Agostino Marchetto: “Respingono gli innocenti impossibile stare zitti”

Monsignor Agostino Marchetto, dispiaciuto per queste sue improvvise dimissioni? «Quando si lascia un lavoro svolto per tanti anni c’è sempre una certa amarezza.
Capita a tutti.
Era dal 2001 che ero segretario del Pontificio Consiglio dei migranti, un incarico che ho svolto con passione e dedizione.
Più che un lavoro è stata una missione che mi ha portato a condividere uno dei più grandi drammi dei nostri tempi, i movimenti migratori delle popolazioni in difficoltà troppe volte vittime di ingiustizia, sfruttamento, violenze.
Peccati gravissimi che ogni uomo, specialmente se è un uomo di Chiesa, non deve mai tollerare».
E lei, in effetti, ha sempre denunciato ad alta voce questi peccati.
Ma molti politici, e persino qualcuno in Segreteria di Stato, a volte l’hanno criticata con durezza.
Ci è rimasto male? «Solo il silenzio di fronte alle ingiustizie fa male.
Le critiche non mi hanno mai toccato e, tantomeno, non mi hanno mai condizionato.
Ma come è possibile stare zitti di fronte a migliaia di innocenti che vengono respinti sulle altre sponde del Mediterraneo, come succede ad esempio con la cosiddetta politica dei respingimenti inaugurata, purtroppo, dai governanti italiani? Come è possibile girarsi dall’altra parte quando dalla Francia una intera etnia rom viene espulsa indiscriminatamente perché così ha deciso il presidente Sarkozy in nome di una discutibile politica della sicurezza che colpisce donne, bambini ed innocenti, contravvenendo alle più elementari norme di accoglienza decise dagli organismi europei?».
Tematiche portate alla ribalta da Gheddafi che a Roma ha chiesto alla Ue 5 miliardi di euro l’anno per bloccare i flussi migratori e ha lanciato una campagna di islamizzazione dell’Europa.
Preoccupato? «Di fronte a quello che abbiamo visto e sentito durante questa visita non ci sono parole.
E certamente è giusto così, perché non vale proprio la pena commentare quanto detto e preconizzato da Gheddafi.
Anzi più se ne parla, anche con appunti critici, e più ci si dà rilievo.
I problemi di poveri ed immigrati si affrontano e si risolvono con ben altri approcci».
Malgrado il suo impegno accanto agli ultimi, spesso le gerarchie vaticane sono intervenute per puntualizzare che lei parlava a titolo personale.
«Io ho sempre parlato liberamente, senza censure e sempre in difesa dei sofferenti, rifacendomi ogni volta alla dottrina sociale della Chiesa.
Altra cosa è parlare a nome di tutta la Chiesa.
E qualche volta ha fatto bene la Segreteria di Stato a farlo sapere, perché a nome di tutta la Chiesa può parlare solo il Santo Padre e, su sua delega, la stessa Segreteria di Stato».
Ora però non potrà più parlare per difendere gli immigrati.
O no? «Nella Chiesa c’è sempre libertà di parola.
Ma sono stato io a chiedere al Papa di essere sollevato dall’incarico.
Lo ringrazio per aver accettato la mia richiesta.
Ed ora potrò dedicarmi allo studio della storia del Concilio Vaticano II.
Ma, se necessario, la mia voce non tacerà mai di fronte alle ingiustizie».
intervista ad Agostino Marchetto, a cura di Orazio La Rocca in “la Repubblica” del 2 settembre 2010

Non solo benedizioni

Non è stato solo il Sinodo «delle benedizioni alle unioni gay».Certo, il pubblico ha gremito l’Aula sinodale (troppo piccola, ormai, per un’assemblea di queste proporzioni: si è parlato anche di questo) soprattutto in occasione dei dibattiti su questo tema.
Come ogni anno, tuttavia, i lavori hanno spaziato lungo tutto lo spettro della vita delle nostre chiese.
Le difficoltà sono numerose e le note preoccupate abbondano.
Quello che certamente non manca è la voglia di discutere: troppo spesso, pare di poter dire, ciò accade in modo abbastanza confuso e, come pudicamente osservava, in privato, un ospite tedesco, «non del tutto strutturato», ma sempre con grande passione per un modello di chiesa non gerarchico né clericale.
Siamo orgogliosi di questo nostro modo di essere.
Quando però tale orgoglio tende ad andare sopra le righe, c’è chi sa rimettere le cose a posto: lo ha fatto, a esempio, la Moderatora, ricordando che la lettura comunitaria e personale della Bibbia, oggi, non è affatto un monopolio protestante: anzi, siamo noi a dover imparare da altri, anche a questo riguardo.
Un altro lampo ecumenico è stato l’intervento, di alto profilo, del vescovo di Pinerolo, mons.
De Bernardi, autocritico, teso all’ascolto, esplicito e al tempo stesso molto discreto.
In tempi ecumenicamente deprimenti, ciò è, semplicemente, edificante.
Ma il dialogo deve andare oltre.
Solo un esempio.
Il Sinodo ha accolto un documento sulle questioni etiche legate alla ricerca sulle cellule staminali, preparato da una commissione che da molti anni lavora su queste tematiche.
In quel testo, non si lanciano proclami, bensì si argomenta.
Sarà possibile discuterne, tra chiese diverse, nel merito, e non a colpi di slogan (vita contro morte, Adamo contro Frankenstein ecc.)? Un Sinodo multicolore Il Sinodo, ormai, è multicolore, nelle presenze, nei culti, forse un po’ meno negli interventi (a parte,come diremo, alcune occasioni…).
«Essere chiesa insieme» è ben più di uno slogan o dell’ennesima sigla (Eci, appunto): si tratta invece, con ogni probabilità, della sfida decisiva dei prossimi decenni.
Sembra farsi largo la convinzione che il confronto tra le sensibilità e le culture debba articolarsi intorno alla lettura comune della Scrittura.
Che vi siano tradizioni, sensibilità e metodi diversi è chiaro; e che questo determini difficoltà di rilievo non può né deve stupire.
Un intenso lavoro, tuttavia, è già in corso (si pensi soltanto al programma interculturale per la formazione dei predicatori, coordinato da Corinne Lanoir e Yann Redalié), Tavola valdese e Opcemi sono, con ogni evidenza, strenuamente impegnate su questo fronte, così come la Federazione giovanile evangelica italiana (Fgei).
In questo, le nostre chiese possono contare sul patrimonio di esperienza accumulato dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei).
Certo, i fatti corrono più velocemente delle strategie ecclesiastiche e siamo tutti, sempre, impreparati.
Un motivo di più per sostenere nella preghiera quanti, dai dirigenti ecclesiastici ai giovani candidati al ministero, sono in prima linea su questo fronte.
Pochi membri e pochi soldi L’emorragia di membri di chiesa continua: 243 in meno nell’ultimo anno, l’equivalente di una chiesa di medie proporzioni.
Parallelamente, aumentano le difficoltà finanziarie: non solo non si raggiungono gli obiettivi, ma le contribuzioni del 2009 sono state inferiori a quelle dell’anno precedente e c’è il rischio che il tonfo si ripeta.
Solo pochi anni fa, nell’aula sinodale risuonavano spesso banalità del tipo: «il problema non sono i numeri».
Oggi, se non altro, siamo più realisti.
I numeri sono, come minimo, la spia di un problema drammatico.
C’è ancora chi si sforza di minimizzarlo, compiacendosi per altri segnali («diminuiscono i membri, ma cresce il numero di coloro che destinano a noi 1’8 per mille»; le nostre prese di posizione su temi etici suscitano interesse; e simili), ma la consapevolezza dell’emergenza è in crescita.
Certo, la chiesa esiste per predicare l’evangelo e non per autoriprodursi; che, però, senza membri non ci sia nemmeno l’annuncio, non è una sofisticheria teologica particolarmente oscura.
Il Sinodo l’ha capito.
E ha anche capito che la faccenda ha a che vedere con una difficoltà di tipo spirituale, legata alla disponibilità ad accogliere l’evangelo come elemento che trasforma la vita, raccoglie la comunità, induce a pregare, a cantare, a impegnare il tempo e il denaro.
 Qui c’è molto da lavorare.
Le benedizioni delle unioni «omoaffettive» Si ha un bel dire che la faccenda non può essere ridotta all’alternativa sì/no.
La verità è che il semplicismo non è monopolio dei giornali.
L’alto tasso di emotività investito in questo dibattito non ha sempre favorito il rigore dell’argomentazione, né la capacità di comprendere fino in fondo il punto di vista contrario al proprio.
Fortunatamente la Commissione d’esame ha presentato un ordine del giorno articolato ma chiaro.
Le chiese in ricerca su questo tema sono invitate a procedere secondo quanto la responsabilità pastorale consiglia loro.
Verosimilmente, dunque, accadrà che nelle nostre chiese si celebrino benedizioni di unioni tra persone dello stesso sesso.
La votazione è stata assai chiara, il Sinodo non si è affatto «spaccato».
È vero invece che gli interventi contrari alla decisione poi assunta sono stati molto forti e, in gran parte, provenienti da fratelli africani.
Il dibattito non è affatto chiuso.
A tutte e a tutti è chiesto un notevole senso di responsabilità: lasciar cadere le provocazioni, ascoltare l’altro prima di parlare (più di quanto sia accaduto in Sinodo, questo mi sentirei di dirlo), non contrapporre slogan a slogan, soprattutto pregare, «favorevoli» e «contrari» insieme, ricordando che, in questa ricerca non siamo soli.
Ci sono quanti tra noi, italiani e immigrati, temono derive pericolose, ci sono cattolici, ortodossi, evangelicali che appaiono anch’essi preoccupati e a tratti non particolarmente amichevoli; ma ci sono anche le chiese sorelle che da tempo si sono mosse in direzioni analoghe.
Poi c’è il Signore, che magari strilla poco, ma ascolta molto.
E giudica, sia .i «favorevoli» sia i «contrari».
Se ce ne ricordassimo, il più sarebbe già fatto.

