Una “cattedrale” della Parola di Dio, con meravigliose vetrate aperte sul mondo; un trattato complesso ma fruibile da tutti, che si muove seguendo il filo d’oro di quel capolavoro teologico e letterario che è il prologo del Vangelo di Giovanni.
È l’esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini di Benedetto XVI, presentata questa mattina, giovedì 11 novembre, nella Sala Stampa della Santa Sede.
Frutto dei lavori della dodicesima assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi – svoltasi dal 5 al 26 ottobre 2008 sul tema “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa” – il documento è diviso in tre parti: Verbum Dei, Verbum in Ecclesia, Verbum mundo, racchiuse da una Introduzione che ne indica gli scopi e una Conclusione che ne sintetizza le idee portanti.
Invitati a descriverne il contenuto il cardinale Marc Ouellet, prefetto della Congregazione per i Vescovi e relatore generale di quel Sinodo, che l’ha riletta soprattutto alla luce del “paradigma mariano della rivelazione”; l’arcivescovo Nikola Eterovic, segretario generale del Sinodo dei vescovi, che ne ha sintetizzato la struttura e i contenuti; il sotto-segretario dello stesso dicastero, monsignor Fortunato Frezza, che ne ha evidenziato gli aspetti connessi alla liturgia; e l’arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura e presidente della commissione per il messaggio a quello stesso Sinodo, che ne ha offerto una chiave di lettura indicando i tre orizzonti verso i quali orientarsi: l’ermeneutica, la casa o meglio la chiesa nella quale si comunica la Parola, e la strada, cioè il mondo nel quale la Parola si diffonde.
Il documento – ha fatto notare Ravasi – “inizia e termina con la parola gioia.
Un chiaro invito a riscoprire questo sentimento in un periodo come il nostro dominato dalla caduta dell’etica”.
Verbum Domini Conferenza Stampa di presentazione dell’Esortazione Apostolica postsinodale di Sua Santità Benedetto XVI (©L’Osservatore Romano – 12 novembre 2010)
Categoria: Formazione
62ma Assemblea generale dei vescovi italiani
La 62ª Assemblea Generale della CEI si è aperta nel pomeriggio dell’8 novembre 2010, ad Assisi, con la prolusione del Card.
Angelo Bagnasco, Presidente della CEI.
Subito dopo il Nunzio Apostolico in Italia, S.E.
Mons.
Giuseppe Bertello, ha letto ai Vescovi il saluto del Papa.
Il giorno seguente, dopo la Celebrazione Eucaristica nella Basilica di Santa Maria degli Angeli, si è passati all’esame della prima parte dei materiali della terza edizione italiana del Messale Romano.
Il 10 novembre il Presidente della CEI presiederà la celebrazione eucaristica nella Basilica Inferiore di Assisi.
La riflessione dei Vescovi si porterà poi sul ruolo e i rapporti fra le Chiese e l’Unione Europea.
Sarà presentata una proposta di rilancio delle erogazioni liberali per il sostentamento del clero e il Libro bianco informatico delle opere realizzate grazie all’otto per mille.
Saranno fornite informazioni circa lo stato di avanzamento della rilevazione delle opere sanitarie e sociali ecclesiali in Italia, la XXVI Giornata mondiale della gioventù (Madrid, 16-21 agosto 2011), il XXV Congresso Eucaristico Nazionale (Ancona, 3-11 settembre 2011), il VII Incontro mondiale delle famiglie (Milano, 30 maggio – 3 giugno 2012).
Suddivisi in piccoli gruppi, i Vescovi si confronteranno sulle proposte di attuazione pratica degli Orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020, recentemente pubblicati.
Comunicato Stampa 62a Assemblea Generale CEI.doc Prolusione card.
Bagnasco Messaggio Benedetto XVI Omelia Card.
Bagnasco Crociata: «Vescovi vicini al sentire della gente» Crociata: attenzione maggiore per la famiglia I vescovi italiani reclamano «un’attenzione maggiore e una cura più grande» nei confronti delle famiglia in una situazione economica nella quale «rischiano di essere quelle più dimenticate».
E ricordano che le scelte elettorali dei cattolici debbono basarsi su una attenta vautazione «delle prese di posizione e delle iniziative» dei partiti, nella quale il criterio suggerito dalla Chiesa è quello «culturale e valoriale, più e prima che direttamente politico».
Lo afferma il segretario della Cei,mons.
Mariano Crociata, che nella prima conferenza stampa ad Assisi per fare il punto sui lavoro dell’assemblea della Conferenza episcopale, ha ricordato che la Cei è preoccupata per «i problemi concreti, quelli del lavoro, della disoccupazione, un dramma di cui le famiglie si fanno carico in tanti modi non trovando sostegno altrove».
Crociata ha sottolineato anche che «chi è più in evidenza, chi sta più in primo piano ha un’incidenza maggiore, sul piano della comunicazione, per lo stile di vita e i valori».
Ma ha tenuto a prendere le distanze dalla ricerca di «capri espiatori» nell’uno o nell’altro dei partiti: «ad avere una rilevanza pubblica, a proiettare un’immagine pubblica siamo in tanti, a diversi livelli.
Anche noi vescovi, voi giornalisti, i vostri direttori».
«Solo così – ha scandito – il nostro discorso non è moralismo ma richiamo alle gravi responsabilità che tutti abbiamo nei confronti della collettività».
No allo scaricabarile delle responsabilità «Potrà apparire troppo generico, spero non qualunquistico – ha aggiunto il vescovo – ma ritengo che il senso della democrazia sia proprio questo sentirci tutti corresponsabili, anche se non nella stessa misura e modo».
«Se tante cose non funzionano – ha aggiunto – è perchè continuiamo a fare questo gioco di scarico delle responsabilità, la ricerca di un solo responsabile, di un capro espiatorio.
La prospettiva di un’antropologia negativa, di un cambiamento costume degli italiani è una cosa che tocca profondamente noi vescovi, una cosa che ci diciamo tra preti.
Ma dobbiamo anche dirci – ha detto ancora Crociata – che tutto questo non è il prodotto di una sola causa, per quanto le cause non sono tutte uguali.
Dobbiamo essere onesti nel guardare a tutte le cause nella loro articolazione, perchè solo così riusciremo ad affrontare i problemi».
Quanto alla nuova leva di politici cattolici richiesta da Benedetto XVI, Crociata ha confermato l’impegno della Chiesa per la formazione dei cattolici impegnati in politica che, ha detto, «deve essere rivisitato e riformulato nel nostro tempo che chiede risposte sempre nuove», mentre fin da subito «ci sono persone che hanno responsabilità pubblica ed hanno bisogno di essere accompagnati come credenti impegnati in politica.
Una presenza che – ha assicurato il presule – non vogliamo trascurare insieme all’accompagnamento di chi va avanti».
Vescovi vicini al sentire della gente I vescovi riuniti ad Assisi per la loro Assemblea straordinaria «si ritrovano – dunque – nell’orizzonte tracciato dal card.
Angelo Bagnasco nella sua prolusione di ieri con varietà e vivacità di voci ma con intento unitario e costante che trova nel magistero del Santo Padre un punto sentito di unità e di accordo».
Anche se è emersa, e non poteva essere altrimenti, una «varietà di sensibilità nell’unitarietà della premura» in quanto come è noto anche all’interno dell’Episcopato italiano oggi «lo spettro di sensibilità è abbastanza variegato».
