliardi di iPad che riempiono il tunnel del monte Bianco avanti e indietro per ben 84 volte.
O 41 stadi di Wembley pieni fino all’ultima poltroncina delle tavolette Apple, in lungo e in largo, erba e panchine inclusi.
O se preferite, lo stadio nazionale di Pechino per 15,5 volte.
O ancora, immaginate ogni uomo, donna o bambino sulla Terra che, ininterrottamente e per 100 anni, invii tweet (i brevi messaggi tipici del microblogging e in particolare di Twitter).
Ecco qual è la mole di dati digitali che nascono solo nel corso del 2010 per venire poi scambiati, stampati, archiviati, dimenticati e forse distrutti.
Un totale inimmaginabile che supererà per la prima volta nella storia digitale una nuova unità di misura: si tratta di 1,2 zettabyte di informazioni.
Tradotto nelle unità di misura usate fino a oggi, uno zettabyte corrisponde a mille miliardi di gigabyte.
LA RICERCA – A raccontare lo stato del mondo digitale è per la quarta volta negli ultimi anni la società di ricerca IDC, con uno studio commissionato dall’azienda EMC, che sul suo sito fornisce anche un contatore – l’Information Growth Ticker – da scaricare sul proprio Pc che aggiorna in tempo reale sulla quantità di dati creati a partire dal primo gennaio 2010.
Stupiscono i tassi di crescita previsti per il futuro.
Nel 2020 la nostra personale odissea tra i dati digitali ci vedrà immersi in un universo quasi 50 volte più grande di quello attuale.
Complici di questo aumento saranno i passaggi all’universo dei bit di voce, tv, radio e stampa, dunque tutto il mondo oggi ancora per larga parte in analogico.
NUVOLE – L’universo sarà dunque sempre più sommerso dal digitale, e la Rete continuerà ad avere un ruolo di primo piano, per via di tutti i documenti nati e utilizzati nella «nuvola» del cloud computing.
Dice infatti la ricerca di IDC che, entro il 2020, più di un terzo di tutte le informazioni digitali create ogni anno (private o pubbliche che esse siano) risiederà o transiterà nella nuvola di tecnologie informatiche disponibili online.
Ancora una volta, la ricerca denuncia anche l’overload di informazioni e mette al centro il problema della ricerca dei dati che più interessano da parte degli utenti, visto che già oggi i contenuti creati sono superiori del 35 per cento alle capacità di archiviarli e questo dato aumenterà anche del 60 per cento nei prossimi anni.
Corriere della sera  08 06 2010

La sessualità degli italiani

Dopo il famoso rapporto Kinsey degli anni ’50 sulla sessualità degli americani si sono moltiplicate anche nel nostro paese le ricerche volte a far luce sull’evolversi del costume in tale campo con indagini settoriali di indubbia importanza.
Ciò che tuttavia finora mancava era una ricerca che offrisse un quadro globale, ricostruendo le credenze e i sentimenti, i valori e le norme che ispirano oggi la condotta sessuale degli italiani.
A questa mancanza supplisce una interessante indagine curata da Marzio Barbagli, Giampiero Dalla Zuanna e Franco Garelli (due sociologi e un demografo molto noti) e da una serie di altri collaboratori, pubblicata in un volume dal titolo La sessualità degli italiani (Il Mulino, Bologna 2010).
L’indagine, basata su tre ricerche condotte con tecniche diverse, riguarda un campione di 7000 italiani tra i 18 e i 70 anni, suddivisi equamente per età, sesso, classe sociale e luogo di residenza ed è stata realizzata utilizzando due questionari quantitativi molto articolati e una rassegna di 120 interviste che, partendo dai vissuti personali, fa emergere le dinamiche sottese alle scelte degli intervistati.
ricostruzione del contesto socioculturale L’inchiesta muove anzitutto dalla considerazione che i modelli comportamentali, le identità e le regole che qualificano i modi di sentire e di vivere la sessualità nel nostro paese sono il frutto di profondi processi culturali, che si sono prodotti in modo assai rapido e che hanno segnato il passaggio da una visione della sessualità nella quale a prevalere era un orientamento procreativo (e in alcuni casi, assai limitati, ascetico), che ne circoscriveva rigidamente l’uso all’interno del matrimonio tra persone di sesso diverso, ad una visione in cui gli orientamenti prevalenti sono quello affettivo, che considera l’attività sessuale come espressione dell’amore tra partner e come consolidamento del legame tra di essi, e quello edonistico per il quale l’attività sessuale è finalizzata al solo piacere fisico, raggiunto ricorrendo anche a più partner in incontri occasionali.
