Il 7 novembre di cent’anni fa si spegneva nella stazioncina di Astàpovo, sperduta nell’immensa Russia, il grande romanziere Tolstoj, in fuga dalla sua famiglia e da sé stesso.
Pochi sanno che due anni prima, e precisamente il 12 giugno 1908, egli scriveva la premessa a un libretto diviso in 52 paragrafi, nato dai corsi di religione che aveva tenuto l’anno prima ai figli dei contadini della sua tenuta di Jasnaja Poljana e che aveva intitolato Il Vangelo spiegato ai giovani.
Aveva scelto i passi evangelici “più accessibili ai bambini”, nella convinzione che essi “come disse Cristo, sono in particolar modo recettivi della dottrina del regno di Dio”.
Ebbene, spesso si ritiene che una delle parti più adatte ai piccoli sia quella che raccoglie i 180 versetti dei cosiddetti “Vangeli dell’infanzia” di Gesù, presenti nei primi due capitoli di Matteo e di Luca.
Sicuramente, al centro c’è un Bambino, ma quelle pagine sono tutt’altro che bei raccontini destinati a menti ancora in formazione; ciò che generano non è uno stupore infantile a bocca aperta e occhioni sgranati; è, invece, lo stupore della fede adulta che comprende e contempla.
A creare la sensazione che quei “Vangeli” siano rivolti più a un pubblico ingenuo che a coloro che cercano un annunzio di salvezza, ha contribuito molto un genere letterario sbocciato nei primi secoli cristiani su imitazione dei Vangeli canonici.
Si tratta dei ben noti “Vangeli apocrifi”, laddove questa specificazione – che rimanda in greco a qualcosa di “nascosto, segreto” – aveva gettato su quegli scritti una luce misteriosa di esoterismo e di proibito.
E gli stessi testi favorivano tale interpretazione.
L’importante (anche storicamente) Vangelo di Tommaso, che offre un prezioso campionario di 114 lóghia o “detti” di Cristo, si apriva così: “Queste sono le parole segrete che Gesù, il Vivente, ha detto.
Didimo Giuda Tommaso le ha scritte e ha detto: Chi troverà l’interpretazione di queste parole non gusterà la morte”.
Tale accezione iniziatica del termine “apocrifo” si trasformerà negativamente in quella di “falso”, in contrapposizione a ciò che era “canonico”, ossia la Scrittura ufficialmente accolta dalla Chiesa, trasformazione dotata, però, di qualche fondamento: queste pagine, infatti, soprattutto nelle loro narrazioni sull’infanzia di Gesù, accanto a dati storicamente attendibili anche se ignoti ai quattro Vangeli canonici, seminavano a piene mani eventi e parole intrise della spezia della fantasia, fino ad accogliere anche degenerazioni ideologiche, nel tentativo di avallare teorie teologiche di gruppi cristiani locali.
Ecco, noi ora vorremmo presentare ai nostri lettori le principali fonti “natalizie” apocrife a cui per secoli hanno attinto non solo le arti, ma anche la devozione popolare, il folclore, i racconti per l’infanzia e persino la liturgia (è noto che le memorie sia della natività sia della presentazione al tempio di Maria, come quella dei nomi dei genitori della Vergine, Anna e Gioacchino, sono da cercare nel primo degli apocrifi che subito evocheremo).
Naturalmente, chi vuol leggere quei testi in edizioni corrette e rigorose non ha che l’imbarazzo della scelta.
Accontentiamoci di segnalare soltanto la più recente, quella curata dall’esegeta catalano Armand Puig i Tàrrech, I vangeli apocrifi (Cinisello Balsamo, San Paolo, 2010, pagine 414, euro 32: è solo il primo volume ed è quello che tocca il nostro tema).
I Vangeli apocrifi dell’infanzia di Gesù si possono proporre secondo un trittico eterogeneo.
La prima tavola è occupata dallo scritto più celebre, variamente intitolato dai manoscritti che ce l’hanno conservato, ma comunemente noto come il Protovangelo di Giacomo, probabilmente “il fratello del Signore” (Galati, 1, 19; Marco, 6, 3), primo capo della Chiesa di Gerusalemme, che si autopresenta nell’epilogo così: “Io, Giacomo, che ho scritto questa storia”.
Le Chiese d’Oriente, invece, hanno preferito identificarlo in un ipotetico figlio maggiore avuto da san Giuseppe in un precedente matrimonio, mentre il Decreto Gelasiano del vi secolo optava per il Giacomo detto il minore del collegio apostolico.
Ma al di là del patronato e delle stesse molteplici versioni a noi giunte, spesso divergenti tra loro, ciò che interessa è il contenuto che ha reso questo testo uno degli apocrifi di maggior successo.
Come scriveva quel grande studioso e teologo che fu Oscar Cullmann, il Protovangelo di Giacomo brilla per “discrezione, intimità e poesia” e merita attenzione anche per la sua antichità: è, infatti, da collocare tra il 150 e il 200.
La trama è semplice e potrebbe essere classificata come una biografia di Maria, dal suo concepimento miracoloso fino alla nascita di suo figlio Gesù.
È qui che apparentemente sembra registrarsi una caduta di stile con la scena dell’ispezione ginecologica sulla verginità di Maria.
Tuttavia, questa e tutte le altre sottolineature della sua purezza e verginità fin dalla sua concezione sono probabilmente segnate da una finalità apologetica antignostica e, soprattutto, antipagana.
Origene, infatti, ci informa, nella sua polemica col retore e filosofo pagano Celso, che era diffusa tra i pagani la convinzione che “la madre di Gesù era stata ripudiata dal falegname a cui era unita in matrimonio perché trovata colpevole di adulterio, avendo concepito Gesù da un soldato romano di nome Panthera” (Contro Celso, 1, 32).
È curioso notare che questo nome strano sembra essere una deformazione del titolo parthénos, “vergine”, che i cristiani attribuivano a Maria.
Attingendo ai Vangeli canonici di Matteo e Luca – sui quali vengono innestati dati nuovi e liberi, come l’assassinio di Zaccaria, il padre del Battista, da parte di Erode – rimandando all’Antico Testamento (ad esempio, per il nome e la vicenda di Anna sterile, come era accaduto all’omonima madre del profeta Samuele) riferendosi anche alla letteratura popolare dedicata agli eroi e alle loro origini, l’autore del Protovangelo forse echeggia notizie e informazioni dall’antica tradizione orale cristiana la quale, certamente, aveva fatto da base anche al racconto canonico.
Sta di fatto che il successo di questo apocrifo nella storia dell’arte, del culto e della devozione mariana fu folgorante pure in Occidente, ove fu mediato attraverso quell’opera capitale che fu la Legenda aurea di Jacopo da Varazze (xiii sec.).
È a questo punto che dobbiamo introdurre la seconda tavola del nostro ideale trittico apocrifo natalizio.
È il cosiddetto Vangelo dell’infanzia di Tommaso, da non confondere col già citato e rilevante Vangelo di Tommaso, trovato in Egitto.
Si tratta di un testo greco, giunto a noi anche in varie traduzioni antiche (siriaco, latino, georgiano, slavo, etiopico) dalla trama semplice ma sconcertante.
Semplice, perché racconta atti e detti del piccolo Gesù tra i cinque e i dodici anni, nel silenzio assoluto dei Vangeli canonici che si accontentano di dirci soltanto che “il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui” (Luca, 2, 40), al massimo informandoci con Giuseppe che “andò ad abitare in una città chiamata Nazaret, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo dei profeti: Sarà chiamato Nazareno” (Matteo, 2, 23).
Dicevamo, però, che lo scritto è anche sconcertante in quanto ci offre un ritratto di Gesù come quello di un enfant terribile, capriccioso, arrogante persino coi suoi genitori.
Il catalogo di queste divine malefatte, che sono miracoli al contrario, è impressionante: una paralisi, due morti e una cecità! Paralitico diventa il compagno che aveva aperto un canale di uscita nella pozza d’acqua che Gesù aveva costruito, come fanno i bambini nei loro giochi; muore un altro ragazzo che l’aveva spintonato, ma si spegne anche il maestro che aveva bacchettato sulla testa questo scolaro inquieto; ciechi si ritrovano i compagni o gli adulti che non stanno dalla sua parte e lo accusano.
È pur vero che il piccolo Gesù sfodera poi i suoi poteri divini risuscitando e guarendo, e vivificando anche dodici uccellini da lui plasmati col fango, rendendo potabile l’acqua di un torrente, aggiustando un asse per il lavoro del padre falegname Giuseppe, rendendo impermeabile il manto di sua madre Maria per il trasporto dell’acqua, curando un morso di vipera del fratellastro Giacomo, moltiplicando il grano per i poveri, decifrando il segreto simbolismo della lettera greca alfa e così via elencando per un totale di ben tredici prodigi.
È lecita a questo punto una domanda: qual è il significato ultimo di questa parata taumaturgica un po’ istrionica e bizzarra? Difficile è una risposta univoca e convincente, tra le tante che sono state escogitate, cercando di pescare anche in qualche fluido retroterra gnostico.
Si possono, certo, isolare in filigrana alcune iridescenze simboliche, come quella del giudizio su coloro che rifiutano Cristo, secondo quel contrasto tra mondo e parola divina, tra luce e tenebre, tra fede e rifiuto che domina nel Vangelo di Giovanni.
