Protestanti in Francia: famiglia ricomposta.

Protestanti sono tra il 2,5% e il 2,8% dei francesi.
Vent’anni fa erano circa il 2%.
Questa crescita si spiega con l’esplosione delle Chiese evangeliche.
È vero che gli evangelici fanno più discepoli dei luterano-riformati, ma questi ultimi restano ancora nettamente la maggioranza (56%).
Come succede per molti giovani cattolici, i luterano-riformati si ispirano sempre più ai modi di  espressione degli evangelici, al loro senso della comunità e si impegnano in campagne di evangelizzazione.
Il che potrebbe delineare un futuro molto diverso dagli scenari tratteggiati negli anni ’80 sotto il regno assoluto del paradigma della secolarizzazione e dell’ineluttabile scomparsa del religioso.
Questi sono in poche parole i principali insegnamenti del convegno “I protestanti in Francia, una famiglia ricomposta.
Analisi e punti di riferimento”, che si è svolto a Parigi dal 18 al 20 novembre.
Era organizzato dal Groupe Sociétés Religions Laïcités (Ecole pratique des hautes études et CNRS) con il sostegno dell’Institut européen en Sciences des religions e sotto il patrocinio della Fédération protestante de France.
Un convegno particolarmente vivace, con decine di interventi limitati a venti minuti, dibattiti con la sala e talvolta tra relatori.
Tra questi ultimi: Claude Baty, presidente della Federazione protestante, Etienne Lhermeneault, presidente del Consiglio nazionale degli evangelici francesi e Laurent Schlumberger, presidente del Consiglio nazionale della Chiesa riformata.
La “religione come memoria in una discendenze di credenti”, caratteristica di una certa cultura luterano-riformata, sembra lasciare il posto alla “religione per la speranza con pellegrini e convertiti”.
Sembra anche che si vada verso una nuova situazione ecumenica, poiché gli incontri tra i cristiani di Chiese diverse, ad esempio attraverso il parcours Alpha, si moltiplicano.
In altri termini,: la tesi del “blocco dell’ecumenismo” non sta proprio più in piedi.
Ora, questo nuovo “cristianesimo di convinzione” e assertivo che corrisponderebbe all’individualizzazione si sviluppa in una società in cui il numero di atei e di non cristiani tende ad aumentare in questi ultimi trent’anni.
La ricomposizione del protestantesimo si inscriverebbe quindi nella ricomposizione della società.
Queste sono alcune delle formule utilizzate dai due responsabili scientifici del convegno: Sébastien Fath, ricercatore al CNRS al Groupe Sociétés Religions Laïcités, et Jean-Paul Willaime, direttore di studi alla sezione delle Sciences religieuses de l’école pratique des hautes études.
Numeri Per avere un quadro generale delle nuove tendenze, la cosa migliore è consultare un sondaggio effettuato dall’Ifop per Réforme e La Croix: “I protestanti fotografati dalle inchieste IFOP del 2010”.
Il documento è particolarmente ricco, tanto per i risultati grezzi, che per l’originalità del metodo.
I sondaggisti hanno interrogato per telefono negli scorsi mesi di maggio e di giugno 702 persone selezionate dall’Ifop.
Quest’ultimo, guidato dal gruppo GSRL, ha preso in considerazione le persone che si sono dichiarate “protestanti” e quelle che si sono dichiarate “cristiani evangelici”.
A molti evangelici – in questo caso il 18% degli intervistati – non piace presentarsi come “protestanti”.
Un fatto che gli istituti di sondaggio ignoravano fino a quel momento.
E che cambia notevolmente i risultati.
Inoltre, non si parla più qui di “persone vicine al protestantesimo”, un’espressione simpatica ma inadatta.
Secondo Sébastien Fath permette a molti cattolici liberali di esprimere la loro prossimità a ciò che percepiscono del protestantesimo (che raramente corrisponde alla realtà).
Ma queste persone sono cattoliche, non protestanti.
I risultati del sondaggio sono dunque, ai nostri occhi, molto sorprendenti.
Citiamo ad esempio il fatto che il 39% dei protestanti è “praticante regolare” (si reca al culto almeno una volta al mese).
Confrontiamo questa cifra con il 7% dei cattolici praticanti regolari (cioè che vanno a messa almeno una volta al mese).
Citiamo un altro indicatore, molto protestante: il 46% dei protestanti francesi legge la Bibbia almeno una volta al mese.
Quasi la metà! Ma i numeri più spettacolari, a nostro avviso, sono quelli che si ottengono confrontando il profilo dei luterano-riformati e quello degli evangelici.
Il 60% degli evangelici si reca al culto una volta alla settimana, contro…
il 9% dei luterano-riformati.
Il 74% degli evangelici legge la Bibbia almeno una volta alla settimana, contro il 17% dei luterano-riformati.
Una differenza che si ritrova in ambito teologico.
Il 70% degli evangelici dice di contare su guarigioni miracolose contro il 13% dei luterano-riformati.
Si può anche citare il profilo demografico dell’evangelico tipo: è più giovane e più cittadino del riformato tipo.
Il suo statuto sociale è generalmente meno elevato di quello del riformato.
In materia di etica sessuale (e bioetica), le differenze sono importanti (non è necessariamente una sorpresa), ma meno caratterizzanti di quanto si pensava.
Il 46% dei luterano-riformati è a favore della benedizione delle coppie omosessuali da parte delle Chiese, ma una maggioranza – il 54% – è contraria.
Questa opinione è condivisa per il 14% degli evangelici, mentre l’85% è contrario.
Quanto alle convergenze, evidentemente numerose, e sottolineate in particolare dai responsabili della Federazione protestante, si possono citare le preferenze in materia di etica sociale e di politica.
Il 61% dei luterano-riformati è contrario all’affermazione: “Ci sono troppi immigrati in Francia”.
Esattamente come il 62% degli evangelici.
Ci sarebbe anche una correlazione positiva tra atteggiamento favorevole all’accoglienza degli immigrati e lettura della Bibbia.
A rifiutare l’affermazione che ci sono troppi immigrati in Francia è il 71% dei lettori settimanali della Bibbia.
Ecumenismo Destra o sinistra? Alla pari.
Il 53% dei luterano-riformati sono di sinistra (PS e Verdi) e di sinistra si dice anche il 46% degli evangelici.
Il 34% dei luterano-riformati sono di destra (UMP e FN), tale opinione è condivisa “solo” dal 32% degli evangelici.
Si può pensare (e altri sondaggi lo confermano) che i partiti centristi siano molto popolari tra i protestanti.
In ogni caso, come precisa Jean-Paul Willaime nel documento consegnato ai giornalisti, bisogna abbandonare un preconcetto: “Gli orientamenti politici dei luterano-riformati e degli evangelici non differiscono molto.
La contrapposizione corrente tra riformati di sinistra ed evangelici di destra non corrisponde alla realtà.” Altro preconcetto che occorrerebbe rivedere: “l’ecumenismo” attira ancora un numero di luteranoriformati un po’ più alto rispetto agli evangelici.
Ma quando si osservano gli scambi concreti tra cristiani, si scopre che gli evangelici partecipano a incontri ecumenici proporzionalmente più dei luterano-riformati! La differenza è marginale, e si può invece notare la convergenza.
Gli evangelici sono “aperti” al dialogo con gli altri cristiani quasi quanto i luterano-riformati.
Al termine del convegno che aveva lui stesso aperto, Claude Baty ci ha manifestato la sua reazione rispetto ai numeri e alle analisi presentate.
Ha refutato sicuramente la tesi della polarizzazione tra evangelici e luterano-riformati e insistito al contrario su tutto ciò che unisce i protestanti.
“A mio avviso è sbagliato spiegare il protestantesimo diviso in fratture e in blocchi contrapposti.
E in queste condizioni, credo che la mia responsabilità sia di non voler fratturare per esistere, ma al contrario gestire la diversità per dare all’esterno una testimonianza che sia coerente”, ci dice.
Una cosa è certa: durante questi tre giorni di convegno, ci sono stati dibattiti, ma non aprioristicamente tra evangelici e luterano-riformati.
O tra carismatici e tradizionalisti.
Ci sono stati degli scambi tra scienziati, pastori e teologi su fatti osservabili, non dibattiti sterili.
“Non ci si è accontentati di commemorare Calvino”, si rallegra Claude Baty.
E manifesta un punto di vista che sembra nettamente condiviso dagli altri attori del protestantesimo contemporaneo: “Bisogna uscire da una identità storica che ha come finalità solo la commemorazione.
Bisogna uscire da una storia ideale, per entrare in un ritratto realistico”.
in “www.temoignagechretien.fr” del 22 novembre 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)