Gli autori dell’inchiesta non mancano di rilevare, nell’introduzione al volume, che il modello procreativo, favorito a lungo dall’influsso esercitato dalla chiesa cattolica — è sufficiente ricordare la enciclica Casti Connubi di Pio XI del 1930 che ribadisce il primato della procreazione quale fine del matrimonio — non era esente da pesanti ipoteche negative.
Accanto alla «doppia morale» tra uomo e donna, dovuta a una errata considerazione della differenza tra sessualità maschile e femminile — la donna veniva ritenuta sostanzialmente priva di bisogni sessuali — venivano infatti elaborati una serie di divieti — si pensi soltanto al rifiuto del divorzio e dei mezzi che impediscono la procreazione e alla demonizzazione dell’omosessualità — ed erano invece tollerati (e persino giustificati) comportamenti aberranti come il delitto di onore e l’infedeltà maschile, adducendo rispettivamente come motivo la legittimità di farsi giustizia da sé e le insopprimibili esigenze fisiologiche del maschio.
Il momento decisivo della svolta verso una concezione diversa della sessualità è comunemente identificato nella rivoluzione culturale inaugurata dal Sessantotto, e in particolare nella critica radicale mossa alla «famiglia borghese».
Gli autori dell’inchiesta non mancano tuttavia di rilevare l’esistenza di importanti antecedenti, che risalgono agli inizi del Novecento (e, per taluni aspetti, a una fase ancora precedente), anche se i mutamenti avvenuti in quelle epoche erano ristretti alla vita privata e appannaggio di categorie elitarie, mentre soltanto negli anni ’60 del secolo scorso essi hanno assunto connotati di massa e sono divenuti di natura pubblica.
che cosa è cambiato? A provocare anche in Italia i cambiamenti di mentalità e di costume nei confronti della sessualità sono stati, da un lato, il fenomeno della secolarizzazione, che ha determinato la nascita di una nuova visione della vita e del mondo, non più ancorata ad un universo simbolico religioso o sacrale ma caratterizzata da un’autonoma definizione dei significati della realtà; e, dall’altro, la cultura individualista, che si è progressivamente affermata nella modernità e che ha conferito un ruolo di sempre maggiore centralità alla ricerca della realizzazione di sé.
Ciò che viene in questo contesto a modificarsi è anzitutto l’atteggiamento di fondo con il quale ci si accosta alla sessualità, con l’affermarsi – come già si è rilevato – di una visione contrassegnata dal primato dell’aspetto unitivo – la sessualità come sorgente ed espressione dell’amore interpersonale – e di quello ludico o edonistico, incentrato sulla ricerca del piacere.
Non meno significativi sono inoltre i cambiamenti che si producono nella sfera dei comportamenti e che riguardano i vari ambiti in cui la vita sessuale viene dispiegandosi: dall’autoerotismo ampiamente praticato (e giustificato in quanto fonte di piacere e di rassicurazione soggettiva) all’estensione allargata dei rapporti prematrimoniali; dal forte incremento delle separazioni e dei divorzi – il 30% dei matrimoni iniziati negli anni ’90 del secolo scorso hanno subìto questo destino – al controllo della fecondità mediante la contraccezione (con una netta preferenza per il condom); dalla diffusione delle convivenze more uxorio, dovute anche alla necessaria posticipazione delle scelte di vita per la difficoltà di ingresso stabile nel mondo del lavoro, alla consistente tendenza alla sperimentazione con diversi partner; fino all’erotizzazione di tutto il corpo con l’adozione sempre più ampia di pratiche hard quali i rapporti orali e anali.
Piuttosto alta è, infine, la percentuale di persone che dichiarano di non sentirsi attratte solo da persone dell’altro sesso (11,6%), anche se poi soltanto il 2,6% afferma di provare attrazione esclusivamente per lo stesso sesso e 1’1,2% si proclama apertamente omosessuale.