Ritorna il politeismo, attenzione

«Il vantaggio più grande del politeismo è nel fatto che il singolo si eriga il suo proprio ideale e derivi da esso la sua legge, le sue gioie e i suoi diritti», superando l’imperio di un’unica norma imposta da un’unica divinità e facendo sì che «un dio non sia più la negazione o la bestemmia di un altro dio!».
Era stato Nietzsche, con queste parole della Gaia scienza (1882), a inaugurare il revival del politeismo che, in un certo senso, aveva i suoi prodromi nella relativizzazione della verità propugnata dalla celebre parabola dei tre anelli incastonata nel poema drammatico Nathan il saggio (1779) di Lessing: uno solo dei tre anelli d’oro è autentico, ma è indistinguibile perché il padre, non volendo privilegiare nessuno dei suoi tre figli, ha clonato l’anello ereditario vero.
Su questa scia si era collocato Max Weber con la formula Polytheismus der Werte, che Francesco Ghia ha recentemente usato come titolo per una raccolta antologica di testi diversi del famoso sociologo tedesco (Max Weber, Il politeismo dei valori, Morcelliana, Brescia, pagg.
160, €14,00).
È curioso che in esergo alla sua introduzione lo studioso dell’Università di Trento abbia posto un distico dello scrittore viennese Erich Fried che recita: «Getta pure il tuo anello/ anche qui ci sono gli dèi».
La tesi di Weber è nota: il “disincanto del mondo”, che la razionalità moderna ha prodotto, ha sciolto la norma universale che tutelava i valori nella loro identità oggettiva e ha così creato un delta ramificato in cui ogni corrente porta il suo valore.
Nella società attuale non c’è più un solo Dio che proclama l’unicità dei valori morali, ma un pantheon di dèi che emettono oracoli diversi, creando inesorabilmente conflitti etici, proprio a causa della pluralità dei legislatori, delle leggi e dei codici di riferimento.
Le stesse sfere sociali – dalla politica all’economia, dall’arte alla scienza, dalla famiglia alle associazioni, fino alle stesse religioni – non sottostanno più al “monoteismo” di una sorgente unitaria, ma ciascuna è retta da un suo dio e «il conflitto tra gli dèi che presiedono ai singoli ordinamenti e valori è inconciliabile», anche se positiva è l’indipendenza degli statuti di ogni settore.
La celebrazione del neopoliteismo (che può avere tante iridescenze, come quella “cristologica” di Salvatore Natoli o quella più ingenua e ironica del recupero mitologico operato dall’attuale scrittore finlandese di culto, Arto Paasilinna, o la più tradizionale e generica apologetica della tolleranza propugnata nel Génie du paganisme dell’antropologo Marc Augé del 1982, opera apparsa in italiano nel 2002 presso Bollati Boringhieri) ha avuto vari liturghi ai nostri giorni, talora solo come evocazione gloriosa e nostalgica del passato classico: penso alle pagine raffinate delle Nozze di Cadmo e Armonia (1988) di Roberto Calasso.
Altre volte si è accusato il monoteismo di “dualismo”, avendo creato un baratro tra la trascendenza divina, unica, solitaria e intangibile, e l’immanenza mondana e umana, limitata e caduca.
È questo il capo d’accusa contro le religioni monoteistiche avanzato dal filosofo della nouvelle droite, Alain de Benoist, che invita la cultura contemporanea a «guarire il mondo dalla rottura monoteistica», restituendogli quella sacralità e “divinità” che il paganesimo politeista gli assicurava e che il cristianesimo gli ha sottratto.
Per dirla con un altro intellettuale che si è interessato al tema, Francesco Remotti, «il politeismo – così connessionista, possibilista, pluralista – non sarebbe niente male per la “modernità” e la voglia di “modernizzazione”».
Ebbene, se vogliamo risalire alle sorgenti del monoteismo, non possiamo non rimandare al cosiddetto “comandamento principe” decalogico: Lo’ jihjeh-leka ‘elohim ‘aherim ‘al-panaj, «non avrai altri dèi di fronte a me» (Esodo, 20,2), frase tutt’altro che facile nella sua formulazione apparentemente “enoteista” più che “monoteista” (si ha, infatti, un appello a una scelta “esclusiva” nei confronti delle altre divinità).
Essa sarà precisata non tanto in sede teorica, piuttosto ardua per la mentalità semitica che ama il procedimento gnoseologico simbolico, quanto in ambito pratico come “jahvismo”, ossia con l’affermazione dell’unicità personale di Dio, dotato quindi di una personalità espressa nel nome (JHWH), al contrario dell’idolo che è solo illusorietà divina, simile al miraggio o all’equivoco.
Ora, attorno alla radice biblica del monoteismo s’è recentemente impegnato in modo particolare un egittologo di Heidelberg, Jan Assmann, che, alla maniera di Freud ma con ben altro spessore filologico e con ben diverse finalità, incrocia il politeismo egizio con l’unicità divina dell’ebraismo.
Il suo Dio e gli dei (Il Mulino, Bologna, pagg.
214, €15,00; si vedano anche i precedenti Mosè l’egizio, Adelphi, 2000 e Non avrai altro Dio, Il Mulino, 2007), un testo tutto sommato breve ma denso e suggestivo, insegue l’evoluzione della novità radicale e rivoluzionaria del monoteismo proprio a partire dalla vetta sinaitica che si erge sull’immensa pianura politeistica egizia.
E giustamente fa notare che in realtà l”unicità” di Dio non è una categoria adatta a spiegare l’anima profonda della visione teologica ebraica; lo è invece il concetto di “differenza”, di alternativa fondamentale rispetto agli altri dèi.
Per questa via, che egli illustra in un continuo contrappunto dialettico con la religione e la cultura faraonica – la quale in verità non era biecamente politeistica, ma si orientava verso una sorta di monoteismo evolutivo e inclusivo per cui “tutti gli dèi erano uno” o almeno facce diverse dell’unica divinità -Assmann intravede non solo l’originalità di Israele, ma anche le ricadute sociali e politiche di un tale “monoteismo” jahvistico.
Esse riguardano la separazione tra stato e religione e la funzione “assiale” di una simile concezione (la terminologia, come è noto, è desunta da Jaspers che aveva parlato di «età assiale» da collocare attorno al 500 avanti Cristo, vera e propria svolta capitale della civiltà).
C’è, però, da notare che la «distinzione mosaica» (la differenza a cui sopra si accennava) agli occhi di Assmann rappresenta un rischio, cioè che si costituisca in «controreligione», esclusiva nei confronti delle altre e intollerante.
Si spiega così il «linguaggio biblico della violenza» che ha nel herem, ossia nell’anatema anti-idolatrico il suo emblema.
L’egittologo, perciò, in alcuni suoi scritti, senza divenire come altri intellettuali un apologeta del politeismo, preferisce solo attenuare le pretese veritative monoteistiche aggrappandosi al minimo comune denominatore di una pallida e pluralistica «religione universale valida per tutti gli uomini».
Con l’estenuazione, però, della trascendenza della verità e della sua “oggettività” strutturale, si corre il rischio di una dispersione babelica che non assicura di per sé la convivenza pacifica: è ciò che si sperimenta ai nostri giorni proprio con una religione apparentemente “politeista” com’è l’induismo.
Bisogna poi riconoscere che l’uso di categorie come “monoteismo” e “politeismo” è di genesi occidentale ed è tutto sommato recente (i termini sono stati coniati nel Seicento): siamo, quindi, in presenza di uno stampo ermeneutico che non riesce a contenere e a coagulare l’incandescenza delle concezioni simboliche poste alla base della teologia.
Per questo, come suggerisce Assmann, non di rado ciò che a livello popolare e sociale è una molteplicità della divinità, a livello radicale può essere un modo simbolico per parlare delle differenti qualità della divinità.
Detto in altri termini, si tratta spesso di un politeismo relativo, linguistico e immaginifico, più che di un politeismo assoluto e metafisico.
Si deve, così, ritornare piuttosto al concetto “differenziale” della divinità, come appunto ribadiva Assmann.
Ma ritorniamo al monoteismo biblico.
In questa concezione, Dio non è un’energia cosmica né un’oscura entità indefinibile né una vaga galassia divina, bensì una persona che comunica e si comunica.
Il monoteismo è, perciò, un atto di svelamento personale di quel Dio che dichiara attraverso Isaia e Paolo: «Io mi sono fatto trovare anche da quelli che non mi cercavano, mi sono manifestato anche a quelli che non mi invocavano» (Romani, 10, 20).
Affermava il filosofo ebreo Emmanuel Lévinas in un intervento raccolto nel suo volume collettaneo La difficile libertà (Jaka Book, 2004): «Il monoteismo non è un’aritmetica del divino.
E’ piuttosto il dono, forse soprannaturale, di vedere l’uomo simile all’uomo sotto la diversità delle tradizioni storiche che ognuno porta avanti: è una scuola di xenofilia e di antirazzismo».
La considerazione del pensatore francese coglie un elemento rilevante.
L’unico Dio significa l’unico uomo, ssia la radicale uguaglianza delle creature uscite dalle mani dell’unico Creatore.
Non ci sono “figli di un dio minore”, là dove unico è il Signore di tutti, amoroso verso tutti i suoi figli.
Significative sono le parole di Paolo al discepolo Timoteo: «Dio nostro salvatore vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità, perché uno solo è Dio» (1 Timoteo 2,3-5) Il monoteismo è, perciò, strutturalmente compaginato col tema dell’uguaglianza umana e, come suggeriva ulteriormente Lévinas, «obbliga l’altro a entrare nel discorso che lo unisce a me», essendo comune il tessuto umano che ci unisce, che ci affratella e che ci rende anche tutti indigenti sia di Dio sia dell’altro.
C’è, però, un’ulteriore considerazione da fare.
Già la tradizione giudaica affermava che Dio, a differenza di quanto accade col conio monetario, ci ha “coniati” tutti con lo stesso stampo (l’umanità, l”‘ adamicità” comune, l’identica dignità) ma ci ha anche fatti tutti diversi.
È significativo che Paolo, dopo aver esaltato in quel passo «l’unico Dio», introduca lo specifico cristiano: «uno solo è il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Gesù Cristo».
Anche per il monoteismo unità e pluralità sono due poli necessari che devono essere in interazione e in contrappunto e non in dialettica e opposizione.
Se viene meno questo equilibrio, si precipita o nell’esclusivismo integralistico o nell’anarchia relativistica.
L’unico Dio che ha creato l’unica umanità assicura l’uguaglianza; il Dio infinito che crea la ricchezza sempre nuova degli uomini e della donne tutela la variegata bellezza della diversità.
Come diceva Gandhi, «la verità è come il diamante: è una, ma ha molte facce».
La stessa teologia dovrebbe ritrovare la comunione nell’unico Dio e Salvatore, pur procedendo su percorsi diversificati, in attesa che “Dio sia tutto in tutti” (1 Corinzi 15, 28).
Capitale è allora il dialogo in cui l’armonia può nascere tra voci di timbro diverso, dotate di un’identità unica e non cancellabile nella vaghezza del sincretismo.
L’unico Signore ci svelerà alla fine la piena verità nascosta che la creaturalità fragile e peccatrice dell’uomo incrina e offusca.
Ce lo ricorda anche il Corano in un passo suggestivo: «Se Iddio avesse voluto, avrebbe fatto di voi una comunità unica, ma non ha fatto questo per provarvi in quello che vi ha dato.
Gareggiate, dunque, nelle opere buone perché a Dio tutti tornerete e allora egli vi informerà di quelle cose per le quali ora siete in discordia» (5, 48).
In attesa di quel giorno supremo, dobbiamo ritrovare la “lingua sacra” del dialogo e della comunione, che si può perdere col politeismo babelico.
È ciò che suggerisce rabbi Pincas in uno dei famosi Racconti dei Chassidim raccolti nel 1950 dal filosofo Martin Buber: «Prima della costruzione della torre di Babele tutti i popoli avevano una lingua sacra in comune, in più ciascuno aveva il proprio linguaggio…
Ciò che Dio fece quando li punì, fu di togliere loro la lingua santa».
Da un lato, c’è un “linguaggio proprio”, specifico di ogni comunità religiosa, ma d’altro lato, c’è quel “linguaggio sacro” che è la lingua materna dei tre monoteismi, quella insegnata dal Dio padre comune.
Nella storia delle religioni entrambe sono necessarie.
in “Il Sole 24 Ore” del 29 agosto 2010