Le memorie senza volto del comunismo

Nelle statistiche preparate della Commissione nuovi martiri per il Grande Giubileo del 2000 si contano 12.692 martiri, così ripartiti:  dall’Europa 8.670, dall’Asia 1.706, dall’Africa 746, dall’America del nord e del sud 333, dall’Oceania 126.
Un gruppo particolare è dato dai 1.111 martiri dell’Unione Sovietica.
Nella statistica della vecchia Europa si contano 3.970 preti diocesani, 3.159 religiosi e religiose, 1.351 laici, 134 seminaristi, 38 vescovi, 2 cardinali, 13 catechisti.
In totale in Europa abbiamo avuto 8.667 testimoni di Cristo.
Nel contesto mondiale tra i martiri si annoverano 5.173 preti diocesani, 4.872 religiosi e religiose, 2.215 laici, 124 catechisti, 164 seminaristi, 122 vescovi, 4 cardinali e 12 catecumeni.
Il XX secolo è stato il periodo dei totalitarismi, delle due guerre mondiali, delle rivoluzioni, dei tragici genocidi e delle infinite persecuzioni religiose.
Tra tutte le tragedie sopra accennate, la persecuzione più grande fu la battaglia organizzata contro il cristianesimo dal comunismo internazionale.
Solo il Libro nero del comunismo curato da Stéphane Courtois offre una provvisoria statistica di 85 milioni di morti causati dal totalitarismo comunista.
In Russia vivevano da secoli anche altre confessioni cristiane, oltre a ebrei e musulmani; ma chiunque non condividesse la nuova ideologia atea dei comunisti doveva essere allontanato con forza dalla società.
Nascono così i cosiddetti Gulag, dal russo “Direzione principale dei campi di lavoro correttivi”.
Il numero di morti nei Gulag è ancora oggetto di indagine:  una stima provvisoria parla di tre milioni.
L’incredibile persecuzione dei numerosi oppositori politici è ben nota anche grazie alle pubblicazioni scritte dagli stessi detenuti, il più famoso dei quali fu Aleksander Solzenicyn, che nel suo Arcipelago Gulag ha raccontato la tragedia dei detenuti, ha fatto conoscere la parola Gulag e l’esistenza stessa di questi campi.
La Chiesa ortodossa russa contava nel 1917 circa 210.000 membri del clero, 100.000 monaci e oltre 110.000 preti diocesani.
Circa 130.000 furono fucilati nel periodo 1917-1941.
Dei 300 vescovi presenti nel 1917 in Russia, 250 di loro furono fucilati.
Gli altri membri del clero sopravvissero in diverse prigioni e campi di concentramento, sottoposti a ogni genere di persecuzione.
Nel 1941, nel primo periodo della guerra con la Germania, si trovavano in libertà solo quattro vescovi.
È difficile presentare un numero preciso delle vittime,  secondo  le  valutazioni  il  numero totale oscilla tra 500.000 e un milione.
 Sul territorio dell’Unione Sovietica c’erano anche altre confessioni cristiane.
Tra loro i cattolici di rito romano e bizantino.
Nel 1917 vivevano in Russia circa 2 milioni di cattolici con circa 1.000 sacerdoti e 6.400 chiese.
I cattolici romani sono stati perseguitati come minoranza straniera.
La maggior parte dei cattolici presenti su questo territorio erano cittadini di origine polacca.
Nel periodo 1917-1939 subirono persecuzioni sia per motivi politici che religiosi, ma la situazione peggiorò dopo il 17 settembre 1939, quando i comunisti russi invasero la Polonia e sterminarono l’intellighenzija cattolica.
La popolazione di origine polacca fu deportata in Siberia e in Kazakhstan, dove dovette iniziare una vita in diaspora insieme con altri popoli.
Il gesuita Walter Ciszek fu arrestato nel 1941 e condannato ai lavori forzati; deportato nei campi di lavoro in Siberia vi rimase per 23 anni, subendo ogni sorta di vessazione solo per il fatto di essere sacerdote cattolico.
Dopo la sua liberazione fu scambiato dai comunisti con due spie sovietiche, arrestate in Europa occidentale.
Dopo il 1963 visse negli Stati Uniti, fino alla morte, avvenuta nel 1984.
Le sue memorie sono raccolte nel libro With God in Russia.
La sua causa di beatificazione è stata avviata nel 1990.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale e la caduta del nazionalsocialismo, il sistema comunista trovò terreno fertile in Europa.
Lo schema era ben collaudato:  la Chiesa cattolica con le sue strutture rappresentava il vecchio sistema da cui liberarsi; la religione fu declassata a strumento di manipolazione da parte dei preti e delle loro istituzioni.
Il nuovo sistema ateo doveva liberare la società dall’influenza della Chiesa.
Il marxismo-leninismo diventa il nuovo sistema politico-economico.
Nel 1945 l’esercito russo liberò dal nazionalsocialismo tedesco grandi territori dell’Europa:  Albania, Austria, Bulgaria, Cecoslovacchia, Germania, Polonia, Romania, Ungheria.
Nei Paesi dove i precedenti governi erano nazionalsocialisti come Austria, Germania, Slovacchia e Ungheria l’Armata rossa entrò come il vincitore con il diritto del bottino di guerra.
Moltissime furono le vittime di queste rappresaglie e tra queste numerosi sacerdoti e suore.
Per l’esercito russo anche i rappresentanti della Chiesa furono responsabili delle tragedie causate dai nazionalsocialisti e per questo molti sacerdoti uccisi nei primi giorni dopo la liberazione furono dichiarati pericolosi nemici del comunismo.
I vescovi europei – rappresentati dai presidenti di tutte le conferenze episcopali del continente, radunati il 3 ottobre 2010 a Zagabria alla quarantesima sessione plenaria del Consiglio delle conferenze episcopali d’Europa (Ccee) – hanno dedicato attenzione a grandi vescovi dei Paesi del blocco comunista come Alojzije Stepinac (1898-1960) in Croazia, József Mindszenty (1892-1975) in Ungheria e Stefan Wyszynski (1901-1991) in Polonia.
Il cardinale Peter Erdö ha citato la figura del porporato incarcerato per cinque anni a causa della sua fedeltà a Dio, il cardinale József Mindszenty, e uno dei membri della Chiesa che fu vittima del comunismo, il cardinale Stefan Wyszynski.
Questi grandi uomini della Chiesa furono pronti a testimoniare la loro fedeltà fino al martirio.
Il porporato ungherese ha definito il periodo del comunismo, senza entrare nei dettagli, come tempo difficile e complesso.
I santi e i beati come Alojzije Stepinac portano nel buio la luce di Cristo e sono nostri esempi e nostri patroni celesti.
Non mi sembra necessario raccontare qui i dettagli della vita del beato cardinale Stepinac, perché prima e dopo la beatificazione sono stati pubblicati numerosi libri che offrono un ampio profilo biografico in una storia politicamente complicata come quella della Croazia.
Alla fine della guerra, dopo la fuga di Ante Pavelic e del suo governo, Stepinac rimase al suo posto a Zagabria.
I comunisti avevano già iniziato a perseguitare la Chiesa.
Nel marzo 1945, la Chiesa croata pubblicò una lista di sacerdoti uccisi con 149 nomi.
Tito cercò di convincere l’arcivescovo Stepinac a staccarsi da Roma e fondare una Chiesa cattolica indipendente dalla Santa Sede.
Ma Stepinac si oppose con forza:  “Nessun cattolico, anche a costo della vita, può eludere il suo foro supremo, la Santa Sede, altrimenti cessa di essere cattolico”.
Le vicende di due sacerdoti dell’arcidiocesi di Vienna in Austria sono illuminanti della situazione:  Johann Wolf (1892-1945) parroco a Kaltenleutgeben e Rudolf Frank (1902-1945) da Niedersulz vicino Vienna, ambedue uccisi dall’esercito russo.
Johann Wolf era un prete apprezzato, orgoglioso testimone di Cristo.
Dopo la partenza dei tedeschi la popolazione locale cercò di nascondersi dove poteva:  i russi cercavano alcol e oggetti di valore da portare con loro come bottino di guerra, ma, soprattutto, cercavano vendetta per le gravi perdite subite in battaglia, bruciando le case e uccidendo civili.
Anche il parroco Wolf fu ucciso nella canonica insieme con sua sorella e alcuni profughi che cercavano di nascondersi.
Rudolf Frank si diede da fare per difendere e nascondere le donne che subivano stupri dai soldati russi, ubriachi:  infatti nella zona di Niedersulz in Bassa Austria ci sono moltissime vigne e grandi cantine e i soldati vi trovarono grandissime quantità di vino.
Domenica 15 aprile 1945 la popolazione aspettava l’arrivo dei russi.
Si raccontava della particolare brutalità dei nuovi occupanti e in modo particolare le famiglie pensavano a un luogo dove nascondere le donne.
Il sacerdote riunì nella canonica circa 300 donne, sperando di poter organizzare meglio la protezione.
I soldati russi arrivarono in canonica il 16 aprile, ma il parroco chiuse le porte e si rifiutò di aprire.
Un comportamento del genere era intollerabile per i nuovi padroni:  il prete fu picchiato, ma i soldati andarono via.
Il giorno seguente, martedì 17 aprile, tornarono di nuovo e il sacerdote nuovamente bloccò la porta sperando di poter proteggere le donne nascoste nella canonica ma questa volta un soldato sparò due volte e ferì mortalmente il parroco.
L’Albania fu il primo Paese europeo a dichiararsi ateo e a essere governato secondo l’ideologia comunista.
Nel 1967 fu ufficialmente introdotto l’ateismo come fondamento per la vita della società e fu proibita ogni forma di culto religioso.
Il governo dichiarò con orgoglio che l’Albania era diventato il primo Stato ateo del mondo.
Nella nuova costituzione del Paese, approvata nel 1976, all’articolo 37 recitava “lo Stato non riconosce alcuna religione e sostiene la propaganda atea per infondere alle persone la visione scientifico-materialista del mondo”.
Il governo procedette alla confisca di moschee, chiese, monasteri e sinagoghe.
Gli edifici di culto furono trasformati in musei o uffici pubblici, magazzini, cinema, stalle per animali.
Ai genitori fu proibito dare ai figli nomi con riferimenti religiosi.
In seguito furono uccisi a Tirana i primi due sacerdoti, Lazër Shantoja e Mark Gjani.
Nel 1947 fu ucciso a Scutari il gesuita Ndoc Saraci.
Un anno dopo, nel 1948, furono fucilati i vescovi Gjergj Volaj e Frano Gjini e, nel 1949, dopo terribili torture, morì in prigione l’arcivescovo di Tirane-Durrës Vincenz Nikollë Prennushi.
Colpire duramente la comunità cattolica significava cancellare la lunga e tollerante tradizione del Paese per far posto alla nuova e aggressiva ideologia comunista.
In Albania furono uccisi 5 vescovi, 60 sacerdoti, 30 religiosi francescani, 13 gesuiti, 10  seminaristi  e 8 suore.
La lista non è  ancora  completa,  mancano  i  martiri laici uccisi durante il periodo comunista.
 Tra le figure di spicco della resistenza religiosa va in primo luogo ricordato coraggioso padre Mikel Koliqi (1902-1997), creato cardinale da Giovanni Paolo II nel 1994.
Padre Mikel Koliqi era stato condannato ai lavori forzati già nel 1945, con la banale accusa di ascoltare le stazioni straniere della radio.
In Romania numerosi vescovi, monaci e preti furono arrestati dalla polizia segreta e molti laici vennero reclusi nei campi di lavoro.
Come esempio di persecuzione ricordo la vita di monsignor Anton Durcovici (1888-1951), eroico vescovo della diocesi di Iasi in Romania al confine con la Repubblica Moldava.
Nel 1948 la Chiesa romano-cattolica in Romania era organizzata in cinque diocesi, 694 parrocchie, 1.225 chiese e 835 sacerdoti.
La Chiesa greco-cattolica aveva cinque diocesi, 2.536 chiese, 1.794 parrocchie, 1.788 sacerdoti.
La pacifica convivenza delle varie nazionalità e culture che da secoli vivevano in pace e tolleranza fu improvvisamente distrutta dal nuovo sistema politico del dopo guerra.
I comunisti per principio non volevano condividere il potere con nessun altro gruppo politico o religioso.
Già dall’inizio le organizzazioni religiose erano oggetto di un’organizzata persecuzione da parte del governo comunista.
Centinaia di sacerdoti furono arrestati e in seguito portati nei campi di lavori forzati, dove, maltrattati, molti morivano in poco tempo.
Il 26 giugno 1949 Durcovici fu arrestato mentre viaggiava su un tram insieme con un altro sacerdote, Rafael Friedrich.
In quel periodo furono arrestati tutti i cinque vescovi e la Chiesa rimase senza guida, a parte alcuni sacerdoti ancora in libertà.
Il vescovo dovette subire terribili maltrattamenti, privato del cibo e nel totale isolamento, senza bagno.
Per farlo soffrire ancora di più i poliziotti gli tolsero i vestiti.
Un sacerdote prigioniero, incaricato della pulizia del corridoio, poté avvicinarsi alla porta della cella senza destare sospetti e dire qualche parola a voce bassa al suo vescovo.
Lui riconobbe la sua voce e lo informò in lingua latina, sconosciuta ai poliziotti, che stava soffrendo molto ed era ormai prossimo alla morte per la fame e per le ferite; sdraiato sul pavimento tra la sporcizia e gli escrementi, per lui non era più possibile muoversi.
Alla fine del brevissimo colloquio chiese al sacerdote prigioniero di dargli l’assoluzione dei peccati in caso di morte e anche la sua benedizione.
Probabilmente già il 10 dicembre il  coraggioso vescovo e martire Anton Durcovici morì nella sua cella.
Secondo le informazioni fornite dagli studiosi rumeni, nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, dei circa 3.331 sacerdoti cattolici, di ambedue i riti, ne furono uccisi circa 1.405.
In Slovenia la storia ebbe lo stesso percorso.
Anton Vovk (1900-1963) venne nominato vescovo (e poi arcivescovo) di Ljubljana il 26 novembre 1959.
Giovanni XXiii lo definì “martire del XX secolo”.
Dopo la seconda guerra mondiale vescovi, sacerdoti e fedeli subirono una dura repressione.
Alla fine della guerra circa 300 sacerdoti e religiosi sloveni furono espulsi dal partito comunista.
Alcuni furono uccisi senza processo, altri ancora furono condannati dai tribunali popolari senza nessuna ragione, spesso patirono lunghi anni di prigione.
Nel solo maggio 1945 furono arrestati 50 preti.
Negli anni 1945-1961 furono condannati senza processo 425 sacerdoti.
Lo stato comunista ridusse pesantemente la libertà di culto e proibì ogni attività fuori dalle parrocchie.
Il vescovo Anton Vovk era solito viaggiare con i mezzi pubblici, accompagnato, per motivi di sicurezza, da altri sacerdoti.
Anche il 20 gennaio 1952 viaggiava in compagnia di altre persone da Ljubljana a Nové Mesto per la benedizione dell’organo nella chiesa parrocchiale di Stopice.
Sullo stesso treno si trovavano anche agenti della polizia, che avevano progettato un attentato ai suoi danni.
Appena il treno entrò in una galleria, sulle vesti del vescovo fu gettato un liquido maleodorante e infiammabile.
Alla stazione di Nové Mesto il vescovo scese dal treno, ma fu subito assalito da un gruppo di persone che lo costrinsero a risalire, non prima però di aver gettato della benzina sulla sua veste e aver appiccato il fuoco.
La folla, invece di intervenire in suo aiuto, gridava con furore:  “brucia diavolo, crepa diavolo!”.
Anche la polizia non intervenne.
Il vescovo non perse il sangue freddo e si liberò dai vestiti in fiamme.
Il fuoco aveva provocato gravi ferite sul volto e sulla gola, dove il collarino di plastica gli procurò una cicatrice che gli rimase per tutta la vita.
Quando le fiamme si spensero un poliziotto lo accompagnò nel vicino edificio della stazione, dove fu di nuovo aggredito da un gruppo di attivisti comunisti.
Con la scusa di espletare le formalità fu ritardata l’opera del medico.
Portato finalmente nell’ospedale fu medicato sommariamente e rimandato subito a Ljubljana con il primo treno disponibile.
Dopo una grave malattia, l’arcivescovo Anton Vovk morì il 7 luglio 1963.
L’inchiesta diocesana della causa di beatificazione si è conclusa il 12 ottobre 2007 e il 26 ottobre i documenti sono stati portati in Vaticano.