Ad emergere dall’insieme dell’inchiesta – in aperto contrasto con quanto vanno da tempo sostenendo le indagini giornalistiche – è dunque l’importanza sempre maggiore che il sesso riveste per gli italiani (con un incremento dei rapporti sessuali anche oltre l’età riproduttiva) e, nello stesso tempo, il tendenziale ancoraggio della sessualità ad un orizzonte affettivo-relazionale, confermato anche dal forte assenso dato al principio della fedeltà:1’85% degli intervistati condanna infatti apertamente il tradimento, anche se circa un terzo di essi ammette di averlo praticato.
L’indagine rivela pertanto un sostanziale allineamento dell’Italia ai paesi del Nord Europa; allineamento che si è tuttavia attuato con un certo ritardo e non senza alcune rilevanti differenze.
La prima di esse è costituita dalle disuguaglianze di genere: pur essendo diminuita di molto la distanza tra uomo e donna (ed essendo scomparse le diversità di approccio a molti dei temi affrontati dall’inchiesta), i rapporti non sono ancora del tutto simmetrici; persistono disparità di trattamento che segnalano la presenza, in misura più rilevante che negli Stati Uniti e nei paesi dell’Europa centrosettentrionale, di uno stato di dipendenza della donna dall’uomo.
La seconda differenza riguarda il modo di accostarsi all’omosessualità, e in particolare la discrepanza esistente – come si è accennato – tra sentimenti, comportamenti e identità, che è motivata dalla difficoltà di molti a dichiarare la propria condizione in ragione di una pressione sociale che svolge tuttora una rilevante funzione di marginalizzazione.
Lo scorporo dei dati dell’inchiesta, non solo in relazione alla differenza sessuale ma anche al ceto sociale, all’età e alla residenza consente infine di delineare – come non mancano di fare gli autori del volume – le varie tappe attraverso le quali si è prodotto il cambiamento e di mettere a fuoco le motivazioni che hanno condotto a un approccio diverso alla sessualità.
Le trasformazioni risultano così il frutto di un processo che ha avuto inizio a partire dai ceti sociali più alti e dalla popolazione dei centri urbani; un processo che è oggi soggetto a una forte accelerazione ad opera delle nuove generazioni che, facendo propria una visione più libera e autocentrata della sessualità, non esitano a dare vita a forme sempre più frequenti di sperimentazione.
l’influenza della religione Particolare interesse riveste, al fine di una ricerca dell’influsso che sulla percezione della sessualità hanno le visioni di fondo della vita e del mondo, l’ultimo capitolo del volume (il IX) nel quale Franco Garelli analizza la rilevanza dell’orientamento religioso, mettendo tra loro a confronto le risposte fornite da due gruppi di soggetti che esprimono al riguardo le posizioni più estreme: i «senza religione» e i «credenti convinti e attivi».
Da tale confronto si evidenzia come la religiosità continui ad esercitare un peso non indifferente sulla concezione e sulla pratica della sessualità, contribuendo in misura non secondaria alla definizione del suo significato e all’adozione degli stili di vita conseguenti.
Al di là della naturale convergenza con le posizioni della cultura dominante su alcune tematiche, e in particolare circa l’importanza da assegnare al rapporto stabile con una persona, i credenti convinti ed attivi si distinguono per una maggiore attenzione alla finalità procreativa e per un atteggiamento meno aperto e flessibile circa l’uso della sessualità, rifiutando in linea di massima rapporti senza coinvolgimento affettivo.
La sessualità è, in altre parole, da essi concepita come una realtà da vivere entro i binari di rapporti di coppia ben definiti, e da subordinare perciò a una decisione di fondo che impegna, con una consistente riduzione dei desideri libertari e trasgressivi.
A venire privilegiate sono, in definitiva, l’attenzione alla comunicazione e alla continuità del rapporto – la fedeltà alla persona è qui senz’altro il valore dominante – e l’esigenza di inserire conseguentemente le pratiche sessuali in un contesto relazionale, limitando i consumi erotici e le esperienze edonistiche.
Da questa visione di fondo derivano una serie di valutazioni più problematiche nei confronti delle convivenze more uxorio o del riconoscimento delle coppie omosessuali, una maggiore valorizzazione della verginità, una minore tendenza alla sperimentazione e un’attenzione ad assoggettare la pratica sessuale al rispetto della legge della gradualità.