Il citato Puig i Tàrrech, con qualche contorcimento interpretativo, arriva al punto di affermare che l’autore di questo Vangelo “con un’intelligenza narrativa decisamente singolare, procederebbe a una riduzione ad absurdum della questione della divinità di Gesù e presenterebbe un Gesù in-credibile, per mostrare come tale divinità debba essere creduta e riconosciuta nella sua autenticità”.
Detto altrimenti, sarebbe un racconto paradossale, “al limite”, del quale bisogna cogliere la cifra nascosta per decrittarne il senso profondo.
Sarà pure così, ma sta di fatto che il risultato più evidente è che “Tommaso” riesce a far brillare di luce irraggiungibile la sobrietà e la limpida serietà teologica dei Vangeli canonici dell’infanzia di Gesù.
Siamo, allora, giunti al terzo quadro della nostra trilogia, il Vangelo dello Pseudo-Matteo, così denominato dal famoso studioso ottocentesco Constantin von Tischendorf, lo scopritore del celebre codice Sinaitico della Bibbia, nel monastero di Santa Caterina al Sinai.
In realtà, la sostanza di questo apocrifo è solamente la ripresa libera proprio delle altre due tavole narrative del nostro trittico, arricchendole di particolari inediti.
Perché, allora, evochiamo anche questo scritto, sorto tra il 600 e il 625 in qualche monastero latino occidentale? Lo facciamo proprio per questa sua funzione di mediazione tra Oriente e Occidente della tradizione apocrifa di Giacomo e Tommaso e per lo straordinario successo che l’opera registrò nella devozione delle nostre Chiese, anche attraverso il filtro già citato della Legenda aurea.
Se cerchiamo notizie storicamente attendibili sulle origini di Gesù, la messe di dati che troviamo leggendo le pagine del nostro trittico è forse modesta anche se non inesistente.
Se, invece, desideriamo interpretare l’iconografia dell’arte e della fede cristiana dei secoli successivi, dobbiamo certamente tenere sul tavolo, accanto a Matteo e Luca, anche gli apocrifi che vanno sotto il nome di Giacomo, di Tommaso e dello Pseudo-Matteo.
Una piccola nota in appendice e un po’ fuori tema.
Pochi sanno che alla conservazione di ágrapha, ossia di parole ed eventi “non scritti” (nei Vangeli canonici) di o su Gesù ha contribuito anche l’islam: lo scorso anno Sabino Chialà ha pubblicato appunto I detti islamici di Gesù (Milano, Fondazione Valla-Mondadori, 2009, pagine 520, euro 30).
Ne vorrei citare uno di grande suggestione.
Se da Agra, l’indimenticabile capitale moghul dell’India, sede del Taj Mahal (“una lacrima di marmo ferma sulla guancia del tempo”, come lo definiva Tagore), il turista scende per una quarantina di chilometri a sud-ovest, scopre la città fantasma di Fatehpur Sikri, edificata nel Cinquecento dall’imperatore Akbar come un crocevia utopico delle religioni, fuse nella sua din-i-llahi, “la religione di Dio”, un arcobaleno sincretistico di fedi diverse.
Per questo sulla moschea della città egli aveva apposto questa iscrizione: “Gesù – che la pace sia con lui – disse: Il mondo è un ponte.
Attraversalo, ma non fermarti lì”.
Ora, anche nel citato Vangelo di Tommaso, all’interno dei suoi 114 detti di Gesù ci si imbatte nell’appello: “Siate gente di passaggio!”.
Sia nella scritta di Fatehpur Sikri sia in quest’altra frase si può sentire l’eco delle parole evangeliche di Cristo sul vero tesoro, che non è nella passeggera ricchezza terrena (Matteo, 6, 19-34), e sul vano affannarsi nell’accumulo dei beni transitori (Luca, 12, 16-31).
(©L’Osservatore Romano – 25 dicembre 2010)
Categoria: Formazione
Fede politica e ragione spirituale possono convivere in noi
Tempo di Natale, tempo dello spirito.
Magari buono per riflettere su grandi temi come il seguente: viviamo davvero— come si sente dire da parte di molti — in un periodo «contro secolare» ? No, non spaventatevi alla vista di una parola cosi complicata.
In fondo, come dicono i dizionari, «secolare» vuol dire semplicemente il contrario di religioso o spirituale.
Con tutte le conseguenze istituzionali del caso, prima fra tutte la separazione netta tra i destini dello Stato e quelli della Chiesa.
E con gli effetti che tali conseguenze apportano alla vita delle persone, per cui chi vive nel chiostro — in un’età secolare— si vede preclusa la vita pubblica.
Detto questo, parlare di «controsecolare» significa né più né meno che queste separazioni, virtuali o reali che siano, non hanno più molto senso nel periodo in cui viviamo e che proprio per questo bisogna rifiutarle.
Il pensatore tedesco Habermas ha parlato da tempo, e con maggiore prudenza, di «post-secolare» , alludendo in questo modo a una fase preliminare a quella di cui stiamo parlando.
In fondo, «post-secolare» equivale rozzamente a pluralistico, per cui non si può puntare su una sola narrativa trionfante, come lo era quella laica e illuministica della modernità.
E bisogna piuttosto scommettere su una sana ma complicata convivenza di forme di vista plurime e differenti (i temi del sacro e della politica saranno trattati nella Biennale Democrazia 2011, che si terrà a Torino nel prossimo aprile).
Insomma, il «post-secolare» ci vede affiancati gli uni agli altri nella relativa incertezza metafisica e morale che contraddistingue il tempo nostro.
Da questo punto di vista, il «post-secolare» habermasiano addomestica nel dialogo paritario la fantasiosa temperie post-moderna.
Quest’ultima, che abbiamo visto nella versione French thought eternamente obbligata a ripetere il mantra dell’incommensurabilità delle grandi narrative si è, nel tempo, auto-divorata negando le premesse teoriche stesse su cui poggiava.
Ma se il post-secolare habermasiano fotografa un percorso di dubbi addolciti dalla certezza finale per cui alla fine della corsa — come nei vecchi bei film americani — la saggezza della ragione finirà per prevalere, cosi non è per il più recente «contro-secolare» .
Questa ultima temperie dello spirito si presenta, infatti, più aggressiva e critica.
Non si accontenta di regalare all’individuo religioso la pari dignità con quello laico nella sfera pubblica, ma pretende di più.
Pretende che la parola di dio abbia un valore più profondo, autentico e vero di quanto non ne abbiano le ragioni dei laici.
Al contrario di quanto sosteneva Giorgio Guglielmo Federico Hegel, la teologia— da questo punto di vista— non è più l’ancella della filosofia, ma piuttosto il contrario.
Papa Benedetto XVI, che di queste cose si intende per antichi studi oltre che per saggezza pastorale, d’altronde ha insistito sul fatto che il vantaggio dell’uomo di fede sta nel potere mettere talvolta da parte la pari pretesa delle ragioni in nome dell’unicità del vero.
Questo è un modo per entrare nel merito del contro-secolare, che lo stesso papa — nel suo discorso alla Sapienza — ha voluto rilanciare in rispettosa polemica con il più discorsivo dei filosofi liberal democratici, quel John Rawls di Harvard da molti giudicato il più grande teorico della politica dai tempi di Machiavelli e Hobbes.
In questo modo, oggi Rawls è entrato a pieno diritto nel «cortile dei gentili» così come la chiesa di Roma chiama il luogo in cui i laici discutono coi non-laici delle cose divine.
L’interesse per questi temi sembra assai notevole, senza distinzione per classi di età.
Nel convegno su «Rawls and Religion» , tenutosi la scorsa settimana presso la Università Luiss di Roma, studiosi di molte nazioni e continenti si sono predisposti in dialogo a discutere di questi temi.
E, come appare del resto ovvio, la liberal-democrazia— impersonata da Rawls— non si confrontava solo con la tradizione cristiana ma anche con quella islamica e hinduista.
È interessante notare come i protagonisti del discorso si muovano, in questi casi, in maniera convergente.
Con gli studiosi occidentali di liberal democrazia a cercare di capire le ragioni degli altri, e gli studiosi islamici e indiani ansiosi di coniugare antiche saggezze con il pensiero critico dell’Occidente.
Alla fine, nonostante l’infuriare del dibattito, sotto la schiuma delle onde l’incontro prende piede.
Gli occidentali laici sono portati ad ammettere, sia pure con nostalgia, che l’esperienza di fondo da cui partono, e cioè l’Illuminismo, al termine della corsa ha fallito: (I) la teologia non sarà mai solo filosofia della religione perché la parola di dio non è mai completamente addomesticabile; (II) scienza e industria non sostituiranno mai a pieno titolo la fede.
I non-occidentali si accorgonoinvece che l’addormentamento mistico del passato li ha portati a dover abitare una società meno libera e meno eguale.
In questo modo, l’infelicità di destini contrapposti conduce a un cocktail originale di fede politica e ragione spirituale.
Questo cocktail costituisce in qualche modo il vissuto collettivo dell’esperienza contro-secolare da cui sono partito.
Dopo averlo assaggiato, ognuno di noi sente qualcosa di antico.
Un gusto di grandi narrative del passato piene di senso e verità ritorna.
Nell’altalena mai ferma della vita spirituale si assaggia lo shock di un sapore forte e riconoscibile.
Con tutte le certezze sue là, ben allineate.
