Perché etica e ricerca devono saper dialogare

La sperimentazione scientifica e l’ingegneria tecnologica non possono esercitarsi in contrasto con il rispetto e la promozione della dignità umana.
È questa un’evidenza da tutti condivisa.
Ma la contemporanea situazione di pluralismo rende difficile riempire di un contenuto valoriale unanimemente riconosciuto nozioni come quelle di coscienza, dignità umana, vita, ecc.
Le nuove frontiere rese fruibili dalla biogenetica, soprattutto, riportano al centro la questione antropologica.
La quale, diversamente dal passato, non tende solo a interpretare l’uomo, ma a trasformarlo: e non limitatamente ai rapporti economici e sociali, ma nella sua stessa realtà biologica e psichica.
L’interrogativo cruciale diventa allora quello del significato e dell’originalità dell’essere umano nel concerto della realtà, e quello del riferimento plausibile d’ogni sua impresa al rispetto e alla promozione della sua identità.
Le difficoltà che gli esperti della materia, ma non solo, affrontano nell’approntare una base epistemologica condivisibile alla bioetica derivano dalla vastità degli ambiti d’indagine e dalle diverse modalità di approccio alla questione di cui essa si occupa: la vita umana in tutti i momenti del suo sviluppo.
Di qui l’impegno ineludibile a far interagire con pertinenza l’approccio scientifico e quello umanistico.
Già nel saggio Bioethics, bridge to the future, del 1970, l’oncologo Van Resselaer Potter si concentrava su due aspetti: la dimensione bio-ecologica e il problema della distinzione dei saperi, mettendo in luce come gli attuali squilibri e pericoli per l’ecosistema umano e cosmico sarebbero riconducibili alla spaccatura moderna tra il sapere scientifico e quello umanistico.
Di fatto, i risultati cui le ricerche scientifiche pervengono, e che le tecnologie rendono operativi e incidenti sulla forma della nostra esistenza, suscitano una serie di problemi che esigono un livello esplicativo ulteriore, all’interno del quale le conquiste acquisite possano trovare intelligibilità e senso, evitando di diventare controproducenti, e cioè in fin dei conti di ritorcersi contro l’uomo.
L’apertura a un orizzonte sapienziale diverso, ma non contrastante con quello scientifico, è senza dubbio frutto di un personale atto di libertà e di conoscenza, ma può emergere da una ricerca metodologicamente corretta come possibilità di una dimensione interpretativa che dischiuda prospettive inclusive di comprensione e di senso.
D’altra parte, i risultati e le proposte maturate in ambito scientifico non possono non interpellare i credenti a prendere posizione, aprendosi a un dialogo interdisciplinare che, al di là di obsoleti steccati e di sterili separazioni fra conoscenza e coscienza, fede e scienza, dogma e ricerca, permetta uno sguardo sulla realtà nella sua globalit  e nei suoi diversi livelli di significato.
Non si tratta di sovrapporre una visione metafisica astratta di natura umana all’esperienza umana vissuta e indagata dalla fede e dalla ragione, dalla teologia e dalla scienza, ma piuttosto di cogliere le istanze di senso che si dischiudono in forma positiva da ciascuna di esse, mettendole in dialogo tra loro con reciproco rispetto.
Se la scienza è essenziale nel definire quali sono i fondamenti e le condizioni biologiche dell’esistere fisico dell’essere umano, la riflessione filosofica e la teologia sono chiamate a dischiuderne il senso integrale e trascendente, le coordinate del suo ethos e dunque anche i vincoli morali cui debbono rispondere la sperimentazione scientifica e l’ingegneria genetica.
Il Concilio Vaticano II afferma che «nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire e la cui voce lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e a fuggire il male…
obbedire ad essa è la dignità stessa dell’uomo».
La coscienza non si trova di fronte a precetti estrinsecamente imposti: ma a un progetto aperto da attuare nella gratuità e nella libertà responsabile.
In ascolto della nostra umanità.
(L’autore è preside dell’Istituto Universitario Sophia e presidente dell’Associazione Teologica Italiana)