Panikkar: il sacerdote filosofo

Non un’etica globale ma un’etica “condivisa”.
Raimundo Panikkar: Non un’etica “globale”, che sarebbe una sorta di tentazione neocolonialista, ma un’etica dialogica, condivisa, contemplativa, frutto di un disarmo culturale dell’Occidente e dell’incontro con le culture e le fedi religiose “altre”.
È questa, in sintesi, la proposta di Raimundo Panikkar, teologo e filosofo per metà spagnolo e per metà indiano, da anni impegnato nel confronto interreligioso.
Ecco alcuni passaggi tratti da una sua relazione intitolata “Dall’etica globale all’etica condivisa” (Testo integrale riportato da “Adista” 26 febbraio 1994).
“La mia tesi si potrebbe così riassumere: non c’è un’etica globale.
E il suo corollario è che non ci può essere, perché se ci fosse ridurrebbe gli uomini ad una uniformità totale, e l’etica ad un’etica di deduzione dei principi.
L’etica, invece, è qualcosa di vissuto e non soltanto frutto di una deduzione di principi.
Non si può attuare eticamente costruendo sillogismi e traendone conseguenze.
L’etica è una spinta personale, che viene più dal cuore che dalla mente.
Non è soltanto una deduzione ragionevole di principi sublimi.
Trovare una struttura formale o comune per fondare un’etica è impossibile.
Tutti siamo d’accordo che si deve fare il bene: il problema comincia quando si vuol delimitare cosa è il bene e cosa è il male.
Un’etica unica, in un mondo multiculturale e multietnico, implicherebbe che l’etica in quanto tale è sovra-culturale, e sovra-religiosa, mentre il fondamento che ogni cultura ed ogni religione pongono alle rispettive etiche è diverso.
Per alcune culture le differenze tra quelli che noi chiamiamo uomini e gli altri animali non sono così essenziali.
Ragione per cui un’etica mondiale dovrebbe essere al di sopra di qualsiasi altro fondamento etico che hanno le diverse culture e le diverse religioni.
Ma ciò coincide con il colonialismo che è, appunto, la credenza secondo cui è possibile avere, con parametri sufficientemente depurati e cesellati, una percezione e una soluzione a tutti i problemi dell’umanità.
Dopo le lusinghe coloniali occorre passare al disarmo di una siffatta cultura che si autoproclama universale e che pretende anche di fondare un’etica universale.
L’unica forma di etica che abbia qualche forza, oggi, dev’essere un’etica interculturale.
L’imperativo è pragmatico, perché non è fondato su un “a priori”, ma semplicemente sul fatto che se non ci fosse un’etica alternativa per il mondo attuale si andrebbe alla mutua distruzione dell’umanità, allo sterminio tra gli uomini e ai disastri ecologici.
Non ci facciamo illusioni: il mondo, anche politicamente parlando, non tollererà più per molto tempo queste ingiustizie istituzionalizzate: e se uno dovrà far ricorso all’incendio dei pozzi di petrolio o al ricatto atomico, lo farà.
Quindi l’imperativo è pragmatico, perché l’alternativa è la distruzione.
Non è l’imperativo a priori: “perché così deve essere”.
L’etica non può essere globale: ma deve essere oggi un’etica accettata nel mondo attuale e si costituisce soltanto – o si scopre – nel dialogo interculturale.
E qui ritengo utile tratteggiare un decalogo dell’etica del dialogo.
Primo: l’altro esiste “per” ciascuno di noi.
E l’altro è il musulmano, l’altro è l’emarginato, l’altro è il marito, l’altro è il bambino, il              mondo ecc.
Una specie di superamento inconscio del solipsismo.
Secondo: l’altro esiste come soggetto e non soltanto come oggetto.
Esiste a sé stante e non mi ha chiesto il permesso di esistere.
                  Neanche la pietra, gli alberi, gli animali.
In altre parole: non si possono trasformare le pietre in pane.
Terzo: l’altro non è oggetto di conquista, di conversione, di studi: è (s)oggetto con diritti propri, con lo stesso diritto di interpellarmi, di             interrogarmi, che ho io.
La relazione è, quindi, biunivoca: il dialogo è dialogo perché non è monologo.
Non è soltanto            domandare, ma lasciarsi anche interpellare.
Per questo c’è una necessità di ascolto, di umiltà, di uguaglianza.
Quarto: anche se io penso che l’altro (e l’altro può essere un sistema religioso o culturale) sbaglia, devo entrare in contatto con lui,              altrimenti non c’è dialogo e senza dialogo non c’è pace.
Quinto: la disposizione a dialogare è il principio etico supremo.
Se ci si nega al dialogo, si finisce con il divorzio, con la guerra, con la               bancarotta, con il disastro.
Sesto: il dialogo deve essere totale.
Come dicono gli inglesi: non c’è niente di “non-negocial”.
Tutto deve essere messo sul tappeto,             altrimenti non è dialogo dialogale, non è dialogo umano, è dialogo diplomatico.
Si mira a vincere.
Settimo: l’etica è collegata al politico, dipende dal religioso ed è frutto di una cultura.
Tutto ciò relativizza l’etica, ma la rende concreta                ed efficace.
Ottavo: l’etica scaturisce dal dialogo religioso e allo stesso tempo ne è la sua causa.
È un circolo vitale come tutte le cose ultime.
Nono: nessuno ha il diritto di promulgare un’etica.
L’etica non si promulga.
Si scopre.
E si scopre nel dialogo.
Inoltre in un contesto             mondiale qual è quello di oggi a nessuno viene riconosciuto il diritto di promulgare un’etica universale ed assoluta.
Decimo: l’etica contemporanea deve confrontarsi con un “novum” che non si era mai verificato nella storia: il “novum” di tanta gente                 che muore di fame, di sete, di stenti, di violenza.
E che attende una redenzione concreta: non annuncio di principî etici, ma                 un comportamento operativamente salvifico, purificato di ogni pretesa messianica”.
from:  http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/raimonpanikkar/eticacond.htm domenica, novembre 02, 2008 un’etica condivisa   Panikkar non era un pensatore convenzionale e ha infranto molti schemi, convenzioni e pregiudizi.
Filosofo sacerdote  era nato il 3 novembre 1918 a Barcellona da padre indiano induista e da madre catalana cattolica ed è deceduto il 26 agosto in Spagna all’eta di 91 anni. Fu ordinato sacerdote nel 1946 anno in cui conseguì il dottorato in filosofia; nel 1958 ottenne la laurea in scienze all’Università di Madrid e nel 1961 la laurea in teologia all’Università Laterana di Roma.
È vissuto in India, a Roma (dove è stato libero docente dell’Università), e negli Stati Uniti.
Nel 1966 fu chiamato ad Harvard in qualità di visiting professor e per tutto il periodo dal 1966 al 1987 alternò la sua docenza negli Usa per un semestre con la sua ricerca in India.
Dal 1971 al 1987 ha coperto la cattedra di filosofia comparata delle religioni all’Università di California, a Santa Barbara, di cui era professore emerito.
Nel 1987 è tornato in Catalogna dove ha continuato a tenere corsi, seminari e incontri su temi filosofici, religiosi, culturali e di approfondimento delle diverse tradizioni dell’umanità.
Ha pubblicato una cinquantina di libri, per la maggior parte in catalano, castigliano italiano e inglese, e tradotti in varie lingue.
A sua volta, nel corso di circa dieci anni, ha tradotto un’antologia di mille pagine dei testi dei Veda.
Panikkar ha tenuto corsi nelle università di tutto il mondo e conferenze prestigiose.
Ha collaborato al progetto dell’opera Classics of Western Spirituality che ha pubblicato sino ad oggi 76 volumi e all’opera Western Spirituality, che consta di 25 volumi, i cui tre ultimi sono sotto la sua direzione.
Era fondatore e direttore del Center for Cross-Cultural Religious Studies di Santa Barbara in California) e di Vivarium, Centre d’Estudis Intercultural di Tavertet in Catalogna.
Una sintesi del suo pensiero «Sono partito cristiano, mi sono scoperto hindù e ritorno buddhista, senza cessare per questo di essere cristiano».
Questa la frase che apre il sito internet di Raimon Panikkar,  Il suo pensiero propone una visione dell’armonia, della concordia, che vuole scoprire «l’invariante umano» senza distruggere le diversità culturali che mirano tutte alla realizzazione della persona in continuo processo di creazione e di ricreazione.  Il dialogo, non quello  meccanico o informativo, ma il «dialogo dialogico»  porta a riconoscere le differenze e anche quanto si ha in comune, e spinge alla fine a una mutua fecondazione.
In particolare il dialogo religioso nel quale si cerca la collaborazione dell’altro per la mutua realizzazione, dal momento che la saggezza consiste nel sapere ascoltare.
La grande sfida per questa civiltà dominante, così poco capace di ascoltare la parola degli altri, è quella di superare i dualismi sui quali è fondamentalmente strutturata e recuperare l´armonia, ‹‹che non equivale né all´unità né al compromesso››.
Panikkar adopera il termine greco ontonomia, la legge interna dell´essere, per indicare che ogni cosa può trovare il suo posto nella realtà senza fratture e senza conflitti.
L´armonia, però, ‹‹implica un superamento del pensare, perché include all´interno del pensare anche l´amore›› R.
Panikkar dal sito http://panikkar.splinder.com/