Forse, questo sapore è l’essenza del contro-secolare.
Un’essenza che sola può ricacciare indietro la frenesia critica del post-moderno col suo puzzo di morte, malamente truccato da ironia.
Così va avanti il pendolo della storia spirituale.
Mentre noi, vecchi liberali, contempliamo e speriamo che prima o poi le incessanti oscillazioni tra il pre dell’affidarsi a dio e il post dell’abbandonarsi al nulla torni ad affermarsi la saggezza piena del moderno.
Che si risolva in un tutt’ora improbabile nuovo equilibrio tra io e es, fede e ragione, speranza e realtà, senso della vita ed efficienza.
professore di Filosofia politica, Università Luiss di Roma in “Corriere della Sera” del 24 dicembre 2010
la Bibbia sconosciuta
Dietro i bersaglieri che irrompono sulla breccia di Porta Pia, un carretto pieno di Bibbie fa il suo ingresso simbolico nella città dei Papi.
Da pochi mesi, in quel 1870, Pio IX ha firmato un´enciclica ai vescovi italiani per invitarli a impegnarsi «a ciò che le pecorelle fedeli aborrano dalla pestifera lettura della Bibbia tradotta».
Si libera una capitale e si libera anche la Sacra Scrittura dai veti confessionali.
Dopo centoquarant´anni da allora, la Bibbia entra nei licei pubblici italiani come libro di testo.
Probabilmente una svolta per rimediare l´enorme ignoranza italica, segnalata anche dalle indagini vaticane, di questo codice primordiale dell´umanità.
Un protocollo d´intesa tra il ministero dell´Istruzione e l´associazione “Biblia” ha sbloccato un programma di percorsi didattici sulla Bibbia all´interno delle singole materie.
L´approccio vuol essere interdisciplinare, culturale e a-confessionale.
Una sfida non facile, per un sistema ancora pesantemente condizionato dalle preoccupazioni della Chiesa cattolica per l´interpretazione ortodossa del testo fondamentale della Rivelazione giudaica-cristiana.
La partita si decide in gran parte sull´approccio laico alla Bibbia, in una società secolare e multireligiosa.
Di questo si è discusso nel convegno alla Sapienza tra esponenti laici e cattolici, promosso da “Biblia” e dal ministero dell´Istruzione, per motivare dei percorsi didattici accessibili a credenti e a non credenti, come a giovani di diversa tradizione religiosa e culturale: una Bibbia «capace di parlare anche a una società plurale» dice Agnese Cini, che ha condotto questa battaglia per anni alla testa di “Biblia”.
«Abbiamo questa grande biblioteca dell´umanità, ci può essere preziosa per reagire all´inverno dello spirito.
È un modo per far scendere dai pulpiti la Bibbia, metterla in circolazione come fermento democratico, patrimonio laico riconoscibile della cultura comune».
Era stato Amos Luzzatto, presidente della Fondazione Primo Levi, ad auspicare, insieme ad altri esponenti della cultura, come Umberto Eco e Claudio Magris, che la lettura della Bibbia non fosse confiscata in chiave confessionale, non essendo riducibile a libro religioso.
In un appello essi avevano proposto che lo studio della Bibbia non fosse programmato dentro l´ora di religione nelle scuole pubbliche, ma nel quadro dei normali percorsi didattici ( letteratura, arte, storia ecc.) come patrimonio culturale comune, interessante anche per chi non si ritiene o non è credente.
Il ritardo culturale da colmare è enorme.
Secondo un´indagine condotta da GFK Eurisko su un campione di 13mila interviste in alcuni paesi (tra i quali Usa, Russia, Francia, Germania, Spagna e Italia), patrocinata dalla Federazione Biblica Cattolica e resa pubblica in Vaticano nell´aprile 2008, solamente 30 cattolici ogni 100 nel mondo leggono la Bibbia, contro oltre 70 protestanti su 100.
La Bibbia è il libro più diffuso e stampato del mondo, tradotto in 2454 lingue differenti (sulle 6.700 parlate nel mondo), ma resta ancora poco letto e persino sconosciuto alla maggior parte delle persone.
Risulta che 86 italiani su 100 ignorano le Sacre Scritture e appena 1 su 4 ha letto una pagina biblica in modo personale, al di fuori delle celebrazioni liturgiche.
Questa è, secondo la maggior parte degli osservatori, la causa principale della puerilità culturale che continua ad affliggere la religione degli italiani.
Il fatto è che la Chiesa non è senza responsabilità in questa disfatta.
Alcuni papi come Pio IV nel 1564 e Benedetto XIV nel 1757 risposero alla Bibbia tedesca di Lutero condannando ogni traduzione in volgare della Bibbia.
Nemmeno il Concilio Vaticano II che ha rimesso al centro della Chiesa la Scrittura è riuscito a contrastare con la dovuta efficacia questa indifferenza.
Ma è difficile in breve volger di anni invertire un deficit di secoli.
Troppo a lungo la Bibbia è stata trattata da libro proibito.
Uno sforzo per la rieducazione biblica dei cattolici è stato affrontato da Benedetto XVI che ha pubblicato da poche settimane l´Istruzione “Verbum Domini” a coronamento del Sinodo del 2008 sulla Bibbia.
Significativi gli elementi novativi del testo: raccomandata l´adozione dei metodi storico-critici di indagine (a suo tempo condannati da Pio X nella furia dell´antimodernismo), demolita la pretesa del fondamentalismo biblico, che tratta il testo biblico come se fosse stato dettato alla lettera dallo Spirito, incoraggiate le traduzioni( a suo tempo vietate), accolto uno statuto non fossile ma dinamico della Tradizione.
Soprattutto il Papa esorta a un approccio razionale come chiave di lettura del testo.
Con la sola riserva su una «ermeneutica secolarizzata» che sembra difficile da conciliare con l´incoraggiamento contestuale dei metodi scientifici.
Un ulteriore elemento di incertezza nell´analisi del personaggio Ratzinger e del suo governo.
in “la Repubblica” del 17 dicembre 2010
Per eremi silenziosi
I percorsi di Rozanov tra i monasteri russi di Stefano Garzonio Eremo silenzioso è il titolo di un celebre dipinto di Isaak Levitan del 1890, oggi conservato alla Galleria Tret’jakov di Mosca.
Vi si raffigura un paesaggio idealizzato, ispirato, pare, al monastero di Jur’evec sulla Volga, che fa tuttavia solo da spunto per una composizione fortemente interiorizzata, quasi impalpabile.
Fin dalla sua prima esposizione, alla mostra degli Ambulanti del 1891, quando provocò tra le altre la reazione entusiastica di Anton Cechov, l’opera acquistò un carattere per così dire paradigmatico nella raffigurazione della spiritualità russa.
Più di un decennio più tardi lo scrittore e filosofo Vasilij Rozanov dedicò un lungo saggio alla visita dei monasteri legati alla vita del Santo Serafim di Sarov (1754-1833) e lo intitolò Per eremi silenziosi, quasi volesse riportare su carta nella sua articolazione il complesso intreccio raffigurativo della spiritualità russa simbolicamente tracciato da Levitan nel suo quadro.
Il testo di Vasilij Rozanov è ora proposto in italiana dall’editore Lindau nella cura e traduzione di Gian Luigi Giacone, cui si deve anche una informatissima postfazione e una breve nota sul grande scrittore russo.
Il pellegrinaggio nei monasteri di Ponetaevka, Sarov e Digeev, fu compiuto da Rozanov insieme ai famigliari nella speranza di ottenere un miglioramento della salute della figlia Tat’jana.
Vicino in gioventù alle idee slavofile e poi pensatore inquieto, critico acerbo del cristianesimo e dell’ortodossia, assertore della «santità del sesso» in chiave veterotestamentaria e in opposizione al cristianesimo «lunare» e ascetico, Rozanov fornisce qui un’analisi partecipe, ma non univoca dei principi spirituali del cristianesimo.
Si tratta infatti di una descrizione appassionata dei luoghi, dei monumenti artistici e del mondo umano dei pellegrini, percorsa da riflessioni, ora pacate, ora anticonformiste, sulla fede cristiana dei russi e, più concretamente, sulla specificità dell’ascetismo nella spiritualità russa.
Per il lettore italiano si tratta di un documento di particolare interesse informativo, perché offre un’immagine a tutto tondo della figura di San Serafino la cui venerazione, legata all’epoca di Nicola II che partecipò personalmente al rito della canonizzazione, è tornata oggi al centro della vita spirituale della chiesa ortodossa russa nell’epoca post-comunista.
Al tempo stesso è da rilevare la pregnanza letteraria del testo, sia per gli aspetti formali che testimoniano la grandezza di Rozanov scrittore, come risulterà evidente nella prosa frammentaria delle Foglie cadute, sia per i rimandi propriamente letterari, come nel parallelo tra la descrizione del monachesimo proposta da Rozanov e la figura dello starec Zosima nei Karamazov di Dostoevskij.
In questa prospettiva è curiosa l’annotazione secondo cui «la letteratura russa vanta quattro scrittori – Lermontov, Gogol’, Dostoevskij e, in misura minore, Tolstoj – che possiamo immaginare senza difficoltà come monaci».
Al contrario, prosegue Rozanov: «Con Puskin…
questo sarebbe impossibile.
Un uomo nella cui anima alberghi la varietà e la mutevolezza non è adatto a indossare la veste monacale…».