Uno dei più grandi desideri irrealizzati di Giovanni Paolo II fu quello di poter visitare la Russia, ma riuscì solo a visitare alcuni Paesi della dissolta Unione Sovietica.
La visita in Ucraina fu un’occasione per pregare insieme a un milione di fedeli, ma anche per commemorare, quel 27 giugno 2001, il sacrificio di 27 martiri, di cui 9 vescovi, sacerdoti e laici elevati alla gloria degli altari.
Le persecuzioni in Ucraina iniziano con l’arrivo dell’Armata rossa, nel marzo 1944.
L’arcivescovo Andrej Szeptickyi, già vecchio e malato, morì il 1° novembre 1944.
I comunisti, ancora negli ultimi giorni della guerra, arrestarono tutti i vescovi greco-cattolici sul territorio nazionale.
Il loro destino fu contrassegnato da numerose prigionie, processi farsa o inesistenti, totale isolamento nei campi di lavoro, lontani dalle loro comunità.
Il beato vescovo di Mukachevo, Theodore Romzha (1914-1947) fu il più giovane vescovo della Chiesa greco-cattolica.
Nel 1946 lo Stato sovietico incorporò le diocesi greco-cattoliche nel patriarcato ortodosso di Mosca.
Solo la diocesi greco-cattolica di Mukachevo funzionava ancora.
I servizi segreti cercavano da tempo un modo per uccidere il vescovo Theodore Romzha.
In Unione Sovietica i sacerdoti non avevano diritto di spostarsi senza autorizzazione della milizia così anche il vescovo chiese un permesso per poter visitare una parrocchia.
Questa informazione fu usata dai persecutori per organizzare un falso incidente stradale e uccidere il vescovo senza destare sospetti, temendo una reazione della popolazione.
Il 27 ottobre 1947 l’auto del vescovo fu investita da un pesante camion ma il vescovo, vedendo gli attentatori armati con spranghe di ferro, ancorché ferito, riuscì a fuggire e venne ricoverato in gravissime condizioni all’ospedale di Mukachevo.
Con il passare dei giorni le sue condizioni stavano migliorando.
Ma un’infermiera, il 1 novembre 1947, lo uccise avvelenandolo con il curaro.
Il 27 giugno 2001, Theodore Romzha è stato proclamato beato da Giovanni Paolo II a Leopoli.
 La vita di Josyf Ivanovyc Slipyj illustra al meglio la situazione ucraina.
Il 22 dicembre 1939 fu consacrato arcivescovo con diritto di successione, diventò capo della Chiesa Cattolica Ucraina il 1 novembre 1944.
Slipyj fu arrestato l’11 aprile 1945.
Dopo un processo farsa nel 1946, venne condannato per attività antisovietica a otto anni di prigionia, che scontò nei diversi Gulag.
Nel 1954 venne di nuovo riportato in Siberia, questa volta per quattro anni.
Nel 1959 sopportò un secondo processo e una nuova condanna, questa volta a sette anni di Gulag.
Fu nominato cardinale in pectore fin dal 1960 e il 22 febbraio 1965 arcivescovo maggiore da Paolo VI.
Slipyj morì il 7 settembre 1984.
Anche in Ungheria l’arrivo dell’Armata rossa segna l’inizio delle persecuzioni.
Il sacrificio del vescovo di Gyor, Vilmos Apor, e la lotta per i diritti umani fatta da József Mindszenty, sono solo i due esempi più noti.
La rottura con la Santa Sede si consumò il 4 aprile  1945,  con  la  partenza  del nunzio monsignor Angelo Rotta da Budapest.
I comunisti russi portarono in Ungheria un gruppo di comunisti ungheresi, preparati a Mosca, con il compito di prendere il potere politico nel Paese.
La Chiesa cattolica in Ungheria fu dichiarata un’organizzazione contraria agli interessi dei sovietici.
Nel 1948 fu proclamata la separazione fra Stato e Chiesa e i sacerdoti dovettero restringere le loro l’attività all’interno delle chiese.
Il Partito comunista ungherese desiderava con tutti mezzi prima  di  tutto  diffondere  l’ideologia materialista fra i giovani e la classe operaia.
Pio xii nominò il 15 settembre 1945 József Mindszenty nuovo arcivescovo di Esztergom.
Mindszenty si impegnò a difendere le posizioni della Chiesa, i suoi diritti e la stabilità delle sue istituzioni senza compromessi politici.
Il nuovo potere intensificò la campagna diffamatoria contro Mindszenty e la Chiesa cattolica.
I comunisti speravano di riuscire a far spostare Mindszenty dall’Ungheria, con l’aiuto del Vaticano.
Visto che questi tentativi fallirono, decisero di arrestarlo a Esztergom il 26 dicembre 1948.
In un processo farsa, l’8 febbraio 1949, fu condannato all’ergastolo ma venne liberato durante la rivoluzione nel 1956.
Il 4 novembre 1956 si rifugiò nell’ambasciata americana, dove restò fino al 1971, quando gli fu consentito di recarsi a Vienna.
Nelle trattative ebbe un ruolo importante l’arcivescovo di Vienna, il cardinale Franz König.
Vilmos Apor nacque il 29 febbraio 1892 ad Alba Julia.
Nel 1894 la famiglia si trasferì a Vienna dove Vilmos frequentò la scuola; successivamente completò i suoi studi tra l’Ungheria e l’Austria.
Il 24 agosto 1915 venne ordinato sacerdote.
Nell’agosto 1918 venne nominato parroco di Gyula:  aveva 26 anni e fu il più giovane parroco d’Ungheria.
Consacrato vescovo il 24 febbraio, prese possesso della diocesi il 2 marzo 1941.
Nello stesso anno l’Ungheria entrò in guerra a fianco della Germania.
Quando in Ungheria furono introdotte le leggi razziali, Apor prese posizione in favore delle vittime dell’ingiustizia e tentò tutto ciò che era in suo potere per proteggere gli abitanti della sua diocesi.
Quando il 19 marzo 1944 le truppe tedesche invasero l’Ungheria, Apor condannò in cattedrale il razzismo antiebraico.
Si oppose, in una lettera del 28 maggio 1944, diretta al ministro degli Interni, alla costruzione di un ghetto a Gyor, pur conoscendo le conseguenze a cui sarebbe andato incontro.
Iniziata la deportazione in massa, creò gruppi di soccorso lungo il percorso dei convogli, salvando da morte migliaia di ebrei.
Nel frattempo l’avanzata dell’Armata rossa era preceduta da terrificanti notizie circa il comportamento dei soldati.
Egli aprì il suo palazzo a tutti coloro che cercavano rifugio.
Nel Natale del 1944, le truppe sovietiche iniziarono l’invasione, stuprando donne e uccidendo chiunque si opponesse.
Il 28 marzo 1945, Mercoledì santo, Apor andò incontro ai primi soldati russi:  li accolse con calma dichiarando che quanti si trovavano nel castello erano posti sotto la sua protezione.
Non si allontanò dall’ingresso e vegliò giorno e notte per proteggere i trecento rifugiati.
Verso la sera del Venerdì santo si presentarono all’ingresso dei sotterranei alcuni soldati russi, guidati da un maggiore, e cercarono di trascinare fuori le ragazze.
Il vescovo si oppose e i soldati spararono, colpendolo con tre proiettili.
Fu subito trasportato in ospedale dove, nonostante l’operazione, il 2 aprile 1945 morì.
Il 9 novembre 1997, Vilmos Apor è stato proclamato beato da Papa Giovanni Paolo II.
La storia della Polonia è da sempre legata alla storia del cristianesimo.
La Chiesa e la Nazione dovettero spesso dimostrare la loro forza contro il tragico destino degli ultimi secoli.
La posizione geografica tra la Germania a Ovest e la Russia a Est ha spesso determinato la difficile storia del Paese.
Il sistema comunista propagato dai Russi non ha trovato, nonostante grandi sforzi e persecuzioni d’ogni tipo, terreno fertile.
Nel 1944 con l’Armata rossa viene instaurato da Mosca un governo polacco comunista, imposto da Stalin.
Quando arrivavano i soldati russi non c’era più salvezza per tutti coloro che non condividevano quella visione della società, fossero essi persone o istituzioni.
Dopo la tragedia di Katyn, dove morirono 22.000 ufficiali polacchi, uccisi dai servizi segreti per ordine di Stalin, solo un piccolo gruppo della società polacca diede il benvenuto ai soldati russi, che liberarono il Paese dai nazionalisti tedeschi.
Dopo milioni di morti nei campi di concentramento sul territorio polacco – organizzati da Berlino nel centro geografico del nuovo Reich per economizzare sui costi per l’annientamento di quelli che Adolf Hitler considerava popoli senza diritto alla vita – si passava adesso al criminale sistema dell’Unione Sovietica, con migliaia di campi di concentramento ben funzionanti anche dopo la seconda guerra mondiale.
Mentre a Norimberga l’Unione Sovietica condannava i crimini di guerra commessi dalla Germania, milioni di persone vivevano e lavoravano in condizioni disumane nei numerosi Gulag in Siberia.
Dall’inizio, oltre all’intellighenzija del Paese, la Chiesa cattolica con i suoi sacerdoti costituiva un obiettivo primario del potere comunista.
Questi, appena tornati da un campo di concentramento speciale a Dachau in Germania, dovettero subire altri atti di violenza da parte del nuovo governo.
Non tutti i rappresentanti della Chiesa ebbero il coraggio di resistere ancora.
Dalle recenti ricerche degli storici emerge che non tutti ebbero un comportamento eroico come Stanislaw Suchowolec un sacerdote di 31 anni, picchiato dagli agenti segreti e poi finito soffocato nella sua casa, alla quale qualcuno in una notte del 1989 aveva appiccato il fuoco.
O come Stefan Niedzielak, un prete di 75 anni, rapito e ammazzato brutalmente a Varsavia.
Un esempio particolare di fedeltà e coraggio è quello dimostrato da un giovane sacerdote, Jerzy Popieluszko, sequestrato dagli agenti dei servizi segreti dello Stato, torturato e infine gettato nella Vistola nel 1984.
La lista dei sacerdoti polacchi perseguitati dai sevizi segreti del ministero degli Interni è lunga, anche se il vero numero delle persone discriminate probabilmente non si saprà mai:  resteranno nella memoria solo i personaggi più famosi o quelli uccisi in odium fidei.
 I grandi protagonisti della Chiesa in quel difficile periodo furono i cardinali Stefan Wyszynski a Varsavia e il futuro Papa, Karol Wojtyla, a Cracovia.
L’apparato dello Stato, messo in movimento per controllare e frenare le attività della Chiesa, si mostra oggi, dopo la conoscenza di tanti dettagli, veramente impressionante.
Alcuni nuovi aspetti li possiamo conoscere dai documenti del processo diocesano di beatificazione di Popieluszko.
Per un lungo tempo la polizia segreta preparò una relazione giornaliera sullo stato delle attività della Chiesa.
Queste relazioni finivano sui tavoli dei personaggi più importanti nel Paese, come il generale Wojciech Jaruzelski e i membri del comitato centrale del Partito comunista polacco e del governo.
Le oppressioni contro la Chiesa cattolica vengono sistematizzate con una legge del 1962.
In questo stesso anno Stefan Wyszynski, insieme con altri vescovi polacchi, pubblicò un’importante lettera pastorale contro l’ateismo.
Dall’agosto del 1980 Popieluszko era diventato un leader del movimento dei lavoratori Solidarnosc, collaborando con numerosi oppositori del governo polacco e nello stesso momento un avversario del governo.
Ben presto le sue parole divennero popolari e spesso ripetute in varie occasioni sindacali:  “per rimanere un uomo libero bisogna vivere nella verità.
Non ci possiamo far governare dalla menzogna”.
Popieluszko svolse in questo difficile periodo per tutto il movimento Solidarnosc un’ampia opera di sostegno materiale e spirituale dei lavoratori e si mantenne in stretto contatto con gli intellettuali dell’opposizione e con le strutture clandestine di Solidarnosc.
Le autorità politiche in Polonia temevano la sua influenza e si fecero sempre più frequenti le proteste alla Curia e al nuovo primate di Polonia, l’arcivescovo di Varsavia Józef Glemp.
Nel telegiornale del 20 ottobre tutta la Polonia seppe ufficialmente, grazie alle notizie raccontate da alcuni ben informati oppositori, che don Popieluszko era stato rapito.
Nella chiesa di San Stanislao a Varsavia, dove abitava il sacerdote accorsero migliaia di persone a pregare per la sua libertà.
Non si sapeva ancora che il sacerdote era già stato ucciso e che il suo corpo si trovava sul fondo del lago vicino a Wloclawek.
Il 30 ottobre la stessa televisione polacca diffuse la notizia del ritrovamento del corpo di don Popieluszko.
Il cardinale Joseph Ratzinger ha visitato la sua tomba a Varsavia, nel prato verde presso la chiesa di San Stanislaw Kostka, il 25 maggio 2002.
Sulla libro che raccoglie le frasi lasciate dalle persone che visitano la tomba dell’eroico sacerdote Ratzinger ha scritto in italiano le seguenti parole:  “Il Signore benedica la Polonia, dando sacerdoti con lo spirito evangelico di Popieluszko”.
Dal 1984 circa diciotto milioni di pellegrini si sono recati a pregare su quella tomba.
Il processo di beatificazione di don Jerzy  Popieluszko fu aperto l’8 febbraio 1997 a Varsavia.
La fase diocesana durò 4 anni e furono raccolti numerosi documenti e interrogati 44 testimoni.
Il 3 maggio 2001 ebbe inizio in Vaticano il processo super martyrio.
Il 19 dicembre 2009 il Pontefice ha firmato il decreto del martirio del Servo di Dio don Jerzy Popieluszko.
La beatificazione fu celebrata a Varsavia, sulla piazza centrale della città, il 6 giugno 2010.
Le nuove generazioni dei giovani cattolici del mondo intero conosceranno il suo martirio per mano dei comunisti.
La Chiesa non solo è sopravvissuta alle sanguinose persecuzioni perpetrate dal regime comunista ma, grazie al sangue dei martiri, è stata rafforzata per affrontare con rinnovato vigore il XXI secolo.
Talvolta i persecutori hanno potuto toglierle la voce, ma mai la memoria.
E la memoria trasmessa di bocca in bocca diventa storia, e la storia rende sovente giustizia ai perseguitati.
Sono uomini e donne, vecchi e bambini, laici e sacerdoti, spose e consacrate, zar e contadini.
Ciascuno con un nome da ricordare.
Perché è dovere di ogni cristiano fare memoria, e non solo della frazione del pane, che è il corpo di Cristo, ma anche della frazione di quel corpo mistico, che è la Chiesa.
(©L’Osservatore Romano – 29-30 novembre 2010) Attraverso l’esperienza maturata come responsabile dell’Ufficio cause di beatificazione dell’arcidiocesi di Vienna e curatore della redazione del nuovo Martirologio della Chiesa austriaca per l’anno 2000 e la collaborazione col Comitato nuovi martiri, che si occupava di elaborare le statistiche dei martiri cristiani per il grande Giubileo, ho potuto avere una visione mondiale delle persecuzioni del XX secolo.
Il 24 giugno 2010 è stato aperto nell’Archivio dell’arcidiocesi di Vienna il “Kardinal-König-Archiv”.
Agli studiosi sono stati messi a disposizione 2.000 cartoni, contenenti il prezioso materiale riguardante la vita del cardinale fino al 1958.
Oltre alla biblioteca privata del porporato sono stati messi a disposizione documenti personali, fotografie e lettere.
Il XX secolo, caratterizzato dai grandi totalitarismi – il comunismo e il nazionalsocialismo – ha lasciato fino a oggi prove tangibili del grande coraggio nella fede dimostrato da numerosi martiri che, col sangue, dimostrarono il loro legame con Cristo e con la Chiesa.
Noi oggi tenteremo di dare un volto e un nome a qualcuno di questi testimoni ridotti al silenzio con brutalità.
 Giovanni Paolo II ha sottolineato la necessità di riscoprire la memoria dei martiri e la loro testimonianza.
I martiri cristiani sono coloro che hanno annunciato il Vangelo dando la vita per amore.
Questa testimonianza dei martiri cristiani doveva essere riscoperta di nuovo dalla Chiesa proprio adesso, quando il XX secolo, così ricco di grandi eroi della fede, volgeva al tramonto.
Il martire è un grande testimone di Cristo e, soprattutto ai nostri giorni, è segno visibile di quell’amore che riassume ogni altro valore.
La sua richiesta fu ben accolta e le Chiese nazionali e gli ordini religiosi iniziarono a preparare le liste e a raccogliere i documenti ancora esistenti sui propri martiri.