I beati commedianti

Si  sta  svolgendo  a  Ravenna  la  iv  edizione della Scuola estiva internazionale in studi danteschi promossa dall’università Cattolica del Sacro Cuore in collaborazione con il locale Centro dantesco dei frati minori conventuali.
Dalla relazione che chiuderà la Summer School pubblichiamo una sintesi curata dall’autore per il nostro giornale.
  La terza cantica del poema dantesco e l’esperienza del “beato regno” che in essa viene rappresentata hanno uno statuto del tutto speciale, solo apparentemente simile a quanto sperimentato precedentemente dal personaggio e raccontato dal poeta nelle prime due cantiche.
Per questo, fin dal primo cielo, quello della Luna, si rende necessario svelare il segreto strutturale che giustifica l’esperienza paradisiaca di Dante e tutta la poesia della terza cantica.
Nel cielo della Luna appare a Dante un primo gruppo di anime beate (Paradiso, iii).
Una fra queste, Piccarda Donati, offre a Dante le prime ampie spiegazioni sulla nuova realtà paradisiaca e sulle sue leggi.
Piccarda allude all’esistenza di una gerarchia di differenti livelli di beatitudine pur nella indifferenziata gioia paradisiaca, un più e un meno, che sembra contrastare con la uniforme perfezione della vita beata.
Ma la beata spiega anche che il senso profondo di questa condizione è la piena adesione a Dio e alla sua volontà:  i beati desiderano e amano esattamente ciò che corrisponde alla volontà di Dio e gioiscono per il conformarsi a questa volontà.
 Tuttavia la beata insiste sulla gradualità del Paradiso (“beata sono in la spera più tarda”, v.
51; “questa sorte che par giù cotanto”, v.
55) ma segnala anche la corrispondenza fra la condizione dei beati e la loro vita terrena, indicando la causa della collocazione più bassa di questo primo gruppo di beati nell’essere venuti meno ai voti.
E Dante è subito colto da due dubbi, con la proposizione dei quali si apre il iv canto, deputato a svelare il principio strutturale che regola il regno paradisiaco.
Uno dei due dubbi riguarda il fatto che si possa esser beati pur avendo mancato a dei voti, e concerne dunque le anime appena incontrate, ma l’altro è più importante e pericoloso e riguarda la natura stessa del Paradiso.
Infatti Dante potrebbe pensare che, avendo incontrato queste anime nel cielo della Luna, questo sia il luogo assegnato loro per l’eternità.
In particolare Dante penserebbe di veder realizzato quanto proposto da Platone nel Timeo, cioè che le anime dimorano nelle stelle prima di essere assegnate a un corpo e scendere nella vita terrena, e infine fanno ritorno alla loro stella di origine dopo la morte.
Beatrice decide di affrontare per primo proprio quest’ultimo dubbio.
Quella che è apparsa a Dante, spiega subito Beatrice, non è la vera realtà del Paradiso.
Il vero Paradiso è l’Empireo:  il cielo di luce puramente intellettuale posto “al di là” dei nove cieli corporei.
Le più alte creature angeliche e i sommi fra i beati hanno dunque la loro sede autentica nello stesso cielo in cui soggiornano anche gli spiriti che ora sono apparsi a Dante nel cielo della Luna e che pure nella gerarchia celeste occupano il grado più basso.
Le differenze nella beatitudine sono infatti puramente interiori, nella percezione, differente per ciascuno, e per alcuni maggiore per altri minore, dello Spirito Santo dentro di sé:  “Ma tutti fanno bello il primo giro / e differentemente han dolce vita / per sentir più e men l’etterno spiro” (iv, 34-36).
Il Paradiso è dunque una realtà puramente spirituale, intelligibile.
L’Empireo, il decimo cielo, ma “il primo giro” dalla prospettiva celeste, è la sede autentica dei beati, degli angeli, di Dio:  una realtà di luce non corporea ma spirituale, non sensibile ma intellettuale.
Dante giungerà, al termine dell’ascesa, dopo un itinerario di graduale conoscenza e progressivo accrescimento delle facoltà, a vedere questa realtà, e questo cielo sarà allora definito il “ciel ch’è pura luce:  // luce intellettüal, piena d’amore; / amor di vero ben, pien di letizia; / letizia che trascende ogne dolzore” (xxx, 39-42).
Ma allora, se tutti i beati stanno nell’Empireo, e la sola differenza è questa puramente spirituale e interiore, perché Piccarda e gli altri spiriti sono apparsi nel cielo della Luna? Beatrice non formula questa domanda, ma è evidente che essa deve nascere nella mente del lettore, e così segue la spiegazione secondo cui i beati incontrati nel cielo della Luna si sono mostrati qui, non perché questo cielo sia destinato loro come sede, ma per indicare attraverso un segno sensibile la condizione celeste meno elevata:  “Qui si mostraro, non perché sortita / sia questa spera lor, ma per far segno de la celestïal c’ha men salita” (iv, 37-39).
E la ragione di ciò, spiega Beatrice, è che è necessario comunicare così alla mente umana, in quanto solo a partire dalle percezioni dei sensi riceve gli elementi che poi costituiscono la base per la conoscenza intellettuale:  “Così parlar conviensi al vostro ingegno, / però che solo da sensato apprende / ciò che fa poscia d’intelletto degno” (iv, 40-42).
Per questo la realtà paradisiaca deve essere presentata a Dante in forma mediata, attraverso immagini:  i beati, che soggiornano sempre nel cielo Empireo, scendono nei singoli cieli astronomici per accompagnare l’ascesa del pellegrino.
Si costituisce in questo modo un doppio movimento verticale:  il divino e il paradisiaco vengono incontro all’uomo scendendo verso il basso, mentre l’umano muove verso il paradisiaco e il divino ascendendo verso l’alto.
 La costruzione dell’avventura paradisiaca di Dante è dunque una grande immagine che ha la funzione di rendere almeno in parte comprensibile la realtà spirituale del Paradiso al viaggiatore celeste, che è un uomo vivente.
In tal modo anche l’ascesa paradisiaca si può realizzare e può essere raccontata come un viaggio suddiviso in diverse tappe, di cielo in cielo, interrotto da incontri e dialoghi con le anime.
Le immagini sono dunque necessarie, ma devono essere intese come un cammino da percorrere, non la meta alla quale fermarsi.
Così la verità del Paradiso dantesco sarà parziale e metaforica, un’autentica scala.
Solo al termine del percorso la verità potrà essere conosciuta pienamente dal pellegrino, che vi è giunto accettando umilmente di passare attraverso i gradi della conoscenza sensibile, percependo solo i segni della vera realtà.
Le affermazioni di Timeo nel dialogo platonico devono allora essere interpretate in un modo non strettamente letterale, ma sottoposte a una lettura allegorica, nella quale verrebbero a intendere che ai cieli deve essere attribuito il merito, positivo o negativo dell’influenza esercitata sugli individui, sui loro caratteri, sui loro talenti, sulle disposizioni a certe attività.
L’astrologia è un aspetto importante della cultura medievale ed è accolta pienamente anche da Dante, che pure rifiuta ogni determinismo astrologico, in nome del principio del libero arbitrio.
Ma il fatto di aver richiamato questo motivo qui in Paradiso, iv, nel quadro delle discussioni sulla struttura del Paradiso come si mostra a Dante, introduce implicitamente un principio che regge la rappresentazione dantesca del regno.
Le anime dei beati, che soggiornano sempre nell’Empireo, scendono e si mostrano a Dante personaggio nei cieli dei sette pianeti, ogni gruppo in un cielo diverso, per manifestare sensibilmente la loro diversa condizione nella realtà puramente spirituale e intelligibile della beatitudine.
E tale diversa condizione è dovuta alla diversità della loro condotta terrena:  i beati si manifestano a Dante nel cielo che li ha maggiormente influenzati nella loro vita terrena, offrendo così una rappresentazione sensibile sia della loro condizione spirituale nel Paradiso, sia dei caratteri eminenti della loro condotta sulla terra.
In questo modo il Paradiso, che sarebbe irrappresentabile e indicibile alla lingua umana, nella sua pura intelligibilità, si adatta a presentarsi a Dante personaggio in modo significativo e comprensibile, e tale da offrire al poeta una materia varia e articolata, dotata di senso immediato, ma suscettibile di profonde interpretazioni spirituali.
E in questo modo la materia paradisiaca può essere esposta con modalità non troppo dissimili rispetto a quelle dell’Inferno e del Purgatorio:  anche qui assisteremo a un viaggio suddiviso in tappe, di cielo in cielo; e anche qui in ogni singolo cielo incontreremo delle anime raggruppate secondo un criterio coerente, ancorato alle dottrine della filosofia e della teologia morale.
Insomma il Paradiso si snoda attraverso una struttura narrativa non troppo diversa da quella delle cantiche precedenti:  il racconto di un viaggio attraverso i singoli cieli, come nell’Inferno attraverso i cerchi, i gironi, le bolge, e nel Purgatorio attraverso le cornici del monte.
E leggendo i primi 29 canti del Paradiso ci dimentichiamo, per la forza immaginativa della poesia,  che  Dante  personaggio  non sta visitando il vero Paradiso, ma una sorta di rappresentazione allegorica, di grande metafora, come un teatro celeste nel quale i beati scendono dal vero Paradiso per “fare segno”, in questi modi sensibili e perciò comprensibili a Dante e ai suoi lettori, di una realtà altrimenti inconcepibile e inimmaginabile.
di Giuseppe Ledda (©L’Osservatore Romano – 27 agosto 2010)