Più omogenee con le tendenze proprie del contesto culturale sono invece le valutazioni riguardanti la liceità dei rapporti prematrimoniali, della contraccezione e dell’autoerotismo; e questo, a maggior ragione, quando si tratta dei più giovani, dove le differenze tra credenti e non risultano molto più sfumate, poiché prende corpo una visione più secolarizzata della vita, che giustifica il ricorso a una maggiore sperimentazione.
lo scisma sommerso Al riconoscimento dell’influsso ancora considerevole del fattore religioso sembra opporsi la crescente distanza di un numero sempre più vasto di credenti convinti e attivi dalle indicazioni morali della chiesa cattolica; distanza che si traduce nell’assunzione di un orientamento autonomo o, secondo altri, nell’affermarsi di una adesione selettiva.
La mancata conformità alle direttive ufficiali del magistero ecclesiale, che non viene soltanto sistematicamente disatteso in campo di etica sessuale a livello dei comportamenti ma di cui vengono rifiutate anche le motivazioni che giustificano le varie normative, solleva (e non può non sollevare) seri interrogativi.
Lo «scisma sommerso» – come lo ha definito il filosofo Pietro Prini – non nasce, stando agli esiti della ricerca, da cattiva volontà o dal rifiuto di valori di fondo, che risultano tuttora largamente riconosciuti ed accettati e, in misura più ristretta (ma non per questo poco significativa in un contesto come l’attuale), anche praticati.
Il dissenso verso le posizioni dell’istituzione ecclesiale su questioni come la regolazione delle nascite, la masturbazione, i rapporti prematrimoniali, l’omosessualità, ecc.
non è pertanto espressione – come talvolta si afferma – di adeguamento alle logiche dominanti, di indulgenza cioè nei confronti di una concezione meramente ludica o edonistica del sesso.
Il fatto che si concepisca la sessualità anche come apertura alla vita, inserendola in un orizzonte più ampio di quello della pura fruizione del piacere; che si assegni alla fedeltà verso l’altro e alla reciprocità e autenticità dei rapporti un ruolo decisivo per l’esercizio dell’attività sessuale; che si riconosca l’importanza di un approccio graduale all’esercizio della sessualità in stretta connessione con lo sviluppo della relazione, la quale viene maturando progressivamente, sono altrettanti indicatori di un percorso altamente riflessivo.
Il rifiuto di alcune prescrizioni normative, ribadite con rigidità anche di recente dalla chiesa cattolica, non è allora piuttosto rifiuto di una concezione della sessualità percepita come anacronistica, perché legata a una cultura repressiva del passato, che tuttavia continua a persistere? E non è giunto forse il momento di una revisione critica di tali prescrizioni – suggerita del resto anche da alcune importanti indicazioni del Concilio – che rimetta al centro i grandi valori umani ed evangelici che nobilitano la sessualità e restituisca alla coscienza dei singoli una effettiva possibilità decisionale da gestire responsabilmente nel vivo delle situazioni concrete? in “Rocca” n.
11 del 1 giugno 2010

Il papa a Cipro porta la sua croce con letizia

Cari fratelli e sorelle in Cristo, il Figlio dell’Uomo deve essere innalzato, affinché chiunque crede in lui abbia la vita eterna (cfr.
Giovanni 3, 14-15).
In questa messa adoriamo e lodiamo il nostro Signore Gesù Cristo, poiché con la sua santa croce ha redento il mondo.
Con la sua morte e risurrezione ha spalancato le porte del cielo e ci ha preparato un posto, affinché a noi, suoi seguaci, venga donato di partecipare alla sua gloria.
Nella gioia della vittoria redentrice di Cristo, saluto tutti voi riuniti nella chiesa della Santa Croce e vi ringrazio per la vostra presenza.
[…] Qui a Cipro, terra che fu il primo porto di approdo dei viaggi missionari di san Paolo attraverso il Mediterraneo, giungo oggi fra voi, sulle orme di quel grande apostolo, per rinsaldarvi nella vostra fede cristiana e per predicare il Vangelo che offre vita e speranza al mondo.
Il centro della celebrazione odierna è la croce di Cristo.
Molti potrebbero essere tentati di chiedere perché noi cristiani celebriamo uno strumento di tortura, un segno di sofferenza, di sconfitta e di fallimento.
È vero che la croce esprime tutti questi significati.
E tuttavia a causa di colui che è stato innalzato sulla croce per la nostra salvezza, rappresenta anche il definitivo trionfo dell’amore di Dio su tutti i mali del mondo.