Dagli atei ai senza-Dio

Sylvain Maréchal (1750-1803) è ancora conosciuto per il suo Dictionnaire des athées anciens et modernes (1800), che raccoglie anche nomi insospettati: Pascal, Sant’Agostino e perfino Gesù, tutti coloro che sono stati critici con la religione del loro tempo.
Tuttavia, questo discepolo di Lucrezio detestava gli atei del suo tempo, provenienti da un’aristocrazia libertina, dissoluta, pervertita.
Aveva fondato, per reazione, una lega dei senza-Dio e l’aveva dotata di una liturgia che, ogni decade, celebrava il culto della virtù.
Senza dubbio non è la preoccupazione primaria dei nostri contemporanei, ma la distinzione merita di essere conservata e ripresa in un altro senso.
Ateo e ateismo sono delle parole attestate nella lingua francese dalla metà del XVI secolo.
La loro diffusione sarà lenta e a volta singolare (Balzac, La Messe de l’athée).
Anche tra noi, l’ateismo non attira particolarmente: in Francia, l’Unione degli atei non supera probabilmente i 2000 o 3000 aderenti.
Vi si possono aggiungere coloro che preferiscono definirsi liberi pensatori, umanisti, razionalisti, materialisti (termine diventato desueto) o libertari (ni Dieu ni maître).
Tutti esprimono una convinzione forte e chiara, spesso militante.
Si oppongono così a coloro che si affermano decisamente e profondamente religiosi secondo la loro appartenenza: cattolica, protestante, ortodossa, ebraica, mussulmana, buddista nella maggior parte dei casi.
Questo mondo incerto della non credenza è oggi maggioritario in Francia.
I sociologi hanno mostrato la sua diversità e misurato il grado e le forme di attaccamento alle grande denominazioni, nel senso di un allontanamento crescente.
Ciò che domina oggi è ciò che con termini dotti si chiama agnosticismo o indifferentismo, accompagnato da un crollo in una o due generazioni della cultura religiosa tradizionale veicolata dal catechismo, dalla scuola e dall’ambiente.
Ciò che sussiste oscuramente, nascosto ad un’osservazione rapida, è ciò che Serge Bonnet ha definito le “preghiere segrete dei francesi d’oggi” e la loro alchimia: un immenso terreno incolto o qualcosa di simile.
Gli ateggiamenti e le iniziative “missionarie” della Chiesa francese davanti all’ateismo aspettano ancora il loro studio sistematico e ragionato.
Nel 1940, nella piccola collezione “Catholique” di Gallimard, padre Sertillanges, domenicano conosciuto per la sua apertura, pubblicava un opuscoletto, Athées, mes frères.
“Non ci sono atei, ci sono solo persone che credono di esserlo; ci sono solo degli incoscienti”, scriveva.
È il pensiero di Jean-Luc Marion in una recente conferenza in Svezia: l’ateismo è impossibile.
Il cardinal Veuillot, futuro arcivescovo di Parigi, esigeva dai padri Le Sourd e Liégé, autori di un Croyants et incroyants aujourd’hui nel 1962, il richiamo al fatto che l’ateismo era un peccato grave.
Nel 1965, il Vaticano II lo poneva “tra i fatti più gravi del nostro tempo” e creava un Segretariato per i non credenti di cui il cardinal Poupard ha assunto l’incarico per un quarto di secolo.
Siamo così passati dal Dio-Sole (i nostri ostensori), luce del mondo (lux mundi) a ciò che Léon Brunschwig, professore alla Sorbona, definiva nel 1928 La Querelle de l’athéisme, e il suo successore Étienne Souriau nel 1955 L’Ombre de Dieu.
Ed è qui che torna la vecchia distinzione di Sylvain Maréchal, in una nuova accezione.
L’uomo senza Dio è colui che, molto semplicemente, senza farsi problemi, fa a meno di Dio, pensa senza di lui ed esiste senza di lui.
Ciò che è qui decisivo, non è ciò che si agita nel profondo di ognuno, e neppure il movimento di questo mondo che non deve niente se non al proprio sforzo, ma la condizione umana – comune a tutti, credenti e non credenti – modellata da queste due istanze.
“E Dio in tutto ciò?”, chiedeva Jacques Chancel ai suoi invitati al termine delle sue trasmissioni a “Radioscopie”.
Ad ognuno la propria risposta, ma, qualunque essa sia, essa dovrà tener conto del rullo compressore all’opera “in tutto ciò”.
Dio era onnipresente.
Al di fuori di nicchie a volte anche di una certa importanza, è diventato o diventa onniassente nella vita sociale pubblica o privata.
È la pressione crescente di questa quotidianità che fabbrica l’uomo contemporaneo.
È un dato essenziale per una riflessione cattolica preoccupata di “apertura al mondo” e sempre minacciata di ripiegamento su se stessa.
in “La Croix” del 28 settembre 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)