Tutti i vescovi, comunque, «sono preoccupati di trovare nella radice pastorale del loro ministero la motivazione da cui partire e da tenere sempre presente per guardare ai problemi sociali, economici e culturali che il paese vive e che tutti stiamo attraversando».
Essi, del resto, «vivono un rapporto diretto con il territorio e la gente.
I loro interventi sono il riflesso della riflessione su quanto hanno ascoltato dal cardinale presidente Bagnasco e sui problemi di carattere nazionale, ma, nello stesso tempo, sono espressione di un’esperienza che raccoglie le domande, le attese, i problemi che la gente delle tante diocesi d’Italia si trova a vivere in una sintesi che permette di cogliere una nazione reale, un popolo cristiano molto unitario ma anche con molta complessità e varietà dei mille territori e comuni in cui si articola il Paese».
Ieri la prolusione del cardinale Bagnasco «La politica deve interessare i cattolici, e deve entrare nella loro mentalità un’attitudine a ragionare delle questioni politiche senza spaventarsi dei problemi seri che oggi, non troppo diversamente da ieri, sono sul tappeto».
È questo uno dei passi salienti della prolusione tenuta del card.
Angelo Bagnasco, presidente della Cei, alla 62ma Assemblea generale dei vescovi italiani, che si è aperta ieri, lunedì, ad Assisi, fino all’11 novembre.
Nel testo, il cardinale esorta i cattolici ad adottare in politica «un giudizio morale che non sia esclusivamente declamatorio, ma punti ai processi interni delle varie articolazioni e responsabilità sociali e istituzionali».
«Famiglie in difficoltà, adulti che sono estromessi dal sistema, giovani in cerca di occupazione stabile anche in vista di formare una propria famiglia»: queste, per il card.
Bagnasco, le «situazioni che continuano a farsi sentire», in tempo di crisi.
Di qui la richiesta che «le riforme in agenda siano istruite nelle maniere utili», in modo da assicurare «maggiore stabilità per il Paese intero».
Per quanto riguarda la «scena politica», il presidente della Cei parla di «caduta di qualità, che va soppesata con obiettività, senza sconti e senza strumentalizzazioni, se davvero si hanno a cuore le sorti del Paese, e non solamente quelle della propria parte».
«Se la gente perde fiducia nella classe politica, fatalmente si ritira in se stessa», l’ammonimento della Cei, che in politica raccomanda una «tensione necessaria tra ideali personali, valori oggettivi e la vita vissuta, tra loro profondamente intrecciati».
Per i vescovi italiani, «non è più tempo di galleggiare», perché il rischio «è che il Paese si divida non tanto per questa o quella iniziativa di partito, quanto per i trend profondi che attraversano l’Italia e che, ancorandone una parte all’Europa, potrebbero lasciare indietro l’altra parte.
Il che sarebbe un esito infausto per l’Italia, proprio nel momento in cui essa vuole ricordare – a 150 anni dalla sua unità – i traguardi e i vantaggi di una matura coscienza nazionale».
Il presidente della Cei chiede quindi un «esame di coscienza» e propone di «convocare ad uno stesso tavolo governo, forze politiche, sindacati e parti sociali e, rispettando ciascuno il proprio ruolo ma lasciando da parte ciò che divide, approntare un piano emergenziale sull’occupazione».
«Grande vicinanza», poi, nei confronti delle «popolazioni che di recente sono state colpite da esondazioni e allagamenti».
«Calamità naturali», ma anche «incuria e imperizia troppo spesso riservate all’habitat umano» dimostrano che l’Italia ha bisogno «di un piano puntuale di messa in sicurezza del territorio», cui va data priorità.
Aspettarci che i cattolici circoscrivano il loro apporto nell’ambito sempre importante della carità – ha ribadito il presidente della Cei – significa scadere in una visione utilitaristica, quando non anche autoritaria.
I cattolici non possono consegnarsi all’afasia, ideologica o tattica: se lo facessero tradirebbero le consegne di Gesù ma anche le attese specifiche di ogni democrazia partecipata.
«Dobbiamo muoverci senza complessi di inferiorità», questa l’esortazione del card.
Bagnasco: «Siamo, e come, interessati alla vita della società; in essa ci si coinvolge con stile congruo, ma a determinarci non solo l’istinto di far da padroni né le logiche di mera contrapposizione».
Di qui l’invito a reagire al «conformismo»: «Se i credenti conoscono solo le parole del mondo, e non dispongono all’occorrenza di parole diverse e coerenti, verranno omologati alla cultura dominante o creduta tale, e finiranno per essere anche culturalmente irrilevanti».
«La mitezza non è scambiabile con la mimetizzazione, l’opportunismo, la facile dimissione dal compito», ha proseguito il cardinale, che ha esortato a salvare «l’autonomia della coscienza credente rispetto alle pressioni pubblicitarie, ai ragionamenti di corto respiro, ai qualunquismi, alle lusinghe».
Cattolici «scomodi»? Talvolta forse sì, ma «non per posa o per pregiudizio, quanto per sofferta, umile, serena coerenza».
Infine Bagnasco chiede un «piano emergenziale sull’occupazione» messo a punto da governo, forze politiche, sindacati e parti sociali in spirito di collaborazione.
«È possibile – chiediamo rispettosi – convocare ad uno stesso tavolo governo, forze politiche, sindacati e parti sociali e, rispettando ciascuno il proprio ruolo ma lasciando da parte ciò che divide, approntare un piano emergenziale sull’occupazione? Sarebbe un segno – osserva Bagnasco – che il Paese non potrebbe non apprezzare».
Il messaggio del Papa: nella famiglia si plasma il volto di un popolo È all’interno della famiglia «che si plasma il volto di un popolo».
Per questo «è quanto mai opportuna» la scelta dei vescovi italiani di «chiamare a raccolta intorno alla responsabilità educativa tutti coloro che hanno a cuore la città degli uomini e il bene delle nuove generazioni».
E di porre questa «alleanza» accanto alla famiglia, al fine di riconoscerne e sostenerne «il primato educativo».
Lo scrive il Papa nel messaggio inviato ieri all’Assemblea dei vescovi italiani riuniti ad Assisi e letto in aula dal nunzio in Italia, monsignor Giuseppe Bertello.
La sfida della Spagna dai due volti
Il viaggio di Benedetto XVI in Spagna sembrava una combinazione occasionale tra due inviti.
Invece è stato un messaggio unitario: la visita alle due Spagne (quella cattolica e quella moderna e laica).
Santiago rappresenta la prima.
Barcellona, città europea in sviluppo e di grande turismo, esprime la Spagna laica.
Le due Spagne si fronteggiano sulla visione del futuro, sulla famiglia, sulla religione.
Dietro di loro sta la memoria della guerra civile.
Nel sistema politico spagnolo o vince l’una o l’altra.
La sfida è irriducibile e più profonda della politica.
In aereo, il Papa ha definito la Spagna come «Paese originario del cristianesimo».
Ma ha aggiunto correttamente: «In Spagna è nata anche una laicità, un secolarismo, forte e aggressivo, come abbiamo visto negli anni Trenta».
Il Papa non si è gettato nel conflitto.
Non ha nemmeno adattato irenicamente il suo messaggio.