I Domenica di Avvento anno A

Preghiere e racconti L’avvento Con l’odierna prima domenica di Avvento, entriamo in quel tempo di quattro settimane con cui inizia un nuovo anno liturgico e che immediatamente ci prepara alla festa del Natale, memoria dell’incarnazione di Cristo nella storia.
Il messaggio spirituale dell’Avvento è però più profondo e ci proietta già verso il ritorno glorioso del Signore, alla fine della storia.
Adventus è parola latina, che potrebbe tradursi con ‘arrivo’, ‘venuta’, ‘presenza’.
Nel linguaggio del mondo antico era un termine tecnico che indicava l’arrivo di un funzionario, in particolare la visita di re o di imperatori nelle province, ma poteva anche essere utilizzato per l’apparire di una divinità, che usciva dalla sua nascosta dimora e manifestava così la sua potenza divina: la sua presenza veniva solennemente celebrata nel culto.
Adottando il termine Avvento, i cristiani intesero esprimere la speciale relazione che li univa a Cristo crocifisso e risorto.
Egli è il Re, che, entrato in questa povera provincia denominata terra, ci ha fatto dono della sua visita e, dopo la sua risurrezione ed ascensione al Cielo, ha voluto comunque rimanere con noi: percepiamo questa sua misteriosa presenza nell’assemblea liturgica.
Celebrando l’Eucaristia, proclamiamo infatti che Egli non si è ritirato dal mondo e non ci ha lasciati soli, e, se pure non lo possiamo vedere e toccare come avviene con le realtà materiali e sensibili, Egli è comunque con noi e tra noi; anzi è in noi, perché può attrarre a sé e comunicare la propria vita ad ogni credente che gli apre il cuore.
Avvento significa dunque far memoria della prima venuta del Signore nella carne, pensando già al suo definitivo ritorno e, al tempo stesso, significa riconoscere che Cristo presente tra noi si fa nostro compagno di viaggio nella vita della Chiesa che ne celebra il mistero.
Questa consapevolezza, cari fratelli e sorelle, alimentata nell’ascolto della Parola di Dio, dovrebbe aiutarci a vedere il mondo con occhi diversi, ad interpretare i singoli eventi della vita e della storia come parole che Iddio ci rivolge, come segni del suo amore che ci assicurano la sua vicinanza in ogni situazione; questa consapevolezza, in particolare, dovrebbe prepararci ad accoglierlo quando “di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà mai fine”, come ripeteremo tra poco nel Credo.
In questa prospettiva l’Avvento diviene per tutti i cristiani un tempo di attesa e di speranza, un tempo privilegiato di ascolto e di riflessione, purché ci si lasci guidare dalla liturgia che invita ad andare incontro al Signore che viene.
(Discorso di Benedetto XVI a San Lorenzo fuori le Mura, Per il 1750° anniversario del martirio di San Lorenzo, 30 novembre 2008).
L’attesa, una maniera di vivere «La nascita è un’attesa ma, contrariamente a ciò che si vorrebbe credere, l’attesa non è una parentesi: è una maniera di vivere…».
(Jean DEBRUYNE, Nascere).
  Svegliatevi! Avvento significa svegliarsi dai sogni di tutti i giorni, svegliarsi alla realtà.
Chi è desto vive con consapevolezza ogni momento della sua vita, è presente a se stesso, vivace, vigile.
È sveglio chi non si stordisce.
La frenesia intontisce.
Non siamo obbligati a lasciarci travolgere dal vortice consumistico.
Non dobbiamo a tutti i costi lasciarci inghiottire dalla smania di esaudire ogni desiderio.
La vigilanza non è soltanto l’atteggiamento fondamentale richiesto dall’Avvento.
Il racconto del Natale menziona i pastori che vegliavano durante la notte.
E proprio perché stavano vegliando viene loro annunciata la lieta novella della nascita del Messia.
Chi è sveglio è aperto e disponibile ad accogliere il mistero che vorrebbe afferrarci.
(Anselm GRÜN, Il piccolo libro della gioia del Natale, Milano, Gribaudi, 2006, 20)   Attendere Non amo attendere nelle file.
Non amo attendere il mio turno.
Non amo attendere il treno.
Non amo attendere prima di giudicare.
Non amo attendere il momento opportuno.
Non amo attendere un giorno ancora.
Non amo attendere perché non ho tempo e non vivo che nell’istante.
D’altronde tu lo sai bene, tutto è fatto per evitarmi l’attesa: gli abbonamenti ai mezzi di trasporto e i self-service, le vendite a credito e i distributori automatici, le foto a sviluppo istantaneo, i telex e i terminali dei computer, la televisione e i radiogiornali.
Non ho bisogno di attendere le notizie: sono loro a precedermi.
Ma tu Dio tu hai scelto di farti attendere il tempo di tutto un Avvento.
Perché tu hai fatto dell’attesa lo spazio della conversione, il faccia a faccia con ciò che è nascosto, l’usura che non si usura.
L’attesa, soltanto l’attesa,  l’attesa dell’attesa, l’intimità con l’attesa che è in noi, perché solo l’attesa desta l’attenzione e solo l’attenzione è capace di amare.
(J.
Debruyrnne, Ecoute, Seigneur, ma prière, Collectif, Paris).
  L’ “ora di Dio” Il Signore ci chiede di essere vigilanti e pronti perché non possiamo conoscere in anticipo l’ora di Dio, l’ora in cui Dio viene a visitarci con un intervento speciale.
Sono ormai abbastanza anziano e saggio da pensare che non posso forzare quest’ora di Dio.
Dio verrà da me e da te, a modo suo e quando vorrà.
A volte siamo tentati di comportarci come coloro che addestrano gli animali con i cerchi.
Chiediamo a Dio di venire e di saltare attraverso i nostri cerchi proprio come vogliamo noi! Ma, alla fine, scopriamo che Dio non è un animale ammaestrato.
Dio sceglie i suoi momenti e suoi mezzi.
La nostra parte è solo di essere pronti per questi momenti speciali.
A volte, l’ora di Dio sembra giungere proprio nel momento in cui non ce la facciamo più.
Ad ogni modo, la nostra fiducia in Dio ci dice che Dio verrà, al momento migliore e nel modo migliore.
Io devo permettere a te di essere te stesso, e tu devi permettere a me di essere me stesso.
E noi dobbiamo permettere a Dio di essere Dio.
(J.
POWELL, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 1995, 70).
  Il buffone e il re Un re aveva al suo servizio un buffone di corte che gli riempiva le giornate di battute e scherzi.
Un giorno, il re affidò al buffone il suo scettro dicendogli: «Tienilo tu, finché non troverai qualcuno più stupido di te: allora potrai regalarlo a lui».
Qualche anno dopo, il re si ammalò gravemente.
Sentendo avvicinarsi la morte, chiamò il buffone, a cui in fondo si era affezionato, e gli disse: «Parto per un lungo viaggio».
«Quando tornerai? Fra un mese?», «No», rispose il re, «non tornerò mai più».
«E quali preparativi hai fatto per questa spedizione?», chiese il buffone.
«Nessuno!» fu la triste risposta.
«Tu parti per sempre», disse il buffone, «e non ti sei preparato per niente? To’, prendi lo scettro: ho trovato uno più stupido di me!».
  Vigilanza nella solitudine  Poco tempo fa un prete mi ha detto di avere annullato l’abbonamento al New York Time perché si era accorto che le continue cronache di guerre, di delitti, di giuochi di potere e di manipolazioni politiche non facevano altro che disturbargli la mente ed il cuore, impedendogli di meditare e di pregare.
 È una storia triste, perché fa nascere il sospetto che solo cancellando il mondo vi si possa vivere, che soltanto circondandosi di una calma spirituale, da noi stessi creata, si possa condurre una vita spirituale.
Una vera vita spirituale, invece, fa esattamente il contrario: ci rende tanto vigili e consapevoli del mondo che ci circonda, che tutto ciò che esiste e che accade entra a far parte della nostra contemplazione e della nostra meditazione, invitandoci a rispondere liberamente e senza timore.
È questa vigilanza nella solitudine che muta la nostra esistenza.
La differenza sta tutta nel modo in cui guardiamo e ci rapportiamo alla nostra storia personale, attraverso la quale il mondo ci parla.
(Henri J.M.
NOUWEN, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo, Brescia, 1980, 44-45).
Amare la prima venuta, desiderare la seconda Fratelli carissimi, dovete sapere che questo tempo beato che noi chiamiamo «Avvento del Signore» evoca due realtà e, dunque, duplice deve essere la nostra gioia, poiché duplice è anche il guadagno che ci deve portare.
Questo tempo evoca le due venute del nostro Signore: quella dolcissima venuta in cui il più bello dei figli dell’uomo (Sal 44 [45], 3), il desiderato da tutte le genti (Ag 2,7 Vg), vale a dire il Figlio di Dio, si manifestò visibilmente nella carne a questo mondo, lui a lungo atteso e desiderato ardentemente da tutti i padri; ciò avvenne quando egli venne in questo mondo a salvare i peccatori.
Ma questo tempo evoca anche l’altra venuta che dobbiamo aspettare con una solida speranza e che dobbiamo ricordare spesso tra le lacrime, il momento, cioè, in cui il nostro Signore, che dapprima era venuto nascosto nella carne, verrà manifestamente nella sua gloria, come canta il salmo: Dio verrà manifestamente (Sal 49 [50], 3), cioè il giorno del giudizio, quando verrà manifestamente per giudicare […].
Giustamente la chiesa ha voluto che in questo tempo si leggessero le parole dei santi padri e si ricordasse il desiderio di quelli che vissero prima della venuta del Signore.
Non celebriamo questo loro desiderio per un solo giorno, ma per un tempo abbastanza lungo, poiché di solito quando desideriamo e amiamo molto qualcosa, se accade che essa viene differita per un qualche tempo, ci sembra più dolce ancora quando giunge.
Seguiamo, dunque, fratelli carissimi, gli esempi dei santi padri, proviamo il loro stesso desiderio, e infiammiamo i nostri cuori con l’amore e il desiderio di Cristo.
Dovete sapere che è stata stabilita la celebrazione di questo tempo per rinnovare in noi il desiderio che gli antichi santi padri avevano riguardo alla prima venuta del Signore nostro e dal loro esempio impariamo a nutrire un grande desiderio della sua seconda venuta.
Dobbiamo pensare a quante cose buone ha fatto il Signore nostro nella sua prima venuta e a quelle ancor più grandi che farà nella seconda e con tale pensiero dobbiamo amare molto la sua prima venuta e desiderare molto la seconda.
(AELREDO DI RIEVAULX, Discorsi 1, PL 195,209A-210B).
Preghiera Signore Gesù, che ci hai affidato la tua casa, la Chiesa e tutti i nostri fratelli, perché ci prendiamo cura gli uni degli altri in attesa del tuo ritorno, non lasciarci cadere le braccia per la stanchezza e per il sonno.
«State attenti, vigilate», è il tuo comando: come chi passa la notte in campagna è attento a tutti i rumori della notte perché possono essere forieri di qualcosa di inatteso, così fa’ che noi teniamo l’occhio attento e l’orecchio teso per scorgere dove tu sei all’opera e dove ci chiami a collaborare con te.
      * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Lezionario domenicale e festivo.
Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.
– Avvento-Natale 2010, a cura dell’ULN della CEI, Milano, San Paolo, 2010.
– Temi di predicazione.
Omelie.
Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.  – E.
Bianchi et al., Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 88 (2007) 10, 69 pp.
– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
   I DOMENICA DI AVVENTO   Lectio – Anno A   Prima lettura: Isaia 2,1-5           Messaggio che Isaia, figlio di Amoz, ricevette in visione su Giuda e su Gerusalemme.
Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e s’innalzerà sopra i colli, e ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno: «Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri». Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore.  Egli sarà giudice fra le genti e arbitro fra molti popoli. Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra. Casa di Giacobbe, venite, camminiamo nella luce del Signore.      v Questo profeta dell’A.T è capace di contemplare l’Altissimo e di far comprendere al popolo dell’alleanza che il Signore e la sua santa legge devono essere accolti nella fede.
Il profeta Isaia nasce a Gerusalemme nel 760 a.C., vive il tempo difficile del Regno del Sud sotto la minaccia degli Assiri, finisce il suo ministero sotto Manasse (690 a.C.).                                                        Il testo proposto dalla Chiesa all’interno della Liturgia di questa prima domenica di Avvento è inserito nei primi cinque capitoli che raccolgono l’oracolo sul destino di Gerusalemme e di Giuda pronunziati nei primi anni del suo ministero.
La lettura del testo porta a ricordare l’episodio della Torre di Babele: tentativo umano di arrivare a Dio, un segno della superbia umana, ed ecco che il profeta oppone a questo avvenimento la visione del «monte del Signore» che radunerà i popoli nella pace.
Siamo di fronte ad un oracolo escatologico che annunzia la diffusione nel mondo del nome di YHWH e Gerusalemme diventerà il centro della religione jahvistica e della pace.
Nel v.
2 è molto importante sottolineare quel «sarà saldo…», esso è riferito a Gerusalemme, la nota della Versione dai testi originali così commenta: «Secondo la concezione mitologica dell’Antico oriente, il monte del tempio si identificava col monte altissimo in cui dimoravano gli dei.
Qui il mondo terrestre si univa con quello celeste.
Nel nostro testo questa mitologia viene utilizzata per descrivere la speranza escatologica di Israele» (cf.
p.
1046).
Il monte meraviglioso, attraverso la legge e la parola, impone un ordine umano secondo il progetto di Dio; il profeta nella sua visione ricorda che è volontà divina la giustizia sulla terra e che quest’ultima è il fondamento della pace; è nei piani dell’Altissimo un governo giusto, la pace internazionale, il disarmo, gli strumenti di guerra trasformati in mezzi di pace.
Il popolo d’Israele è in atteggiamento di cammino, apre il pellegrinaggio verso la luce del Signore, in questo grande movimento verso YHWH devono essere coinvolte tutte le genti.
  Seconda lettura: Romani 13,11-14a           Fratelli, questo voi farete,  consapevoli del momento:  è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino.
Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce.
Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a orge e ubriachezze, non fra lussurie e impurità, non in litigi e  gelosie.
Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo.      v Il testo paolino che la liturgia propone è inserito nella Lettera ai Romani.
Scritta, questa lettera, da Paolo nel 58 d.C., fu inviata per preparare un suo viaggio in Spagna.
Nella lettera Paolo espone il suo pensiero teologico, anche se non sono affrontati tutti i temi della sua teologia.
Questa lettera la potremmo definire come “la grande presentazione teologica” della fede cristiana.
Il nostro brano è inserito nella sezione 12,1-15,13 considerata la parte delle Attuazioni: come il credente deve affrontare la vita quotidiana.
Dal testo, usato dalla liturgia, emerge come Paolo valuti il suo “tempo” come “occasione di grazia”, invita i credenti a vivere nell’apertura al futuro; ormai la notte sta per terminare e Cristo sta per arrivare con tutta la sua gloria, la sua venuta coincide con il giorno.
La fede prepara la comunità cristiana a ricevere definitivamente Cristo nella sua infinita gloria.
Tutto ciò esige da parte del credente di sviluppare una coscienza che realizza opere di vita e non di morte; l’attesa del Vivente porta il credente ad avere sempre una condotta onesta, una coscienza in ricerca «per rivestirsi delle armi della luce» cioè le opere buone che allontanano l’uomo da ogni forma di male.
Dietro all’affermazione del v.
72 certamente Paolo vuole ricordare che le opere buone sono possibili solo se si è nuovi nel cuore, non si deve mai dimenticare che «la proposta morale cristiana non potrà mai perdere di vista questa priorità antropologica e salvifica.
Il valore morale non sta prima di tutto nel gesto che si compie, ma nel cuore che lo ispira e lo determina» (S.
MAJORANO, Coscienza e virtualità del Sangue di Cristo, «Sangue e vita», Roma, 1995, 154).
Nel v.
13 Paolo ricorda un elenco di vizi dal quale l’uomo dev’essere lontano che sono praticati normalmente di notte.
Ma ciò che potrebbe essere considerato centro del brano è il v.
14: «Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo…»: ciò che è avvenuto nel sacramento del battesimo come “evento” qui è presentato come esigenza nella vita morale.
È sempre il v.
14 che dev’essere considerato eco di un inno battesimale della Chiesa primitiva, ad ogni modo è certo che Paolo qui realizza una missione: presenta il piano di Dio in maniera cristologica ed orienta tutte le iniziative etiche dei credenti nell’obbedienza al Signore, (cf.
G.
BARBAGLIO, Le lettere di Paolo, vol.
2, Borla, Roma 1990, 491).
Mediante il verbo “rivestitevi” Paolo usa una metafora che indica sempre appropriazione, unione; rivestirsi del mistero di Cristo significa fare di esso il punto fondamentale della propria esistenza, la persona del Risorto datore di Spirito Santo diventa “fonte” della vita quotidiana dalla quale l’uomo attinge energia per vivere nella storia umana e fare la volontà del Padre Celeste.
  Vangelo:  Matteo 24,37-44     In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come furono ai giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo.
Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche alla venuta del Figlio dell’uomo.
Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato.  Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata. Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa.
Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».
    Esegesi      Il brano del Vangelo odierno ci immette nel capitolo 24 del Vangelo di Matteo che è definito comunemente “discorso escatologico”, il contesto è il seguente: Gesù è uscito dal tempio (cf.
v.
7) e sedutosi sul monte degli ulivi (cf.
v.
3) pronunzia queste parole sulle ultime realtà.
La pericope è preceduta dal tema dell’avvento del Figlio dell’uomo (cf.
vv.
26-23), dalla dimensione cosmica di questo avvento (cf.
vv.
29-37), dalla parabola del fico (cf.
vv.
32-36).
     Nel discorso in questione Gesù usa il linguaggio apocalittico, molto difficile, ma sappiamo bene che l’intenzione del Cristo non è quella di portare terrore ma di affermare delle verità teologiche: verrà la fine del mondo, è necessario assumere un atteggiamento di vigilanza, la storia diventa il luogo per realizzare già il regno di Dio.
È da annotare il v.
36 che molte volte fa difficoltà ricordando Mt 11,27 dove si afferma che quello che appartiene al Padre è anche del Figlio; ma nel v.
36 — che precede la nostra pericope — il senso profondo è che non rientra nella missione di Gesù rivelare il momento preciso della fine del mondo, ciò appartiene alla conoscenza del cuore di Cristo che è sempre in comunione eterna con il cuore del Padre che svela ogni cosa, nello Spirito santo, al suo Figlio prediletto.
Ma entriamo, aiutati dallo Spirito Santo, unico esegeta della Parola, nelle profondità del testo proposto dalla liturgia: vv.
37- 39: Gesù fa un paragone con la situazione storico, sociale e religiosa degli uomini contemporanei a Noè, si viveva nell’assoluto relativismo morale, la legge scritta nel cuore umano non era seguita, la libertà era intesa come libertinaggio.
Gesù ricorda tutto questo, evidenziando che vivendo nella dissolutezza, furono travolti dalla catastrofe.
Dobbiamo soffermarci sull’espressione «così sarà anche alla venuta del Figlio dell’uomo»: la venuta del Cristo glorioso che si presenterà come vero ed unico giudice della storia e delle coscienze personali incombe sugli uomini come “avvenimento” di giudizio; la seconda venuta del Cristo dev’essere intesa come “momento di sintesi” della storia umana e della nostra coscienza che si presenterà davanti al Cristo con la sua scelta fondamentale con il quale ha costruito il proprio vissuto morale.
vv.
40-41: la fine dei tempi avverrà nel “quotidiano” che diventerà improvvisamente “eternità” nel quale il Cristo glorioso giudicherà con misericordia e verità.
Il testo evangelico ricorda delle occupazioni abituali: il lavoro dei campi fatto dagli uomini ed i lavori domestici realizzati dalle donne, è qui che si svolgerà l’ultima chiamata di Cristo.
v.
42: l’esistenza umana che è un cammino verso l’eterno non può essere vissuta nella distrazione, l’incontro con il Cristo glorioso dev’essere preparato dal discepolo, per questo Gesù invita alla vigilanza e quindi alla preghiera.
Il momento orante della vita personale prepara il cuore umano ad accogliere la parola definitiva del Redentore nel proprio vissuto quotidiano.
Ma questo “vegliare” al quale il Cristo stesso ci chiama non è un’attesa di paura e di angoscia ma dev’essere un momento nel quale il credente deve immergersi in una preghiera fiduciosa verso l’Altissimo.
Il discepolo di Cristo che attende la sua venuta confida nel suo Signore, in quanto sa bene che Dio avrà sempre una «parola di misericordia» nei suoi confronti; dovranno essere questi i pensieri del «vegliare» in attesa della parusia.
Ma tutto ciò non esclude l’impegno concreto per la realizzazione del regno di Dio nella storia umana, il cristiano non può disprezzare la vita presente; il futuro, l’escatologia inizia nella nostra storia; il regno di Dio è già in mezzo a noi e avrà nel «domani di Dio» la sua piena attuazione.
Questo logion è presente in Mc 13,35, inserito in un’altra parabola che l’evangelista Matteo omette.
È da annotare il commento che fa in nota la Bibbia di Gerusalemme: «La vigilanza, in questo stato di allarme, suppone una solida speranza ed esige una costante presenza di spirito che prende il nome di sobrietà» (cf.
p.
21-43).
vv.
43-44: qui abbiamo la piccola parabola dello scassinatore notturno, è riferita alla venuta gloriosa del Cristo che sarà improvvisa, questi versetti potrebbero acquistare luce leggendo il brano dell’Apocalisse 3,3: «Se non sarai vigilante, io verrò come un ladro, senza che tu sappia l’ora della mia venuta a te».
Gesù si pone in netto contrasto con l’apocalittica giudaica che cercava di calcolare in anticipo la parusia, Gesù Cristo invece, vuole affermare il carattere sconosciuto ed inaspettato e perciò invita caldamente all’attesa, alla vigilanza, a stare in piedi ed attendere il Redentore.
  Meditazione   L’evento finale e decisivo della storia di salvezza profetizzato da Isaia e annunciato dal vangelo come «venuta del Figlio dell’Uomo» viene colto nelle letture odierne nella sua portata giudiziale: esso giudica le violenze e le guerre che gli uomini scatenano (I lettura); le immoralità in cui si perdono (II lettura); l’incoscienza e l’ignoranza colpevoli con cui si anestetizzano (vangelo).
L’annuncio escatologico non è un messaggio spiritualistico, ma ha un impatto forte sulla storia dei popoli (I lettura), sulla quotidianità delle esistenze dei credenti (vangelo) e sul loro comportamento (II lettura).
La simbolica della polarità notte-giorno, tenebre e luce, attraversa le tre letture e consegna un messaggio che intende svegliare il credente e guidarlo a conversione.
È la tenebra delle genti che non conoscono il cammino da percorrere e che vengono illuminate dalla parola di Dio («camminiamo nella luce del Signore»: Is 2,5); è la tenebra della generazione di Noè che non capisce nulla, non discerne il tempo e i suoi segni e così perisce; è la notte che chiede al padrone di casa di vegliare per impedire al ladro di svaligiargli la casa (vangelo); è la notte simbolo del peccato, da cui il credente è chiamato a risvegliarsi gettando via le opere delle tenebre e indossando le armi della luce (II lettura).
La prima domenica di Avvento, che segna l’inizio di un nuovo anno liturgico, contiene un invito a ricominciare, si tratta di ricominciare il cammino di fede ascoltando di nuovo la parola di Dio (I lettura); facendo memoria degli inizi della fede, dunque del battesimo (II lettura); assumendo la storia quotidiana come luogo di vigilanza e discernimento (vangelo).
In questa prospettiva di inizio o re-inizio, è significativo che il passo di Paolo sia stato decisivo per la conversione di Agostino (Confessioni VIII,12,29).
Ascoltata la voce che dice «Prendi e leggi», Agostino apre la Scrittura e trova il passo che dice: «Non nelle gozzoviglie e nelle ubriachezze, non nelle orge e nelle impudicizie, non nelle contese e nelle invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non assecondate la carne nelle sue concupiscenze».
Afferma Agostino: «Non volli leggere oltre, né mi occorreva.
Infatti, appena terminata la lettura di questa frase, una luce, quasi di certezza, penetrò nel mio cuore e tutte le tenebre del dubbio si dissiparono».
Anche Agostino vive il suo risveglio, il suo passaggio dalle tenebre alla luce.
Il vangelo, istituendo un parallelo tra il diluvio, che sconvolse la quotidianità ripetitiva della vita della generazione di Noè, e la venuta del Figlio dell’Uomo, ammonisce a non annegare nella banalità dei giorni.
La generazione di Noè non è dipinta da Gesù come malvagia o empia, ma semplicemente come incosciente: «Non si accorsero di nulla» (Mt 24,39).
La generazione di Noè perì per mancanza di discernimento.
E così perì due volte: nel diluvio e senza sapere perché.
Noè, invece, seppe discernere e così salvò se stesso e il futuro: il discernimento dell’oggi salva il futuro.
E questa è la responsabilità.
La colpa, se di colpa si deve parlare, intravista nel nostro testo, è dunque l’irresponsabilità, l’assenza di discernimento.
Vigilare significa esercitare l’intelligenza, la riflessione, il pensiero sui tempi che si vivono, per non essere sorpresi dalle catastrofi che si preparano nascostamente nell’oggi della storia, nella chiesa, nelle relazioni famigliari e personali.
Il credente è chiamato a pensare e conoscere l’oggi a partire dalla venuta del Signore e dalle sue dimensioni di impensato e di ignoto (Mt 24,36.44).
La venuta del Signore non impegna solo a vigilare sui tempi, ma anche sulla verità del proprio cuore.
Il riferimento alle due persone impegnate nello stesso lavoro, che nulla sembra distinguere, e di cui però una viene presa e l’altra lasciata, indica che ciò che nella quotidianità dei giorni può rimanere nascosto, sarà manifestato alla venuta del Signore.
La differenza si gioca nell’invisibile interiorità.
«In interiore homine habitat veritas» (Agostino); «Il cammino della conoscenza porta verso l’interiorità» (Novalis).
 

Giovanni Maria Vian: «Il suo è realismo La dottrina resta contraria»

L’intervista «Se si rappresenta la Chiesa come chiusa, retrograda, spietata, sorda e insomma nemica dell’uomo allora sì, c’è una svolta clamorosa.
Solo che così non si rappresenta la realtà…».
E qual è la realtà, professor Vian? «C’è una bella parola greca che descrive due realtà importanti: oikonomia.
Alla lettera sta per la “legge” che governa l’oikos, la casa.
Ma in senso teologico indica il piano di salvezza di Dio per l’uomo e quindi l’atteggiamento della Chiesa nei confronti dell’umanità: come Dio ama l’uomo, la Chiesa che ama Dio ama ed è amica dell’uomo».
Giovanni Maria Vian, direttore dell’Osservatore romano, non si scompone.
In fondo, dopo le polemiche su preservativi e Aids nate durante il viaggio in Africa per una frase del Papa («Non si può superare questo dramma con la distribuzione dei preservativi, che al contrario aumentano il problema»), fu proprio il quotidiano della Santa Sede a parlare dei «buoni» risultati ottenuti in Uganda con il metodo «Abc»: «abstinence», «be faithful» e «condom», ovvero astinenza, fedeltà e solo da ultimo il preservativo.
Ciò che il Papa dice nel libro aiuta anche a capire quella frase che scatenò polemiche planetarie? «Certo.
Direi piuttosto che va vista alla luce dello stravolgimento che fu fatto delle parole di Benedetto XVI.
Il Papa spiegava come fosse illusorio e pericoloso pensare che si potesse debellare l’Aids con i preservativi, quanto si rischiasse di peggiorare la situazione diffondendo una mentalità irresponsabile e inefficace mentre invece erano necessarie prevenzione e ricerca e assistenza.
Non a caso, gli africani per primi si rivoltarono contro una mistificazione che oscurava il senso del viaggio e la volontà di mettere in primo piano il loro Continente».
Però un’apertura c’è, no? «La dottrina in sé non cambia, la morale cattolica resta contraria all’uso del preservativo: nel libro, teniamolo presente, il Papa ribadisce che “le prospettive della Humanae Vitae restano valide”…».
E quindi il divieto dei metodi contraccettivi contenuto nell’enciclica di Paolo VI…
«Sì, ma aggiunge che “altra cosa è trovare le strade umanamente percorribili”».
Il realismo della Chiesa? «È il realismo del pastore.
Resta l’obiettivo morale alto, il discorso più ampio sui rischi di una sessualità banalizzata e non a misura umana.
E insieme c’è la consapevolezza che siamo peccatori,  anche se questo fatto non dovrebbe essere assunto come un’istanza contro la verità».
Ma «i casi singoli giustificati» come un possibile «primo passo»? «Appunto: il Papa non è certo un pelagiano, conosce e ama troppo Sant’Agostino per esserlo! E la natura umana è ferita dal peccato originale.
Ma attenzione, nel testo ci sono analisi impressionanti: la condanna del turismo sessuale, della droga, la denuncia di un Occidente che ha oscurato Dio…».
L’Osservatore, comunque, aveva scritto: molti resteranno sorpresi.
«Sono innumerevoli i temi che colpiranno.
Viene confermato il rapporto specialissimo con l’ebraismo, e tra l’altro il Papa spiega perché preferisce usare l’espressione “padri nella fede” piuttosto che “fratelli maggiori”, una definizione che in Giovanni Paolo II si spiegava all’interno della mistica slava ma che al mondo ebraico può non piacere, visto che i fratelli maggiori nella Bibbia non fanno una bella figura.
E poi, ancora, l’importanza dei simboli religiosi, che spiega le considerazioni sul burqa, e insieme il porre la questione della libertà di culto e di religione nel mondo islamico.
Ma la sorpresa dipenderà forse da altro».
E cioè? «La Chiesa e Joseph Ratzinger soffrono pregiudizi tenaci.
Questo libro, come i suoi precedenti,serve a scardinarli, e del resto basterebbe seguire il suo magistero.
Benedetto XVI, proseguendo e innovando una strada già tracciata da Paolo VI e da Giovanni Paolo II, non si sottrae a nessuna domanda e lo fa con un linguaggio molto semplice e chiaro, senza strategie comunicative.
Difatti nel libro si legge che è stato provvidenziale sia stato eletto Papa un professore».
E perché? «Perché al centro c’è la necessità di porre al mondo la questione di Dio, quella che può disinnescare lo scontro di civiltà: le altre culture del mondo sono e restano scandalizzate e impaurite dal comportamento dell’Occidente, che prima ha diffuso il materialismo teorico attraverso il marxismo e ora esporta un materialismo pratico.
Per questo è decisivo riuscire a dare ragione della propria fede, che pure è un dono di Dio, e saperla spiegare razionalmente».
in “Corriere della Sera” del 21 novembre 2010