Catechesi: la frontiera della fede

Nella Chiesa italiana, sia al livello dell’episcopato sia a quello delle comunità cristiane, l’ambito della catechesi è da anni uno tra i più attenti ai cambiamenti che attraversano la società, e di conseguenza alla trasformazione che anche il modo di proporre la fede deve affrontare, per meglio corrispondere ai soggetti che oggi si avvicinano alla comunità credente e alle loro domande.
Gli ultimi dieci anni hanno visto una modificazione piuttosto profonda della catechesi verso un modello d’iniziazione cristiana ispirato al percorso catecumenale, adatto al primo annuncio in un contesto che non può più presupporre la fede; e tale modificazione è stata guidata dai vescovi e insieme portata avanti con molti tentativi e sperimentazioni dalle diverse realtà locali, accompagnate dall’Ufficio catechistico nazionale (cf.
riquadri a p.
491 e 496).
Gli orientamenti pastorali dell’episcopato italiano per il decennio 2010-2020, con a tema la «sfida educativa», saranno d’indirizzo in parte anche per la catechesi, che tuttavia potrebbe essere oggetto, nel prossimo futuro, di un nuovo documento progettuale condiviso e di un ripensamento degli strumenti operativi (i catechismi).
Il testo dell’articolo è disponibile in formato pdf Visualizza il testo dell’articolo Regno-att.
n.14, 2010, p.488