Ha confermato però il passo lieve, non incerto, con cui venne a Valencia nel 2006, quando Zapatero era quasi agli inizi.
Si è presentato con ingenuità sapiente.
Sa che «questo scontro tra fede e modernità, ambedue molto vivaci, si realizza anche oggi di nuovo in Spagna».
Eppure gli europei — come diceva Benedetto Croce — non possono non dirsi cristiani; ma sono anche figli di una storia «laica».
Per Benedetto XVI la tragedia europea è «la convinzione che Dio è l’antagonista dell’uomo e il nemico della libertà», ha detto.
Di questo antagonismo il Papa misura tutta la profondità culturale, antropologica e politica.
Con ingenuità, non da antagonista, ha parlato della bellezza del cristianesimo.
Lo ha fatto con un modo che sfugge all’ autoreferenzialità di tanti discorsi ecclesiastici in Europa, incapaci di superare le soglie delle chiese.
Proprio nella moderna Barcellona, la città spagnola più lanciatasi dopo il franchismo nella sfida della crescita, è venuto in aiuto al Papa il genio laico e credente di Antoni Gaudí.
Il grande architetto catalano ha gettato le basi del più importante monumento religioso dell’Europa contemporanea, la Sagrada Familia.
Morto nel 1926, ha lasciato alle generazioni successive l’impegno di completare una chiesa che, a un pensiero utilitaristico, appariva interminabile e grandiosa.
Fortunatamente la passione catalana ha perseverato nella costruzione.
Benedetto XVI ha individuato nell’opera «carismatica» di Gaudí il superamento della «scissione tra coscienza umana e coscienza cristiana… tra la bellezza delle cose e Dio come Bellezza».
La basilica parla della Sacra Famiglia, tema caro ai cattolici per la difesa della famiglia, ma anche emblematico per esprimere i legami nella comunità nazionale e tra i popoli.
Benedetto XVI ha invitato a difendere famiglia, vita, natalità.
Ha chiesto «che in questa terra catalana si moltiplichino e consolidino nuovi testimoni di santità».
Anche all’autonoma Catalogna ha additato un futuro cristiano.
Benedetto XVI non vuole adattare la Chiesa all’agenda della modernità.
Ma non ci si può solo combattere.
In qualche modo bisogna varcare le frontiere e compenetrarsi.
Non è storia di un giorno o un accordo politico.
Il «grande disegno» di papa Ratzinger sembra come la Sagrada Familia, iniziata nel 1883: non solo per i tempi lunghi della costruzione, ma per la convinzione che la bellezza sia decisiva nel cristianesimo.
L’idea di bellezza parla di una Chiesa non minimalista e alla rincorsa dei tempi, ma nemmeno arcigna e antagonista.
Nel quadro solenne della consacrazione della chiesa, Benedetto XVI è stato chiaro: «Questo è il grande compito, mostrare a tutti che Dio è Dio di pace e non di violenza, di libertà e non di costrizione, di concordia e non di discordia».
La Chiesa dev’essere bella, come la Sagrada Familia, «in un’epoca in cui — ha detto — l’uomo pretende di edificare la sua vita alle spalle di Dio, come se non avesse più niente da dirgli».
C’è un messaggio al mondo, ma ce n’è un altro esigente per la Chiesa: che sia «icona della bellezza divina».
Sono due sfide in una Spagna divisa in due, per un Papa tenace.
in “Corriere della Sera” dell’8 novembre 2010
La “rivoluzione demografica”
Per il professor Ettore Gotti Tedeschi, economista e banchiere, presidente dell’Istituto per le Opere di Religione, la banca del Vaticano, la causa prima della crisi economica dell’Occidente è il crollo della natalità.
Gotti Tedeschi sostiene questa tesi da tempo, con molto vigore.
E la argomenta in frequenti conferenze ed articoli su “L’Osservatore Romano”.
Alcuni continuano però a pensare che a bloccare lo sviluppo economico non sia la diminuzione ma l’aumento incontrollato delle nascite.
Uno dei più accesi propagandisti di questa tesi neomalthusiana è un celebre professore di scienza della politica, con cattedra per molti anni a New York, il professor Giovanni Sartori, editorialista di spicco del maggior quotidiano italiano, il “Corriere della Sera”, dalle cui colonne attacca ripetutamente la Chiesa cattolica in quanto paladina di “una crescita demografica dissennata”, foriera solo di disastri.
Le due tesi sono opposte e del tutto inconciliabili.
A parere di Gotti Tedeschi, non è sufficiente a risolvere la crisi economica nei paesi occidentali neppure una compensazione del crollo della natalità tramite gli immigrati.
Su questo punto, però, non tutti sono d’accordo in tutto con lui.
Non solo tra i demografi, ma neppure in quel “think tank” della Santa Sede che è “La Civiltà Cattolica”, la rivista dei gesuiti di Roma le cui bozze, per statuto, sono lette e controllate prima della stampa dalla segreteria di stato vaticana.
Su “La Civiltà Cattolica” del 2 ottobre il direttore dell’autorevole rivista, il gesuita GianPaolo Salvini (nella foto), ha dedicato undici pagine a presentare un libro di due demografi i quali sostengono, cifre alla mano, che in Italia la popolazione non è affatto in declino, ma vive anzi una nuova “rivoluzione demografica”, nella quale le forti immigrazioni, l’aumento della durata della vita, la ripresa della natalità, la tenuta dei legami fra genitori e figli interagiscono tra loro in modo positivo.
Gli autori del libro sono Francesco C.
Billari, dell’Università Bocconi di Milano, e Gianpiero Dalla Zuanna, dell’Università di Padova.
Di quest’ultimo, www.chiesa ha recensito lo scorso settembre un saggio sul controllo delle nascite nella pratica pastorale della Chiesa.
Il libro recensito con evidente favore da padre Salvini è il seguente: F.C.
Billari, G.
Dalla Zuanna, “La rivoluzione nella culla.
Il declino che non c’è”, Università Bocconi Editore, Milano, 2009. L’Italia è un caso di studio di prima importanza, tra i paesi occidentali, riguardo agli andamenti demografici e ai flussi migratori.
Il 27 ottobre, commentando sul “Corriere della Sera” l’ultimo rapporto annuale della Caritas-Migrantes sull’immigrazione, diffuso il giorno precedente, il professor Dalla Zuanna ha scritto: “Oggi vivono in Italia cinque milioni e mezzo di stranieri, undici volte di più rispetto al 1990.
Questa crescita ha conseguenze profonde su demografia, economia, società e cultura.
L’invecchiamento è rallentato, perché gli stranieri hanno in media 30 anni, contro i 45 degli italiani.
Oggi i giovani stranieri sostituiscono i figli che i genitori italiani non hanno voluto o potuto avere”.
Ma subito dopo ha aggiunto, prudentemente: “È difficile dire in che misura gli stranieri influenzano lo sviluppo economico”.
Quanto a padre Salvini, a riprova della sua competenza in materia, è uscito la scorsa primavera un libro a tre voci da lui scritto assieme a un economista dell’Università di Chicago e al direttore editoriale del Gruppo Il Sole 24 Ore: GianPaolo Salvini, Luigi Zingales, Salvatore Carrubba, “Il buono dell’economia.