Vi è un’antica tradizione che il legno della croce sia stato preso da un albero piantato da Seth, figlio di Adamo, nel luogo dove Adamo fu sepolto.
In quello stesso luogo, conosciuto come il Golgota, il luogo del cranio, Seth piantò un seme dall’albero della conoscenza del bene e del male, l’albero che si trovava al centro del giardino dell’Eden.
Attraverso la provvidenza di Dio, l’opera del Maligno sarebbe stata sconfitta ritorcendo le sue stesse armi contro di lui.
Ingannato dal serpente, Adamo ha abbandonato la filiale fiducia in Dio ed ha peccato mangiando i frutti dell’unico albero del giardino che gli era stato proibito.
Come conseguenza di quel peccato entrarono nel mondo la sofferenza e la morte.
I tragici effetti del peccato, e cioè la sofferenza e la morte, divennero del tutto evidenti nella storia dei discendenti di Adamo.
Lo vediamo dalla prima lettura di oggi (Numeri 21, 4-9), che fa eco alla caduta e prefigura la redenzione di Cristo.
Come punizione dei propri peccati, il popolo di Israele, mentre languiva nel deserto, venne morso dai serpenti ed avrebbe potuto salvarsi dalla morte solo volgendo lo sguardo al simbolo che Mosè aveva innalzato, prefigurando la croce che avrebbe posto fine al peccato e alla morte una volta per tutte.
Vediamo chiaramente che l’uomo non può salvare se stesso dalle conseguenze del proprio peccato.
Non può salvare se stesso dalla morte.
Soltanto Dio può liberarlo dalla sua schiavitù morale e fisica.
E poiché Dio ha amato così tanto il mondo, ha inviato il suo Figlio unigenito non per condannare il mondo – come avrebbe richiesto la giustizia – ma affinché attraverso di lui il mondo potesse essere salvato.
L’unigenito Figlio di Dio avrebbe dovuto essere innalzato come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così che quanti avrebbero rivolto lo sguardo a lui con fede potessero avere la vita.
Il legno della croce divenne lo strumento per la nostra redenzione, proprio come l’albero dal quale era stato tratto aveva originato la caduta dei nostri progenitori.
La sofferenza e la morte, che erano conseguenze del peccato, divennero il mezzo stesso attraverso il quale il peccato fu sconfitto.
L’agnello innocente fu sacrificato sull’altare della croce, e tuttavia dall’immolazione della vittima scaturì una vita nuova: il potere del maligno fu distrutto dalla potenza dell’amore che sacrifica se stesso.
La croce, pertanto, è qualcosa di più grande e misterioso di quanto a prima vista possa apparire.
Indubbiamente è uno strumento di tortura, di sofferenza e di sconfitta, ma allo stesso tempo esprime la completa trasformazione, la definitiva rivincita su questi mali, e questo lo rende il simbolo più eloquente della speranza che il mondo abbia mai visto.
Parla a tutti coloro che soffrono – gli oppressi, i malati, i poveri, gli emarginati, le vittime della violenza – ed offre loro la speranza che Dio può trasformare la loro sofferenza in gioia, il loro isolamento in comunione, la loro morte in vita.
Offre speranza senza limiti al nostro mondo decaduto.
Ecco perché il mondo ha bisogno della croce.
Essa non è semplicemente un simbolo privato di devozione, non è un distintivo di appartenenza a qualche gruppo all’interno della società, ed il suo significato più profondo non ha nulla a che fare con l’imposizione forzata di un credo o di una filosofia.
Parla di speranza, parla di amore, parla della vittoria della non violenza sull’oppressione, parla di Dio che innalza gli umili, dà forza ai deboli, fa superare le divisioni, e vincere l’odio con l’amore.
Un mondo senza croce sarebbe un mondo senza speranza, un mondo in cui la tortura e la brutalità rimarrebbero sfrenati, il debole sarebbe sfruttato e l’avidità avrebbe la parola ultima.
L’inumanità dell’uomo nei confronti dell’uomo si manifesterebbe in modi ancor più orrendi, e non ci sarebbe la parola fine al cerchio malefico della violenza.
Solo la croce vi pone fine.
Mentre nessun potere terreno può salvarci dalle conseguenze del nostro peccato, e nessuna potenza terrena può sconfiggere l’ingiustizia sin dalla sua sorgente, tuttavia l’intervento salvifico del nostro Dio misericordioso ha trasformato la realtà del peccato e della morte nel suo opposto.