Il deserto fiorito di fratel Carlo

 «Avevo fatto del treno il “luogo” della mia preghiera.
Facevo il pendolare per motivi di lavoro e tu sai cos’è un vagone ferroviario che parte e arriva in città, al mattino e alla sera, stracarico di operai e di studenti.
Chiasso, risate, fumo, trambusto, pigia-pigia.
Io mi sedevo in un angolo e non sentivo nulla.
Leggevo il Vangelo.
Chiudevo gli occhi.
Ascoltavo Dio.
Che dolcezza, che pace, che silenzio! La potenza dell’amore superava la dispersione che cercava di penetrare nella mia fortezza».
Secoli fa correvano nelle aspre solitudini del deserto egiziano, eppure gli eremiti si accorgevano spesso che la città li aveva seguiti col suo frastuono e le sue seduzioni.
Ora forse è possibile il movimento inverso, diventare monaci urbani, creando aree di silenzio nel fragore assordante della modernità.
È ciò che testimoniava autobiograficamente già nel titolo Il deserto nella città, oltre che nel brano sopra citato, Carlo Carretto, una delle figure suggestive della spiritualità italiana contemporanea.
Lo rievochiamo anche noi nel centenario della sua nascita, affidandoci a due suoi ritratti biografici pubblicati proprio per questo anniversario.
La sua vicenda è, per certi aspetti, la  rappresentazione della Chiesa italiana del Novecento in alcuni suoi ambiti rilevanti.
Presidente nazionale della Gioventù Italiana di  Azione Cattolica nel periodo effervescente post-bellico, egli si batterà poi per la “scelta religiosa” di questa associazione, in quegli anni ancora poderosamente influente nel tessuto civile, e la sua Lettera a Pietro divenne una sorta di manifesto per coloro che sostenevano tale opzione, da altri contrastata come rinunciataria e passiva.
In realtà, la presenza di Carretto nell’agorà sociale ed ecclesiale era tutt’altro che arrendevole: le sue scelte talora si scostarono dalla linea ufficiale della Chiesa italiana, come nel caso del referendum sul divorzio, quando aderì al gruppo dei “cattolici per il No”.
Tuttavia il suo itinerario aveva ormai imboccato un’altra direzione, emblematicamente illustrata proprio dal deserto.
Infatti egli si era avviato sulle orme di Charles de Foucauld, il mistico del Sahara algerino, incontrato attraverso la biografia e gli scritti del discepolo René Voillaume, fondatore della congregazione religiosa dei Piccoli Fratelli del Vangelo.
Così, Carretto divenne fratel Carlo, aderendo a quella comunità che egli trapiantò anche in Italia nella Spello umbra, immersa nell’atmosfera francescana.
Da quel momento la sua vita, la sua parola, i suoi scritti furono un riferimento per molti cattolici italiani che sostanzialmente condividevano la famosa esclamazione della citata Lettera a Pietro: «Quanto sei contestabile, Chiesa, eppure quanto ti amo!».
Cercare una sigla riassuntiva per questo eremita nel mondo risulta difficile, proprio per il suo attestarsi sul crinale tagliente tra fede e storia, tra mistica e impegno civile, tra contemplazione e azione.
Si potrebbe accostare fratel Carlo – pur nelle molteplici distanze culturali e spirituali – alla francese Madeleine Delbrêl che si fece assistente sociale per vivere un’esperienza di “mistica quotidiana” nella tormentata banlieue di Ivry, nella cintura parigina, ove morirà sessantenne nel 1964.
Essa scriveva nei suoi Poemetti di Alcide: «Coloro che amano Dio hanno sempre sognato il deserto; per questo a coloro che lo amano Dio non può rifiutarlo».
È il deserto del treno affollato, del quartiere operaio, del romitorio incastonato nella politica e nella vita sociale.
In questo senso può essere adottata per fratel Carlo la definizione che appare già nel titolo della biografia di Gianni Di Santo, Il profeta di Spello.
Certo, è un po’ abusata e crea qualche equivoco, ma la profezia biblica è per eccellenza l’incrocio tra spiritualità e storia, senza il timore di impolverarsi il mantello nelle strade della città degli uomini.
Questa classificazione è, comunque, sostenuta da un’analisi accurata della vicenda personale di Carretto, della sua corrispondenza e delle relazioni che egli intratteneva con le più diverse personalità e tutti coloro che rendevano Spello un crocevia di incontri, sempre però alonati dal silenzio dell’adorazione e della contemplazione.
A questo riguardo è significativa l’altra biografia, affidata a un giornalista, Alberto Chiara, il quale propone una sorta di galleria di testimonianze di figure che hanno avuto la loro vita segnata dall’ascolto di Carretto, pur procedendo poi su percorsi più ramificati: Oscar Luigi Scalfaro, Rosy Bindi, Gian Carlo Sibilia, ma anche curio Colombo e Gianni Vattimo.
Certo, l’eredità di fratel Carlo è custodita da un filone minoritario del complesso panorama dell’attuale cattolicesimo italiano e può rivelare anche profili datati.
Rimane, però, ancor vivo il suo appello alla fedeltà pura e nuda al Vangelo, all’attaccamento sincero alla Chiesa senza però ipocrisie, all’aderenza alla lezione del Concilio Vaticano II ma soprattutto all’amore per Dio e per il prossimo.
L’oasi del silenzio non isola ma feconda la città degli uomini.
E così possiamo ritornare alla scena del treno da cui siamo partiti.
«Ero veramente uno con me stesso e nulla mi poteva distrarre.
Sotto la presa dell’amore divino ero in pace.
Sì, doveva essere proprio l’amore a creare l’unità in me.
Difatti gli innamorati che si trovavano sul treno bisbigliavano tra di loro in perfetta armonia, senza preoccuparsi di ciò che capitava attorno.
Io bisbigliavo col mio Dio».

Gianni Di Santo, «Carlo Carretto il profeta di Spello», San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), pagg. 174, € 12,00;

Alberto Chiara, «Carlo Carretto. L’impegno, il silenzio, la speranza», Paoline, Milano, pagg. 168, € 16,50.

 

in “Il Sole 24 Ore” del 26 settembre 2010

“Il perdono non è scordare ma dare fiducia”