Lo scritto di Rozanov tende in ogni caso a sostenere un atteggiamento critico nei confronti dei concetti di «società cristiana» e «famiglia cristiana», individuando nell’ascetismo monastico l’idea centrale e rivoluzionaria del cristianesimo e sottolineando il carattere «pagano» di istituzioni come famiglia, stato e società.
In una accesa diatriba contro l’umanesimo, nella convinzione che «a Cristo appartiene la cella, il mondo non appartiene a Cristo!», Rozanov giunge a riferire il complesso dell’anima umana, dai culti precristiani alle arti e alle filosofie, al paganesimo e ai concetti di bellezza dell’antichità.
Nota lo scrittore: «Non è un caso che i templi antichi fossero pieni di vitelli, agnelli, colombi, pieni cioè di una salute ancora pre-umana, mentre le nuove chiese sono piene di storpi, ciechi e paralitici».
Non pochi sono i riferimenti alla specificità dell’ortodossia, cui lo scrittore dedicherà poi il celebre saggio La chiesa russa.
Nel contempo Rozanov sottolinea il carattere rigido, severo, del cristianesimo, dal quale «ogni gioia terrena viene vista …
attraverso il prisma della tristezza».
L’immagine del cristianesimo come «guarigione», ma non «salute», ha in nuce tutto il complesso polemico del Rozanov teista naturalista che di lì a poco nei celebri Il volto oscuro (nel quale peraltro sarà inserito il saggio Per eremi silenziosi) e Gli uomini del chiarore lunare (i due libri erano parte del volume Negli oscuri raggi religiosi bloccato nel 1910 dalla censura) leverà un grido di sfida allo spirito consolatorio del cristianesimo.
Conclude nel suo scritto Rozanov che «coloro che si ribellano al monastero non vogliono capire che la loro è al tempo stesso una ribellione al cristianesimo o, detto francamente, al Cristo stesso…».
Pare quasi un accenno alla propria evoluzione di pensiero che negli anni seguenti lo porterà, anche attraverso un contraddittorio atteggiamento verso l’ebraismo (fino alla velenosa campagna contro gli ebrei negli anni dell’affare Bejlis), alla sofferta revisione catartica di Apocalisse del nostro tempo, ultima tragica testimonianza dello scrittore prossimo alla morte negli anni della guerra civile.
Nella chiusa di Per eremi silenziosi Rozanov riporta la tragica storia di una donna morente, sfigurata dalle fiamme di un incendio, la cui unica preoccupazione prima di spirare è che non la vedano il marito e i figli.
Si tratta di un’altissima testimonianza di amore: «Questa è etica, non estetica!», esclama lo scrittore, individuando quel principio evangelico iniziale che sta alla base della vita monastica, il principio che, secondo Rozanov, è all’origine di «quelle tante piccole isole primordiali, i monasteri, che immerse nell’antico oceano del paganesimo, iniziarono a saldarsi tra loro fino a formare il continente della Chiesa».
in “il manifesto” del 14 dicembre 2010 ROZANOV VASILIJ, Per eremi silenziosi, Lindau 2010, pp.
91, € 12,50 Vasilij Rozanov intraprese il viaggio ai tre monasteri legati alla figura del beato Serafini di Sarov (uno dei più famosi asceti del XIX secolo) nella speranza che in quei luoghi benedetti potesse migliorare la salute della figlia Tanja, di nove anni.
Accompagnato dalla moglie Varvara Dmitrievna, dalla stessa Tanja e dal figlio Vasja, di cinque anni, Rozanov ebbe modo di osservare la folla di pellegrini di ogni ceto sociale e di ammalati in attesa di una guarigione miracolosa, di godere della quiete irreale che circonda i monasteri ortodossi, di visitare le celle dei monaci e di seguire con stupore le monache impegnate nei lavori della semina e del raccolto, nella cura dell’eremo, nelle preghiere estatiche.
Il viaggio gli offrì l’occasione per rappresentare (oltre alla difficile condizione dei connazionali) la realtà del monachesimo ortodosso, mettendola a confronto con la sua problematica interpretazione del cristianesimo inteso come religione della sofferenza e, soprattutto, della tristezza: “Ogni gioia terrena viene vista nel cristianesimo attraverso il prisma della tristezza: dove non c’è tristezza, non c’è cristianesimo!”, e portandolo a riflettere sulla centralità della figura di Cristo.
Pur nella sua brevità, Per eremi silenziosi racchiude, almeno in nuce, molti dei grandi temi filosofico-religiosi di Rozanov, e riflette i fermenti, i dubbi, le contraddizioni e le attese che caratterizzavano l’atmosfera culturale russa d’inizio ‘900.
La centralità della questione morale
La questione morale è la questione, argomenta Roberta De Monticelli, filosofa di statura europea con anni di insegnamento a Ginevra e ora a Milano al San Raffaele, nel suo nuovo libro (La questione morale, Raffaello Cortina).
Sostenendo che la morale non è un´applicazione secondaria ma il punto da cui tutto dipende, l´autrice si pone in pieno contrasto col pensiero dominante in Italia, che concepisce la morale come traduzione pratica di un primato assegnato ad altro, a una dimensione vuoi politica, religiosa, economica, scientifica, teoretica.
Chi assegna il primato alla morale può stare sicuro oggi in Italia di ricevere l´antipatica etichetta di «moralista», sinonimo nel linguaggio comune di persona noiosa e pedante, incapace di fare i conti con la vita concreta.
Contro questo cinismo che conosce solo la logica del potere, De Monticelli scrive pagine di vera passione intellettuale attaccando il potere politico («l´interesse affaristico che si fa partito e prostituisce il nome di libertà»), mediatico («facce patibolari»), ecclesiastico («nichilismo morale»), intellettuale («disprezzo ardente per tutto ciò che è comune»).
Arriva anche alla piaga più dolorosa: «Una sorprendente maggioranza degli italiani che approva, sostiene e nutre» tale logica del potere.
Alla denuncia segue però una proposta costruttiva («tornare a respirare»), dove lo scetticismo pratico viene confutato proprio in base al suo punto forte, cioè il freddo utilizzo della ragione, perché esercizio della ragione ed esperienza dei valori sono strettamente legati: «Alla base della logica c´è l´etica… alla base dell´etica c´è la logica».
Ritrovandomi pienamente d´accordo con la mia illustre collega, intendo onorare il suo pensiero approfondendo il nodo radicale del nostro Paese, cioè la «sorprendente maggioranza di italiani che approva, sostiene e nutre» lo scollamento tra etica e politica.
Il problema è politico nel senso radicale del termine, riguarda cioè la raccolta del consenso.
Come si raccoglie il consenso? Giocando sulle passioni e sugli interessi, quasi per nulla sul senso di giustizia (a meno di farlo diventare a sua volta una passione e un interesse, trasformando così però la giustizia in iniquo giustizialismo).
Da qui una sorta di primordiale conflitto di interessi: da un lato la morale che vive della solitudine della coscienza perché la vita ci mostra che sollevare problemi morali nel nome della coscienza significa spesso rimanere soli; dall´altro la politica che non può permettersi la solitudine.
Da un lato la morale che si gioca in una impolitica solitudine, dall´altro la politica che si gioca nella capacità di raccogliere il consenso, operazione eminentemente sociale e quindi basata di necessità sugli interessi e le passioni (rimando d´obbligo il grosso animale della Repubblica di Platone e le indimenticabili pagine di Simone Weil al riguardo).
La coscienza impone di essere giusti, ma l´essere giusti non paga in termini di fascino sociale e di raccolta del consenso.
In particolare non paga in Italia, dove gli elettori da anni premiano un uomo che sanno bene non essere lo specchio della morale (ma è ricco, fortunato, abile, “tanto simpatico”).
La questione morale quindi, politicamente intesa, è altamente drammatica.
Il problema che essa pone si chiama traducibilità dell´etica a livello politico, o meglio non-traducibilità.
Fate una campagna elettorale all´insegna della giustizia e del rispetto e sarete ricompensati con il minimo dei voti.
È innegabile quanto scrive De Monticelli: «L´imbarbarimento morale e civile si combatte risvegliando le coscienze alla serietà dell´esperienza morale».
Ma purtroppo è altrettanto innegabile che una raccolta del consenso politico oggi in Italia sulla base della serietà dell´esperienza morale è destinata a non oltrepassare la soglia di sbarramento: con quel programma lì si entra in monastero, non nel Parlamento italiano.
Il problema non è etico, è fisico, di quella fisica della politica che Simone Weil attribuiva a Machiavelli.
Ovvero: perché l´aggregazione sociale non avviene nel nome della giustizia e della morale, ma degli interessi e delle passioni, e quindi molto spesso a scapito della giustizia e della morale? Di fronte a questo immenso problema, qui mi limito a dire che a mio avviso lo si può affrontare solo mediante i partiti e i professionisti della politica (la cui importanza vitale appare in particolare oggi, con le nostre classi dirigenti quasi del tutto prive di veri professionisti della politica).
Il partito politico, nella misura in cui è veramente tale e non un semplice cartello elettorale, media gli interessi e le passioni della moltitudine attraverso un progetto più ampio, rivolto al bene comune.
Il partito politico è il luogo in cui gli interessi e le passioni dei singoli vengono veicolati al servizio di un progetto più ampio, lo stato.