“Luce del mondo”: Il buon pastore e la pecora smarrita

In sei ore di colloquio col giornalista bavarese Peter Seewald nella quiete estiva di Castel Gandolfo, distribuite in sei giorni come quelli della creazione e trascritte tali e quali in un libro fresco di stampa, Benedetto XVI ha consegnato al mondo la propria immagine più veritiera.
Quella di un uomo incantato dalle meraviglie del creato, gioioso, incapace di sopportare una vita vissuta sempre e soltanto “contro”, felicemente convinto che nella Chiesa “molti che sembrano stare dentro, sono fuori; e molti che sembrano stare fuori, sono dentro”.
“Siamo peccatori”, dice papa Benedetto quando l’intervistatore lo mette all’angolo sull’enciclica “Humanae vitae”, quella che condanna tutti gli atti contraccettivi non naturali.
Paolo VI la scrisse e pubblicò nel 1968, e da quell’anno fatidico essa è diventata l’emblema dell’incompatibilità tra la Chiesa e la cultura moderna.
Joseph Ratzinger non smentisce una virgola, della “Humanae vitae”.
La “verità” è quella e tale rimane.
“Affascinante”, dice, per le minoranze che ne sono intimamente persuase.
Ma subito il papa sposta il suo sguardo sulle masse sterminate di uomini e donne che quella “morale alta” non vivono.
Per dire che “dovremmo cercare di fare tutti il bene possibile, e sorreggerci e sopportarci a vicenda”.
È questo il papa che emerge dal libro-intervista “Luce del mondo”.
È lo stesso che si era rivelato così nella sua prima messa celebrata dopo la nomina a successore di Pietro.
Un pastore che va alla ricerca della pecora smarrita, e la prende sulle spalle come la lana d’agnello del pallio che indossa, e prova molta più gioia per la pecora ritrovata che per le novantanove nell’ovile.
Solo che allora pochi l’avevano capito.
Il Ratzinger delle figurine è rimasto a lungo il professore gelido, l’inquisitore ferrigno, il giudice spietato.
C’è voluta, cinque anni dopo, la tempesta perfetta dei preti pedofili per stracciare definitivamente questa falsa immagine.
A differenza di tanti altri personaggi di Chiesa, Benedetto XVI non lamenta complotti, non ritorce le accuse contro gli accusatori.
Anzi, nel libro dice che “sin tanto che si tratta di portare alla luce la verità, dobbiamo essere con loro riconoscenti”.
E spiega: “La verità, unita all’amore inteso correttamente, è il valore numero uno.
E poi i media non avrebbero potuto dare quei resoconti se nella Chiesa stessa il male non ci fosse stato.
Solo perché il male era dentro la Chiesa, gli altri hanno potuto rivolgerlo contro di lei”.
Dette dall’uomo che al vertice della Chiesa cattolica è stato il primo a diagnosticare e combattere questa “sporcizia”, e poi da papa a portare il peso maggiore di colpe e omissioni non sue, sono parole che fanno impressione.
Ma questo è lo stile con cui Benedetto XVI tratta altre questioni scottanti, nel libro.
Va direttamente al cuore dei punti più controversi.
Il sacerdozio femminile? Pio XII e gli ebrei? L’omosessualità? Il burka? Il preservativo? L’intervistatore lo incalza e il papa non si sottrae.
A proposito del burka dice di non vedere le ragioni di una proibizione generalizzata.
Se imposto alle donne con la violenza, “è chiaro che non si può essere d’accordo”.
Ma se è indossato volontariamente, “non vedo perché glielo si debba impedire”.
Al papa si potrà obiettare che un velo che ricopra completamente il volto ponga problemi di sicurezza in campo civile.
Obiezione legittima, perché l’intervista lui l’ha data anche per aprire discussioni, non per chiuderle.
Nella prefazione a un altro suo libro, quello su Gesù uscito nel 2007, Ratzinger scrisse che “ognuno è libero di contraddirmi”.
E tenne a precisare che non si trattava di un “atto magisteriale” ma “unicamente di un’espressione della mia ricerca personale”.
Dove il magistero della Chiesa sembra tremare, nell’intervista, è quando il papa parla del preservativo, giustificandone l’uso in casi particolari.
Nessuna “svolta rivoluzionaria”, ha prontamente chiosato padre Federico Lombardi, voce ufficiale della sede di Pietro.
Infatti, già molti cardinali e vescovi e teologi, ma soprattutto schiere di parroci e missionari ammettono pacificamente da tempo l’uso del preservativo, per tante persone concrete incontrate nella “cura d’anime”.
Ma un conto è che lo facciano loro, un conto che lo dica a voce alta un papa.
Benedetto XVI è il primo pontefice nella storia a varcare questo Rubicone, con disarmante tranquillità: lui che solo due primavere fa aveva aveva scatenato nel mondo un fragoroso coro di proteste per aver detto, in volo verso l’Africa, che “non si può risolvere il flagello dell’AIDS con la distribuzione di preservativi: ma al contrario, il rischio è di aumentare il problema”.
Era il marzo del 2009.
Si accusò Benedetto XVI di condannare a morte miriadi di africani in nome della cieca condanna del protettivo di lattice.
Quando in realtà il papa voleva richiamare l’attenzione sul pericolo – in Africa comprovato dai fatti – che a un più largo uso del preservativo si accompagni non un calo ma un aumento del sesso occasionale e promiscuo e dei tassi di infezione.
Nell’intervista, Ratzinger riprende il filo di quel suo ragionamento, all’epoca largamente frainteso, e osserva che anche fuori della Chiesa, tra i maggiori esperti mondiali della lotta contro l’AIDS, è sempre più condivisa la maggiore efficacia di una campagna centrata sulla continenza sessuale e sulla fedeltà coniugale, rispetto alla indiscriminata distribuzione del preservativo.
“Concentrarsi solo sul profilattico – prosegue il papa – vuol dire banalizzare la sessualità, e questa banalizzazione rappresenta proprio la pericolosa ragione per cui tante e tante persone nella sessualità non vedono più l’espressione del loro amore, ma soltanto una sorta di droga, che si somministrano da sé”.
A questo punto uno si aspetterebbe che Benedetto XVI ribadisca la condanna assoluta del preservativo.
E invece no.
Prendendo il lettore di sorpresa, egli dice che in vari casi il suo uso può essere ammesso, per ragioni diverse da quelle contraccettive.
E porta l’esempio di “un prostituto” che utilizza il profilattico per evitare il contagio: l’esempio, cioè, di un’azione che resta comunque peccaminosa, nella quale però il peccatore ha un sussulto di responsabilità, che il papa giudica “un primo passo verso un modo diverso, più umano, di vivere la sessualità”.
Se questa comprensione amorevole vale per un peccatore, a maggior ragione deve quindi valere per il caso classico incontrato in Africa e altrove da parroci e missionari: quello di due coniugi uno dei quali è malato di AIDS e usa il profilattico per non mettere in pericolo la vita dell’altro.
Tra i cardinali che hanno sinora prospettato, più o meno velatamente, la liceità di questo e di altri comportamenti analoghi vi sono gli italiani Carlo Maria Martini e Dionigi Tettamanzi, il messicano Javier Lozano Barragán, lo svizzero Georges Cottier.
Quando però nel 2006 “La Civiltà Cattolica”, la rivista dei gesuiti di Roma stampata con il previo controllo della segreteria di stato vaticana, affidò l’argomento a un grande esperto sul campo, padre Michael F.
Czerny, direttore dell’African Jesuit AIDS Network con sede a Nairobi, l’articolo uscì purgato dei passaggi che ammettevano l’uso del preservativo per frenare il contagio.
C’è voluto papa Benedetto per dire quello che nessuno aveva fin qui osato, al vertice della Chiesa.
E basta questo per fare di lui un umile, mite rivoluzionario.
(Da “L’espresso” n.
48 del 2010).

Bauman: così la solidarietà ci può salvare

Bauman: così la solidarietà ci può salvare di Randeep Ramesh in “la Repubblica” del 25 novembre 2010 Benché abbia lasciato il suo incarico di docente di sociologia alla Leeds University nel 1990 per andare ufficialmente in pensione, l’ottantaquattrenne Bauman continua ad essere un autore prolifico, sfornando un libro l’anno dalla sua dimora nel verde dello Yorkshire.
L’ultimo saggio, intitolato 44 Letters from the Liquid Modern World, raccoglie una serie di articoli scritti su vari fenomeni, da Twitter all’influenza suina alle élite culturale.
Bauman ha il pubblico di una vera star: quando è stato inaugurato l’istituto di sociologia che l’università di Leeds ha intitolato a suo nome, a settembre, più di 200 delegati stranieri sono venuti a sentirlo.
Nonostante il plauso che riscuote, pare proprio che Bauman sia profeta ovunque meno che in Inghilterra.
Forse dipende dal fatto che finora non si è prodigato a fornire ai politici teorie superiori per giustificare il loro operato e le loro motivazioni – a differenza di Lord (Anthony) Giddens, il sociologo autore della teoria politica della “terza via”, sposata dal New Labour di Tony Blair.
Ma tutto è cambiato da quando alla guida del Labour c’è Ed Miliband che ha mutuato da Bauman la tesi secondo cui il partito aveva perso di umanità convertendosi al mercato.
Così per il sociologo il nuovo leader offre una possibilità di “risurrezione” alla sinistra a livello morale.
«Mi sembra molto interessante la visione della collettività di Ed.
La sua sensibilità ai problemi dei poveri, la consapevolezza che la qualità della società e la coesione della comunità non si misurano in termini statistici ma in base al benessere delle fasce più deboli», racconta Bauman.
Il rapporto tra Bauman e i Miliband è di lunga data.
Il padre di Ed, Ralph, e Bauman strinsero una profonda amicizia negli anni ’50 alla London School of Economics.
Entrambi erano sociologi di sinistra e ebrei polacchi d’origine.
Entrambi fuggiti da regimi tirannici: Ralph Miliband scappò dal Belgio ai tempi dell’avanzata tedesca nel 1940 e Bauman fu espulso dalla Polonia quando i comunisti locali attuarono una purga antisemita nel 1968.
Decisiva fu la scelta di Ralph Miliband di entrare a far parte, nel 1972, del dipartimento di scienze politiche dell’università di Leeds, dove Bauman insegnava sociologia.
La casa di Bauman a Leeds divenne una tappa fissa per i figli di Milliband.
Ed e David crebbero guardando i due accademici discutere del futuro della sinistra.
Bauman afferma che i fratelli Miliband già da piccoli erano «validi interlocutori… affascinanti e di straordinaria intelligenza per la loro giovane età».
(…) Neal Lawson, direttore del think tank della sinistra laburista Compass, afferma che l’appello di Ed Miliband a mobilitarsi «per chi crede che nella vita non contano solo i guadagni» e la sua energica difesa della «collettività, dell’appartenenza e della solidarietà» era in puro stile Bauman.
Anche perché a differenza di quanto accade per altri sociologi l’opera di Bauman è accessibile, intellettuale e spesso polemica.
La sua biografia – dalla fede comunista allo status di minoranza perseguitata all’analisi scientifica della quotidianità – rende difficile inquadrarlo.
La sua teoria si fonda sul concetto che sono i sistemi a fare gli individui, non viceversa.
Bauman sostiene che non è questione di comunismo o di consumismo, comunque gli stati vogliono controllare l’opinione pubblica e riprodurre le loro élite (…).
La sua opera si incentra sulla transizione ad una nazione di consumatori inconsapevolmente disciplinati a lavorare ad oltranza.
Chi non si conforma, dice Bauman, viene etichettato come “rifiuto umano” e depennato come membro imperfetto della società.
Questa trasformazione «dall’etica del lavoro all’etica del consumo» preoccupa Bauman.
Egli ammonisce che la società è passata dagli «ideali di una comunità di cittadini responsabili a quelli di un’accolita di consumatori soddisfatti e quindi portatori di interessi personali».
Non c’è da stupirsi che i critici dipingano Bauman come un “pessimista”.
Ma davanti ad una tazza di tè e a un assortimento infinito di pasticcini il canuto professore è il fascino in persona – per quanto pessimista sia.
A suo giudizio è emerso tutto un vocabolario politico come “paravento” per intenti occulti.
Così il termine mobilità sociale, ad esempio, è «menzognero, perché gli individui non sono in grado di scegliere la propria collocazione nella società».
L’equità non è che una copertura per «lo spettro dell’assistenza concessa solo negli ospizi».
(…) Talvolta le scelte di Bauman risultano inquietanti.
Dichiara di aver mutuato l’idea fondamentale del suo importantissimo saggio sull’Olocausto da Carl Schmitt, un politologo considerato vicinissimo a Hitler.
Bauman sostiene che l'”esclusione sociale” di cui oggi si discute non è che un’estensione del postulato di Schmitt secondo cui l’azione più importante di un governo è “identificare un nemico”.
Questo portò Bauman nel 1969 a sostenere che l’omicidio di milioni di ebrei non era il risultato del nazismo né l’azione di un gruppo di persone malvagie, ma frutto di una moderna burocrazia che premiava soprattutto la sottomissione e in cui complessi meccanismi nascondevano l’esito delle azioni della gente.
L’Olocausto, afferma, non è che un esempio criminale del tentativo dello stato  moderno di perseguire l’ordine sfruttando il timore degli “stranieri e degli emarginati”.
«Una volta escluse dai governi le persone non sono più protette.
Le società iniziano a manipolare il timore nei confronti di determinati gruppi.
Nelle fasi di crisi del welfare state dobbiamo preoccuparci di questa caratteristica della società».
Oggi Bauman è comunque ottimista sulla capacità della sua disciplina di trovare soluzioni per questi problemi.
Con il calo degli iscritti al corso di laurea e la mentalità insulare la sociologia britannica si dibatte tra statistica e filosofia, ma, ammonisce Bauman: «Il compito della sociologia è venire in aiuto dell’individuo.
Dobbiamo porci a servizio della libertà.
È qualcosa che abbiamo perso di vista», dice.
Nonostante abbia la reputazione di criticare senza offrire soluzioni, Bauman è stato una voce importante nei dibattiti sulla povertà.
La sua proposta di garantire un “reddito del cittadino”, fondamentalmente il denaro sufficiente a condurre una vita libera, è stata una delle poche voci non conformiste nel dibattito sulle politiche di reimpiego (welfare-to-work).
L’erogazione di denaro ai poveri, scriveva Bauman nel 1999, eliminerebbe «la mosca morta dell’insicurezza dall’unguento odoroso della libertà».
Dieci anni dopo il reddito minimo garantito è entrato nel comune dibattito politico ed è una causa sostenuta da Ed Miliband.
Bauman si è sempre interessato di politica: il suo primo scontro con l’autorità pubblica ebbe luogo quando criticò il partito comunista polacco negli anni ’50 per la sua burocrazia fossilizzante e la spietata repressione degli oppositori.
«La mia tesi era che il comunismo era animato solo dalla necessità di restare al potere».
Un decennio di simili eresie gli guadagnò l’espulsione dal suo paese a danno della Polonia e a beneficio dello Yorkshire.
Oggi Bauman non mostra amarezza.
È arrivato al punto di ignorare l’articolo di una rivista polacca di destra che nel 2007 lo accusò di essere stato per un periodo al soldo dei servizi segreti polacchi e di aver avuto parte nella purga degli oppositori politici del regime.
«L’accusa si basa su un ragionamento deduttivo.
Poiché da adolescente ero membro di un’unità interna dell’esercito polacco devo necessariamente essere colpevole di qualcosa.
Non c’è traccia di prove.
Semplicemente non è vero», dice Bauman.
Nonostante l’esperienza maturata in decenni di attività intellettuale Bauman non si pone volentieri nel ruolo di vate, dice di non aver intenzione di “calcare i corridoi del potere” dispensando gemme di saggezza.
Augura successo al Labour e resta profondamente pessimista circa il tentativo del governo di coalizione di dare un volto umano ai tagli alla spesa pubblica.
«Ci siamo già passati con Reagan e la Thatcher», ammonisce.
(Traduzione di Emilia Benghi) ZYMUNT BAUMAN, 44 Lettere dal mondo liquido moderno, Polity, 2010, ISBN: 978-0-7456-5056-2,  pp.208 Questo nostro mondo liquido moderno, come tutti i liquidi, non può stare fermo e mantenere la sua forma a lungo.  Tutto continua a cambiare – le mode che seguiamo , gli eventi che in modo intermittente catturano la nostra attenzione, le cose che sogniamo e abbiamo paura.  E noi, gli abitanti di questo mondo in trasformazione, sentiamo il bisogno di adeguarci al suo ritmo per essere ‘flessibili’ e sempre pronti a cambiare.
Vogliamo sapere cosa sta accadendo e ciò che è probabile che accada, ma ciò che otteniamo è una valanga di informazioni che rischia di sopraffarci.
Come possiamo vagliare le informazioni che contano davvero dai mucchi di spazzatura inutile e irrilevante? Come possiamo derivare messaggi significativi dal rumore senza senso?  Ci troviamo di fronte l’arduo compito di cercare di distinguere l’importante dal non sostanziale, distillare le cose che contano dai falsi allarmi.
Nulla sfugge al controllo  come le cose ordinarie della vita quotidiana, nascoste nella luce della familiarità ingannevole e fuorviante.  Per trasformarli in oggetti di attenzione devono prima essere strappate da quella routine quotidiana: l’apparentemente familiare deve essere presentato come nuovo.
Questo è precisamente ciò che Zygmunt Bauman cerca di fare in queste 44 lettere: ognuna racconta una storia presa dalla vita ordinaria, ma al fine di rivelarne la straordinarietà che altrimenti potrebbe sfuggire.
Il testo si rivolge a un pubblico vasto a cui, attraverso istantanee di vita quotidiana, cerca di rivelare gli aspetti più sconcertanti del nostro mondo liquido moderno 