Johanan Ben Zakkai

Per quanto oscuri e incerti possano apparirci i nostri tempi, certamente non lo sono quanto lo fu per il regno di Giuda il primo secolo dell’era cristiana: il mondo descritto nei Vangeli, oltre che nelle fonti rabbiniche e in quelle storiche, un paese sotto il dominio dei romani, dilaniato dalle lotte tra sadducei, farisei ed esseni.
Gli anni in cui il cristianesimo si separava e distingueva dall’ebraismo, quelli della guerra scatenata dagli zeloti contro i romani e dell’abbattimento del Tempio di Gerusalemme nel 70 d.C., con cui la tradizione fa iniziare la diaspora ebraica.
Un momento per gli ebrei catastrofico, tanto da essere ancor oggi commemorato con il digiuno nel giorno della distruzione del Tempio, il 9 del mese ebraico di Av.
Eppure, da quella catastrofe il mondo ebraico seppe rinascere, sia pur a prezzo di una profonda trasformazione.
Fu una vera e propria resurrezione e chissà che non possa ancor oggi insegnarci qualcosa, nella crisi generale che viviamo? L’autore di questa resurrezione non fu né un politico né un sovrano, ma un semplice studioso, Johanan ben Zakkai.
Una figura storica, anche se le uniche fonti che ne parlano, i testi talmudici, lo avvolgono in un’aura mitica.
Nasce intorno all’inizio dell’era cristiana, contemporaneo quindi di Gesù, ma anche di Flavio Giuseppe, di Vespasiano e di Tito.
Era uno dei leader della comunità farisaica, di coloro cioè che i Vangeli paragonano a “sepolcri imbiancati”: intellettuali, maestri della Legge, rigorosissimi dal punto di vista dell’osservanza ma aperti alle interpretazioni della Legge orale.
Erano espressione delle classi medie urbane, mentre i sadducei erano espressione del ceto più elevato ed erano numerosi tra i sacerdoti impegnati nel culto del Tempio.
Vicini ai farisei dal punto di vista dottrinale, ma contrari ad ogni impegno nel mondo,  che consideravano irrimediabilmente corrotto, erano gli esseni.
A questi conflitti, al tempo stesso religiosi e sociali, si aggiungeva quello, interno anche agli stessi farisei, tra quanti ritenevano che si dovesse vivere in pace sotto la dominazione romana e gli zeloti, che nel 66 scatenarono la guerra contro Roma.
Certamente, ben Zakkai non condivideva la posizione estremista degli zeloti, dato che durante l’assedio romano di Gerusalemme, tra il 68 e il 70 d.C., egli riuscì, fingendosi morto e facendosi trasportare dentro una bara dai suoi discepoli, a uscire dalla città e a passare nel campo dei Romani.
Portato dal loro comandante, Vespasiano, gli avrebbe profetizzato l’ascesa al trono imperiale, chiedendogli al tempo stesso la possibilità di fondare una sua scuola a Yavne, città in mano ai romani e divenuta all’epoca rifugio dei giudei filo-romani.
Nella sua trilogia su Flavio Giuseppe, il romanziere Lion Feuchtwanger lo descrive a colloquio con Vespasiano come «un giudeo vecchissimo, molto piccolo, molto ragguardevole, i cui occhi azzurri spiccavano con strana freschezza nel suo volto tutto rughe incorniciato da una barbetta stinta».
Fu così, nascosto in una bara, che il rabbino Ben Zakkai passò dalla parte dei romani, anche se motivato dalla volontà di salvare non se stesso ma il giudaismo.
Fu da quella bara che risuscitò il giudaismo distrutto.
Un altro personaggio, in quegli stessi anni, fece qualcosa di molto simile: Flavio Giuseppe.
Anch’egli sfuggì alla guerra, di cui era uno dei capi, passando dalla parte dei romani, e ottenne salva la vita profetizzando a Vespasiano la sua assunzione all’impero.
Visse a Roma, nell’orbita dei Flavi, e fu uno dei massimi storici dei suoi tempi.
Nell’opera di Flavio Giuseppe, ben Zakkai non è mai nominato, come Flavio Giuseppe non lo è nei testi rabbinici.
Due profezie, dunque, due diserzioni, una rimasta nella memoria ebraica come un tradimento, l’altra come una redenzione; l’uno, ben Zakkai, amato quanto odiato fu l’altro, Flavio Giuseppe.
Che fu poi, sia detto per inciso, il vero autore della famosa profezia, che i testi rabbinici hanno attribuito, mutandone il segno, a Johanan ben Zakkai.
Ambedue operarono per preservare il giudaismo: Flavio Giuseppe, senza troppo riuscirci, con i suoi scritti; ben Zakkai con la sua scuola, che ben presto divenne molto più che un centro di studi, ottenendo dai vincitori il riconoscimento d’importanti funzioni giudiziarie e amministrative.
Yavne divenne la culla dell’autonomia ebraica.
E anche, scrive uno storico di oggi, «una fortezza contro l’oblio».
«Da allora in poi – scrisse Freud in un brano di uno dei suoi libri più intriganti, Mosè e il monoteismo – furono la Sacra Scrittura e l’impegno intellettuale ad essa dedicato che mantennero unito il popolo disperso».
È questo il giudaismo che si è tramandato nei duemila anni successivi, un giudaismo che deriva in linea diretta dalla scelta di ben Zakkai e dei suoi seguaci: la sostituzione di un culto fondato sui sacrifici del Tempio con un culto fondato sulla lettura e l’interpretazione del testo sacro, sull’insegnamento.
La sostituzione del sacerdote con il saggio, il rabbino.
Un giudaismo, aggiungiamolo, che non sopravvisse soltanto alla distruzione del suo stato e alla dispersione del suo popolo, ma anche alla concorrenza della nuova religione, il cristianesimo, che si affermava con grande forza in seno all’antica.
La strada scelta da Johanan ben Zakkai era una strada molto stretta.
Se Vespasiano non gli avesse concesso Yavne, sarebbe stato dimenticato o al massimo sarebbe passato alla storia come una versione un tantino meno spregiudicata di Flavio Giuseppe.
Ma anche la concessione di Yavne da parte di Vespasiano non garantiva che la sua iniziativa avrebbe portato alla sopravvivenza dell’ebraismo e non ne avrebbe invece soltanto accompagnato il declino.
A portare il suo progetto al successo furono innanzitutto la sua straordinaria consapevolezza che il vecchio mondo stava per essere distrutto.
Dico straordinaria, perché intorno a lui nessuno lo aveva capito, neanche quelli che, come gli esseni, da quel vecchio mondo si erano tenuti lontani e che ora ne accusavano le colpe nella caduta.
No, il vecchio rabbino, preferì rischiare di perdere la faccia passando al nemico piuttosto che chiudersi in una torre d’avorio a piangere sul passato, rinunciando a combattere.
Conoscete qualcuno, oggi, in questo nostro mondo, che di fronte al perdersi di tutti i valori in cui è nato e cresciuto sia davvero capace di guardare avanti senza recriminazioni o fughe dalla realtà? Ma ciò che più rende la storia di Johanan ben Zakkai esemplare anche per noi è il fatto che la ricostruzione a cui diede impulso fu tutta fondata sull’interiorità: lo studio, la morale, il pensiero, la preghiera.
Il rinnovamento del giudaismo dopo il 70 fu, innanzitutto, un rinnovamento interiore.
Implicò una ricostruzione delle coordinate mentali, culturali, religiose.
Una rivoluzione culturale, se ci è lecito adoperare questa locuzione per un rivolgimento sommesso e pacifico, non tanto diversa da quella rappresentata dal cristianesimo.
Certo, ben Zakkai pianse la distruzione del Tempio, la cui notizia lo raggiunse a Yavne, e si strappò le vesti insieme ai suoi discepoli in segno di lutto.
Ma se avesse potuto ricostruirlo, rimettere in piedi il sacrificio rinunciando al Libro, non sono sicura che lo avrebbe fatto.
In fondo, e questo anche raccontano i testi rabbinici, aveva più volte profetizzato la caduta del Tempio ancor prima che la guerra la rendesse ipotizzabile.
Forse, pensava davvero che non ci fosse scelta.
E se la strada intrapresa dai suoi contemporanei, con gli scontri feroci tra i partiti e l’affermarsi del fondamentalismo zelota, gli sembrò distruttiva, allora il suo volgersi allo studio e all’interiorità può essergli apparsa come l’unica, e l’ultima, possibilità di salvare il suo mondo.
Credo che sotto questo aspetto la lezione del rabbino di Yavne sia davvero ancora attuale: guardarsi dentro, e ancor più insegnare a guardarsi dentro, prima di guardare all’esterno.
Cambiare se stessi, prima di cambiare il mondo.
Non aver paura del cambiamento e nel farlo non scegliere il percorso più facile o più veloce.
E guardare al futuro in una prospettiva di lungo respiro.
Per imparare a riconoscere, per dirla con un altro grande maestro, Giambattista Vico, che quelle che ci paiono traversie sono talvolta opportunità.
LA VITA Il rabbino Johanan ben Zakkai nasce nel I secolo d.C.
in Galilea e diventa presto una personalità influente nel periodo che segue la distruzione del Secondo tempio.
È uno dei leader della comunità farisaica, di coloro cioè che i Vangeli paragonano a “sepolcri imbiancati”: intellettuali, maestri della Legge, rigorosi dal punto di vista dell’osservanza ma aperti alle interpretazioni della Legge orale.
Discepolo del rabbino Hillel, è favorevole alla resa di Gerusalemme assediata ai romani, anche se gli zeloti non sono d’accordo.
Viene portato fuori dalla città dai suoi seguaci, chiuso in una bara, fingendosi morto, e portato davanti al comandante romano Vespasiano.
Johanan chiede che l’accademia rabbinica di Yavne venga risparmiata dai romani.
Quando il Tempio cade in rovina (nella foto sopra, il Muro del Pianto), lui e i suoi colleghi ricostruiscono il giudaismo: la sua attenzione verso lo studio e l’interiorità gli appare come l’unica, e l’ultima, possibilità di salvare il suo mondo.
Muore a Yavne intorno all’80 d.C.
e oggi sulle colline di Tiberiade (la capitale della Galilea) si può visitare la sua tomba (nella foto sotto), non troppo lontano da quella di Mosè Maimonide e dei rabbini Ben Akiva e Meir Ba’al Ha-Nes.
LA TRADIZIONE Il nome ebraico Johanan ben Zakkai in italiano è Giovanni figlio di Zaccheo.
Il significato del nome Giovanni è “grazia di Yahweh”, mentre Zaccheo, in aramaico antico, significa il giusto.
Secondo il Talmud (nella foto sotto, una pagina di un libro sacro ebraico) il rabbino visse 120 anni, dal 40 a.C., fino all’80 d.C.
La sua vita sarebbe suddivisa in tre improbabili periodi di quarant’anni ciascuno, e solo nell’ultimo periodo avrebbe predicato.
Sempre secondo il Talmud, aveva sei discepoli (principali): Hanina ben Dosa, Eliezer ben Hyrcanus, Joshua ben Hananiah, Yosi, Schiméon ben Nathanel ed Eleazar ben Arakh.
Suo figlio morì prima di lui.
LE TEORIE Molte teorie sono state avanzate sull’identità del rabbino, anche se le prove a sostegno sono scarse o inesistenti.
Per esempio Zakkai è stato identificato con Zaccaria, padre del Battista; altre volte con Giovanni Battista e con l’apostolo Giovanni Evangelista.
Ma sono molti i riferimenti che non coincidono.
in “Il Sole 24 Ore” del 12 agosto 2010