Senza la mediazione dei partiti si ha il corto circuito tra leader e interessi e passioni della moltitudine, ovvero il populismo.
Oppure l´altro estremo, il moralismo, che non vede l´inspiegabile ma reale distanza tra la morale e la politica e crea tra le due un impossibile passaggio diretto, finendo per generare costrizioni e violenza, il contrario della morale.
Occorre coltivare insieme il primato della morale e il richiamo della dura realtà.
Una società (e prima ancora una persona) è matura quando ospita dentro di sé il gioco di queste due forze, quando sa porre il primato dell´etica e quando sa mediarlo con l´opacità del reale.
E al riguardo il ruolo dei partiti e dei veri politici è insostituibile.
in “la Repubblica” dell’11 dicembre 2010
Riflessioni sulle considerazioni di Benedetto XVI su AIDS e preservativo
Perché papa Benedetto ha improvvisamente deciso di toccare il tema dell’AIDS e del condom? E perché lo ha fatto nel modo in cui l’ha fatto? Stando a ciò che dice a Peter Seewald in “Luce del mondo”, il papa era rimasto deluso dalle reazioni alle sue considerazioni su questo tema durante il suo viaggio in Africa nel marzo del 2009.
La tempesta che ne seguì nei media mostrò che nella società occidentale erano diffuse tre credenze: che i profilattici erano la soluzione all’AIDS in Africa; che l’insegnamento della Chiesa sulla contraccezione implicava una proibizione dell’uso del preservativo da parte di persone dedite a stili di vita immorali e ad alto rischio; e che quando papa Benedetto aveva detto che le campagne di promozione dei profilattici per combattere l’AIDS in Africa erano “inefficaci”, era sembrato riferirsi alle affermazioni fatte nel 2004 dal cardinale Alfonso López Trujillo, all’epoca capo del pontificio consiglio per la famiglia, secondo cui i profilattici erano troppo permeabili per opporre un’effettiva barriera alla trasmissione del virus dell’HIV.
Papa Benedetto era desideroso di dissipare questi miti, e nel suo libro-intervista lo fa in pochi brevi paragrafi.
Ha messo in chiaro che le campagne di promozione dei preservativi “banalizzano” la sessualità, consentendo al virus di diffondersi ancor di più, e che solo “umanizzando” la sessualità la diffusione del virus può essere frenata.
Ma ha anche aggiunto che l’uso di un profilattico da parte di un prostituto [o di una prostituta], quando usato per prevenire l’infezione, sarebbe almeno “una prima assunzione di responsabilità”; e dicendo questo ha implicitamente smontato gli altri due miti: poiché se i profilattici fossero inefficaci nel frenare la trasmissione del virus tra gruppi ad alto rischio, farne uso non sarebbe un atto responsabile.
E se, come alcuni avevano detto, la Chiesa ha insegnato che i preservativi sono “intrinsecamente un male”, allora il papa difficilmente potrebbe riconoscere il loro uso come un “primo passo” sulla via verso un progresso morale.
Personalmente, mi ha confortato che egli abbia fatto chiarezza sull’ultimo punto, poiché quando, alcuni anni fa, ho sviluppato il tema in un articolo su “The Tablet” di Londra (“The truth about condoms”, 10 luglio 2004), fui accusato da numerosi buoni e fedeli cattolici di difendere la distribuzione dei profilattici per fermare l’epidemia dell’AIDS e, quindi, di minare gli sforzi della Chiesa in difesa dei valori del matrimonio, della fedeltà e della castità.
Ma mentre l’articolo era fatto oggetto di pubbliche critiche, prevalentemente da parte di colleghi nella teologia morale, fui informato che la congregazione per la dottrina della fede, allora guidata dal cardinale Ratzinger, non aveva trovato nulla da eccepire in esso o nelle sue argomentazioni.
Ciò che mi indusse a scrivere quell’articolo fu che nel numero precedente di “The Tablet”, l’allora suo vicedirettore, Austen Ivereigh, in un articolo di commento a un programma della BBC, “Panorama”, che analizzava le affermazioni del cardinale López Trujillo, metteva tra loro in contrasto due posizioni nella Chiesa sulla questione dell’uso del profilattico contro l’AIDS.
La prima era quella del cardinale Godfried Danneels, all’epoca arcivescovo di Bruxelles, del quale fu riportata questa citazione: “Se una persona infetta da HIV ha deciso di non rispettare l’astinenza, allora deve proteggere il suo partner e può farlo in questo caso usando un preservativo”.
Fare diversamente, disse il cardinale, sarebbe “infrangere il quinto comandamento”, non ammazzare.
La seconda era una citazione dell’allora responsabile per l’istruzione del cattolico Linacre Centre di Londra, Hugh Henry, il quale, in disaccordo con le posizioni del cardinale Danneels, disse a Ivereigh che l’uso di un profilattico era un peccato contro il sesto comandamento, in quanto “mancando di onorare la struttura fertile che ogni atto coniugale deve avere, non può costituire una mutua e completa personale donazione di sé, e quindi viola il sesto comandamento”.
Ciò ha fatto pensare che, come Ivereigh ha scritto, un “lavoratore emigrato che va in un bordello in Sudafrica non dovrebbe, naturalmente, fare sesso; ma se lo fa, sembra suggerire Henry, non dovrebbe usare un preservativo per evitare di trasmettere l’AIDS alla donna, poiché il suo uso mancherebbe di onorare la struttura fertile che gli atti coniugali devono avere”.
E ha concluso: “I lettori devono decidere se sia il cardinale Danneels o il Linacre Centre a offrire l’indicazione più strana”.
Il mio punto di vista, leggendo questo articolo, era che entrambe le indicazioni citate avevano punti vulnerabili essenziali, e che la scelta tra le due era ingannevole.
Il problema era che sia l’uno che l’altro esprimevano le loro posizioni in termini di norme od obblighi morali – usare o non usare un preservativo – laddove un approccio normativo era inadeguato per affrontare la questione.
Ciò che il Linacre Centre proponeva come l’autentica posizione cattolica era che esiste un obbligo morale, per persone non caste dedite ad atti sessuali peccaminosi, almeno di astenersi dall’usare preservativi, al fine di evitare un ulteriore peccato contro il sesto comandamento e quindi di rendere meno peccaminosi i loro atti peccaminosi, anche se da ciò derivasse di infettare altre persone o loro stessi con una malattia mortale.
Un simile argomento fa credere erroneamente che sia l’insegnamento della Chiesa sulla contraccezione a portare a simili conseguenze controintuitive; ma questo insegnamento riguarda essenzialmente l’amore coniugale e la sua espressione nel rapporto sessuale, e non si applica a simili circostanze.
Viceversa, la posizione del cardinale Danneels ha sì una certa plausibilità, ma semplicemente rovescia il sofisma di Henry convertendo in una norma morale per quelle persone l’obbligo di almeno usare un preservativo, al fine di non peccare addizionalmente contro il quinto comandamento.
Come Henry, il cardinale Danneels stabilisce una norma morale al fine di rendere meno immorale un comportamento intrinsecamente immorale.
Per tornare alla tesi del Linacre Centre: l’insegnamento della “Humanae vitae” non include la fissazione di una norma morale su come compiere atti intrinsecamente cattivi; la Chiesa non ha mai prodotto un simile insegnamento, né lo farà mai, poiché un simile insegnamento sarebbe semplicemente contro il senso comune.
La sola cosa che la Chiesa può eventualmente insegnare circa, ad esempio, a uno stupro, è l’obbligo morale di astenersi da esso del tutto, non di portarlo a termine in una modalità meno immorale.
Ci sono contesti nei quali le indicazioni morali perdono completamente il loro significato normativo poiché esse possono al massimo diminuire un male, non essere dirette al bene; ciò che deve essere vinto, ed è normativo sconfiggere, è l’intrinseco disordine morale in quanto tale.
Come scrissi nel 2004, “sarebbe semplicemente privo di senso stabilire norme morali per tipi di comportamento intrinsecamente immorali”.
L’insegnamento della Chiesa sulla contraccezione non è un insegnamento sui “condom”, ma sul vero senso e significato della sessualità e dell’amore coniugale.
La questione della contraccezione è differente dalla questione dell’uso del condom.
La contraccezione in quanto intrinsecamente cattiva è descritta dalla “Humanae vitae” al n.
14 (ripresa nel Catechismo della Chiesa Cattolica al n.
2370) quando “o in previsione dell’atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga [in latino “intendat”], come scopo o come mezzo, di impedire la procreazione”.
La contraccezione non è semplicemente un’azione che di fatto impedisce la procreazione, ma un’azione di impedimento della procreazione che è precisamente compiuta con un intento contraccettivo.
(L’impedimento di fatto della concezione non è sufficiente perché un atto sia, in un senso morale, un atto di contraccezione; questo è il motivo per cui l’uso di pillole antiovulatorie per regolare il ciclo di una donna per ragioni mediche non è contraccezione nel senso morale).
Ma da ciò consegue che uno dovrebbe positivamente consigliare di usare i condom per motivi strettamente profilattici? Le persone che non vogliono cambiare il loro modo di vita e che usano i condom per prevenire l’infezione di se stesse o di altri, a me sembra che abbiano almeno conservato un certo senso di responsabilità, come lo stesso papa Benedetto ha detto in “Luce del mondo”.