Questo è quanto celebriamo quando diamo gloria alla croce del Redentore.
Giustamente sant’Andrea di Creta descrive la croce come “più nobile e preziosa di qualsiasi cosa sulla terra […], poiché in essa e mediante di essa e per essa tutta la ricchezza della nostra salvezza è stata accumulata e a noi restituita” (Oratio X, PG 97, 1018-1019).
Cari fratelli sacerdoti, cari religiosi, cari catechisti, il messaggio della croce è stato affidato a noi, così che possiamo offrire speranza al mondo.
Quando proclamiamo Cristo crocifisso, non proclamiamo noi stessi, ma lui.
Non offriamo la nostra sapienza al mondo, non parliamo dei nostri propri meriti, ma fungiamo da canali della sua sapienza, del suo amore, dei suoi meriti salvifici.
Sappiamo di essere semplicemente dei vasi fatti di creta e, tuttavia, sorprendentemente siamo stati scelti per essere araldi della verità salvifica che il mondo ha bisogno di udire.
Non stanchiamoci mai di meravigliarci di fronte alla grazia straordinaria che ci è stata data, non cessiamo mai di riconoscere la nostra indegnità, ma allo stesso tempo sforziamoci sempre di diventare meno indegni della nostra nobile chiamata, in modo da non indebolire mediante i nostri errori e le nostre cadute la credibilità della nostra testimonianza.
In questo Anno Sacerdotale permettetemi di rivolgere una parola speciale ai sacerdoti oggi qui presenti e a quanti si preparano all’ordinazione.
Riflettete sulle parole pronunciate al novello sacerdote dal Vescovo, mentre gli presenta il calice e la patena: “Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai, conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore”.
Mentre proclamiamo la croce di Cristo, cerchiamo sempre di imitare l’amore disinteressato di colui che offrì se stesso per noi sull’altare della croce, di colui che è allo stesso tempo sacerdote e vittima, di colui nella cui persona parliamo ed agiamo quando esercitiamo il ministero ricevuto.
Nel riflettere sulle nostre mancanze, sia individualmente sia collettivamente, riconosciamo umilmente di aver meritato il castigo che lui, l’Agnello innocente, ha patito in nostra vece.
E se, in accordo con quanto abbiamo meritato, avessimo qualche parte nelle sofferenze di Cristo, rallegriamoci, perché ne avremo una felicità ben più grande quando sarà rivelata la sua gloria.
Nei miei pensieri e nelle mie preghiere mi ricordo in modo speciale dei molti sacerdoti e religiosi del Medio Oriente che stanno sperimentando in questi momenti una particolare chiamata a conformare le proprie vite al mistero della croce del Signore.
Dove i cristiani sono in minoranza, dove soffrono privazioni a causa delle tensioni etniche e religiose, molte famiglie prendono la decisione di andare via, e anche i pastori sono tentati di fare lo stesso.
In situazioni come queste, tuttavia, un sacerdote, una comunità religiosa, una parrocchia che rimane salda e continua a dar testimonianza a Cristo è un segno straordinario di speranza non solo per i cristiani, ma anche per quanti vivono nella Regione.
La loro sola presenza è un’espressione eloquente del Vangelo della pace, della decisione del Buon Pastore di prendersi cura di tutte le pecore, dell’incrollabile impegno della Chiesa al dialogo, alla riconciliazione e all’amorevole accettazione dell’altro.
Abbracciando la croce loro offerta, i sacerdoti e i religiosi del Medio Oriente possono realmente irradiare la speranza che è al cuore del mistero che celebriamo nella liturgia odierna.
Rinfranchiamoci con le parole della seconda lettura di oggi  (Filippesi 2, 5-11), che parla così bene del trionfo riservato a Cristo dopo la morte in croce, un trionfo che siamo invitati a condividere.
“Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni altro nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra”.
Sì, amati fratelli e sorelle in Cristo, lungi da noi la gloria che non sia quella nella croce di Nostro Signore Gesù Cristo (cfr.
Galati 6, 14).
Lui è la nostra vita, la nostra salvezza e la nostra risurrezione.
Per lui noi siamo stati salvati e resi liberi.
__________ Il programma e i testi della visita di Benedetto XVI a Cipro, nel sito del Vaticano: > Viaggio apostolico a Cipro, 4-6 giugno 2010