Etica e mercato oltre i luoghi comuni”, Università Bocconi Editore, Milano, 2010. Verso la fine della sua recensione al saggio di Billari e Dalla Zuanna, il direttore della “Civiltà Cattolica” sostiene che per far progredire l’economia la crescita demografica dovrebbe essere comunque “moderata”, col ricorso alla “procreazione responsabile” raccomandata dal magistero della Chiesa e da ultimo dall’enciclica “Caritas in veritate”.
Ecco qui di seguito un estratto della recensione di padre Salvini, uscita sul quaderno 3847 della “Civiltà Cattolica”, con la data del 2 ottobre 2010.
__________ DECLINO DEMOGRAFICO E IMMIGRAZIONE IN ITALIA di GianPaolo Salvini La tesi di fondo [dei demografi Francesco C.
Billari e Gianpiero Dalla Zuanna] è che la popolazione italiana, nel suo complesso, non è affatto in declino, neppure statisticamente, grazie alla massiccia immigrazione dall’estero.
[…] Nel giugno 2008 in Italia (calcolando anche gli stranieri in attesa di regolarizzazione) vivevano 60 milioni e 300.000 persone, cioè quasi tre milioni in più rispetto a dieci anni prima.
In alcune città, come Milano, Torino e Firenze, la fecondità è del 40-50 per cento più alta che a metà degli anni Novanta.
“Nell’ultimo decennio, la rapidità dell’invecchiamento è diminuita, malgrado il continuo aumento della sopravvivenza degli anziani, grazie all’ingresso di tre milioni di nuovi giovani cittadini, provenienti spesso da paesi lontani.
[…] Ciò che sta accadendo oggi e le tendenze per l’immediato futuro suggeriscono che è nata, e cresce oggi nella culla, una vera e propria rivoluzione demografica.
Proprio così: rivoluzione, non declino.
Almeno per i prossimi venti o trent’anni saranno attivi potenti meccanismi che permetteranno alla popolazione italiana di rinnovarsi, senza invecchiare in maniera socialmente insostenibile.
[…] Come mai invece la maggioranza degli osservatori continua a parlare di declino demografico e a sottolineare l’inevitabile squilibrio che si va producendo tra persone in età lavorativa e i pensionati? Anzitutto perché ci si basa su previsioni sbagliate, cominciando da quelle della divisione dell’ONU per la popolazione.
[…] Secondo i due demografi le proiezioni indicate non sono attendibili, in primo luogo perché la popolazione di partenza è largamente sottostimata, poiché non si tiene conto degli stranieri irregolari ma stabilmente presenti in Italia.
Questi, si voglia o no, saranno prima o poi quasi tutti regolarizzati, come è sempre avvenuto negli ultimi 15 anni.
Ma inoltre l’ONU suppone che nei prossimi 20 anni entreranno in Italia 140.000 immigrati ogni anno, mentre nel periodo tra il 1999 e il 2004 gli ingressi in Italia sono stati di circa 300.000 all’anno, e si sono mantenuti su questa cifra anche nel triennio successivo.
Se la tendenza continuasse, non diminuirebbero né i lavoratori né i minori di 20 anni, anche se gli anziani continuerebbero ad aumentare a causa del progressivo allungamento della vita media, e del fatto che arriveranno alla pensione i molti figli del baby boom, nati tra il 1950 e il 1970.
[…] Per molti perciò l’immigrazione è un freno allo sviluppo economico o, al massimo, un rimedio, insufficiente, per compensare l’incepparsi dei normali meccanismi di ricambio della popolazione, cioè natalità e mortalità, che in molte lingue sono tuttora considerate le sole due componenti “naturali” dell’evoluzione demografica.
Ma quando gli studiosi “parlano di ricambio naturale o di ricambio migratorio, più o meno consapevolmente formulano un giudizio di valore (‘per la demografia un nato è meglio di un immigrato’), scherzando con il fuoco del pregiudizio razzista e nazionalista”.
[…] È bene rievocare anche la storia passata dell’Italia, che ha sempre conosciuto profondi rimescolamenti di popolazione sia da una regione all’altra, sia provenienti dall’estero: tedeschi in varie valli delle Alpi, greci e albanesi al sud ecc.
Tesi del libro che presentiamo è che “una popolazione chiusa ai modelli migratori, con meno di due figli per donna, è destinata inevitabilmente a invecchiare e – alla lunga – a scomparire, anche quando la mortalità è molto bassa”.
A quanto detto si può aggiungere che in Italia il fenomeno dell’immigrazione dai paesi poveri non solo si è verificato più tardi che in altri paesi europei (alcuni già abituati, fra l’altro, a reclutare manodopera non qualificata nelle loro colonie), ma è avvenuto con una velocità del tutto imprevista, il che costituisce un vero primato.
Nell’ottobre 1981 erano stati censiti 210.000 stranieri residenti in Italia, dei quali solo 60.000 nati in paesi più poveri dell’Italia.
A metà del 2008 vivevano stabilmente in Italia più di 4 milioni di stranieri, quasi tutti provenienti dai paesi poveri.
[…] Le zone con forte flusso di immigrati sono spesso quelle [economicamente] più dinamiche, ed è un dinamismo destinato a protrarsi.
Un terzo dei nuovi assunti nel Veneto nel 2007 era straniero.
Non occorre molto per capire che nelle aree dove ci sono molti benestanti viene richiesta una manodopera che si occupi delle attività che il benessere acquisito consente di evitare, ma che sono indispensabili per vivere bene: pulire le case, fare da mangiare, lavare i vestiti ecc.
Anche se il fenomeno può essere deplorato sotto molti aspetti, è probabile che gli italiani continuino a fare pochi figli, cioè meno di 1,5 per ogni donna.
[…] Il rinnovo della popolazione italiana, lo si voglia o meno, sarà perciò assicurato dagli immigrati stranieri.
[…] Il problema che si pone è di sapere se questo flusso continuerà anche nel prossimo ventennio.
Non manca chi pensa a soluzioni alternative alle immigrazioni, o almeno complementari ad esse.
Ad esempio, innalzando di vari anni l’età della pensione, oppure agevolando il rientro nel mercato del lavoro delle donne anche dopo la nascita dei figli, oppure aumentando drasticamente la produttività (cioè la quantità di prodotto per ogni lavoratore), in modo da diminuire il fabbisogno di manodopera da parte delle imprese.
Ma, secondo i demografi, queste tre ipotesi, tutte da non trascurare, non saranno sufficienti a supplire alla mancanza di lavoratori.
Oltre al fabbisogno delle imprese c’è il problema sociale del pagamento delle pensioni in un sistema dove esse vengono pagate dagli attuali lavoratori.
I pensionati aumenteranno certamente e in modo rilevante, e questo renderà indispensabile allargare la base dei lavoratori attivi, poiché non è ragionevole ipotizzare un drastico abbassamento del livello delle pensioni.
A invecchiare infatti è il corpo elettorale, che reagirebbe energicamente a una decurtazione sostanziosa delle proprie pensioni.
Naturalmente si può sempre sperare in una ripresa della natalità a breve scadenza, ma questo incremento non modificherebbe il quadro dei prossimi anni, caratterizzato da una drammatica riduzione della popolazione italiana in età lavorativa.