Ma noi non possiamo dire che essi “dovrebbero fare così” oppure sono “moralmente obbligati” a farlo, come il cardinale Danneels sembrava suggerire.
Papa Benedetto sottolinea questo quando mette in chiaro che [il profilattico] non è una “soluzione morale”.
Questo è il motivo per cui è anche sbagliato sostenere in questo caso principi come il “male minore”, il quale stabilisce che al fine di evitare un male più grande può essere scelto un male minore se c’è una ragione proporzionata.
Questa metodologia morale, nota come “proporzionalismo”, non è un insegnamento della Chiesa, ed è stata rigettata da papa Giovanni Paolo II nella sua enciclica del 1993 “Veritatis splendor”, con la quale papa Benedetto XVI è pienamente concorde.
Dicendo, come egli fa, che uno agisce con “un certo senso di responsabilità” nel cercare di evitare l’infezione, il papa non sostiene che usare il preservativo per prevenire le infezioni di HIV significa agire responsabilmente.
Una reale responsabilità, per delle prostitute, significherebbe astenersi completamente da contatti sessuali rischiosi e immorali e cambiare completamente il loro stile di vita.
Se non lo fanno (perché non possono, o non vogliono), esse agiscono almeno soggettivamente in un modo responsabile quando cercano di prevenire l’infezione, o almeno agiscono meno irresponsabilmente di quelle che non lo fanno, che è un’affermazione alquanto diversa.
Questa è una posizione di senso comune, espressa in termini personalistici; non è una norma morale positiva che permette un “male minore”.
la Chiesa deve sempre proporre alla gente di fare il bene, non il male minore; e la cosa buona da fare – e quindi da consigliare – non è di agire immoralmente e nello stesso tempo di diminuire l’immoralità minimizzando i possibili danni causati da essa, ma di astenersi dal comportamento immorale in tutto.
Ecco perché una giustificazione dell’uso profilattico del condom come “male minore” è sbagliata e pericolosa, poiché apre la strada a giustificare qualsiasi tipo di scelta morale di un “male minore”: fa il male che il bene verrà.
È anche una questione mal posta.
I condom di per sé, considerati come “cose”, non sono un “male”; nell’insegnamento della Chiesa il loro uso negli atti contraccettivi quali definiti dalla “Humanae vitae” è male, ma come abbiamo mostrato, questa enciclica non si applica alla profilassi.
Ciò che le parole di papa Benedetto non toccano è il caso di una coppia sposata nella quale uno dei coniugi sia infetto, e nella quale un profilattico sia usato per proteggere l’altro dall’infezione.
Nel mio articolo del 2004 mi sono riferito a simili casi piuttosto incidentalmente, parlando di “ragioni pastorali o semplicemente prudenziali” che sarebbero contro l’uso dei condom in queste circostanze.
Questo caso è diverso da quello precedente, e più complesso, poiché qui è in gioco ciò che propriamente costituisce un atto coniugale.
È importante sottolineare che la questione della contraccezione nel matrimonio e quella della prevenzione dall’infezione con l’uso del condom si riferiscono a due differenti problemi morali.
Senza dubbio la questione continuerà a essere dibattuta; ma qualsiasi cosa la Chiesa dichiari alla fine su questo tema, ci saranno sempre per i pastori buone ragioni per esortare all’astinenza in queste situazioni, poiché l’uso di un condom esclusivamente per finalità mediche è in realtà qualcosa di teorico.
È probabile che – almeno per coppie fertili – l’intenzione di prevenire l’infezione si mescoli con l’intento propriamente contraccettivo di evitare la concezione di un neonato infetto.
Personalmente, io non incoraggerei mai una coppia a usare un preservativo, ma ad astenersi.
Se essi non sono d’accordo, io non penserei che il loro rapporto sessuale sia ciò che i teologi morali chiamano un peccato “contro natura” al pari della masturbazione o della sodomia, come alcuni teologi morali sostengono.
Ma la completa astinenza sarebbe la scelta moralmente migliore, non solo per ragioni prudenziali (i condom non sono completamente sicuri nemmeno quando sono usati con attenzione e correttamente), ma perché corrisponde meglio alla perfezione morale – a una vita virtuosa – astenersi del tutto da atti pericolosi, piuttosto che prevenire i loro pericoli usando uno strumento che aiuta ad aggirare l’esigenza di sacrificio.
Nel difendere l’insegnamento della Chiesa e la via da essa indicata per prevenire la trasmissione dell’HIV si dovrebbe evitare di ricorrere ad argomentazioni autodistruttive e prive di senso che deformano lo stesso insegnamento della Chiesa.
Mentre esortiamo all’astinenza, alla fedeltà e alla monogamia come la vera soluzione per fermare l’epidemia dell’AIDS, non dobbiamo negare che l’uso del preservativo da parte di gruppi ad alto rischio causa il calo dei tassi di infezione, mentre contiene la diffusione dell’epidemia in altre parti della popolazione.
Ma questo compito è principalmente di pertinenza delle autorità civili.
Il ruolo della Chiesa nella battaglia contro l’AIDS non è quello del vigile del fuoco che cerca di contenere la devastazione, ma quello di insegnare e aiutare la gente a costruire case a prova di fuoco e ad evitare di fare ciò che può far scoppiare l’incendio, oltre naturalmente a curare quelli che hanno riportato ustioni.
La Chiesa fa così, soprattutto, per offrire la riconciliazione con Dio e la guarigione delle anime di coloro che sono stati feriti nella loro umana dignità dai loro stessi comportamenti immorali o dalle terribili scelte e circostanze imposte dall’AIDS.
Martin Rhonheimer: il papa discute in campo aperto
Intervista con Martin Rhonheimer D.
– Alcuni commentatori cattolici considerano le osservazioni del papa un cambiamento totale; altri dicono che non è cambiato assolutamente nulla.
Qual è la posizione giusta? R.
– Né l’una né l’altra.
Comincerei con la seconda: “Niente è cambiato”.
Non è vero.
Papa Benedetto, immagino dopo un’attenta ponderazione, ha fatto affermazioni pubbliche che hanno cambiato la riflessione su queste materie, sia dentro che fuori la Chiesa.
Per la prima volta è stato detto da parte del papa in persona, sia pure non in un formale atto di insegnamento del magistero della Chiesa, che la Chiesa non “proibisce” incondizionatamente l’uso profilattico del condom.
Al contrario, il Santo Padre ha detto che in certi casi (nel commercio del sesso, ad esempio), il loro uso può essere un segno di un primo passo verso la responsabilità (nello stesso tempo chiarendo che questa non è né una soluzione per vincere l’epidemia dell’AIDS né una soluzione morale; la sola soluzione morale è abbandonare uno stile di vita moralmente disordinato, e vivere la sessualità in un modo realmente umanizzato).
Queste considerazioni accendono molte sensibilità su entrambi i versanti, e questo è il motivo per cui spero che il passo compiuto da papa Benedetto possa cambiare il modo con cui discutiamo questi temi, verso un modo meno teso e più aperto.
Ma l’altra posizione, secondo cui ciò che ha detto il papa è un cambiamento totale, è ugualmente inesatta.
Primo, ciò che egli ha detto non cambia in nessun modo la dottrina della Chiesa sulla contraccezione; semmai conferma questa dottrina, come insegnata dalla “Humanae vitae”.
Secondo, le sue affermazioni non dichiarano che l’uso del condom sia privo di problemi morali o sia in genere permesso, anche per finalità profilattiche.
Papa Benedetto parla di “begründete Einzelfälle”, che tradotto letteralmente significa “giustificati singoli casi” – come il caso di una prostituta – nei quali l’uso del condom “può essere un primo passo nella direzione di una moralizzazione, una prima assunzione di responsabilità”.
Ciò che è “giustificato” non è l’uso del condom come tale: non, almeno, nel senso di una “giustificazione morale” da cui consegua una norma permissiva tipo “è moralmente permesso e buono usare in condom in questo e quel caso”.
Ciò che è giustificato, piuttosto, è il giudizio che ciò può essere considerato un “primo passo” e “una prima assunzione di responsabilità”.
Papa Benedetto certamente non ha voluto stabilire una norma morale che giustifichi eccezioni.
Terzo, ciò che papa Benedetto dice non si riferisce a persone sposate.
Parla solo di situazioni che sono in se stesse intrinsecamente disordinate.
Quarto, come ben mette in chiaro, il papa non difende la distribuzione dei condom, che egli crede portino a una “banalizzazione” della sessualità che è la causa primaria della diffusione dell’AIDS.
Egli semplicemente menziona il metodo “ABC”, insistendo sull’importanza di A e B (astinenza e fedeltà, “be faithful”), considerando C (“condom”) un ultimo ripiego (in tedesco “Ausweichpunkt”) nell’eventualità che delle persone rifiutino di seguire A e B.
Inoltre, molto più importante, egli dichiara che quest’ultima soluzione appartiene propriamente alla sfera secolare, cioè a programmi di governo per combattere l’AIDS.
Ciò che il papa ha detto, quindi, non riguarda come le istituzioni sanitarie guidate dalla Chiesa debbano trattare i condom.
Ha dato una valutazione su che cosa pensare riguardo a una prostituta che abitualmente fa uso di condom, non riguardo a coloro che sistematicamente li distribuiscono al fine di contenere l’epidemia, cosa che è nella responsabilità delle autorità di uno stato.