La verità sul preservativo

Profilattico Perché è diventato un simbolo del rapporto tra morale e sessualità di Vito Mancuso Il mondo intero si è interrogato incuriosito sulle parole di apertura di Benedetto XVI all’uso dei preservativi contenute nel libro-intervista Luce del mondo con il giornalista tedesco Peter Seewald.
L’agenzia dell’Onu per la lotta all’Aids ha applaudito, la Sala stampa vaticana ha precisato, i giornali di tutti gli orientamenti hanno lungamente commentato.
Persino a me sono arrivate telefonate dall’Italia e dalla Svizzera per prendere posizione e partecipare a pensosi dibattiti.
Ma che cosa è successo per giustificare tutto questo polverone? Siamo in presenza di una svolta reale, o di una delle tante montature mediatiche? Tanto rumore per nulla, o c’è qualcosa che invece giustifica il clamore? Qualcosa in effetti c’è, e non è di poco conto: consiste nel fatto che Benedetto XVI ha affermato che per l’uso del preservativo “vi possono essere singoli casi giustificati”.
Anzi, è arrivato a connotare il ricorso al preservativo come “il primo passo verso una moralizzazione, un primo atto di responsabilità”.
Parole inaudite, nel senso letterale del termine perché nessuno mai le aveva udite, non solo da una mente poco incline alle aperture progressiste come quella dell’attuale papa, ma da tutti i papi precedenti.
Mai un papa, prima di queste dichiarazioni di papa Ratzinger, era arrivato a tanto.
Il che comporta anzitutto il mutamento di un principio dottrinale: d’ora in poi nei documenti del magistero e nei manuali di teologia morale non si potrà più affermare che i preservativi sono un mezzo “intrinsecamente cattivo” (vedi Humanae vitae 14 e Catechismo 2370) e quindi sempre da evitare a prescindere dai fini che si intendono perseguire.
Da oggi, chiunque tra i vescovi e i teologi sosterrà che i preservativi sono sempre e comunque cattivi, verrà per ciò stesso ad attribuire a Benedetto XVI, che in alcuni casi li ha ammessi, la morale di sapore machiavellico secondo cui i fini giustificano i mezzi.
In realtà, se ci sono casi in cui si possono  lecitamente usare, i preservativi non possono non essere leciti.
La dottrina morale della Chiesa ha registrato una piccola, timida, imbarazzata, ma al contempo chiara e significativa svolta.
Nulla di epocale, certo, il direttore della Sala stampa vaticana padre Lombardi ha ragione nel dire che le parole del papa “non sono una svolta rivoluzionaria”.
Ci vuole ben altro per compiere la salutare “rivoluzione” di cui ha urgente bisogno la morale sessuale cattolica al fine di giungere a parlare concretamente alla vita degli uomini e liberarsi dall’ipocrisia di precetti proclamati dal pulpito ma oramai largamente ignorati nelle coscienze.
La strada è ancora lunga, e chissà quanto aspra, per far sì che anche a livello di morale sessuale si introduca il rinnovamento operato nella morale sociale dal Vaticano II, e che Paolo VI impedì che avvenisse scrivendo nel 1968 l’enciclica Humanae vitae in aperto contrasto con la commissione pontificia da lui insediata espressasi a favore della liceità morale dei preservativi.
Quella decisione di Paolo VI soppresse, nel metodo prima ancora che nel merito, lo spirito del Concilio, causando la rivincita della componente conservatrice oggi perfettamente compiuta.
Tuttavia il cambiamento di direzione implicato nelle parole di Benedetto XVI è netto, e la dottrina, a meno di equilibrismi imbarazzanti, dovrà necessariamente riformularsi.
Se è vero infatti che il papa scrive che “le prospettive della Humanae vitae restano valide”, è altrettanto vero che ora ha avuto la saggezza di aggiungere che “altra cosa è trovare strade umanamente percorribili”.
Proprio così: una cosa sono i principi, un’altra cosa le strade veramente percorribili dagli uomini e dalle donne concrete alle prese con la vita  concreta.
E la morale consiste proprio in questo: nella coniugazione tra l’altezza dei principi e le strade concretamente percorribili.
È quanto insegna da sempre la dottrina del cattolicesimo, anzi secondo Tommaso d’Aquino “quanto più si scende nei particolari tanto più aumenta l’indeterminazione” (vedi Summa Theologiae I-II, q.94, a.4 co.), passo così commentato da un recente documento della Commissione Teologica Internazionale: “In morale la pura deduzione per sillogismo non è adeguata.
Quanto più il moralista affronta situazioni concrete, tanto più deve ricorrere alla sapienza dell’esperienza, un’esperienza che integra i contributi delle altre scienze e cresce al contatto con le donne e gli uomini impegnati nell’azione.
Soltanto questa saggezza dell’esperienza consente di considerare la molteplicità delle circostanze e di giungere a un orientamento sul modo di compiere ciò che è bene hic et nunc” (“Alla ricerca di un’etica universale”, paragrafo 54).
San Tommaso giunge persino a specificare che tra le due conoscenze che formano il giudizio morale, cioè i principi dottrinali da un lato e la situazione reale dall’altro, se proprio si deve privilegiare qualcosa “è  preferibile che questa sia la conoscenza dellerealtà particolari che riguardano più da vicino l’operare” (Sententia libri Ethicorum, Lib.
VI, 6).
Vale a dire: sono molto più vicini alla verità i missionari e le missionarie che incoraggiano l’uso dei preservativi, che non i teologi moralisti dei palazzi vaticani che tengono fermi i principi dottrinali ignorando la vita reale.
Ora, finalmente, anche Benedetto XVI è giunto a toccare la realtà della vita reale, ben diversamente da quando aveva affermato durante il viaggio in Africa che nella lotta all’Aids il preservativo non solo non aiuta ma peggiora la situazione.
È sperabile che da queste sue più sagge parole possa avere origine ciò che il teologo Ambrogio Valsecchi auspicava vanamente già nel lontano 1972, cioè “nuove vie dell’etica sessuale”? Anche perché, a pensarci bene, quello che è veramente clamoroso è il clamore suscitato mondialmente da queste semplici parole di buon senso del papa che rimandano all’abc del comportamento prudenziale, paragonabili a “ricordati di allacciare le cinture in macchina”, “sta attento agli scogli quando ti tuffi”, “non accettare caramelle dagli estranei”.
Ma anche questo, forse, è un segno del profondo rinnovamento di cui c’è urgente bisogno nella Chiesa cattolica e di cui la direzione era già stata indicata dal Concilio Vaticano II, ormai quasi mezzo secolo fa: “La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria… Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità tanti problemi morali” (Gaudium et spes 16) in “la Repubblica” del 25 novembre 2010 La maggior parte della gente è convinta che una persona infetta da HIV e che abbia rapporti sessuali debba fare uso del preservativo per proteggere il partner dall’infezione.
Indipendentemente dalle opinioni che si possono avere sulla promiscuità come stile di vita, sull’omosessualità o sulla prostituzione, quella persona almeno agisce con un certo senso di responsabilità nel cercare di evitare di trasmettere ad altri la sua infezione.
Si ritiene comunemente che la Chiesa cattolica non appoggi una tale opinione.
[…] Si crede che la Chiesa insegni che gli omosessuali sessualmente attivi e le prostitute dovrebbero evitare l’uso del preservativo, in quanto quest’ultimo sarebbe “intrinsecamente cattivo”.
Anche molti cattolici sono persuasi […] che l’uso del preservativo, anche esclusivamente diretto a prevenire l’infezione del partner, non rispetta la struttura fertile che gli atti coniugali debbono avere, non può costituire il reciproco e completo dono personale di sé e pertanto viola il sesto comandamento.
Ma questo non è un insegnamento della Chiesa cattolica.
Non c’è alcun magistero ufficiale sul preservativo, sulla pillola anti-ovulazione o sul diaframma.
Il preservativo non può essere intrinsecamente cattivo, solo le azioni umane possono esserlo.
Il preservativo non è un’azione umana, ma una cosa.
Ciò che il magistero della Chiesa cattolica designa chiaramente come “intrinsecamente cattivo” è un tipo specifico di azione umana, definito da Paolo VI nella sua enciclica “Humanae vitae” (e successivamente nel n.
2370 del Catechismo della Chiesa cattolica) come una “azione che, o in previsione dell’atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga, come scopo, o come mezzo, di impedire la procreazione”.
La contraccezione è un tipo specifico di azione umana che, come tale, comprende due elementi: la volontà di prendere parte ad atti sessuali e l’intenzione di impedire la procreazione.
Un’azione contraccettiva, quindi, incorpora una scelta contraccettiva.
Come ho affermato in un articolo uscito su “Linacre Quarterly” nel 1989, “una scelta contraccettiva è la scelta di un’azione intesa ad impedire le conseguenze procreative previste di rapporti sessuali liberamente consenzienti, ed è una scelta operata proprio per questa ragione”.
Ecco perché la contraccezione, intesa come un’azione umana qualificata come “intrinsecamente cattiva” o disordinata, non è determinata da ciò che accade sul piano fisico.
Non fa alcuna differenza se una persona previene la fertilità del rapporto sessuale prendendo la pillola o interrompendo onanisticamente il rapporto.  Inoltre, la definizione appena data non differenzia tra “fare” e “astenersi dal fare”, in quanto il coito interrotto è un tipo di astensione, almeno parziale.
La definizione di atto contraccettivo non comprende quindi, ad esempio, l’uso di contraccettivi inteso a prevenire le conseguenze procreative di una violenza carnale prevista.
In una circostanza del genere, la persona violentata non sceglie di partecipare al rapporto sessuale né di prevenire una possibile conseguenza del proprio comportamento sessuale, ma si sta semplicemente difendendo da un’aggressione sul proprio corpo e dalle sue conseguenze indesiderabili.
Anche una atleta che partecipi ai Giochi Olimpici e che prenda la pillola anti-ovulazione per prevenire il ciclo mestruale non sta facendo un atto “contraccettivo”, se non ha alcuna intenzione simultanea di avere rapporti sessuali.
L’insegnamento della Chiesa non concerne il preservativo o simili strumenti fisici o chimici, ma l’amore sponsale e il significato essenzialmente sponsale della sessualità umana.
Il magistero ecclesiale afferma che, se due coniugi hanno una ragione seria per non fare figli, essi dovrebbero modificare il loro comportamento sessuale tramite l’astinenza, almeno periodica, dall’atto sessuale.
Per evitare di distruggere sia il significato unitivo sia quello procreativo dell’atto sessuale e quindi la pienezza del dono reciproco di sé, i coniugi non devono prevenire la fertilità dei rapporti sessuali, qualora ne abbiano.
Ma che dire delle persone promiscue, degli omosessuali sessualmente attivi e delle prostitute? Ciò che la Chiesa cattolica insegna loro è semplicemente che le persone non dovrebbero essere promiscue, ma fedeli a un solo partner sessuale; che la prostituzione è un comportamento gravemente lesivo della dignità dell’uomo, soprattutto della dignità della donna, e che quindi non dovrebbe essere praticata; e che gli omosessuali, come tutte le altre persone, sono figli di Dio e sono amati da lui come ogni altro, ma dovrebbero vivere in continenza come qualsiasi altra persona non sposata.
Ma se queste persone ignorano questo insegnamento, e sono a rischio di HIV, dovrebbero usare il preservativo per prevenire l’infezione? La norma morale che condanna la contraccezione come atto intrinsecamente cattivo non comprende questi casi.
Né può esservi insegnamento della Chiesa su di ciò; sarebbe semplicemente privo di senso stabilire delle norme morali per dei comportamenti intrinsecamente immorali.
Dovrebbe forse la Chiesa insegnare che uno stupratore non deve mai fare uso del preservativo, poiché altrimenti, oltre a commettere il peccato della violenza carnale, verrebbe anche meno al rispetto del dono personale di sé reciproco e completo e così violerebbe il sesto comandamento? Certo che no.
Cosa dico io, come sacerdote cattolico, a persone promiscue, o ad omosessuali, infetti da AIDS i quali usano il preservativo? Cercherò di aiutare costoro a vivere una vita sessuale morale e ben ordinata.
Ma non dirò loro di non usare il preservativo.
Semplicemente, non parlerò loro di ciò e presumerò che, qualora scelgano di avere rapporti sessuali, manterranno almeno un certo senso di responsabilità.
Con un atteggiamento del genere, rispetto in pieno l’insegnamento della Chiesa cattolica sulla contraccezione.
Questo non è un appello a favore di “eccezioni” alla norma che proibisce la contraccezione.
La norma sulla contraccezione vale senza eccezioni: la scelta contraccettiva è intrinsecamente cattiva.
Ma, com’è ovvio, la norma vale solo per gli atti contraccettivi, come questi sono definiti nella “Humanae vitae”, i quali incorporano una scelta contraccettiva.
Non tutte le azioni in cui viene usato un dispositivo il quale, da un punto di vista puramente fisico, è “contraccettivo”, sono da un punto di vista morale atti contraccettivi che cadono sotto la norma insegnata dalla “Humanae vitae”.
Ugualmente, un uomo sposato che è infetto da HIV e usa il preservativo per proteggere sua moglie dall’infezione non agisce per impedire la procreazione, ma per prevenire l’infezione.
Se il concepimento è prevenuto, questo sarà un effetto collaterale (non intenzionale), e quindi non determinerà il significato morale dell’azione come un atto contraccettivo.
Possono esservi altre ragioni per ammonire contro l’uso del preservativo in un caso del genere, o per raccomandare la continenza totale, ma queste non dipenderanno dall’insegnamento della Chiesa sulla contraccezione, ma da ragioni pastorali o semplicemente prudenziali (il rischio, ad esempio, che il preservativo non funzioni).
Ovviamente, quest’ultimo ragionamento non si applica alle persone promiscue, perché, anche se i preservativi non sempre funzionano, il loro uso aiuterà comunque a ridurre le conseguenze negative di comportamenti moralmente cattivi.
Fermare l’epidemia mondiale di AIDS non è una questione concernente la moralità dell’uso del preservativo, ma piuttosto la maniera di prevenire efficacemente una situazione in cui le persone provocano conseguenze disastrose con il loro comportamento sessuale immorale.
Papa Giovanni Paolo II ha ripetutamente insistito che la promozione dell’uso del preservativo non è una soluzione a questo problema in quanto ritiene che non risolva il problema morale della promiscuità.
Se, in generale, le campagne che promuovono l’uso del preservativo incoraggino comportamenti rischiosi e peggiorino l’epidemia mondiale di Aids è una questione decidibile sulla base di evidenze statistiche non sempre facilmente accessibili.
Che riducano, a breve termine, i tassi di trasmissione entro gruppi altamente infettivi come prostitute ed omosessuali, è impossibile negare.
Se possano diminuire i tassi di infezione fra popolazioni promiscue “sessualmente liberate” o, al contrario, incoraggiare comportamenti a rischio, dipende da molti fattori.
Nei paesi africani le campagne anti-AIDS basate sull’uso del preservativo sono generalmente inefficaci, in parte perché per l’uomo africano la mascolinità è tradizionalmente espressa dalla procreazione del massimo numero di figli possibile.
Per il maschio africano tradizionale il preservativo trasforma il sesso in un’attività priva di significato.
Questa è la ragione per cui – e ciò costituisce una prova notevole a favore dell’argomento del papa – fra i pochi programmi efficaci in Africa c’è quello dell’Uganda.
Benché non escluda il preservativo, questo programma incoraggia un cambiamento positivo nel comportamento sessuale (fedeltà ed astinenza), differenziandosi così dalle campagne per il preservativo, le quali contribuiscono ad oscurare o anche a distruggere il significato dell’amore umano.
Le campagne che promuovono l’astinenza e la fedeltà sono in definitiva l’unico mezzo efficace per combattere l’AIDS a lungo termine.
Non c’è quindi alcuna ragione per cui la Chiesa debba considerare le campagne che promuovono il preservativo come utili per il futuro della società umana.
Ma la Chiesa non può neanche insegnare che chi partecipa a stili di vita immorali dovrebbe astenersi dall’uso del preservativo.
(Da “The Tablet”, 10 luglio 2004, traduzione di Paolo Baracchi).
__________  25 novembre 2010 Sulle parole di Benedetto XVI sull’omosessualità .
Quando l’esercizio della legge manca del cuore
di Nuova Proposta del 23 novembre 2010 “Come definire “moralmente ingiusta” la vita e l’orientamento sessuale di un essere vivente? E come non leggere tra le parole “L’omosessualità non è conciliabile con il ministero sacerdotale, perché altrimenti anche il celibato come rinuncia non ha alcun senso” una demarcazione netta tra condizione omosessuale e eterosessuale, come se il celibato nel primo caso non possa essere serenamente scelto e agito?” Profilattico Perché è diventato un simbolo del rapporto tra morale e sessualità di Vito Mancuso in la Repubblica del 25 novembre 2010 “quello che è veramente clamoroso è il clamore suscitato mondialmente da queste semplici parole di buon senso del papa che rimandano all’abc del comportamento prudenziale…
Ma anche questo, forse, è un segno del profondo rinnovamento di cui c’è urgente bisogno nella Chiesa cattolica e di cui la direzione era già stata indicata dal Concilio Vaticano II, ormai quasi mezzo secolo fa: “La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria…
Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità tanti problemi morali” (Gaudium et spes 16)” 23 novembre 2010 Benedetto XVI e il preservativo: una rivoluzione? di Jérôme Anciberro in www.temoignagechretien.fr del 22 novembre 2010 (nostra traduzione) “Non è la prima volta che un’autorità cattolica romana sostiene l’idea secondo la quale il preservativo sarebbe il male minore in certe circostanze ben precise…
Allora, niente di nuovo sotto il sole? Nei contenuti, senza dubbio.
Nella forma, le cose sono più complesse.
Perché è vero che il magistero cattolico fino ad oggi teneva conto dei famosi casi eccezionali che giustificavano l’uso del preservativo, ma evitava di parlarne” 22 novembre 2010 Evoluzione storica di Benedetto XVI sul preservativo di Stéphanie Le Bars in Le Monde del 23 novembre 2010 (nostra traduzione) “il papa ricorda anche tutto il bene che pensa dell’Humanae vitae e della visione “profetica” del suo autore, papa Paolo VI.
“Le prospettive delineate in ‘Humanae vitae’ restano valide”.
“Ma, riconosce tuttavia Benedetto XVI con lucidità, altra cosa è trovare strade umanamente percorribili.” I fedeli cattolici ne sanno qualcosa, da quarantadue anni.” Il papa, la sessualità e le leggi della Chiesa di Editoriale in Le Monde del 23 novembre 2010 (nostra traduzione) “Se le dichiarazioni fatte da Benedetto XVI nel suo libro fossero il segno precursore di una evoluzione in profondità, servirebbero la causa della Chiesa, oggi e domani.” Il profilattico e i preti obiettori se la salute vince sulla dottrina di Rosalba Castelletti in la Repubblica del 22 novembre 2010 “Nell’attesa di un’apertura più netta, molti prelati e missionari continuano a richiamare la posizione espressa anche da vari autorevoli teologi, da Georges Cottier, teologo emerito di Papa Wojtyla, a Paul Cordes e al cardinale Carlo Maria Martini: qualora in una coppia un partner sia sieropositivo e rischi di contagiare la moglie e di trasmettere il virus ai figli, l’uso del preservativo è il “male minore”” 21 novembre 2010 «Il suo è realismo La dottrina resta contraria» intervista a Giovanni Maria Vian a cura di Gian Guido Vecchi in Corriere della Sera del 21 novembre 2010 «La Chiesa e Joseph Ratzinger soffrono pregiudizi tenaci.
Questo libro, come i suoi precedenti, serve a scardinarli, e del resto basterebbe seguire il suo magistero” (ndr.:quest’oggi la stampa italiana dedica, con grande evidenza, molto spazio al libro intervista dell’attuale papa, e in particolare alla liceità dell’uso del profilattico in certi casi.
E’ davvero siderale la distanza esistente tra ciò che sostiene il magistero su alcuni temi e quanto recepisce la coscienza di molti credenti.
Si rischia di confondere la radicalità evangelica con la proibizione della contraccezione artificiale.
Saremo giudicati non sulle tecniche ma sull’amore, unico valore davvero non negoziabile) «Ora è più pastore Ha affrontato un grande male» di Andrea Galli in Corriere della Sera del 21 novembre 2010 “vicino a Cristo ci sono state straordinarie figure femminili, con le quali egli stesso ha avuto anche legami profondi; ma come apostoli si è scelto degli uomini..” (ndr.: Adriana Zarri avrebbe aggiunto: Gesù come apostoli si è scelto uomini ebrei…
quindi i preti devono essere ebrei?) “E’ un atto di carità La dottrina resta intatta” intervista a Vittorio Messori a cura di Giacomo Galeazzi in La Stampa del 21 novembre 2010 “Il celibato, il no alla contraccezione, la povertà, la castità e l’obbedienza degli ordini religiosi sono da denuncia all’Onu o da Amnesty International se non le si inquadra in una prospettiva cristiana.” (ndr.: ed io che pensavo che la povertà, intesa come condivisione, la castità, come purezza di intenzioni, l’obbedienza come adesione alla voce dello spirito che risuona nella coscienza fossero profondamente umanizzanti e liberanti per tutti…) Il significato di un passo di Luigi Accattoli in Corriere della Sera del 21 novembre 2010 “Si potrà inquadrare meglio la sua «apertura» quando si potrà leggere tutto il volume, del quale martedì sarò uno dei presentatori nella Sala stampa Vaticana.” Un principio in discussione di Franco Garelli in La Stampa del 21 novembre 2010 “…con il venir meno del principio dell’ «intrinsecamente cattivo» potrebbe affermarsi l’idea che sia legittimo utilizzare il profilattico anche in casi diversi.
In altri termini, l’ammissione di un’eccezione pare mettere in discussione la radicalità del principio e prefigurare che anche in altre situazioni si possa derogare dalle indicazioni dell’Humanae Vitae.” Il pastore tedesco e la modernità di Giancarlo Zizola in la Repubblica del 21 novembre 2010 “Il Papa prosegue dunque a servire il ruolo umanistico delle grandi figure papali del Novecento, la premura per le sorti della Terra, e non solo del Cielo, svolta da Roncalli, Montini, Wojtyla.
E ridefinisce il suo antico contenzioso con la modernità assumendolo nello stesso paradigma della costituzione conciliare sulla Chiesa e il mondo: il paradigma della compagna di viaggio di uomini e donne in ricerca dell´Assoluto, ne siano o meno coscienti.” Papa Ratzinger tra burqa e presevativo di Marco Politi in il Fatto Quotidiano del 21 novembre 2010 “Il libro di Seewald tocca tantissimi temi, anche perché è stato volutamente pensato come modo per riparare ai danni delle crisi mediatiche, succedutesi nei cinque anni di pontificato ratzingeriano” “è la prima volta che un pontefice fa marcia indietro sulla sistematica demonizzazione del preservativo”