I nuovi nati infatti arriverebbero in ogni caso sul mercato del lavoro dopo il 2030 e, nel frattempo, potrebbero anzi essere necessari nuovi lavoratori stranieri se la ripresa delle nascite distogliesse un numero rilevante di donne dal lavoro, o facesse aumentare la richiesta di lavoro domestico.
Da quanto abbiamo detto, sembra inevitabile che per i prossimi due decenni l’Italia dovrà accogliere ogni anno quasi 300.000 immigrati in età tra i 20 e i 59 anni, cioè quanti ne sono entrati annualmente nell’ultimo decennio.
[…] Se l’arrivo di lavoratori stranieri è inevitabile – a parte le considerazioni umanitarie e cristiane a cui il papa e molti vescovi hanno più volte accennato – sarà quindi bene essere previdenti.
Per questo abbiamo cercato qui di fare un discorso “laico”.
Certo non si tratta di accogliere tutti coloro che vogliono arrivare, o di consentire che si formino ghetti all’interno del nostro paese.
Tanto meno che si accolgano o si sia tolleranti verso persone che non si adeguano al nostro ordinamento, che non osservano le leggi civili e penali del paese o non ne vogliono parlare la lingua.
Ma, se intendono restare, è bene che vengano aiutati a integrarsi nel modo migliore possibile.
[…] C’è certamente il problema umano e sociale della riduzione del numero di figli, a cui, ad esempio, il prof.
Ettore Gotti Tedeschi ha fatto molte volte allusione.
Si tratta certamente di una componente che ha modificato profondamente la struttura umana e produttiva della nostra società.
Nel clima di una polemica con l’economista, il prof.
Giovanni Sartori ha negato, un po’ troppo drasticamente, ogni correlazione tra crescita demografica e crescita economica.
Sembra invece esistere, anche in base all’esperienza storica passata e attuale, un certo consenso tra i demografi e gli economisti nell’affermare una correlazione fra la crescita economica e una costante, ma moderata, crescita demografica.
Non per nulla l’enciclica “Caritas in veritate”, certamente a favore della vita, parla della necessità di “prestare la debita attenzione a una procreazione responsabile ” (n.
44), cioè non fatta a casaccio.
Un drastico e inarrestabile calo demografico ha sempre accompagnato le epoche di declino delle varie civiltà.
A meno che – qualora un grande paese non riesca a trovare in se stesso la speranza nel futuro e le condizioni che portano a fare più figli, almeno per conservare l’equilibrio demografico – non si apra in modo umano e corretto alle immigrazioni da altri popoli, come sta avvenendo in Italia in modo per ora alquanto contraddittorio e spontaneo.
Ma anche questa soluzione non è indolore, come abbiamo cercato di dimostrare, e richiede lungimiranza e coraggio, che sinora in Italia non sembra siamo stati capaci di trovare.
__________ La rivista dei gesuiti di Roma su cui è uscita la recensione: > La Civiltà Cattolica E il testo integrale della stessa, riprodotto per gentile concessione della rivista: > Declino demografico e immigrazione in Italia
Così la fede rinasce nella notte
Queste parole mi fanno sempre molta impressione, perché non mi è mai capitato di dire: «La mia anima è triste fino alla morte»; ci sono stati momenti di tristezza, ma proprio di essere schiacciato, di essere stritolato non mi è mai successo.
Penso quindi che a Gesù sia accaduto qualcosa di terribile.
Che cosa sarà stato? Probabilmente la previsione imminente della passione; forse Gesù non sapeva tutti i particolari, ma sapeva che gli uomini ce l’avevano con lui, volevano eliminarlo nella maniera più crudele possibile.
Sapeva di essere in mano a uomini cattivi: questo è già un motivo di paura e di angoscia.
Ma poi probabilmente sentiva su di sé tutta l’ingiustizia del mondo e questo è qualcosa che non si può sopportare; l’ingiustizia del mondo che si esprime nelle guerre, nelle carestie, nelle oppressioni, nelle forme di schiavitù, che è immensa e percorre tutta la storia.
E quando noi ci fermiamo a considerare questa ingiustizia, siamo come senza fiato, siamo schiacciati.
Però Gesù ha voluto essere quasi schiacciato da queste cose per poterle prendere su di sé.
Quindi dobbiamo dire che da una parte le ingiustizie del mondo, della storia, della storia della Chiesa ci fanno soffrire, ma che insieme siamo certi che Gesù le ha accolte in sé, e quindi le ha riscattate.
Non sappiamo come, ma questa è una certezza che ci deve accompagnare, e ci deve accompagnare in tutte le notti della sofferenza, del dolore, quando uno si trova di fronte a una notizia che lo riguarda e che è infausta.
Per esempio un tumore, pochi mesi di vita.
Allora succede come una sorta di ribellione, di non accettazione.
C’è una lotta interiore.
Notte della sofferenza, notte della fede in cui non si sente più la presenza di Dio.
Questo è molto duro, soprattutto quando si è impegnati.
Notte della fede per cui sono passati san Giovanni della Croce e, recentemente, Madre Teresa di Calcutta, la quale diceva che fino a verso i cinquant’anni le pareva che Dio le fosse vicino, poi più niente.
Avendola conosciuta, vedevo questo suo rigore, questa sua fedeltà, questa sua tensione, ma non immaginavo che dietro ci fosse il buio completo sull’esistenza di Dio, del Dio rimuneratore.
Anche santa Teresa di Gesù Bambino è passata per questa notte.
Possiamo dire che tutte queste notti sono riassunte nella notte del Getsèmani e in essa Gesù riceve tutte le nostre ingiustizie e le fa sue, le accoglie per poterle offrire e purificarle.
Questa è una prima immagine che vi lascio.
Una seconda immagine è quella della tomba.
Che cosa sia avvenuto il giorno di Pasqua, noi non lo sappiamo.
La liturgia romana dice: «Beata notte, che non hai saputo il giorno e l’ora»; e noi non sappiamo niente, nessuno è stato presente, nessuno ce l’ha raccontato; però possiamo immaginarne le conseguenze.
Lo descriverei così: un grande scoppio di luce, di pace e di gioia nella notte della tomba.
Scoppio di luce, di pace e di gioia che è potenza dello Spirito, che prende prima di tutto il corpo di Gesù e lo vivifica, lo rende capace di essere intercessione per il mondo.
Ma poi continua in ciascuno dei viventi suscitando in lui le disposizioni di Gesù.
Mi pare quindi che sia troppo riduttivo dire: lo Spirito Santo è il segno dell’amore di Dio per me.
Lo Spirito Santo è segno delle scelte di Gesù fatte mie.
È quella forza, quel dinamismo, quella capacità di amare il povero, di amare il sofferente, di amare colui che si trova in situazione di ingiustizia perché così lo Spirito compie la sua opera.
E noi possiamo dire che quest’opera si compie sempre quando Gesù dice: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,26).
Vuol dire la sua presenza anche con il suo Spirito, con la sua capacità di vedere le cose, di reagire alle cose, di giudicare le cose.
Certo, occorre per questo un grande spirito di fede, perché molta gente dirà: «Io non vedo niente, io vedo le cose andare di male in peggio».
Occorre l’occhio della fede per leggere negli eventi miei e intorno a me questa presenza dello Spirito Santo che costruisce il mondo nuovo, la Gerusalemme celeste, che non è una città nel cielo separata da qui, ma una città che viene dal cielo, cioè dalla forza di Dio e trasforma tutti i rapporti di questa terra.