Il diritto alla libertà e il suo rovescio

In vista del trentunesimo “Meeting per l’amicizia fra i popoli” che si svolgerà a Rimini dal 22 al 28 agosto, anticipiamo stralci di un articolo a firma del cardinale arcivescovo di Esztergom-Budapest che sarà pubblicato sul prossimo numero di “Atlantide”, quadrimestrale della Fondazione per la Sussidiarietà diretto da Giorgio Vittadini.
  Oltre venti anni dopo il crollo del Muro di Berlino giova ripensare alla situazione della nostra religione e dei credenti in un’Europa in cui si parla molto di laicità.
L’Europa è un continente complicato, dalle mille facce, con diversi popoli e diverse eredità culturali, diverse sensibilità, diverse posizioni sociali della religione in generale e della Chiesa cattolica nei singoli Paesi.
Riflettendo sulla situazione attuale, tenendo presenti gli elementi culturali e sociologici, possiamo identificare alcune realtà, e forse alcune possibilità, di ulteriore sviluppo riguardo al rapporto tra Chiesa e Stati nel nostro vecchio continente.
La parola laicità è molto comune nei Paesi di tradizione latina e cattolica:  Italia, Francia, Spagna e Portogallo.
Essa è storicamente collegata con un processo di secolarizzazione della politica avvenuto in questi Paesi durante l’epoca moderna.
Come tutti sappiamo, questa storia fu contrassegnata da aspri conflitti e da fenomeni anche violenti, le cui vittime erano spesso non soltanto i portatori delle antiche strutture politiche, ma anche la gente semplice, tra cui molti credenti.
Oggi comunque, in tutti questi Paesi, vige un sistema di netta separazione tra Stato e Chiesa, la cosiddetta “laicità dello Stato”.
In un’altra regione del continente, precisamente nel Nord-Europa, dove la religione di Stato durante l’epoca moderna era qualche forma del protestantesimo, la separazione non si è manifestata in forma tanto violenta, ma il processo di secolarizzazione è stato comunque continuo, e ha condotto all’esaurimento delle istituzioni e dei legami religiosi.
Le forme istituzionali religiose non sono state rifiutate in modo radicale, ma, con la secolarizzazione della società, pur conservando alcuni simboli religiosi, o magari, anche un ruolo istituzionale interno a qualche comunità religiosa – come nel caso della Chiesa di Inghilterra – è stata permessa sempre di più anche la libertà delle altre religioni, e il funzionamento pienamente secolare delle istituzioni pubbliche.
Un terzo gruppo dei Paesi europei è rappresentato dai cosiddetti “Paesi dell’Est”.
In questi Paesi la lunga oppressione comunista ha separato in modo brutale la religione dallo Stato.
Ufficialmente non si annunciava la neutralità dello Stato, ma piuttosto il suo collegamento istituzionale con l’ideologia marxista-leninista, chiamata visione scientifica del mondo, oppure socialismo scientifico, oppure materialismo dialettico e storico.
In realtà, tale ideologia aveva pienamente il ruolo di una religione di Stato, fino al punto che in alcuni Paesi la stessa costituzione dichiarava che “la forza guida della società è il partito marxista-leninista della classe operaia”.
Ciò significava che quelli che non si professavano marxisti-leninisti, avevano meno diritto di partecipare alla direzione della società.
Vent’anni dopo il crollo di questo sistema i popoli dei Paesi ex-comunisti hanno attraversato uno sviluppo istituzionale, sociologico e ideologico.
La prima novità in questo contesto è stata la libertà di religione, espressa in diverse leggi più o meno fondamentali in questi Paesi.
La Chiesa cattolica, da parte sua, aveva attraversato il periodo del rinnovamento conciliare, aveva precisato il vero senso cattolico della libertà religiosa, e cominciava ad affrontare la sfida del secolarismo con questo atteggiamento.
Da parte cattolica, quindi, malgrado alcune nostalgie storiche, provenienti generalmente non dalla Chiesa stessa, ma piuttosto da altri gruppi della società, non ci fu nemmeno un tentativo di ottenere una posizione di religione di Stato.
Nei Paesi di tradizione ortodossa, parallelamente al risveglio di queste Chiese, si poté osservare anche una notevole riservatezza da parte degli organi statali, riguardo a un collegamento completo e ufficiale tra Stato e Chiese nazionali.
Occorre notare che, specialmente in Russia, la distruzione della religione e la secolarizzazione erano talmente profonde che un tale collegamento, indipendentemente dalle intenzioni, non sembrava troppo realistico.
In questi ultimi Paesi del Centro-Est europeo, esistevano anche altri fatti culturali più o meno oppressi durante l’epoca comunista.
L’elemento etnico o nazionale era uno di questi.
Dopo il crollo del sistema si manifestarono più liberamente anche questi elementi di identità.
Tale svolta era stata poco preparata anche dal punto di vista psicologico.
Perciò scoppiarono conflitti nazionali ed etnici, come nel Caucaso, nei Paesi Baltici, nella ex-Iugoslavia, e, in una forma meno violenta, anche altrove nella regione.
Tutto ciò fu confermato dalla nascita o rinascita di molti Stati nazionali che ottennero la loro sovranità dopo il crollo di Stati federali comunisti.
Tale fenomeno nazionale si collegava in alcune parti con elementi religiosi, essendo stata la religione una parte integrante della cultura specifica delle diverse nazioni.
Altri elementi specifici di queste culture spesso non potevano svilupparsi sufficientemente per la pressione dell’internazionalismo comunista.
L’Europa conosce diversi modelli di rapporti tra Stato e Chiesa.
Ma conosce anche diversi tipi di Stato.
Oggi il modello prevalente è ancora lo Stato nazionale, prodotto tipico dell’epoca moderna.
Ma costituisce una realtà fondamentale dell’Europa di oggi la presenza dell’Unione Europea che comprende una moltitudine di Stati nazionali, e che sembra influire notevolmente sulla vita interna degli Stati membri e anche dei cittadini.
Stati grandi con la massima varietà di popoli, di regioni geograficamente ben diverse con profonde differenze economiche, linguistiche, culturali e religiose hanno contrassegnato per lunghe epoche la storia del nostro continente.
Negli ultimi duemila anni i periodi senza grandi imperi in Europa sono stati molto più brevi di quelli nel segno di tali imperi.
Cronologicamente possiamo cominciare con l’impero persiano, il quale sin dall’epoca di Dario i (522-486 prima dell’era cristiana) comprendeva anche Tracia e Macedonia, e quindi, quella terra che oggi si considera europea.
Come è noto, l’impero persiano all’epoca della sua fioritura rappresentava uno Stato governato secondo princìpi quasi moderni.
In esso i diversi popoli avevano una notevole libertà di espressione della loro cultura e della loro religione, anzi rispetto al fatto culturale e religioso, avevano anche una cospicua autonomia giuridica per organizzare la vita secondo le proprie tradizioni.
Questa situazione ha la sua precipitazione classica in diversi libri dell’Antico  Testamento.
L’impero romano, da parte sua, era portatore di una coscienza di missione storica del popolo romano, ma incorporava nella sua struttura organizzativa elementi dell’eredità delle monarchie universali ellenistiche.
Già Cicerone identifica l’imperium romanum con l’Orbis Terrarum.
I tentativi di introdurre una concezione assolutistica dell’impero furono sconfitti.
Lo spazio notevole per l’autogoverno politico e culturale delle città nei primi due secoli dell’era cristiana cedeva il suo posto gradualmente alle forme aperte della monarchia militare nel III secolo.
Da Diocleziano in poi si verificò una tendenza al decentramento del potere che produsse la tetrarchia, ma non nel senso del riconoscimento delle proprietà culturali ed economiche dei diversi popoli e delle diverse regioni.
Nella tarda antichità era così pesante la pressione tributaria che la lealtà dei sudditi cominciava a vacillare già per questo motivo.
Problema che accompagnò poi anche la storia bizantina.
All’alba del medioevo nacquero degli Stati posti sotto il potere di diversi popoli chiamati barbari, come il regno visigoto e quello dei franchi.
In queste forme di Stato era un fenomeno fondamentale la duplicità della popolazione, cioè, il gran numero degli abitanti aventi cultura romana da una parte, e dall’altra parte, le comunità germaniche dalle quali proveniva la classe dirigente.
Tale duplicità culturale condusse diversi re a promulgare varie leggi, diversi codici per le varie comunità viventi nello stesso Stato.
Anche nell’impero romano-germanico, chiamato in certi periodi Sacro romano impero della nazione tedesca, sopravvisse la pluralità dei diritti popolari e tribali anche nelle raccolte di diritto consuetudinario.
Dal risveglio della conoscenza del diritto romano, dalla fine del xi e poi dal XII secolo, i testi del diritto romano giustinianeo cominciarono a influenzare gli alti livelli della vita giuridica, a partire dall’insegnamento universitario.
Sebbene questo diritto sia stato rispettato soprattutto come ratio scripta, e non tanto come diritto pienamente vigente in tutte le relazioni della vita sociale, esso ha influenzato lo sviluppo del diritto europeo, e ha avuto in molte parti del continente la funzione di diritto sussidiario che aiutava a colmare le lacune delle leggi.
Fu nel tardo medioevo che anche il diritto canonico, sviluppato in base alle antichissime tradizioni anch’esso nel quadro dell’insegnamento universitario, cominciò a formare una certa unità culturale e teorica ma anche effettiva, per esempio nei dettagli del processo giudiziario o dei princìpi generali, con il diritto romano.
Un’altra logica morfologicamente più antica vigeva nell’impero ottomano, in cui i diversi popoli o le diverse comunità etnico-religiose godevano di grande autonomia anche giuridica e dove queste comunità portavano il nome di millet.
Quanto ai cristiani va precisato che ancora all’inizio del XX secolo circa il 35 per cento dell’intera popolazione era di religione cristiana.
Riguardo alla funzione del Patriarca di Costantinopoli all’interno di quell’organizzazione imperiale, si ricorda la drammatica uscita solenne del Patriarca con il suo clero nel campo dell’imperatore Maometto ii (Mohammed al Fatich, 1444-1446; 1451-1481), nell’anno storico 1453.
Il sultano accettò l’atto di sottomissione del Patriarca, anzi lo riconobbe come capo dei cristiani del suo impero.
Così accadeva che nel XVI e XVII secolo persino i principi protestanti della Transilvania, che in quell’epoca dipendeva come vassallo dall’impero ottomano, dovessero recarsi a Costantinopoli e ottenere il consenso del Patriarca, prima di chiedere il riconoscimento dell’imperatore turco.
Un capitolo meno remoto è costituito dall’esempio dell’impero sovietico, Stato federale composto da molte repubbliche, il quale aveva però anche una serie di altri Stati un po’ meno strettamente dipendenti, ma legati a sé nel quadro del Comecon (Consiglio di mutua assistenza economica) e del Patto di Varsavia.
La possibilità dei popoli e gruppi di conservare la propria lingua, cultura e religione fu diversa nei diversi periodi della storia sovietica, e differente nei diversi stati satelliti.
Cittadini ungheresi negli anni Settanta guardavano per esempio con grande ammirazione i molti ordini religiosi esistenti legalmente in Polonia.
Anche se la religione costituiva durante la storia un elemento determinante dell’identità etnica dei diversi popoli, nel quadro dei diversi imperi, nella storia si osserva una lunga serie di modalità di trattare questo fenomeno.
Trattarlo, per esempio, in modi anche giuridicamente diversi, a seconda delle diversità dei popoli, dei Paesi, delle regioni autonome, delle tradizioni culturali, riconosciute in settori identificabili secondo criteri territoriali e personali.
Nello specchio della storia, quindi, un elemento tipico e molto europeo dei rapporti tra Stato e Chiesa sembra essere proprio la diversità.
Prescindendo dalla stragrande diversità nella storia, dobbiamo osservare anche un altro fatto più o meno costante.
In grandi imperi o in larghe e organizzate comunità di popoli, si dimostrava sempre necessario un denominatore comune riguardo alla visione del mondo.
Tale denominatore comune poteva essere in alcuni imperi la personalità sacralizzata del sovrano, oppure, insieme con essa, il culto di alcuni dei comuni.
Se un popolo, una religione, rifiutava questo elemento di culto della comunità, poteva esporsi a violente persecuzioni.
Tale situazione è fin troppo conosciuta dalla storia della Chiesa.
Eppure, lo ius gentium era rispettato già all’epoca romana.
Alcuni principi cristiani erano accettati in tutti i Paesi dell’Europa medievale fino al punto che si poteva parlare di res publica christiana.
Il cardinale Nicola da Cusa poteva scrivere con altri teorici della società della sua epoca che l’impero è il corpo, ma la Chiesa è lo spirito della res publica christiana.
Non soltanto alcuni principi della fede quindi, ma la Chiesa come tale e il suo diritto erano tra questi elementi di unione della comunità medievale delle nazioni europee.
Nell’epoca moderna poi, cominciò a ricevere nuovi accenti il diritto naturale, interpretato comunque partendo dalla tradizione cristiana, per sfociare poi, all’epoca dell’illuminismo, nei diritti umani classici.
Se oggi il contenuto e le basi dei diritti umani cominciano a perdere i loro chiari contorni, allora è giustificata la preoccupazione per le basi comuni, a livello di visione del mondo, della comunità dei popoli europei.
Sorge la domanda tecnica della gestione della libertà e della pluralità.
La pluralità non può comprendere senz’altro qualsiasi atteggiamento di violenza o di terrore, la libertà, come vediamo in questi tempi di crisi, può causare la distruzione dei più deboli, e può aprire la strada alle ingiustizie più gravi, se non viene regolata dal principio del bene comune.
Ma per identificare un bene comune ci vogliono principi comuni antropologici.
Ci vuole una qualche visione comune su che cosa è buono per l’essere umano.
E oltre a questo, ci vuole anche una autorità non sprovvista di forza che possa far valere le esigenze del bene comune.
La dottrina sociale della Chiesa, arricchita recentemente dall’enciclica Caritas in veritate, è sempre attuale.
Il dilemma del liberalismo classico dell’inizio del XX secolo è ritornato in dimensioni globali.
Il mondo, il nostro vecchio continente specialmente, dovrebbe imparare dalle esperienze dell’ultimo secolo.
Una ribellione volontarista e violenta contro i problemi dell’egoismo sfrenato nell’economia può avere facilmente per effetto dittature sanguinose che risultano poi tentativi falliti di soluzione di un problema destinato a ritornare.
Ma quanti milioni di vite umane sono il prezzo di questi tentativi! Non rimane dunque altra strada che quella della ricerca paziente e generosa delle forme regolate dal diritto e fedeli ai principi di sussidiarietà e di solidarietà che realizzano il bene comune, impegnandosi – come dice Benedetto XVI – “alla realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale ispirato ai valori della carità nella verità”.
La visione del mondo e quella dell’essere umano non dev’essere opera degli Stati, né delle autorità politiche.
Nel senso di una giusta sussidiarietà, la visione del mondo costituisce un fatto personale, ma anche comunitario, trasmesso e condiviso da altre persone, da diversi gruppi, o anche dall’intera società.
Le comunità religiose sono portatori eminenti della visione comunitaria del mondo.
Quindi, la sana laicità dello Stato significa proprio che le autorità statali e politiche, anche quelle internazionali o continentali, non possono pretendere di definire la visione del mondo dei cittadini, ma devono fare riferimento agli elementi portatori di questi valori della società, nel quadro di una chiara sussidiarietà.
Ma è possibile arrivare in base a questa visione del mondo a un denominatore comune che possa offrire il minimo necessario per la coesistenza e la collaborazione delle persone e dei popoli? Secondo la convinzione cristiana, tutti gli uomini possono conoscere le verità essenziali su Dio attraverso la realtà creata.
Crediamo quindi nella forza conoscitiva umana anche riguardo ai principi fondamentali della vita.
Questa è la base anche della morale rivelata.
La grazia, anche in questo ambito, presuppone la natura.
La condizione di una sinfonia riguardo ai principi fondamentali della moralità nei diversi Stati è quindi, la conoscenza e il riconoscimento – aperto anch’esso verso il progresso delle ricerche e del ragionamento – della piena realtà delle cose oggettivamente esistenti.
La verità, quindi, ci libera anche riguardo alla vita sociale.
Così si delinea la possibilità di un equilibrio tra una “sana” laicità dello Stato, basata sulla sussidiarietà, nelle questioni della visione del mondo, e la possibilità di un consenso largo circa diversi principi fondamentali.
Proprio questa ricerca di equilibrio può essere un compito storico dell’Europa multiculturale.
E in questo contesto, i cristiani del continente che vent’anni or sono ha ritrovato molti valori della propria unità, sono chiamati a rendere testimonianza della piena verità di Cristo, della speranza che vuol aprirsi a tutti e che invita tutti a una comune riflessione.
Nuova evangelizzazione quindi, nel contesto della pluralità, del mutuo rispetto, e soprattutto, dell’apertura ecumenica, la quale deve rendere più forte la voce del Vangelo con la comune testimonianza e che deve essere una palestra del dialogo che ci prepara anche al dialogo con le altre religioni e con i non credenti nello spirito della carità e nella verità.
(©L’Osservatore Romano – 21 agosto 2010)