Tormenti creativi di un giovane rocker

“Ho visto il futuro del rock’n roll e il suo nome è Bruce Springsteen”.
Quando il 22 maggio del 1974, dopo aver assistito a un concerto a Cambridge, in Massachusetts, scrive questa frase, una delle più celebri della storia del giornalismo musicale, Jon Landau è il critico più influente d’America.
Sa che la casa discografica che ha prodotto i primi due dischi del giovane rocker non è soddisfatta, ma lui coglie in quel ragazzo un potenziale che non può andare perduto.
E non si sbaglia.
Springsteen riesce a realizzare Born to Run, che si rivela un successo imprevisto e clamoroso; “Time” e “Newsweek” gli dedicano la copertina la stessa settimana.
È l’inizio di una carriera incredibile e non ancora giunta al capolinea.
Chiunque, poco più che ventenne, avrebbe cavalcato l’onda, continuando sulla stessa strada.
Springsteen no.
Complice una disputa legale con il precedente produttore, che non gli permette di entrare in uno studio di registrazione per tre anni, il cantautore  ha  il  tempo  di  riflettere  sulla sua musica.
E di pensarne una nuova – chiuso nella sua casa di Freehold, New   Jersey,   assieme   alla   storica E-Street Band – segnando una svolta nel suo stile.
Nasce così uno degli album più importanti della storia del rock, Darkness on the Edge of Town.
A quell’indimenticabile esperienza creativa il regista Thom Zimny ha dedicato un docufilm intitolato The Promise:  The Making of Darkness on the Edge of Town, presentato in concorso nella sezione “L’Altro Cinema Extra” al Festival internazionale del film di Roma, proiezione diventata uno degli eventi della rassegna grazie anche all’inattesa e acclamata presenza in sala di Springsteen.
 Ed  è  stato  lo  stesso  Boss  a  spiegare il senso di questa operazione:  “Darkness è il disco che mi ha fatto capire esattamente quale sarebbe stato il mio posto nella musica, quello che ancora più di Born to Run ha avviato il mio dialogo con il pubblico”.
Un dialogo molto personale. “In molti miei dischi – ha aggiunto – racconto la ricerca di un’identità.
Ancora oggi non so chi sono.
Quando registrammo Darkness avevo 27 anni ed ero completamente identificato con la musica che facevo e questo è il motivo per il quale abbiamo lavorato così a lungo.
Le domande essenziali che mi ponevo erano:  da dove vengo? Cosa vuol dire essere figlio? Cosa vuol dire essere americano? Oggi mi domanderei cosa vuol dire essere padre.
Sono domande essenziali.
Poi si trattava di trovare delle storie e spesso sono le storie che scelgono te”.
Nel disco si riflette la necessità di capire, di andare a vedere come stavano le cose.
Una necessità ora più forte dell’istinto di fuga contenuto nel precedente lavoro.
Ma non è facile, perché lo stesso cantautore sembra impaurito da quanto gli sta accadendo.
Teme che il successo possa minare la sua identità.
Sente di essere un provinciale, tuttavia non vede in questo un limite.
Semmai un di più.
Con duemila dollari compra un’auto e con un membro della band va in giro per il Southwest a vedere l’America.
Per raccontarla dal vivo.
Già all’anteprima mondiale a Toronto Springsteen aveva chiarito il perché di questa svolta.
“In studio per Darkness realizzammo più di settanta pezzi e fu difficile scegliere.
Molti dimenticano che in quegli anni c’era stato il punk, e l’America stava attraversando un periodo drammatico:  la guerra del Vietnam era finita da qualche anno ed era come se il Paese avesse perso l’innocenza.
Io ero un ragazzo ambizioso, volevo essere la voce di tutto questo.
Quindi tolsi tutte le canzoni più allegre e lasciai le dieci più toste.
Ne uscì un disco arrabbiato”.
Raccogliendo le testimonianze di tutti coloro che parteciparono a quella stagione irripetibile, attraverso le immagini in uno sgranato bianco e nero in cui Springsteen appare come un adolescente instancabile alle soglie di un’impresa straordinaria, il film racconta con rara efficacia il lavoro creativo di un artista e la genesi di un’opera d’arte:  la quasi maniacale ricerca di un linguaggio narrativo e musicale nuovo, il desiderio di ricreare in studio il sound dei concerti, la profonda aspirazione estetica ed esistenziale, e le urgenze sociali che lo muovevano.
E in questo passaggio l’artista trova una voce adulta, comprendendo che cosa vuole realmente scrivere, quali sono le persone di cui gli importa e chi vuole essere:  “I miei amici e la mia famiglia lottavano per condurre una vita decente e produttiva, e in questo vedevo una specie di eroismo quotidiano”.
Operazione riuscita, se oggi, sessantenne, può affermare che il risultato “è proprio quello che speravo a ventisette anni:  di avere scritto qualcosa che avrebbe continuato a riempirmi di obiettivi e di significati negli anni a venire, che avrebbe continuato ad avere valore sia per me che per voi.
Devo alle scelte che abbiamo fatto allora, e a quel giovane, il dovuto rispetto”.
Questo eccezionale documento – testimonianza di quanto bisogno ci sia di musica di qualità, merce sempre più rara oggi, tanto da dover attingere di continuo a un più solido passato – fa parte di un cofanetto dal titolo The Promise:  the Darkness on the Edge of Town Story, che la Sony ha messo in commercio martedì, con oltre 6 ore di filmati e riprese video inedite, e due ore di musica realizzate nel periodo 1976-1978.
La confezione contiene tre cd – uno con la versione rimasterizzata del disco e due con 21 canzoni per lo più inedite – e tre dvd con il docufilm, altre immagini inedite di Springsteen e la E-Street Band, nonché un video in alta definizione con l’esecuzione dell’album nella sua interezza, registrato appositamente nel 2009 al Paramount Theather di Asbury Park, senza pubblico per ricreare l’atmosfera del disco originale ma suonato con la stessa grinta di un concerto.
Tuttavia la vera chicca per i fan è la riproduzione del block notes sul quale Springsteen annotava i testi delle canzoni, modificandoli di continuo, aggiungendo annotazioni, alla ricerca del mix perfetto di parole e musica.
In parallelo viene pubblicato anche un doppio cd intitolato The Promise contenente solo i 21 inediti, tra cui Because the Night scritta con Patti Smith.
Un nuovo album, in realtà, con atmosfere meno cupe, che Jon Landau, ormai storico produttore del Boss, ha definito il disco di raccordo tra Born to Run e Darkness.
Che l’attenzione su Springsteen sia particolarmente alta in questo momento è testimoniato anche in Italia dalla recente pubblicazione di due interessanti libri, che vanno ad aggiungersi alla già lunga lista di volumi dedicata al rocker.
Marina Petrillo, autrice di Nativo Americano.
La voce folk di Bruce Springsteen (Milano, Feltrinelli, 2010, pagine 296, euro 16), analizza l’impatto sulla cultura statunitense di un cantautore che ha influenzato generazioni di giovani, venduto milioni di dischi e respinto definizioni ed etichette.
Accanto alla fama di animale da palcoscenico, Spingsteen ha maturato una sempre più consapevole identità acustica, divenendo lui – il Boss del rock’n roll – il custode di un’antica tradizione popolare che affonda le radici nel folk.
Una scoperta, questa, che non lo ha sorpreso, ma che gli ha imposto un tono, una scelta.
Non meraviglia, quindi, che i personaggi delle sue canzoni, veri e propri racconti brevi, siano operai, disoccupati, migranti, banditi, reduci di guerra, ex galeotti, attratti e disillusi dal sogno americano:  tutti idealmente figli di Tom Joad, il protagonista di Furore, tutti in fuga dalle terre cattive (Badlands) e alla ricerca della terra promessa (The Promise Land).
Lasciandosi condurre da quella “voce folk”, capace di rievocare i personaggi di Steinbeck, i paesaggi di Faulkner, le ballate di Woody Guthrie senza dimenticare le suggestioni del blues, del gospel e dello spiritual, Marina Petrillo ripercorre l’itinerario umano e artistico di Springsteen.
Per sottolineare che – dai boschi stregati di Nebraska alle esperienze con la Seeger Sessions Band fino all’impegno politico – in quella voce si materializza l’indole di un vero narratore, dalla quale emerge una forte passione civile sfociata in quel Working on a dream divenuto la colonna sonora della campagna elettorale di Barack Obama.
“Attingendo alle radici più antiche dell’America – si legge – e tornando sempre alla scelta di campo che gli hanno imposto le sue origini proletarie, oggi Springsteen si trova in quel pensiero che non si volge a un’idea autodifensiva di comunità, ma piuttosto a una fede nel funzionamento di una sobria vita comune con la sua intrinseca fertilità”.
L’altro volume, Runaway Dream.
Born to Run e la visione americana di Bruce Springsteen, di Louis Masur (Roma, Arcana, 2010, pagine 223, euro 17,50), celebra in particolare i 35 anni dell’uscita dell’album.
A metà degli anni Settanta fu il disco manifesto degli States, di una società dinamica che temeva di vedersi sfuggire di mano il tanto decantato sogno americano.
Attraverso i personaggi che si muovono in quelle storie il giovane cantautore dava voce a quanti avevano poco da perdere, nati per correre, pronti a fuggire verso un futuro migliore, verso una visione diversa di mondo, capace di restituire speranza e una possibilità di redenzione.
Per questo, come sottolinea Masur, Born to Run è molto più di un semplice album rock:  è un’esplosione poetica, un grido di strada che esprime al contempo frustrazione e ansia di libertà.
Runaway Dream racconta la gestazione dell’opera che lanciò Bruce Springsteen nel firmamento della musica mondiale e ne analizza l’impatto sulla cultura statunitense, dimostrando come le immagini della sterminata provincia in essa contenute abbiano sfidato il tempo e siano ancora oggi vivide e potenti, anche se il sogno americano si è infranto.
Spazzato dall’ennesima crisi economica che ha forse riportato quella stessa atmosfera cupa che si coglie nell’album.
(©L’Osservatore Romano – 18 novembre 2010)

“Cultura della comunicazione e nuovi linguaggi”.