Nessuno meglio di Teilhard de Chardin ha descritto questa Gerusalemme celeste in cui vedeva appunto il termine finale, il punto omega della redenzione nel Cristo, dove tutta l’umanità era riunita e salvata, una e trasparente gli uni agli altri, e tutti noi verso Dio.
Occorre tenere presente questo fine della storia, perché altrimenti siamo banalizzati dalle vicende quotidiane, oppure siamo sofferenti quando ci sono grandi calamità e non abbiamo nessuna chiave per interpretarle.
E questa che vi ho detto non è una chiave logica, è una chiave mistica spirituale data dallo Spirito Santo: cercare di vedere in tutto l’azione dello Spirito che opera incessantemente in “Avvenire” del 6 novembre 2010
Intervista a Dionigi Tettamanzi: L´immoralità è dilagante, a tutti i livelli della società.
L’intervista «L´Italia di oggi è malata, come lo era Milano ai tempi di San Carlo e della peste.
Ogni giorno leggendo i giornali si è portati a pensare che si stia sprofondando sempre più in basso.
L´immoralità è dilagante, a tutti i livelli della società.
Purtroppo, è diffusa l´idea che la vita debba essere per forza spensierata e allegra e talvolta si finisce per stordirsi sino all´ebbrezza.
L´opinione pubblica sembra distratta da frivolezze, non avvertendo la gravità del momento.
Ho però la speranza che prima o poi la nostra società trovi la forza di reagire e di rinnovarsi».
Non si preoccupa di celare l´amarezza, il cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano, alla vigilia della messa in Duomo nella solennità di San Carlo Borromeo, in occasione della quale leggerà una lettera di papa Benedetto XVI.
Ed è proprio pensando a quelle che definisce le «miserie dell´attualità» che il porporato decide di sottolineare l´attualità dell´esempio di San Carlo, il grande teorico del rigore nella società e moralizzatore dei costumi.
Eminenza, che cosa pensa di quel che si legge in questi giorni sulle vicende private del presidente del Consiglio? «Il problema non è quello che provo io, in questo clima di insipienza diffusa.
Il problema più grave lo vivono i genitori che devono spiegare che cosa sta succedendo ai propri figli, alle figlie che hanno la stessa età di quelle che si vedono in foto sui quotidiani in questi giorni.
Di fronte a questo scadimento dei costumi bisognerebbe occuparsi di quel che filtra nel quotidiano delle persone, bisognerebbe dare voce al grave disagio che vive una società bombardata da messaggi distraenti e edonistici, in cui tutto si misura solo sulla base del divertimento, dello scherzo greve.
Panem et circenses, si diceva ai tempi dei Romani».
Che cosa pensa che recepisca la gente? «Si parla tanto di valori, si brandisce questa parola come un programma e uno scudo.
Ma poi ci si comporta ispirandosi a principi molto diversi, si contribuisce a diffondere modelli educativi vuoti e pericolosi, soprattutto per le nuove generazioni».
Allude a chi in pubblico parla del valore della famiglia e poi in privato ha altre priorità? «Non si deve scindere mai l´aspetto privato da quello pubblico.
Soprattutto quando si hanno particolari responsabilità, in ogni ambito, il privato e il pubblico coincidono.
E bisogna comportarsi in modo coerente con quel che si dice.
Spesso alcuni mi dicono che mi dovrei interessare solo delle anime, ma sono convinto che devo occuparmi della persona nella sua integralità: anima e corpo insieme.
E che quando si parla di valori, bisogna anche impegnarsi a creare le condizioni necessarie per realizzarli, altrimenti il discorso è inutile se non controproducente».
In questa situazione lei pubblica un libro dedicato a San Carlo («Dalla tua mano», Rizzoli).
Non le sembra una figura “inattuale” da proporre alla società di oggi? «Me lo sono chiesto anch´io.
Penso però che San Carlo sia quanto mai attuale, non solo perché proponeva uno stile di vita fortemente evangelico e umanizzante, ma perché la sua figura oggi ci inquieta, ci chiede di non accontentarci di quel che appare di facile conquista, di quel che viene comunemente accettato dalla società.
Lui ci sprona ad essere presi dall´ansia del bene e del vero, per contagiare anche gli altri».
Lei ha parlato «dell´immoralità e disonestà che lacera la vicenda umana».
«La convivenza civile è minata dalla ricerca del successo a tutti i costi, è manipolata per strapparne il consenso, è tradita quando non è aiutata a cercare il bene comune.
Bisogna amare instancabilmente, perdonando, donando tutto di sé, preferendo i poveri e gli ultimi.
Il Borromeo attraversava la città ferita dalla peste, stava in mezzo alla gente, specie se povera e provata, non per essere populista, per guadagnare consenso e plauso, ma per vivere relazioni autentiche».
La Chiesa dà voce al disagio per la situazione politica italiana.
Ma il vostro allarme non viene recepito.
Lei stesso è stato spesso attaccato per le sue posizioni.
Non si sente isolato? «L´unico criterio per me è il Vangelo e la fedeltà ad esso.
Anche quando è scomodo, anche quando impone un prezzo da pagare, anche quando la fedeltà relega a posizioni di minoranza o porta ad incomprensioni o irrisioni.
Anche San Carlo diceva cose “inattuali” al suo tempo.
Oggi viviamo una frazione di storia nella quale ci pare di essere al colmo del male, dove il bene non si vede e non riesce a crescere, a contagiare, a rinnovare.
Ma penso che avere uno sguardo più ampio e profondo possa esserci di grande aiuto.
Quel che ora non fruttifica domani può germogliare».
in “la Repubblica” del 4 novembre 2010
Intervista a Mons. Shlemon Warduni: “E ora come facciamo a fermare l’esodo dalla Mesopotamia?”
L’intervista Monsignor Shlemon Warduni è vescovo cattolico di Baghdad, guida spirituale dei Caldei e membro in Vaticano del Consiglio Speciale per il Medio Oriente.
Si sarebbe mai aspettato un bagno di sangue in una chiesa? «Una tragedia del genere era impensabile persino in un Paese senza sicurezza né stabilità come l’Iraq.
Ma ormai purtroppo nessuno può prevedere dove possa arrivare una violenza che non risparmia più niente e nessuno.
Come minoranza siamo un bersaglio costante e conviviamo con un logorante senso di precarietà e di timore costante.
Il sacrificio di questi nostri fratelli dimostra a che punto di follia si è arrivati.
Neppure quando si prega in una chiesa si è al riparo dalla persecuzione del terrorismo.
Questo martirio è rivolto al mondo intero perché è tutta l’umanità a precipitare nell’abisso se si muore per essere andati a una messa.
Ormai uscire equivale già a mettere a repentaglio la propria vita, nessuno è certo di tornare a casa la sera.
In qualche modo mi sento in colpa anch’io per i miei fedeli».
Perché? «Noi vescovi cerchiamo sempre di tranquillizzare i cristiani e di spingerli a rimanere in Iraq.
Li esortiamo di continuo a non emigrare.
Poi succedono fatti come questi, aberrazioni che cancellano ogni argine di civiltà e ciò che diciamo perde attendibilità, anzi sembra controproducente.
I fedeli mi domandano cosa devono fare, sono terrorizzati, mi interrogano su quale sia il disegno di Dio per loro.