Un metodo infalllibile per rinnovare la teologia

Se alla genesi della teologia sta il mistero cristiano, ed essa si può definire come “intelletto della fede”, non è pensabile che in una determinata epoca la si possa completamente rifare da capo.
Nella diversità dei tempi essa viene alimentata da una tradizione ininterrotta di contenuti e anche di linguaggio, che non ammette discontinuità drastiche e rivoluzionarie, pena la perdita dell’identità.
È lecito almeno nutrire qualche perplessità di fronte a un teologo che sia persuaso di proporre dottrine teologiche inusitate e singolari, mai insegnate prima di lui.
Non per questo, tuttavia, la teologia è destinata a una pura ripetizione.
La storia stessa della teologia mostra quanto, senza spezzare la continuità, essa si sia variamente e anche profondamente rinnovata: ma non per aver in certo modo occultato o disatteso il mistero; al contrario, per averlo lasciato emergere con più forza e coerenza.
La teologia non si lascia impressionare e condizionare dal mito del divenire e del progresso, consapevole com’è che essa è nata e di continuo rinasce dalle risorse inesauste e immodificabili della rivelazione divina che si è compiuta e non si logora, dalla comunione con la Parola di Dio, antica e sempre nuova.
È anche vero che al rinnovamento della teologia può concorrere una nuova filosofia, ma a condizione che essa offra, per così dire, uno spazio più aperto alla prevalenza e all’intelligenza del mistero e che venga esercitata all’interno dell'”intelletto della fede”.
È significativo che il geniale storico della teologia medievale, Marie-Dominique Chenu, affermi che “non è l’ingresso di Aristotele a determinare il pensiero di san Tommaso, così come non è la rinascita dell’Antichità a costituire la teologia del secolo XIII”.
Questa rinascita ne rappresenta soltanto una componente di rinnovamento: il suo impulso e il suo incremento sono assegnati all'”evangelismo”, come egli lo chiama.
Senza dire che non potrà mai essere la filosofia a giudicare la validità di una teologia: questo giudizio spetta solo alla Parola di Dio, mentre la stessa teologia potrà giudicare la pertinenza o meno di una filosofia a concorrere all’intelligenza della fede.
* Qui, però, non ci interessa illustrare la relazione tra filosofia e teologia cristiana, ma indicare la scelta grazie alla quale la teologia potrebbe e dovrebbe ricevere un profondo rinnovamento o nuovo assestamento: una scelta del resto imprescindibile, perché fondata sull’evento da cui nasce la fede e quindi l'”intelletto della fede”.
Questa via è il cristocentrismo.
Veramente, non si tratta affatto di una novità.
La teologia cristiana ha sempre avuto al suo centro Gesù Cristo; è nata e si è sviluppata dal suo evento.
Ma forse questa originaria centralità richiede una traduzione più rigorosa, più coerente e più completa.
Anzitutto a partire dalla stessa definizione di cristocentrismo.
Esso non significa soltanto l’eccellenza di Cristo rispetto a tutto il resto, ma la sua predestinazione a essere la ragione incondizionata di tutto quello che Dio ha chiamato e chiama all’esistenza.
Ma occorrono altre imprescindibili e essenziali precisazioni.
Quando si parla di cristocentrismo, non si intende solo affermare il primato del Verbo, ma il primato o la “precedenza” nel disegno di Dio del Verbo incarnato, morto e risuscitato, mediante il quale, nel quale e in vista del quale, “furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili” (Colossesi 1, 15-17).
Ovviamente, non in alternativa ma come a compimento della prospettiva giovannea, secondo la quale non v’è nulla che non sia stato fatto per mezzo del Verbo (Giovanni 1, 3).
Il “Primeggiante su tutte le cose” (Colossesi 1, 18) è, esattamente, il Crocifisso glorificato, che tutto antecede, e da cui tutto diparte.
È come dire che Gesù redentore, con la grazia del suo perdono, è il fondamento ontologico e il movente storico di ogni cosa (cfr.
Colossesi 1, 17), l’Oggetto dell’eterno “proposito” di Dio.
La prima lettera di Pietro parla del “sangue prezioso di Cristo, agnello senza macchia”, “predestinato già prima della fondazione del mondo”, “manifestato negli ultimi tempi” (1, 19-20).
E quanto ai profeti afferma che “cercavano di sapere quale momento e quali circostanze indicasse lo Spirito di Cristo che era in loro, quando prediceva le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che sarebbero seguite” (1, 11).
Ma se Gesù risorto da morte è il Predestinato, vuol dire che la figura di umanità originariamente ideata e “preferita” da Dio è l’umanità glorificata del Figlio, al cui successo è orientata tutta la storia.
In essa ogni umanità trova la sua ragione e il suo modello: tutti gli uomini sono predestinati, creati “in grazia”, ossia “predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio, perché egli sia il primogenito di molti fratelli” (Romani 8, 29).
Noi possiamo definire tutto quanto abbiamo descritto coi termini di Paolo: “Mistero di Dio che è Cristo” (Colossesi 2, 2), o più precisamente: “Sapiente mistero di Dio” che è “Cristo crocifisso” (cfr.
1 Corinzi 1, 21.23).
* Ebbene, il compito della teologia è l’esplorazione di questo mistero.
Chi vi si dedica ha la missione di “parlare della sapienza di Dio, che è nel mistero, che è rimasta nascosta e che Dio ha stabilito prima dei secoli” (1 Corinzi 2, 7).
È su questo “realismo” che si edifica la teologia cristiana, a cui non interessa stemperarsi nel mondo dei piani o dei disegni divini ipotetici.
Quello che avrebbe potuto fare Dio lo sa soltanto lui.
Tutto è stato creato nella grazia di Gesù crocifisso e risorto.
In particolare, è stata motivata su quella grazia la natura dell’uomo.
Una “natura pura”, per un “puro” fine “naturale”, non è mai esistita e di essa noi non possiamo sapere nulla.
Di fatto, l'”Originale” che alla sacra dottrina importa anzitutto conoscere e, quindi, il primo oggetto dell’interesse teologico, è il Crocifisso glorioso da sempre predestinato, e, quindi, la sua vita con i suoi avvenimenti, nei quali avviene la manifestazione particolareggiata dell’eterno disegno generato e motivato dalla divina misericordia.
In questo senso la teologia cristiana è originariamente cristica: il Cristo risorto da morte descrive e offre esaurientemente tutto il suo oggetto.
Egli è l’Oggetto che si tratta di capire, in quanto concreta e storica “narrazione” del disegno (cfr.
Giovanni 1, 18).
È la dimensione che la cristologia deve assumere.
Ma Cristo non ferma a sé: egli è il Figlio e, perciò, è il rimando al Padre, che nessuno ha veduto e del quale è l’epifania, ed è l’attestazione dello Spirito.
In lui si ritrova la Trinità, che si rivela come Trinità creatrice e misericordiosa, che sta al principio di un ordine voluto come una iniziativa di misericordia.
È l’ordine che il teologo è chiamato a studiare, che riguarda particolarmente l’uomo, che appare però preceduto, prima della sua creazione, da un mondo angelico già segnato da Cristo e dalle decisioni relative a lui: di accoglienza, ma anche di rigetto, ossia di peccato.
In particolare, Cristo ci disvela un Dio che, nel suo amore misericordioso, dona il Figlio, predisposto come perdono del peccato dell’uomo, il quale trova, così, il suo vantaggio non nel venire al mondo, ma nell’essere redento.
Come scrive sant’Ambrogio: “Non prodesset nasci, nisi redimi profuisset” (Expositio evangelii secundum Lucam, II, 41-42).
La sacra dottrina tratta allora dell’antropologia, cioè dell’uomo esistente unicamente come disposto nella grazia e nella gloria della Croce: una grazia e una gloria in atto nei sacramenti, che Tommaso d’Aquino vede tutta quanta sospesa all'”energia della passione di Cristo” (Summa Theologiae, III, 62, 5, c).
È facile allora avvertire di che cosa tratti l’ecclesiologia: esattamente dell’umanità che sale dalla Pasqua di Cristo e si trova configurata  e intimamente associata al Signore risorto da morte.
Quanto all’escatologia, essa è l’esplorazione della gloria e quindi del successo del Crocifisso: una gloria che trascende e attrae la storia ed è il fine per cui l’uomo e con lui tutte le cose sono state create e volute dall’eternità.
Se è vero che la teologia cristiana ha sempre fatto questo, riterrei tuttavia che sia possibile, anzi necessario, ricentrarla in modo ancora più coerente e approfondito sul cristocentrismo.
Solo da qui ne verrebbe un forte, mirabile impulso di rinnovamento, che vanamente si ricercherebbe altrove.
Inos Biffi