Da parte sua, la Chiesa continuerà a presentare la verità riguardo all’ esercizio pienamente umano della sessualità.
D.
– Nelle sue osservazioni, papa Benedetto non definisce l’uso del condom da parte di persone infette di HIV un “male minore”, eppure è così che alcuni teologi e leader cattolici spiegano ciò che ha detto.
Sono i preservativi in qualche caso un “male minore”? R.
– Descrivere l’uso del preservativo per prevenire il contagio come un male minore è molto ambiguo e può produrre confusione.
Certo, possiamo dire che quando una prostituta usa un condom, ciò diminuisce il male della prostituzione o del turismo sessuale, dato che diminuisce il rischio di trasmettere il virus HIV a più larghi strati della popolazione.
Ma ciò non significa che sia bene scegliere atti cattivi per conseguire una finalità buona.
Fermo restando che un comportamento sessuale immorale dovrebbe essere evitato in tutto, a mio giudizio il punto giustamente messo in luce dal Santo Padre è che quando una persona che già sta compiendo atti immorali usa un preservativo, egli o ella non scelgono propriamente un male minore, ma semplicemente cercano di prevenire un male, il male del contagio.
Dal punto di vista del peccatore questo ovviamente significa scegliere un bene: la salute.
D.
– Se il papa dice che l’uso del preservativo in alcuni casi può essere un segno di risveglio morale, non è che egli dice che la pratica della contraccezione è talvolta accettabile? O che la pratica della contraccezione è preferibile alla trasmissione dell’HIV? R.
– Un condom è fatto per essere un mezzo per impedire ai fluidi maschili di penetrare nel grembo della donna.
Il suo uso corrente è per la contraccezione.
Nel caso di cui parla il papa, invece, la ragione del loro utilizzo non è di impedire il concepimento, ma di prevenire il contagio.
Non dobbiamo confondere gli atti umani, che possono essere intrinsecamente buoni o intrinsecamente cattivi, con delle “cose”.
Non è il condom come tale, ma il suo uso che presenta problemi morali.
Quindi, ciò che il papa dice non si riferisce anche alla questione della contraccezione.
Sappiamo che alcuni teologi morali sostengono che poiché – eccetto nel caso di partner sessuali sterili – l’effetto dei condom è sempre fisicamente contraccettivo e per questa ragione intrinsecamente cattivo, coloro che li usano necessariamente commettono il peccato della contraccezione, anche se non ne fanno uso per questo scopo.
Questo è il motivo per cui essi argomentano che il loro utilizzo rende un atto già immorale ancora peggiore.
Ma ciò che papa Benedetto ha detto ora – tenuto conto che non ha voluto restringere il caso alla sola prostituzione omosessuale maschile, nella quale la questione della contraccezione ovviamente non si pone – indebolisce in modo decisivo questa argomentazione.
Io penso che la sola via per sfuggire dal bizzarro vicolo cieco a cui portano tali argomentazioni – la tesi, ad esempio, che anche da un punto di vista morale sarebbe meglio per una prostituta essere infettata che utilizzare un condom – è avere ben chiaro che i preservativi, considerati come tali, non sono “intrinsecamente contraccettivi” nel senso di un giudizio morale.
È il loro uso, e l’intenzione implicata in questo uso, che determina se l’uso di un condom equivale a un atto di contraccezione.
D.
– Si può presumere che il papa fosse consapevole della confusione che certe parole possono produrre tra i cattolici.
Non le chiedo di fare congetture indebite sulle sue intenzioni, ma che cosa di buono può venir fuori da questo? R.
– È evidente che il Santo Padre ha voluto portare questa materia in campo aperto.
Sicuramente ha previsto il trambusto, i fraintendimenti, la confusione e anche lo scandalo che avrebbe potuto causare.
E credo che egli abbia giudicato che sia necessario, nonostante tutte queste reazioni, parlare di queste cose, nello stesso spirito di apertura e di trasparenza con il quale, da quando era a capo della congregazione per la dottrina della fede, ha trattato i casi di abuso sessuale tra il clero.
Penso che papa Benedetto creda nella forza della ragione, e che dopo un certo tempo le cose diverranno più chiare.
Egli ha cambiato la riflessione pubblica su questi temi e ha preparato il terreno per una più vigorosa e appropriata comprensione e difesa dell’insegnamento della Chiesa sulla contraccezione, come parte di una dottrina dell’amore coniugale e del vero significato della sessualità umana.
__________ Il settimanale cattolico degli Stati Uniti su cui è uscita l’intervista col professor Rhonheimer, raccolta dal suo direttore, John Nort
Indagine Ocse-Pisa sulle competenze di base dei nostri quindicenni
I primi dati dell’indagine Ocse-Pisa sulle competenze di base dei nostri quindicenni, pubblicati dall’Invalsi (www.invalsi.it), sembrano essere piuttosto confortanti.
La rilevazione presentata questa mattina dall’Invalsi, l’Istituto per la valutazione che ha curato per l’Italia la raccolta dei dati dell’indagine internazionale Pisa 2009 sulle competenze di lettura, matematica e scienze, mette in evidenza, rispetto alle precedenti edizioni, un generale miglioramento in tutti e tre gli ambiti disciplinari.
Per l’edizione 2009 hanno partecipato al Pisa (Programme for international student assessment, il programma che valuta gli apprendimenti) 74 Paesi (erano stati 35 nella prima edizione del 2000).
L’indagine ha coinvolto 30.905 studenti italiani e 1.097 scuole.
A livello nazionale, un’importante novità di PISA 2009 per l’Italia è costituita dal campione di scuole che, oltre ad essere stratificato per tipo di scuola, come nei precedenti cicli, per la prima volta è rappresentativo di tutte le regioni italiane e delle due province autonome di Trento e Bolzano.
Nelle precedenti edizioni, infatti, il coinvolgimento aveva riguardato soltanto 12 regioni.
Il Pisa 2009 ha incentrato la sua indagine particolarmente sulla lettura (oltre che su matematica e scienze), come era avvenuto nella prima edizione del 2000.
Il confronto su questa competenza ha evidenziato un sostanziale recupero rispetto alle indagini 2003 e 2006, quanto si era registrata una preoccupante regressione dei livelli di competenza dei nostri quindicenni.
Recupero che ha riguardato soprattutto le regioni meridionali.
In classifica i ragazzi italiani sono 29esimi; nel 2006 erano 33esimi.
Il nuovo livello raggiunto in lettura riporta l’Italia pressoché ai valori del 2000, quando il punteggio medio finale si era attestato a 487; ora il valore medio è risalito a 486 che resta comunque sotto la media Ocse di 493 (era 500 nel 2000).
Dal punto di vista dell’equità del sistema – osservano gli esperti dell’Invalsi – a livello internazionale si rileva generalmente una associazione positiva tra risultati in PISA e livello socioeconomico e culturale delle famiglie.
In altre parole, gli studenti che provengono da famiglie avvantaggiate da un punto di vista culturale e sociale tendono a conseguire risultati migliori degli studenti più svantaggiati.
Anche in Italia l’indice di status socioeconomico e culturale ha un impatto significativo sui risultati in lettura, ma risulta più contenuto che in altri Paesi.
tuttoscuola.com
Cercare Gesù nella Storia
Secondo un calcolo per difetto, nel Novecento sono usciti centomila libri su Gesù, con una media quindi di un migliaio ogni anno.
Di lui ci si interessa persino in Giappone, come ha dimostrato in un suo saggio – pubblicato però in tedesco nel 2006 -lo studioso Takashi Onuki.
Lo scorso anno a Montréal in Canada è uscita un’indagine sulla figura del «Gesù storico» negli ultimi 25 anni e le rassegne bibliografiche elencate erano ben 23 distribuite per aree geografiche (4 nelle Americhe, 8 in Europa, 3 in Africa, 6 in Oriente, 2 nel Pacifico).
E che dire poi della galassia internet? Non cliccate Jesus o Christ perché perdereste subito il conto dei milioni di occorrenze: c’è persino un Jesus Project che riunisce 50 esperti internazionali che si sono programmati sul tema fino al 2012 (dal 2007) per rispondere fondatamente a una sola domanda, quella sull’esistenza di Gesù.
Sì, perché il soggetto che più conquista studiosi e ciarlatani è il cosiddetto «Gesù storico»: esiste addirittura un quadrimestrale intitolato «Journal for the Study of the Historical Jesus» che esce dal 2003.
I manuali al riguardo si sprecano, tant’è vero che una prestigiosa editrice come la Brill di Leida ha pensato di metterne in cantiere uno di taglio sintetico che, però, avrà bisogno di ben quattro volumi attualmente in preparazione sotto il titolo generale The Handbook for the Historical Jesus.
In questa foresta bibliografica ben pochi riescono a inoltrarsi senza smarrirsi.
Uno di questi è un italiano, il padovano Giuseppe Segalla, docente emerito della facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, e dobbiamo essergli grati per il fatto che – accanto alla buona dose di pagine “tecniche” da lui dedicate al tema – ha voluto ora approntare una mappa che ci guidi almeno lungo i sentieri più ampi di questa selva lussureggiante ove alligna ogni tipo di vegetazione, rara e comune, eccezionale e banale, sofisticata e insulsa.