Non capiscono perché debbano subire un male così crudele.
La gente è sconcertata e ci chiede come sia possibile rimanere in una situazione del genere.
Il massacro a Nostra Signora del perpetuo soccorso costituisce l’angosciante dimostrazione che in Iraq non c’è più la minima certezza.
Dov’è la coscienza quando si calpesta la religione?».
E lei cosa risponde? «Viene lo sconforto anche a me davanti ai lenzuoli bianchi di persone miti, uccise in chiesa.
C’è anche il corpicino senza vita di una bambina.
Per non cadere nella disperazione quaggiù le persone devono avere una fede talmente forte da essere addirittura pronte come cristiani alla testimonianza estrema, alla morte.
Ma non si può pretendere da tutti una fede eroica, perciò anche in Occidente ci si deve fare carico di questa condizione di terrore costante.
Nessuno ci spiega da dove arrivano le armi delle bande che si muovono indisturbate dentro e fuori i nostri confini».
Nell’anarchia irachena vede la mano dell’Iran o di Bin Laden? «Io non sospetto nessuno, è la corte internazionale a dover stabilire chi ci sta massacrando.
Noi ci aspettiamo l’aiuto di Dio che ci ha creato e fatti vivere qui e delle persone di buona volontà che possono sensibilizzare i governi e l’Onu a non abbandonarci al nostro destino.
Come pastore posso solo pregare per le vittime e per la conversione del cuore indurito dei terroristi» in “La Stampa” del 1° novembre 2010
Reinventare il sacro.
STUART KAUFFMAN, Reinventare il sacro.
Scienza, ragione e religione: un nuovo approccio, Codice, Roma 2010, pp.
334, Euro 28 Per affermarsi, l’Illuminismo deve innanzi tutto aver ragione di se stesso.
Luoghi comuni come l’antitesi storica tra i lumi promossi dalla scienza e le tenebre occultamente protette dalla fede sostituiscono una seria considerazione con un’immagine agonistica molto vieta.
Non solo la scienza classica approfitta spesso dell’insegnamento biblico.
È quanto avvenne per esempio con Newton il quale attinse dalle Scritture l’idea di uno spazio assoluto, da intendersi come un grande contenitore, per proporlo come fondamenta della propria fisica.
La scienza di oggi talora va decisamente oltre.
Può accadere addirittura che scopra entro di sé pensieri e verità che inducono a una meditazione religiosa.
È quanto suggerisce Reinventare il sacro.
Una nuova concezione della scienza, della ragione e della religione, il bellissimo libro recentemente edito da Codice di uno dei grandi biologi teorici contemporanei, Stuart Kauffman.
Secondo Kaufman la complessità del vivente fa pensare al sacro.
L’idea che le forme dell’universo non si spieghino soltanto sulla base degli elementi che le compongono ispira idee religiose.
La molteplicità immane di forme che questo universo è in grado di produrre induce a riflettere sul principio creatore e a proporre una nuova religiosità laica.
Ed è di qui che è necessario riprendere a pensare, secondo quanto Kaufmann ci insegna.
Si tratta di guardare oltre la divisione delle «due culture», quella scientifica e quella umanistica, per creare un quadro nel quale l’arte, la scienza e la vita stessa si ritrovino congiunte.
È questo per altro anche il principio autentico di un nuovo sapere certamente articolato ma uantomeno idealmente globale al quale sempre più spesso ci si richiama come avviene per esempio nei due volumi curati da Giuseppe Cacciatore e Giuseppe D’Anna, e dallo stesso Cacciatore e da Rosario Diana dedicati all’Interculturalità editi rispettivamente da Carocci e da Guida.
Sono libri che intendono cogliere, rispettivamente sotto il profilo etico-politico e teologicopolitico, il significato di una cultura sempre più innervata e percorsa da intersezioni.
Su questa via si annuncia un’unità profonda che induce a pensare eticamente e culturalmente in grande in “La Stampa” del 1° novembre 2010 Il contenuto I progressi della scienza degli ultimi quattro secoli hanno preteso un prezzo elevato: un divario sempre più ampio tra fede e ragione.
Nella sua forma più estrema, il riduzionismo sostiene che tutta la realtà, dagli organismi a una coppia di innamorati a passeggio, sia fatta di sole particelle: le società devono essere spiegate da leggi sulle persone, che sono spiegate da leggi sugli organi, sulle cellule, dalla chimica e infine dalla fisica delle particelle.
Per Kauffman il solo riduzionismo è inadeguato sia a praticare la scienza sia a comprendere la realtà: viviamo infatti in una biosfera e in una cultura che, oltre ad essere emergenti, sono radicalmente creative; un universo di creatività esplosiva di cui spesso non possiamo prevedere gli sviluppi.
La proposta di Kauffman è quindi quella di porci come co-creatori di una biosfera che letteralmente costruisce se stessa e si evolve, e di una cultura nuova e infinita.
Un Dio pienamente naturale identificato con la creatività stessa dell’universo, e una sua concezione che può essere uno spazio spirituale condiviso da tutti, credenti o non credenti.
EDUCARE ALLA VITA BUONA DEL VANGELO
PRESENTAZIONE Gli Orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020 intendono offrire alcune linee di fondo per una crescita concorde delle Chiese in Italia nell’arte delicata e sublime dell’educazione.
In essa noi Vescovi riconosciamo una sfida culturale e un segno dei tempi, ma prima ancora una dimensione costitutiva e permanente della nostra missione di rendere Dio presente in questo mondo e di far sì che ogni uomo possa incontrarlo, scoprendo la forza trasformante del suo amore e della sua verità, in una vita nuova caratterizzata da tutto ciò che è bello, buono e vero.
È questo un tema a cui più volte ci ha richiamato Papa Benedetto XVI, il cui magistero costituisce il riferimento sicuro per il nostro cammino ecclesiale e una fonte di ispirazione per la nostra proposta pastorale.
La scelta di dedicare un’attenzione specifica al campo educativo affonda le radici nel IV Convegno ecclesiale nazionale, celebrato a Verona nell’ottobre 2006, con il suo messaggio di speranza fondato sul “sì” di Dio all’uomo attraverso suo Figlio, morto e risorto perché noi avessimo la vita.
Educare alla vita buona del Vangelo significa, infatti, in primo luogo farci discepoli del Signore Gesù, il Maestro che non cessa di educare a una umanità nuova e piena.
Egli parla sempre all’intelligenza e scalda il cuore di coloro che si aprono a lui e accolgono la compagnia dei fratelli per fare esperienza della bellezza del Vangelo.
La Chiesa continua nel tempo la sua opera: la sua storia bimillenaria è un intreccio fecondo di evangelizzazione e di educazione.
Annunciare Cristo, vero Dio e vero uomo, significa portare a pienezza l’umanità e quindi seminare cultura e civiltà.
Non c’è nulla, nella nostra azione, che non abbia una significativa valenza educativa.
La scelta dell’Episcopato italiano per questo decennio è segno di una premura che nasce dalla paternità spirituale di cui siamo rivestiti per grazia e che condividiamo in primo luogo con i sacerdoti.
Siamo ben consapevoli, inoltre, delle energie profuse con tanta generosità nel campo dell’educazione da consacrati e laici, che testimoniano la passione educativa di Dio in ogni campo dell’esistenza umana.