L’intervista «Dimenticare le colpe? Quello lo può fare solo Dio.
Il perdono non può essere cancellazione, né oblio, né gesto di vanità o di arroganza.
È un percorso arduo, faticoso.
È un dono elargito senza opportunismo, nel nome della fiducia nei confronti dell’uomo».
Un’assunzione di responsabilità condivisa, per costruire una giustizia davvero al servizio di una società fondata sui valori più alti: la solidarietà, la pace, la pietà.
È una sfida intellettuale impegnativa quella che lancia padre Enzo Bianchi dal palcoscenico di Torino Spiritualità, dove ieri mattina, nel Cortile di Palazzo Carignano, ha dialogato con Gustavo Zagrebelsky sull’idea del perdono, del perdono concesso al “nemico”, inteso come realizzazione estrema della gratuità.
«Il perdono non è un patteggiamento di pena —  dice il priore di Bose — ma è il fondamento dei rapporti più limpidi e profondi.
È reciprocità.
È la riconciliazione, è l’andare oltre che offre una possibilità di futuro.
E che si applica all’intera vicenda umana, dal privato di un tradimento tra marito e moglie a una grande vicenda storica come il conflitto tra Israele e Palestina».
Padre Bianchi, come distinguere il perdono dall’impunità? «Il perdono non cancella la colpa ma è il riconoscimento che la persona è più grande del male che ha compiuto.
È un atteggiamento costruttivo, che porta a sfuggire il rancore e rinunciare alla vendetta».
Zagrebelsky teme che la deresponsabilizzazione produca una società di eterni bambini erennemente ricondotti allo stato di fanciullezza, che dalla storia dei loro errori non sono in grado di imparare nulla.
È d’accordo? «Questa idea non mi convince e credo non aiuti il futuro.
Non è la fanciullezza la malattia della nostra società, ma l’illegalità.
In questo paese da almeno dieci anni è accettato come un fatto naturale che abbiano diritto di esistenza il sopruso e la mancanza di regole.
È questa la causa dell’imbarbarimento».
Può esistere felicità senza responsabilità? «No.
Se parliamo della beatitudine evangelica, essa non può che realizzarsi nella responsabilità non solo di sé ma anche dell’altro, dell’altro che è mio fratello.
Questa condivisione di responsabilità è la strada che fa crescere tutti e realizza una società matura».
Lei sostiene che una vera “communitas” contrassegnata dalla qualità della convivenza sociale e dalla solidarietà non può escludere “ciecamente” il perdono dal concetto e dalla prassi della giustizia.
Come distinguere questa idea dall’iper-garantismo? «La giustizia contiene in sé il concetto di perdono.
La filosofia del diritto lo sta elaborando.
L’idea di perdono non esclude quella di memoria.
La colpa va ricordata, non dimenticata né cancellata.
Il fine di una società umana costruita sull’amore deve lavorare per la riconciliazione e per la riabilitazione di chi ha peccato».
Riconciliazione in Sudafrica, in Israele.
E qui, in Italia, tra carnefici e vittime del terrorismo.
È possibile? «Il cammino della riconciliazione è difficile.
Nel privato è affidato alla coscienza e ai sentimenti dei parenti delle vittime.
Ma a livello politico mi pare che lo Stato abbia già perdonato, attraverso l’indulto o gli sconti di pena.
Il che non significa annullare la responsabilità ma offrire a chi ha commesso un delitto una via d’uscita per non essere identificato con la propria colpa e  ricominciare una vita con dignità.
C’è una virtù in tutti gli uomini, che la Bibbia chiama “immagine e somiglianza di Dio”, che nessun misfatto può cancellare del tutto».
Non crede che il buddismo, che quest’anno a Torino Spiritualità è stato protagonista con tre grandi maestri tibetani, abbia riposte più efficaci del Cristianesimo ai disagi interiori dell’uomo contemporaneo? «Credo che la religione cristiana abbia qualcosa da imparare dal buddismo in materia di compassione e il buddismo dalla religione cristiana sul tema del perdono.
Ma mi pare che l’approccio alle discipline orientali sia più intellettuale che autenticamente spirituale.
È effetto della globalizzazione.
Tutti vogliono conoscere un po’ di tutto.
Ma non credo al bricolage dell’anima.
Prendere sulle bancarelle un po’ di questo e un po’ di quello non può produrre che una spiritualità omologata e superficiale.
Un pizzico di tutto non fa la buona cucina».
in “la Repubblica” del 26 settembre 2010