La Chiesa e il Vangelo ai tempi di Internet Giacomo Dotta «Ascoltando le voci del mondo globalizzato, ci accorgiamo che è in atto una profonda trasformazione culturale, con nuovi linguaggi e nuove forme di comunicazione, che favoriscono anche nuovi e problematici modelli antropologici».
Con queste parole Papa Benedetto XVI ha ribadito l’apertura della Chiesa nei confronti dei nuovi strumenti della comunicazione.
L’evoluzione del Vaticano in tal senso è in auge ormai da tempo, con una apertura sempre più ampia ed una comprensione sempre più approfondita sulle dinamiche che il Web sta maturando.
Ancora un volta, in particolare, il Papa ha voluto sottolineare l’importanza di una comprensione a tutto tondo della Rete, tanto nelle sue opportunità quanto nei suoi pericoli.
I due lati della stessa medaglia sono stati approfonditi in occasione dell’Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura sul tema “Cultura della comunicazione e nuovi linguaggi“: la Chiesa intende aprirsi al Web in modo sempre più radicale, sente di doverlo fare in virtù della propria vocazione all’evangelizzazione, ma intende altresì muovere i propri passi con tutta la consapevolezza necessaria.
L’impegno parte da una presa di coscienza circa le difficoltà comunicative che la comunità cristiana sperimenta tanto verso l’esterno, quanto al suo stesso interno: «i Pastori e i fedeli avvertono con preoccupazione alcune difficoltà nella comunicazione del messaggio evangelico e nella trasmissione della fede, all’interno della stessa comunità ecclesiale.
[…] tanti cristiani hanno bisogno che sia loro riannunciata in modo persuasivo la Parola di Dio, così da poter sperimentare concretamente la forza del Vangelo” .
I problemi sembrano talora aumentare quando la Chiesa si rivolge agli uomini e alle donne lontani o indifferenti ad una esperienza di fede, ai quali il messaggio evangelico giunge in maniera poco efficace e coinvolgente.
In un mondo che fa della comunicazione la strategia vincente, la Chiesa, depositaria della missione di comunicare a tutte le genti il Vangelo di salvezza, non rimane indifferente ed estranea; cerca, al contrario, di avvalersi con rinnovato impegno creativo, ma anche con senso critico e attento discernimento, dei nuovi linguaggi e delle nuove modalità comunicative».
In questa difficoltà è identificato uno dei maggiori problemi odierni della Chiesa: «L’incapacità del linguaggio di comunicare il senso profondo e la bellezza dell’esperienza di fede può contribuire all’indifferenza di tanti, soprattutto giovani; può diventare motivo di allontanamento[…], rilevando che una presentazione inadeguata del messaggio nasconde più che manifestare il genuino volto di Dio e della religione».
Il Santo Padre ha parlato di una necessaria “sincronizzazione” con il mondo dei giovani: oggi i codici linguistici sono differenti e ciò rende la comunicazione tra le parti non solo inefficace, ma di per sé dannosa poichè implica un errato passaggio dei messaggi, dei concetti e dell’immagine della Chiesa stessa.
Al tempo stesso, la Santa Sede pone l’accento sui problemi che la nuova realtà impone su una generazione che potrebbe non ancora avere la necessaria consapevolezza per affrontare in modo sano i nuovi strumenti comunicativi: «Oggi non pochi giovani, storditi dalle infinite possibilità offerte dalle reti informatiche o da altre tecnologie, stabiliscono forme di comunicazione che non contribuiscono alla crescita in umanità, ma rischiano anzi di aumentare il senso di solitudine e di spaesamento.
Dinanzi a tali fenomeni, ho parlato più volte di emergenza educativa, una sfida a cui si può e si deve rispondere con intelligenza creativa, impegnandosi a promuovere una comunicazione umanizzante, che stimoli il senso critico e la capacità di valutazione e di discernimento».
La Chiesa vede nel Vangelo una chiave interpretativa valida sempre e comunque, anche ai tempi dell’odierna cultura tecnologica: il paradigma rimane intatto, il dogma si conferma valido.
Cambia però in contesto e, quindi, la Chiesa dovrà sapervisi adattare per non trovasi a predicare il Vangelo in un linguaggio arcaico, inefficace ed inascoltato.
14/11/2010 http://www.webnews.it  Nella ricerca della verità e della bellezza la Chiesa vuole dialogare con tutti.
Per questo deve avvalersi, con impegno creativo ma anche con senso critico e con attento discernimento, dei nuovi linguaggi e delle nuove modalità comunicative.
È il senso del discorso rivolto dal Papa ai partecipanti all’assemblea plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura, ricevuti in udienza sabato mattina, 13 novembre, nella Sala Clementina.
 Signori Cardinali, Venerati Fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio, Cari fratelli e sorelle! Sono lieto di incontrarvi al termine dell’Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura, nel corso della quale avete approfondito il tema:  “Cultura della comunicazione e nuovi linguaggi”.
Ringrazio il Presidente, Mons.
Gianfranco Ravasi, per le belle parole, e saluto tutti i partecipanti, grato per il contributo offerto allo studio di tale tematica, assai rilevante per la missione della Chiesa.
Parlare di comunicazione e di linguaggio significa, infatti, non solo toccare uno dei nodi cruciali del nostro mondo e delle sue culture, ma, per noi credenti, significa avvicinarsi al mistero stesso di Dio che, nella sua bontà e sapienza, ha voluto rivelarsi e manifestare la sua volontà agli uomini (Concilio Vaticano ii, Cost.
dogm.
Dei Verbum, 2).
In Cristo, infatti, Dio si è rivelato a noi come Logos, che si comunica e ci interpella, allacciando la relazione che fonda la nostra identità e dignità di persone umane, amate come figli dall’unico Padre (cfr.
Es.
ap.
postsinodale Verbum Domini, 6.22.23).
Comunicazione e linguaggio sono anche dimensioni essenziali della cultura umana, costituita da informazioni e nozioni, da credenze e stili di vita, ma anche da regole, senza le quali difficilmente le persone potrebbero progredire nell’umanità e nella socialità.
Ho apprezzato l’originale scelta di inaugurare la Plenaria nella Sala della Protomoteca al Campidoglio, cuore civile e istituzionale di Roma, con una tavola-rotonda sul tema:  “Nella Città in ascolto dei linguaggi dell’anima”.
In tale modo, il Dicastero ha inteso esprimere uno dei suoi compiti essenziali:  mettersi in ascolto degli uomini e delle donne del nostro tempo, per promuovere nuove occasioni di annuncio del Vangelo.
Ascoltando, dunque, le voci del mondo globalizzato, ci accorgiamo che è in atto una profonda trasformazione culturale, con nuovi linguaggi e nuove forme di comunicazione, che favoriscono anche nuovi e problematici modelli antropologici.
In questo contesto, i Pastori e i fedeli avvertono con preoccupazione alcune difficoltà nella comunicazione del messaggio evangelico e nella trasmissione della fede, all’interno della stessa comunità ecclesiale.
Come ho scritto nell’Esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini:  “tanti cristiani hanno bisogno che sia loro riannunciata in modo persuasivo la Parola di Dio, così da poter sperimentare concretamente la forza del Vangelo” (n.
96).
I problemi sembrano talora aumentare quando la Chiesa si rivolge agli uomini e alle donne lontani o indifferenti ad una esperienza di fede, ai quali il messaggio evangelico giunge in maniera poco efficace e coinvolgente.
In un mondo che fa della comunicazione la strategia vincente, la Chiesa, depositaria della missione di comunicare a tutte le genti il Vangelo di salvezza, non rimane indifferente ed estranea; cerca, al contrario, di avvalersi con rinnovato impegno creativo, ma anche con senso critico e attento discernimento, dei nuovi linguaggi e delle nuove modalità comunicative.
L’incapacità del linguaggio di comunicare il senso profondo e la bellezza dell’esperienza di fede può contribuire all’indifferenza di tanti, soprattutto giovani; può diventare motivo di allontanamento, come affermava già la Costituzione Gaudium et spes, rilevando che una presentazione inadeguata del messaggio nasconde più che manifestare il genuino volto di Dio e della religione (cfr.
n.
19).
La Chiesa vuole dialogare con tutti, nella ricerca della verità; ma perché il dialogo e la comunicazione siano efficaci e fecondi è necessario sintonizzarsi su una medesima frequenza, in ambiti di incontro amichevole e sincero, in quell’ideale “Cortile dei Gentili” che ho proposto parlando alla Curia Romana un anno fa e che il Dicastero sta realizzando in diversi luoghi emblematici della cultura europea.
Oggi non pochi giovani, storditi dalle infinite possibilità offerte dalle reti informatiche o da altre tecnologie, stabiliscono forme di comunicazione che non contribuiscono alla crescita in umanità, ma rischiano anzi di aumentare il senso di solitudine e di spaesamento.
Dinanzi a tali fenomeni, ho parlato più volte di emergenza educativa, una sfida a cui si può e si deve rispondere con intelligenza creativa, impegnandosi a promuovere una comunicazione umanizzante, che stimoli il senso critico e la capacità di valutazione e di discernimento.
Anche nell’odierna cultura tecnologica, è il paradigma permanente dell’inculturazione del Vangelo a fare da guida, purificando, sanando ed elevando gli elementi migliori dei nuovi linguaggi e delle nuove forme di comunicazione.
Per questo compito, difficile e affascinante, la Chiesa può attingere allo straordinario patrimonio di simboli, immagini, riti e gesti della sua tradizione.
In particolare il ricco e denso simbolismo della liturgia deve splendere in tutta la sua forza come elemento comunicativo, fino a toccare profondamente la coscienza umana, il cuore e l’intelletto.
La tradizione cristiana, poi, ha sempre strettamente collegato alla liturgia il linguaggio dell’arte, la cui bellezza ha una sua particolare forza comunicativa.
Lo abbiamo sperimentato anche domenica scorsa, a Barcellona, nella Basilica della Sagrada Familia, opera di Antoni Gaudí, che ha coniugato genialmente il senso del sacro e della liturgia con forme artistiche tanto moderne quanto in sintonia con le migliori tradizioni architettoniche.
Tuttavia, più incisiva ancora dell’arte e dell’immagine nella comunicazione del messaggio evangelico è la bellezza della vita cristiana.
Alla fine, solo l’amore è degno di fede e risulta credibile.
La vita dei santi, dei martiri, mostra una singolare bellezza che affascina e attira, perché una vita cristiana vissuta in pienezza parla senza parole.
Abbiamo bisogno di uomini e donne che parlino con la loro vita, che sappiano comunicare il Vangelo, con chiarezza e coraggio, con la trasparenza delle azioni, con la passione gioiosa della carità.
Dopo essere stato pellegrino a Santiago de Compostela ed aver ammirato in migliaia di persone, soprattutto giovani, la forza coinvolgente della testimonianza, la gioia di mettersi in cammino verso la verità e la bellezza, auspico che tanti nostri contemporanei possano dire, riascoltando la voce del Signore, come i discepoli di Emmaus:  “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via?” (Lc 24, 32).
Cari amici, vi ringrazio per quanto quotidianamente fate con competenza e dedizione e, mentre vi affido alla materna protezione di Maria Santissima, di cuore imparto a tutti la Benedizione Apostolica.
(©L’Osservatore Romano – 14 novembre 2010) La plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura è stata aperta ieri pomeriggio con una seduta pubblica in Campidoglio, con la partecipazione del sindaco di Roma Gianni Alemanno.
I lavori si svolgono da oggi fino a sabato prossimo in Vaticano sul tema “Cultura della comunicazione e nuovi linguaggi”.
Luca Collodi ha chiesto a mons.
Gianfranco Ravasi, presidente del dicastero per la Cultura e prossimo cardinale, perché la plenaria per la sua apertura abbia scelto di uscire dal Vaticano: R.
– E’ stata quasi una scelta obbligatoria, perché siamo in presenza di un tema che di sua natura suppone la “polis”, cioè la città; suppone il gioco delle strade che si incrociano; delle persone che comunicano tra di loro, che urlano e che qualche volta – invece – sussurrano soltanto.
Per questo motivo abbiamo scelto il Campidoglio che è una sorta di simbolo e dove la comunicazione dovrebbe diramarsi in tutta la città.
D.
– La Chiesa fa della Parola la sua testimonianza, però fatica a parlare il linguaggio dei tempi moderni.
Perché? R.
– Esiste un problema quasi preliminare: da un lato, noi dobbiamo riconoscere che la comunicazione e il linguaggio sono delle espressioni fondamentali dell’essere umano e della stessa religione.
Non dimentichiamo che la Bibbia comincia – nell’Antico e nel Nuovo Testamento – con la frase: “Dio disse” e “In principio c’era la Parola”.
Quindi come tale, la parola celebra i suoi trionfi, nella cultura, nella religione, nella comunicazione, come avviene ora tra di noi.
Dall’altra parte, però, si è riconosciuto che ormai la comunicazione e il linguaggio sono malati: hanno tante diverse malattie degenerative e al capezzale di questo malato ci sono tanti specialisti.
Tra questi ci deve essere, indubbiamente, anche la comunità ecclesiale, anche perché tante volte la comunità ecclesiale, forse, questo linguaggio non sa più usarlo.
D.
– Mons.
Ravasi è la Chiesa che non sa più usare il linguaggio o sono i contenuti ecclesiali che non interessano più l’opinione pubblica? R.
– Noi sappiamo il famoso detto, che viene sempre citato, “il mezzo è il messaggio”: contenuto e mezzo di comunicazione si intrecciano ininterrottamente tra di loro e costituiscono quasi come una sorta di realtà inestricabile.
Per questo motivo il contenuto è primario.
Noi abbiamo un messaggio da comunicare, che è tante volte alternativo rispetto a quello della società contemporanea, ma che riteniamo fondamentale per i valori che custodisce, per la ricchezza che contiene.
Dall’altra parte, però, c’è il mezzo e il mezzo purtroppo molte volte è stato perso: si è usato un linguaggio e un modo espressivo, da parte della società contemporanea, che non è stato raccolto dalla Chiesa e che ha continuato con un suo linguaggio.
Ecco allora la necessità di entrare non soltanto con in contenuto, ma anche con il mezzo, con la comunicazione.
D.
– C’è la necessità anche di una formazione dei pastori della Chiesa ai nuovi linguaggi… R.
– E’ questa una delle necessità, forse, fondamentali.
E non soltanto per evitare quella critica ironica che faceva Voltaire ai predicatori, dicendo che “l’eloquenza è come la spada di Carlo Magno: lunga e piatta, perché i predicatori quello che non sanno darti in profondità te lo danno in lunghezza!”.
La necessità di trovare un linguaggio certamente più capace di entrare in sintonia con la cultura e con l’uomo di oggi è indispensabile.
Non dimenticando, però, che esiste un linguaggio fondamentale di riferimento e dal quale non si può prescindere.
Ci sono delle parole che devono essere conservate! D.
– L’apertura della plenaria è avvenuta fuori dal Vaticano: ci dobbiamo aspettare nuove conclusioni dal lavoro dell’assemblea? R.
– Sicuramente l’originalità dell’apertura fuori dal Vaticano, come sempre si è fatto, è già significativa in sé.
L’altra novità è che la plenaria coinvolgerà persone diversissime: ci saranno registi cinematografici, ci saranno artisti ed architetti che interverranno, studiosi di linguaggio e specialisti di Internet ….
Questo è già un modo per parlare ad un areopago molto più esteso, ad una piazza molto più espansa.
Io penso che, d’altra parte – e qui ritorniamo alle parole di Cristo – non dobbiamo annunciare soltanto nell’interno della penombra aureolata – forse – di incensi, della comunità ecclesiale, delle chiese, ma dobbiamo parlare – come diceva Gesù – anche dalle terrazze e dai tetti: e noi siamo saliti, appunto, sulla terrazza del Campidoglio o – se si vuole – di tutta la società contemporanea.
(mg)

Il pellegrinaggio dei musulmani a La Mecca

I musulmani di tutto il mondo si apprestano a celebrare l’hajj, quinto pilastro dell’islam, ovvero l’annuale pellegrinaggio a La Mecca, in Arabia Saudita.
Per domani, primo dei cinque giorni del rito, è atteso l’arrivo di circa due milioni e mezzo di pellegrini.
Le autorità di Riyadh, custodi dei principali luoghi santi dell’islam (La Mecca e Medina), hanno schierato un impressionante apparato di sicurezza e di soccorso per evitare attentati ma soprattutto la serie di incidenti mortali avvenuti negli ultimi anni per le situazioni di panico createsi a causa del grande affollamento.
Una delle grandi novità di quest’anno è l’Al Mashaar al-Muqadassah, o “metropolitana dei luoghi santi”, che entrerà in funzione domenica e grazie alla quale i fedeli potranno spostarsi con maggiore facilità e rapidità.
Alleggerirà il traffico intorno ai principali siti di almeno trentamila veicoli, stima il Governo saudita, ed è considerata uno dei progetti più significativi del regno nel settore dei trasporti pubblici.
Quest’anno correrà al 35 per cento delle sue capacità, con dieci treni che viaggeranno coprendo il tragitto con corse di circa sette minuti, trasportando a pieno carico 72.000 pellegrini.
L’itinerario si snoderà da Mina, valle dove i musulmani si raccolgono in preghiera, al monte della Misericordia, dove Maometto pronunciò il suo ultimo discorso, fino a Muzdalifah, ultima tappa del pellegrinaggio prima del ritorno a La Mecca.
 L’hajj si svolge tra l’ottavo e il tredicesimo giorno del Dhu l-hijjah, dodicesimo e ultimo mese del calendario islamico, che è un calendario lunare, il che spiega perché la data del pellegrinaggio a La Mecca – che i musulmani devono compiere almeno una volta nella propria vita – varia di anno in anno.
Si tratta di un evento fondamentale, in quanto rappresenta il più grande mezzo di purificazione:  nel viaggio verso e attorno la Ka’aba, la “casa di Dio”, il fedele chiede perdono per i suoi peccati e viene purificato attraverso il suo pentimento e la celebrazione dei riti.
Il pellegrinaggio comincia infatti con la proclamazione delle sue intenzioni di compiere il rito spirituale e, quando giunge in un perimetro fissato attorno a La Mecca, la persona deve purificarsi attraverso un lavacro:  l’uomo deve indossare l’ihram, un indumento bianco privo di cuciture fatto di due pezzi di stoffa, la donna un semplice abito che lascia scoperti il viso e le mani.
Ognuno procede quindi con circonvoluzioni facendo sette volte il giro della Ka’aba, la costruzione a forma di cubo che si trova al centro de La Mecca e che costituisce il luogo più sacro dell’islam, in direzione della quale i musulmani pregano cinque volte al giorno.
Se può, tocca e bacia la pietra nera incrostata in uno degli angoli della Ka’aba, per l’occasione ricoperta dalla tradizionale kiswa.
In seguito i pellegrini si recano, raccolti in preghiera, nella valle di Mina, un piccolo villaggio disabitato a est della città.
Quindi lasciano Mina per ritrovarsi nella piana di Arafat per il wuquf, il rito centrale dell’hajj, il più intenso, caratterizzato da un’immobile meditazione.
In molti si riversano sul vicino monte della Misericordia, dove Maometto pronunciò il suo sermone d’addio.
Poi, tra Mina e Muzdalifah, si celebrano il rito del sacrificio (Aid al-Adha) – un montone, o una pecora, viene immolato a Dio ricordando l’obbedienza di Abramo pronto a uccidere uno dei figli pur di adempiere alla volontà del Creatore – e quello della lapidazione di Satana, attraverso il lancio di sette sassolini.
Il ritorno alla Ka’aba conclude il pellegrinaggio.
(©L’Osservatore Romano – 14 novembre 2010)