A ciascuno consegniamo con fiducia questi orientamenti, con l’auspicio che le nostre comunità, parte viva del tessuto sociale del Paese, divengano sempre più luoghi fecondi di educazione integrale.
Maria, che accompagnò la crescita di Gesù in sapienza, età e grazia, ci aiuti a testimoniare la vicinanza amorosa della Chiesa a ogni persona, grazie al Vangelo, fermento di crescita e seme di felicità vera.
Roma, 4 ottobre 2010 Festa di San Francesco d’Assisi, Patrono d’Italia Angelo Card.
Bagnasco Presidente della Conferenza Episcopale Italiana CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA Orientamenti pastorali 2010.pdf;
Islam e cristiani un dialogo è possibile
Dalle folcloristiche provocazioni del colonnello Gheddafi riguardo all'”ineludibile” conversione dell’Europa all’Islam, alle continue, deliranti dichiarazioni di al-Qaeda, fino agli eventi legati alle commemorazioni dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti, si è parlato molto di Islam e Cristianesimo in queste settimane.
Il Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente, che si è concluso ieri in Vaticano, ne ha fatto oggetto di una necessaria riflessione, focalizzando l’attenzione piuttosto sul rapporto concreto fra le due fedi e i credenti che vi si riconoscono.
Il dibattito sulle politiche di integrazione, accesosi dopo le dichiarazioni della cancelliera Merkel, ha poi mostrato come non si tratti di discussioni accademiche, ma di problemi che ci riguardano tutti.
C’è chi fa previsioni apocalittiche di prossimi e sempre più duri “scontri di civiltà”, c’è chi sembra rassegnato a un preteso, inevitabile “declino” della cultura segnata dal Cristianesimo di fronte all’avanzata numerica del mondo musulmano, che non conosce la denatalità propria delle società economicamente avanzate.
E c’è chi, come i padri sinodali, fa riferimento al laboratorio vivente dei luoghi in cui – spesso da quattordici secoli – cristiani e musulmani convivono, fra amicizia e intolleranza, convivenza pacifica e sfida dell’integralismo.
La molteplicità degli approcci alla questione mostra da sé come essa non sia né semplice, né scontata nei risultati.
Ciò che soprattutto differenzia le società islamiche dalla cultura europea è il forte senso dell’appartenenza, aspetto qualificante dell’Islam: la “umma” – comunità, nazione, etnia – è il grembo materno della vita di chi riconosce in Maometto il profeta del Dio unico (non a caso la radice del termine è la stessa della parola “umm”, madre).
Alla ritualità della “umma” il musulmano partecipa con naturalezza, dai momenti di preghiera quotidiana pubblica alla celebrazione del “ramadan”, il mese del digiuno diurno, al pellegrinaggio alla Mecca.
Il senso di massificazione” che alcuni di questi rituali danno a una sensibilità plasmata dalla cultura occidentale del soggetto, è del tutto estraneo alle culture dei paesi musulmani.
Al di là della facile critica dell’illuminista di turno, che vede in queste forme una semplice abdicazione alla libertà e all’originalità della coscienza individuale, c’è un fascino dell’appartenenza forte che non va banalizzato (si pensi solo ai fenomeni di massa così determinanti nella storia del nostro Novecento e alla geniale analisi ad essi dedicata da Elias Canetti in Massa e potere).
Proprio alla luce di questa complessità, l’approccio dei padri sinodali mi appare illuminante: in primo luogo, esso si rifà alle indicazioni del Concilio vaticano II, secondo cui «la Chiesa guarda con stima i musulmani che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini.
Essi cercano anche di sottomettersi con tutto il cuore ai decreti nascosti di Dio, come si è sottomesso Abramo, al quale la fede islamica volentieri si riferisce…
Così pure essi hanno in stima la vita morale e rendono culto a Dio soprattutto con la preghiera, le elemosine e il digiuno» (dichiarazione Nostra Aetate, n.
3).
Diverse voci al Sinodo non hanno, tuttavia, nascosto le difficoltà reali che incontra la minoranza cristiana nei paesi islamici: costrizioni, limiti alla libertà di coscienza e di esercizio della propria fede in Cristo, atti di violenza e di intimidazione.
«A partire dagli anni Settanta, constatiamo l’avanzata dell’Islam politico, che comprende diverse correnti religiose.
Esso colpisce la situazione dei cristiani, soprattutto nel mondo arabo.
Vuole imporre un modello di vita islamico a tutti i cittadini, a volte con la violenza.
Costituisce dunque una minaccia per tutti, e noi dobbiamo, insieme, affrontare queste correnti estremiste» (patriarca copto di Alessandria d’Egitto, Antonios Naguib, Relatio post disceptationem al Sinodo).
Innegabili sono le distanze fra alcune conquiste della civiltà europea e l’esistenza quotidiana nelle società a maggioranza islamica: esse riguardano l’identità dell’uomo, la condizione femminile, la giustizia, i valori della vita sociale dignitosa e la reciprocità, concetto tanto centrale, quanto complesso nelle applicazioni.
Di fronte a queste sfide la linea d’azione proposta al Sinodo è anzitutto quella del dialogo della vita, «che offre l’esempio di una testimonianza silenziosa eloquente e che è talvolta l’unico mezzo per proclamare il Regno di Dio…
Nel dialogo sono importanti l’incontro, l’accoglienza della differenza altrui, la gratuità, la fiducia, la comprensione reciproca, la riconciliazione, la pace e l’amore…
Il dialogo è la strada della non violenza.
L’amore è più necessario ed efficace delle discussioni.
Non bisogna discutere con i musulmani, ma amarli, sperando di suscitare nel loro cuore la reciprocità.
Prima di scontrarci su ciò che ci separa troviamoci su ciò che ci unisce soprattutto per quanto riguarda la dignità umana e la costruzione di un mondo migliore» (ib.).
Trasponendo queste indicazioni nel contesto della cultura occidentale, e in particolare europea, non si può far a meno di osservare come esse siano in sintonia con le sue grandi radici: da una parte i valori della democrazia, con l’attenzione fondante ad ascoltare le ragioni dell’altro, come mostra il ruolo del teatro e della tragedia nell’antica Atene, dall’altra le conquiste rappresentate dal diritto romano e dall’incommensurabil e patrimonio di civiltà connesso all’idea di persona e della sua dignità assoluta, maturata all’interno dell’eredità ebraico-cristiana.
Proprio questa sintonia fra scelta della via del dialogo e anima profonda della identità europea – nonostante tutte le smentite della storia – mostra come non sarà facile integrare l’idea islamica di appartenenza con la nostra civiltà.
E poiché l’apporto dato all’Europa dalla radice ebraica è innegabile, inseparabile com’è dall’influenza del “grande Codice” che è la Bibbia, si comprende come sia proprio il Medio Oriente la cartina da tornasole del futuro destino dell’incontro.
Costruire lì una giusta pace attraverso la via del dialogo, della giustizia e della riconciliazione, specie nel conflitto israelo-palestinese, vuol dire porre le basi per una convivenza pacifica per tutti nell’epoca del villaggio globale.
Anche così il nostro domani si costruisce nella città «dove tutti siamo nati» (Salmo 87): Gerusalemme.
in “Il Sole 24 Ore” del 24 ottobre 2010