Ecologia e religione

 Il testo è un estratto dall’intervento con cui il cardinal Scola apre oggi I Dialoghi di San Giorgio della Fondazione Giorgio Cini, sul tema Protecting nature or saving creation? Ecological conflicts and religious passions.
Il testo integrale su www.angeloscola.it Sono in grado le religioni, come hanno potuto fare in altri campi in passato, di mobilitare energie che contribuiscano ad una vera e propria conversione ecologica? Questo domanda una sorta di escatologia radicale, come afferma Latour, cioè un lungo e lento cambiamento che investe molti ambiti, riferito ad una enorme quantità di dettagli e, soprattutto, dipendente da un’infinità di gesti che, ecco la cosa più ardua, chiedono un rovesciamento di mentalità a miliardi di persone.
Le passioni religiose possono venire in soccorso alla deboli energie che oggi sembrano caratterizzare i numerosi conflitti ecologici? La domanda contiene un invito, neppure troppo implicito, a porre in modo radicalmente nuovo il rapporto eco-logia e teo-logia, per affrontare scopertamente i conflitti interni ai due mondi.
Mi limito ad un suggerimento di carattere generale.
Non voglio entrare nel dibattito sulla nozione di natura, che quasi tutti, sia in campo scientifico che in campo teologico, danno ormai come spacciata e considerano responsabile di quasi tutti i mali che affliggono l’umanità.
Personalmente sono dell’idea che, dal momento che sempre qualcosa si dà a qualcuno, un quid ultimo sia ineliminabile.
E, fin da Aristotele, cos’era la fysis se non questa molteplice, dinamica datità? Tuttavia è vero, e lo è in modo particolare per il cristianesimo, che in nessun modo si può parlare di natura se non in termini di creatura.
Ed è proprio una adeguata riflessione sulla creazione ad aprire la via per ripensare il rapporto tra ecologia e teologia.
La creazione infatti mette in campo la relazione.
E l’uomo postmoderno si trova posto di fronte ad una bruciante alternativa.
Passata l’epoca delle utopie, con il fitto buio che ha gettato sul secolo scorso, l’antropologia postmoderna assume un marcato carattere pascaliano.
Ha l’andamento della pregnante scommessa intorno ad un’alternativa radicale: l’uomo del terzo millennio vuole essere solo l’esperimento di se stesso o vuole essere un io-in-relazione? L’antropologia per essere adeguata deve essere drammatica.
Deve accettare che l’uno insuperabile in cui l’io consiste si dia sempre in modo duale.
Sono uno, per questo posso dire io, ma sono sempre uno di due: uno di anima-corpo; uno di uomo-donna; uno di individuo-comunità, uno di uomo-cosmo.
Pertanto l’alterità mi costituisce come dimensione interna all’io, che per questo non può esistere se non in relazione.
È lo stesso carattere drammatico o polare dell’io a mostrarlo apertamente.
Per questo il modo giusto di nominare l’io è io-in-relazione.
L’intrecciarsi delle polarità costitutive rivela l’autentico rapporto di creazione, come la permanente amorosa relazione di Colui che chiama all’essere tutta la realtà e continua ad accompagnarla.
Secondo la tradizione giudaica e quella cristiana Dio ha fatto della relazione d’amore la ragione del suo compromettersi con la famiglia umana lungo tutta la storia.
Egli, per il popolo ebraico e per i cristiani è il Dio con noi, dove il noi mette in campo tutte le polarità-relazioni costitutive cui abbiamo fatto cenno.
La relazione, sempre polare, dell’io con se stesso, con gli altri, con il cosmo con Dio è la strada inevitabile per poter dire io in maniera umanamente soddisfacente.
Come non vedere in questa prospettiva l’improcrastinabile compito di inscrivere la buona relazione con il creato nei cerchi intersecantesi delle altre relazioni costitutive? Questo suggerimento, me ne rendo conto, è troppo generale per non rischiare di essere ovvio.
Tuttavia mi sembra in grado di mostrare il ponte che esiste tra ecologia e teologia.
Ponte che anche le scienze più avvedute oggi stanno costruendo, avendo abbandonato una vulgata ecologista fondata su un mitico ritorno alla natura buona ed innocente.
È vano il grido di Baudelaire: Pan è tornato!.
Tanto meno si può dar credito ad Assmann quando parla di Mosè come l’egiziano.
La via dell’incontro urgente e collaborativo tra ecologia e teologia è quella di continuare, con amore, la logica della creazione.
Una logica ad un tempo scientifica, religiosa e politica.
Per questo è logica di giustizia e di sviluppo integrale dell’umanità.
Le religioni possono dire la loro in merito alle questioni ambientali quando si esprimono in soggetti, personali e comunitari, disponibili alla narrazione e impegnati a mostrare le ragioni valide di un’adeguata esperienza umana.
Le religioni infatti aprono all’universale concreto perché consentono ad ogni singolo di fare spazio al desiderio infinito che lo abita a cui nessuna natura potrà mai bastare.
Angelo Scola, Patriarca di Venezia, in “La Stampa” del 13 settembre 2010