Il figliol prodigo all’altro: «Parlami!»

Nella sua predicazione Gesù è ricorso a racconti e narrazioni: le parabole, frutto della sua ricerca della volontà di Dio, della sua immaginazione, della sua osservazione contemplativa del cuore umano, della natura e delle storie personali e collettive.
Ma tra queste, ve n’è una che appare come «incompiuta», una parabola che sembra attendere altri eventi, quasi una parabola in atto di compiersi: è quella dei due figli, che abbiamo memorizzato come «la parabola del figliol prodigo».
Una parabola con il finale sospeso: il figlio perduto ritorna a casa, il padre lo abbraccia e gli usa piena misericordia senza chiedergli conto del male commesso, l’inizio della festa per questo figlio ritrovato…
Poi ecco apparire l’altro figlio, il maggiore, rimasto sempre a casa: risentito, non vuole partecipare alla gioia del padre e del fratello.
Allora il padre esce di casa anche per lui, pregandolo di entrare e unirsi alla festa…
La fine del racconto tace sulla reazione del figlio maggiore: è rimasto ostinatamente fuori? Cos’è successo dopo l’avvio della festa con la musica e il pranzo preparato? Una parabola incompiuta, appunto.
Suonerebbe poco riverente verso il Vangelo osare immaginare non un’altra fine, ma un seguito che  renda la parabola compiuta? Significherebbe forse indicare un esito, far accadere ciò che non è stato narrato come accaduto…
Ma siccome tutte le volte che leggo questa parabola penso sempre all’esito che avrebbe potuto avere e mi ritrovo a ipotizzare sempre lo stesso finale, oso affidarlo ai lettori, certo della loro capacità di farne buon uso e di non confonderlo con il Vangelo stesso.
l figlio minore scappato di casa, dopo aver dilapidato tutta l’eredità pretesa dal padre, si era deciso a ritornare a casa: meglio essere un servo in casa di suo padre che vivere da salariato guardiano di porci! Non conosceva in profondità suo padre, infatti da lui si attendeva solo un po’ di pietà per colui che restava nonostante tutto suo figlio.
Il padre invece, da quando il figlio era fuggito, l’aveva sempre aspettato e il suo amore – che esprimeva anche l’amore della madre che non c’era più – non era mai venuto meno: aspettava, aspettava, sovente scrutando l’orizzonte dalla terrazza di casa, là dove la strada scompariva dietro le colline…
Così un giorno, scorgendo una sagoma in lontananza, comprese che era lui, suo figlio.
Allora gli corse incontro: era scalzo, vestito di cenci, barba e capelli incolti, avanzava come un relitto umano, emanava anche un tanfo insopportabile…
Quella corsa finì con un abbraccio, sfociò in un volto contro volto, occhi contro occhi, in un unico pianto di gioia.
Il padre non sentì le parole biascicate dal figlio, ma gli salì dal cuore una parola: «È vivo! Festa, allora!».
E festa sia: i garzoni vanno a macellare il vitello grasso, accendono il fuoco della cucina, mentre altri preparano il bagno, le vesti profumate e i calzari nuovi…
E il padre gli mette al dito l’anello di famiglia, custodito per lui, mentre i musicanti invitano alla festa.
Festa grande, festa per tutti! Ma l’altro figlio dov’è? A quest’ora avrebbe dovuto essere rientrato dai campi…
Dov’è? Il padre esce di nuovo, di corsa, per cercarlo e dargli la buona notizia del fratello tornato, non più perduto come un morto, ma vivo! Invece, il dramma: nell’ora in cui il padre ha riacquistato un figlio rischia di perdere l’altro.
Non appena il maggiore, infatti, vede il padre e sente la sua «buona notizia», ecco l’indignazione, la rivolta! La sua voce risuona dura, tagliente: «Come puoi chiedermi di essere contento e di far festa per questo tuo figlio che ha preso i suoi soldi prima che gli spettassero, che è andato a spenderli comprandosi amici interessati e amore di prostitute, che ha lasciato a noi la fatica e il lavoro, senza mai dare un cenno di vita? E io dovrei far festa?».
Ma il padre: «È mio figlio, certo, ma è anche tuo fratello! Io sono il padre di tutti e due: vi ho amati e vi amo, siete la mia vita! Tu sei rimasto qui accanto a me, è vero, lui se n’è andato lontano, ma io vi amo tutti e due, di tutti e due mi sento padre e non posso fare diversamente.
Se non vi sentite fratelli tra voi, è come se io non potessi essere vostro padre!».
Come aveva abbracciato il figlio fuggito, il padre ora supplicava l’altro figlio che non voleva partecipare alla festa.
Come aveva atteso il figlio perduto, ora era disposto ad aspettare che il primogenito entrasse in casa per la festa.
Fino a quando restò là a pregarlo? Fino al momento – che il padre non aveva osato sperare – in cui sopraggiunse il figlio minore, fino a quando il figlio rinato non accorse verso suo fratello! Questa volta non aveva preparato parole di circostanza, come prima di tornare a casa: avanzò semplicemente, gli occhi bassi colmi di contrizione, giunse davanti al fratello e, senza alzare lo sguardo, gli disse solo: «Fratello, rivolgimi una parola, anche di condanna, e saprò di essere rinato anche per te: allora sarò veramente rinato!».
Il primogenito rimase come paralizzato: non riusciva né aprire la bocca né ad allargare le braccia…
Si lasciò abbracciare, tenendo le braccia rigide, come legate al corpo.
Ma quando sentì il calore delle lacrime del fratello rigare il proprio volto, qualcosa in lui si schiuse, le labbra si aprirono per sussurrare semplicemente «Sì!».
Davvero tutto quello che era del padre era anche suo! Non solo la casa e i campi, non solo vitelli e capretti, ma anche l’amore per quell’uomo perduto e ritrovato, l’amore per un figlio ridiventato fratello.
Sì, l’amore del padre era amore anche suo, un amore condiviso.
E cominciarono a far festa, tutti insieme, una festa senza fine…
Non potremo mai sapere se questo era davvero il finale della parabola narrata da Gesù, né questa domanda è decisiva.
Possiamo e dobbiamo invece interrogarci proprio a partire dall’intero racconto e da quel fiato sospeso che lo conclude: chi è il figlio primogenito e chi è il minore, perduto? Chi dei due è autenticamente figlio e fratello? Quando lo diventa o lo ridiventa? E ciascuno di noi, dove si colloca? Decisivo in questa parabola familiare è che entrambi i fratelli sono stati ritrovati dal padre, il quale è nella gioia solo quando ha in casa tutti i suoi figli, capaci di perdonarsi e di fare festa insieme in “Avvenire” del 20 agosto 2010