Si deve, comunque, già in partenza badare a un «circolo ermeneutico» a duplice traiettoria: il Gesù della storia ci costringe a un movimento centripeto, di risalita alle fonti genetiche storiche; il Gesù nella storia (così s’intitolava anche un notissimo testo del 1985 di Jaroslav Pelikan) ci invita, invece, a un moto centrifugo inverso che procede dal passato inseguendo il Gesù “ricostruito” e “ricreato” nel successivo flusso dei secoli che recano il suo nome.
Così, per fare il primo percorso – tanto per esemplificare – la studioso americano John P.
Meier ha avuto bisogno finora di quattro tomi che nella traduzione italiana totalizzano qualcosa come 3.282 pagine, dedicate a un personaggio che merita solo il titolo di Un ebreo marginale (edizioni Queriniana)…! Ma ritorniamo alla nostra metafora “silvestre”.
Tre sono i percorsi disboscati da Segalla in questa densa foresta bibliografica.
Il primo reca il tradizionale cartello con la scritta Old Quest, è la «Prima Ricerca» che si aprì in Germania con la pubblicazione nel 1778 del celebre «settimo frammento» dello studioso tedesco Hermann S.
Reimarus.
È l’ingresso del sospetto e della critica razionalistica, tant’è vero che Segalla classifica questa ricerca come «il paradigma illuministico»: apostoli ed evangelisti «con astuta invenzione», come dirà Reimarus, dopo aver trafugato la salma di Gesù lo fecero «risorgere», così da fondare un nuovo movimento nel suo nome, distanziandosi dal Gesù storico, che aveva predicato solo una dottrina morale elevata, sognando di essere il Messia definitivo, ma che di definitivo ebbe solo la sua tragica condanna a morte.
Elaborata in forme ben più raffinate e sofisticate dal protestantesimo liberale, dalle teorie “mitiche” di Strauss, dal famoso Renan, dalla teoria del Gesù apocalittico di Weiss e Schweitzer, questa «Prima Ricerca» fu surclassata ai primi del Novecento da una nuova strada, denominata appunto New Quest, e da Segalla rubricata come «paradigma kerygmatico» proprio perché al centro si poneva il kérygma, ossia l’«annunzio» del Cristo Salvatore.
Secondo questa impostazione, i Vangeli non sono documenti storici informativi sul Gesù della storia, sono invece testimonianze performative di fede che provocano il lettore alla conversione esistenziale.
Brilla su questo viale l’astro del famoso teologo tedesco Rudolf Bultmann (1884-1976).
Detto in altri termini, più che offrirci una figura storica e una vicenda, i Vangeli dipingono il ritratto di una persona spirituale e un messaggio.
Anche su questo percorso si registrarono molte variazioni, rettifiche e deviazioni: un esempio è quello espresso dal saggio The Real Jesus dell’americano Luke T.
Johnson che preparava la transizione a un nuovo itinerario.
Egli criticava soprattutto l’ultima e radicale formulazione dell’impianto antistorico incarnata dal cosiddetto “Jesus Seminar”, un curioso sistema di tabulazione di 1.500 detti e di 176 atti del Gesù evangelico, sottoposto a votazione da parte di un’équipe di studiosi, con esiti sconcertanti per quanto riguarda la loro autenticità storica.
Siamo giunti, così, alla Third Quest, il terzo sentiero aperto nel 1985 e ancora in cantiere: è «il paradigma giudaico postmoderno», come lo definisce Segalla, inaugurato da Ed Parish col suo Gesù e il giudaismo, tradotto da Marietti nel 1992.
Alla base c’era la fiducia di conoscere il Gesù storico collocandolo all’interno dell’alveo del giudaismo in cui egli era sorto e vissuto, ma col quale aveva anche segnato discontinuità e originalità.
Questo nuovo modello storiografico e teologico, accuratamente presentato da Segalla, ha subito alcune ramificazioni interessanti attraverso il «Gesù ricordato» nella tradizione orale (James D.
G.
Dunn) e il «Gesù testimoniato» (Richard Bauckham).
Ma fermiamoci qui per non disperdere i nostri lettori che comunque rimangono avvertiti della complessità attuale della ricerca, dell’alto livello degli studi storico-critici condotti dagli esegeti, della conseguente volgarità di chi pensa che “cristiano” sia sinonimo di “cretino”, ma anche dei rischi di offuscamento che una simile galassia di analisi può generare.
Il modo più trasparente per guidare il lettore non “tecnico” in questa selva rimane forse quello narrativo adottato in Spagna da due studiosi, Armand Puig i Tàrrech (Gesù.
Risposta agli enigmi, San Paolo) e José Antonio Pagola (Gesù.
Un approccio storico, Boria).
Certo è che rimane sempre viva quella domanda che Cristo aveva lasciato serpeggiare nel suo uditorio e che Mario Pomilio aveva posto al centro del suo Quinto Evangelio (1975): «Cristo ci ha collocati di fronte al mistero, ci ha posti definitivamente nella situazione dei suoi discepoli di fronte alla domanda: Ma voi, chi dite che io sia?».
in “Il Sole 24 Ore” del 5 dicembre 2010
intervista a Jacques Arnould*: “Il racconto degli scienziati assomiglia alla Genesi”
L’intervista I credenti, come hanno percepito e come percepiscono i progressi dell’astronomia? I credenti condividono con gli astronomi lo stesso fascino per il cielo.
Non stupisce, allora, se i primi hanno sempre manifestato una certa preoccupazione per ciò che potevano scoprire i secondi.
Ponendo l’essere umano al centro della creazione, le credenze ereditate dalla Bibbia non allontanano forse qualsiasi possibilità di altri pianeti abitati? È vero che il cardinale Nicolas de Cue, nel XV secolo, ha potuto parlare di abitanti della Luna senza che Roma si occupasse in qualche modo di lui, ma Giordano Bruno, invece, nel 1600 è stato bruciato per aver affermato, tra le altre cose, che l’universo era infinito ed aver presupposto quindi l’esistenza di innumerevoli mondi.
Dalla rivoluzione copernicana, si è stabilita una sorta di accordo: gli studiosi si sarebbero interessati al “come” delle cose; i teologi al “perché”.
A quel punto, non c’era più ragione di accendere roghi.
Con l’elaborazione, negli anni ’30 del secolo scorso, della teoria del Big Bang da parte di Georges Lemaître, astrofisico e canonico, c’è perfino la grande tentazione di arrivare ad una sorta di “concordismo”; il racconto degli scienziati assomiglia estremamente a quello del libro della Genesi! Nella seconda metà del XX secolo si accelera la conquista spaziale.
La preoccupazione dei credenti diminuisce? Anche loro sono presi dall’entusiasmo collettivo.
I cristiani, papa in testa, applaudono allo Sputnik, il primo satellite messo in orbita, nel 1957, poi a Yuri Gagarin, il primo uomo nello spazio, nel 1961, a Neil Armstrong e Buzz Aldrin, sulla Luna, nel 1969…
Oggi, con la diffusione delle attività spaziali, i credenti non mostrano più grande interesse per le poste in gioco sociali ed etiche che ne possono derivare.
È proprio un peccato.
La scoperta di un’altra Terra rimetterebbe in discussione la credenza secondo la quale il nostro pianete e l’universo sono stati creati da Dio? Mi piace ricordare che questo problema è stato risolto…
nel 1277, da Étienne Tempier, allora vescovo di Parigi.
Aveva messo fine ai dibattiti che, alla Sorbona, opponevano i sostenitori di Aristotele, difensori del carattere unico del mondo, a coloro che vedevano la possibilità di un altro universo, dando ragione a questi ultimi! Il suo argomento era: se Dio vuole creare altri mondi, con esseri extraterrestri, può farlo senza chiedere il nostro parere.
Trovo questo approccio pieno di buon senso teologico…
anche se non risolve tutti i problemi.
L’astronomia è una scuola di modestia, anche per i credenti.Indipendentemente dal fatto che siano cristiani, ebrei o musulmani, i credenti sono sempre più diffidenti nei confronti dell’astronomia? Le scoperte astronomiche, come quelle della paleoantropologia e della biologia dell’evoluzione, hanno dato un duro colpo alle concezioni dell’Universo e dell’umanità su cui i credenti fondavano una parte delle loro convinzioni.
Non è una cosa nuova – penso evidentemente a Copernico o a Darwin -, ma l’impatto delle scienze e delle tecnologie sulle nostre società è diventato tale che esse paiono imporsi a detrimento delle nostre credenze più antiche.
I movimenti creazionisti, che estendono oggi la loro influenza ben al di là degli Stati Uniti, dove sono apparsi alla fine del XIX secolo, mostrano questo disagio.
Ciò detto, evidentemente non tutti i cristiani, non tutti i musulmani, non tutti gli ebrei sono contrari alle scienze.
E non tutti sono creazionisti! Sono convinto che accettando il dialogo, credenti e ricercatori possono trarre profitto da queste scoperte che rivoluzionano la nostra conoscenza dell’Universo, del vivente, dell’umano.
*Jacques Arnould, storico delle scienze, teologo, ricercatore al CNES.
Suoi libri più recenti: “La Terre en un clic.
Du bon usage des satellites”, Odile Jacob, pp.
208, € 21,90, 2010, e “Une fenêtre sur le ciel.
Dialoghes d’un astrophysicien e d’un théologien”, con Marc Lachièze, Bayard, p.
276, € 18, 2010.
in “Le Monde” del 4 dicembre 2010 (tra duzione: www.finesettimana.org)