I geni non spiegano il genio

Determinismo o libero arbitrio? Questo antico dibattito torna oggi d’attualità nella ricerca genetica e in quella sui neuroni.
Veniamo generati nei nostri geni? I geni esistono nella loro peculiarità prima che sorga la nostra coscienza? Pilotano il nostro io nei suoi comportamenti? Determinano quindi il corso delle nostre vite e spiegano perché diventiamo come siamo?  Il noto giornalista americano David Brooks ha scritto nel 2007 ( Herald Tribune ): «Dal contenuto dei nostri geni, dalla natura dei nostri neuroni e dalla lezione della biologia evoluzionista è diventato chiaro che la natura è costituita da competizione e conflitti di interessi.
L’umanità non è venuta prima delle lotte per la propria affermazione, le lotte per l’affermazione sono profondamente radicate nelle relazioni umane».
Ne traeva come conseguenza la naturale disposizione alla competitività del capitalismo e una ‘visione del mondo tragica’: «Siccome la natura umana è predisposta così aggressivamente alla lotta per il potere abbiamo bisogno di uno Stato forte, di un’educazione dura e di una visione del  mondo tragica».
Si tratta del risultato di una ricerca o dell’interesse di un’ideologia? Io credo si tratti di pura ideologia naturalistica, perché si fonda sulla riduzione dell’imprevedibile sistema ‘uomo’ ai suoi geni e neuroni prevedibili.
Così sorge la fatale impressione di vivere in un mondo chiuso nella sua causalità, come se la nostra libertà, che pure percepiamo nel «tormento della scelta», fosse un’illusione.
Se così fosse qualsiasi criminale davanti a un tribunale dovrebbe appellarsi all’incapacità di intendere e di volere, per poi  essere assolto in quanto non imputabile.
Craig Venter è stato il primo a decifrare il genoma umano.
Ha decodificato anche il proprio genoma, che è stato pubblicato su tutti i maggiori quotidiani.
Se lo potessimo leggere sapremmo poi chi è Craig Venter? Se egli stesso può leggerlo viene poi a conoscere se stesso? Quando l’ho incontrato di persona a Taiwan due anni fa mi ha raccontato quanto la guerra in Vietnam, combattuta da giovane, lo avesse cambiato.
Il suo genoma non esprime nulla di tutto ciò, naturalmente, ma allora perché la tesi deterministica secondo la quale saremmo pilotati dai nostri geni e non avremmo alcuna libertà di reagire alle esperienze di guerra in questo o quell’altro modo? Facciamo ancora un esempio: nella rivista scientifica Nature Genetics è uscito di recente un articolo nel quale veniva dimostrato da ricerche svolte in tutto il mondo che sono i geni a determinare se i giovani diventino o meno fumatori.
Lo studio documentava per la prima volta i fattori genetici a causa dei quali nei recettori cerebrali della nicotina si determina in quale modo si sviluppi la dipendenza e il comportamento rispetto al fumo.
Io ho fumato molto dal 1956 al 1976, poi ho smesso da un giorno all’altro.
Come ho potuto farlo? La ricerca genetica, per quanto ho potuto seguirla, ha da tempo oltrepassato, nei suoi seri esponenti, questo riduzionismo ideologico.
L’immagine della competitività del gene egoista, delineata da Richard Dawkins nel 1978, è influenzata dal darwinismo sociale.
I geni sono di fatto più flessibili dei corpi solidi, si «attivano e disattivano» e reagiscono essi stessi agli influssi ambientali.
Le nostre esperienze e le nostre relazioni con altre persone, in cui facciamo esperienza di accoglienza o di rifiuto, influenzano anche il funzionamento dei nostri geni.
Il medico tedesco Joachim Bauer, che si occupa di psicosomatica, afferma quindi: «I geni non pilotano soltanto, sono anche pilotati» ( Principio Umanità, 2006).
Anche nelle ricerche sull’intelligenza vengono considerate oggi più le condizioni di vita che le predisposizioni genetiche.
Giungo al risultato secondo cui il determinismo genetico e neurologico non è in grado di abolire la nostra libertà, la nostra responsabilità né la nostra imputabilità.
Lo si può approvare o rincrescersi, ma le ideologie non spiegano solo i risultati di alcune ricerche, rappresentano anche sempre gli interessi di una parte.
Chi ha oggi interesse ad abolire la nostra libertà e a rendere manipolabili gli uomini? (traduzione dal tedesco di Daria Dibitonto) in “Avvenire” del 12 settembre 2010